Il primo libro
pubblicato dalla GT, nell'ottobre 2001, è ora completamente disponibile on-line.
Buona lettura.
International Socialist Review
Sotto il vulcano
Milano, 2001
Edizione a cura di Yurii Colombo
Traduzioni dall’originale di Yurii Colombo, Barbara
Rossi, Catia Tommasin.
La riproduzione di questi contributi è permessa, previo
contatto con l’Editore. Per informazioni e contatti giovanetalpa@tiscalinet.it.
Cooperativa
Colibrì società a..r..l., 2001
Via Coti
Zelati,49 – 20030 Paderno Dugnano (Mi)
colibri@libero.it
ISBN 88-86345-39-9
Indice
Introduzione 5
Prima parte
L’AMERICA IN
GUERRA
Selfa Lance e Ahmed Shawki
La nuova guerra di Bush 9
Noam Chomsky
La militarizzazione dello spazio 25
Intervista a Edward
Said
Chiamano tutta la resistenza “terrorismo” 35
Seconda parte
GLOBALIZZAZIONE E IMPERIALISMO
Paul D’Amato
Gli Stati contano ancora nell’èra della globalizzazione
globalizzazione? 45
John Pilger
Lo Stato è più potente che mai 61
Gregory Palast
Il globalizzatore venuto dal Freddo 65
Goeff Bailey
Gli americani consumano troppo? 71
Vandana Shiva
Il controllo delle
risorse idriche da parte di Banca Mondiale, WTO e corporations 79
Nigel Harris
Cina:
globalizzazione e nuova agenda 87
Terza Parte
IL MOVIMENTO “PER LA GIUSTIZIA GLOBALE”
Mumia Abu Jamal
Per cosa
combatteva Carlo 99
Todd Chrietien
Tijuana: lotte in prima linea contro la globalizzazione 101
Oscar Oliveira
La lotta dell’acqua a Cochabamba 109
Tim Robbins
Per cosa ho votato quando ho scelto Nader 115
Michel Löwy
Davos e Porto Alegre: due progetti opposti di civiltà 121
Intervista a Howard Zinn
Quello che sta a cuore a milioni di persone sono le questioni di classe 125
Ahmed Shawki
La lotta per un mondo diverso 129
Introduzione
Questa antologia rappresenta la traduzione di
contributi apparsi nei più recenti fascicoli della International Socialist
Review[1]
sui temi più caldi della politica internazionale degli ultimi mesi. Vengono
presi quindi in esame soprattutto i temi più legati al dibattito politico
americano, spesso assai poco conosciuti in Italia e in Europa, e soprattutto i
problemi aperti dalla “nuova guerra di Bush” (e alle sue prospettive), a cui è
dedicato il saggio che apre il volume.
Infatti non si erano ancora spenti gli echi e
le riflessioni sulle tempestose giornate di lotta genovesi di luglio che l’11
settembre, con gli attacchi terroristici alle Twin Towers e al Pentagono,
tutto il quadro della situazione politica mondiale è mutato repentinamente.
Ovviamente non siamo i primi, e non saremo gli ultimi, a segnalare come questi
avvenimenti abbiano prodotto delle accelerazioni politiche di cui potremo
cogliere la portata solo tra qualche tempo.
Il movimento “antiglobal” in Italia di fronte
al precipitare degli eventi è rimasto quasi paralizzato, incapace di fornire
analisi e parole d’ordine che fossero all’altezza della situazione. Per certi
versi ciò era inevitabile. Se il suo insorgere a livello internazionale aveva
rappresentato una ventata fresca di contestazione (seppur parziale) al
capitalismo e ai modelli economici liberisti dopo venti anni soffocante pace
sociale e conformismo ideologico (e ai temi del movimento per la giustizia
globale è dedicata l’ultima parte di questo volume), i limiti di analisi e le
rivendicazioni prospettate rischiano di farlo finire in un vicolo cieco anche
perché l’incedere della recessione internazionale impone la necessità di porre
in primo piano le questioni che toccano più da vicino milioni di persone:
l’incertezza del posto di lavoro, il precariato, l’erosione dei servizi
sociali, la vacuità degli stili di vita borghesi.
Molte delle analisi (e delle illusioni) che
avevano accompagnato l’ascesa di questo movimento sono state spazzate via in
un attimo. E’ proprio vero: ci sono giorni che valgono anni. Dopo l’11
settembre abbiamo assistito a interventi vigorosi e concertati delle
principali banche centrali sia con l’abbassamento ripetuto dei tassi
d’interesse sia attraverso iniezioni di liquidità che hanno salvato dalla
catastrofe molte multinazionali fino al giorno prima ai vertici di Wall
Street. Abbiamo visto presidenti di Stati, presidenti dei consigli dei
ministri e ministri degli esteri impegnati in sfibranti tour diplomatici
presso le capitali di paesi di cui probabilmente non conoscevano neppure il
nome; abbiamo visto dappertutto forgiarsi quell’union sacré di tutte le
forze borghesi che si rende necessaria solo nei momenti più difficili.
Altro che progressiva erosione dello Stato nazionale, altro che Impero! Al
posto della miope e unilaterale interpretazione della sinistra italiana
infeudata dallo stalinismo che ha voluto sempre vedere solo ed
esclusivamente il dominio della potenza americana (giungendo perfino
sostenere, fino a non più di qualche anno fa, la ridicola tesi dell’Italia
colonia statunitense) ci troviamo di fronte a una più intricata ragnatela
di rapporti tra grandi potenze globali e piccole potenze regionali per
ripartirsi zone d’influenze, ritagliarsi alleanze e accessi alle risorse
energetiche dell’Asia Centrale. È la più chiara dimostrazione che i vecchi
“attrezzi” metodologici del marxismo troppo rapidamente gettati in soffitta,
possono garantire un’analisi capace di comprendere quello che oggi succede
superando sia i limiti delle scuole borghesi “realiste” che l’impotente
“wilsonismo” pacifista .
La guerra si è materializzata sotto i nostri
occhi (sia quella corsara e reazionaria di bin Laden che quella scientifica e
mostruosa degli eserciti anglo-americani) non come destino cinico e crudele,
non come recrudescente ritorno dell’uomo all’irragionevolezza ma “come forma
della vita capitalista, legittima quanto la pace” (Lenin). Altro che
riforma dell’ONU! Altro che azioni di polizia internazionale!
Questa guerra, che per stessa ammissione di
Bush durerà anni, ci ha mostra un’ulteriore sfaccettatura della
globalizzazione, quella della globalizzazione dell’oppressione e del terrore
che potrà essere fermata, come scrisse una indimenticata comunista
rivoluzionaria, “solo a condizione che i lavoratori (…) sappiano riscuotersi
dalla loro ubriacatura, stringersi fraternamente per mano e sovrastare il coro
bestiale della canea imperialistica così come le roche strida delle iene
capitalistiche, col vecchio e possente grido di guerra del lavoro: Proletari
di tutti i paesi, unitevi!”
Prima parte
L’AMERICA IN GUERRA
Lance Selfa
e Ahmed Shawki
La nuova
guerra di Bush
Lance Selfa
è redattore della
International Socialist Review. Ahmed
Shawki è direttore della International Socialist Review.
Tutte le operazioni militari statunitensi
hanno sempre goduto della copertura di giustificazioni create ad arte per il
pubblico che servono a coprirne gli scopi reali. George Bush I fece passare la
guerra del Golfo Persico del 1991 per un nobile sforzo volto a dimostrare che
“non c’era spazio per le palesi aggressioni”. Nel 1999 Clinton cercò di far
passare una guerra intesa a preservare la “credibilità” della NATO per
un’operazione umanitaria che aveva quale obiettivo, salvare i rifugiati
kosovari. La “guerra al terrorismo” di Gorge Bush II non è diversa. Se Bush
fosse stato interessato semplicemente a “assicurare alla giustizia” gli
esecutori degli attacchi dell’11 settembre, non avrebbe lanciato una
indeterminata, pluriennale “guerra al terrorismo.” Bush parla costantemente di
“difesa della libertà” e della necessità di sgominare “il male” per nascondere
deliberatamente gli obiettivi geopolitici e imperiali statunitensi in questa
guerra.
Le ragioni di questi inganni sono semplici da
spiegare. Se il popolo americano conoscesse le ragioni reali dell’intervento –
così come del resto successe durante la guerra del Vietnam – non la
sosterrebbe. Strobe Talbott che ha partecipato a questa frode in qualità di
plenipotenziario speciale di Clinton in Russia durante la guerra del Kosovo,
ha spiegato:
Il popolo americano non ha mai accettato la
geopolitica tradizionale o i puri calcoli di bilancia di potenza come una
ragione sufficiente per espandere le ricchezze nazionali o per inviare soldati
americani in terre straniere. Durante questo secolo [il XX] i governi
americani hanno spiegato le loro decisioni di inviare truppe “al di fuori”
invocando qualche necessità di difendere la democrazia.[2]
Fondamentalmente, l’Operazione Libertà
Duratura è intesa a difendere un tipo di libertà: la libertà americana a
continuare a intervenire in giro per il mondo per piegare i paesi alla sua
volontà. Bush spera che l’Operazione Libertà Duratura sarà l’equivalente del
XXI secolo dell’Operazione Tempesta nel Deserto che suo padre descrisse
come il “campo di prova” per una politica americana del tipo “ciò che diciamo
noi è legge”.[3]
Forse nei suoi sogni più sfrenati, Bush II
crede che la sua “guerra al terrorismo” diventerà l’equivalente della Guerra
Fredda del XXI secolo, con il “terrorismo” al posto del “comunismo” come fine
ultimo razionale dei disegni imperiali USA.
Nell’attuale fase, con l’attacco
all’Afghanistan, l’Operazione Libertà Duratura ha permesso agli USA di portare
avanti molti dei suoi obiettivi geopolitici, di cui tre spiccano in modo
particolare. Si tratterebbe di proiettare la potenza americana “nell’arco del
conflitto in Asia”; di erodere l’influenza russa in Asia Centrale per ottenere
un più ampio accesso alle risorse petrolifere e di gas naturale del mar
Caspio; di rafforzare l’egemonia USA nel Medio Oriente.
Dalla fine della Guerra Fredda, gli USA si
sono posti la priorità di impedire o ritardare l’ascesa di un “competitore
strategico” che possa disporre di una forza militare ed economica che possa
potenzialmente sfidare l’egemonia americana su un’area geografica che si
estende dall’ Europa all’Asia. I principali scenari disegnati dalle Forze
Armate USA assegnano il ruolo di “competitore strategico” a una di queste tre
potenze asiatiche: Russia, Cina o India. Come afferma la redazione della
Quadrennial Defense Review (di seguito “QDR”) nel numero del 30
settembre 2001
Esiste la possibilità che un concorrente
militare con formidabili risorse di base emergerà nella regione. Il litorale
dell’Asia Orientale – dalla baia del Bengala al mar del Giappone – rappresenta
un area particolarmente impegnativa. Gli Stati Uniti hanno anche meno minor
certezza di accesso ai vantaggi nella regione. Ciò pone il problema di
assicurarsi accessi addizionali e accordi infrastrutturali e lo sviluppo di
sistemi in grado di sostenere operazioni a grandi distanze con il minimo
supporto di teatro di base.[4]
L’establishment della Difesa americana è
convinto che il probabile “sfidante” per l’egemonia regionale nei prossimi due
decenni sarà la Cina. Gli USA vedono l’Asia come la regione potenzialmente più
instabile del mondo, un’ipotesi che ha guadagnato credibilità quando, due
acerrimi nemici regionali, India e Pakistan, hanno realizzato esperimenti
nucleari a una settimana di distanza l’uno dall’altra nel 1998. A differenza
dell’Europa, dove la fine della Guerra Fredda ha portato a una significativa
riduzione delle forze di occupazione, gli USA hanno accresciuto lo
stanziamento di truppe a Okinawa e in Corea del Sud. Ma i recenti sviluppi
regionali – dalla riconciliazione sulla penisola Coreana ai movimenti per
mandar via gli USA da Okinawa – hanno reso i bastioni americani in Asia
Orientale più incerti.[5]
Cosa ha a che vedere tutto ciò con la “guerra
al terrorismo” intrapresa in Afghanistan? Molto. In primo luogo se si getta
uno sguardo alle cartine militari degli schieramenti militari e navali
americani disponibili al pubblico si vedrà che gli USA circondano quella
regione con truppe, navi e altri mezzi bellici. Rimane ancora da vedere se gli
USA pensino a un dislocamento di forze in Uzbekistan and Tajikistan e a un
tentativo di negoziare il ritorno di una base navale nelle Filippine come
strumento permanente della loro “difesa avanzata”. Ciò potrebbe certamente
aiutare il piano USA a lunga scadenza di trasferire in Asia altre forze ora
stanziate in Europa.
In secondo luogo se la Cina è il principale
“competitore strategico” per il futuro, le operazioni militari USA in
Afghanistan aiutano a mettere la Cina in una morsa. Le forze armate USA
potrebbero essere ora schierate sul fianco orientale cinese in Giappone, Corea
e nello stretto di Taiwan, e sul fianco cinese occidentale in Asia Centrale.
La Cina non è in grado di fermare la proiezione USA in Asia Centrale e non osa
tagliare la strada agli USA. Così ha deciso per un limitato sostegno agli USA
in quanto
[Washington]
sarebbe disponibile una estensione dell’influenza cinese in Asia Centrale in
modo da bilanciare l’espansione americana nella regione; gli USA sarebbero
pieni di gratitudine e si garantirebbe una rinnovata fiducia tra i due paesi.
Pechino inoltre potrebbe in cambio ottenere qualcosa sulle questioni di Taiwan
e Xinjiang.[6]
La Cina, un alleato del Pakistan da più di 50
anni, ha giocato, dietro le quinte, un ruolo chiave per garantire la
cooperazione di Islamabad con Washington.[7]
L’obiettivo a lunga scadenza della Cina diventare una potenza regionale in
Asia dipende dalla sua capacità attuale di tenere a bada gli USA. Così, almeno
temporaneamente, l’interesse di Pechino a far sì che gli USA non diventino un
proprio nemico coincide con l’interesse USA di controllare la Cina.
Gli USA sanno
che la “stabilità” nel Sud dell’Asia dipende dalla sua capacità di
barcamenarsi tra Pakistan e India. Dalla fine della Guerra Fredda, l’India,
che è rivale della Cina, ha cercato di diventare nella regione uno dei
partners strategici degli USA. È stato il solo paese di una certa importanza,
se si eccettua Israele, ad applaudire il discorso del 1 maggio 2001 di Bush in
cui venivano descritti i piani di Guerre Stellari. E così non desta sorpresa
che l’India abbia offerto agli USA l’utilizzo delle proprie basi, messo a
disposizione la propria intelligence e, soprattutto, fornito il proprio
sostegno politico, alla guerra americana contro il “fondamentalismo islamico”.
Gli Stati Uniti
guardano alla disputa indo-pakistana, con la sua dimensione nucleare, come
alla più importante minaccia alla sicurezza della regione, pericoli
terroristici inclusi. Su tutte questioni le politiche dell’India sono cruciali
per la pace nella regione.[8]
Ma gli USA non potevano accettare tutte le
offerte indiane. Si sono invece orientati maggiormente verso il Pakistan, un
vecchio alleato della Guerra Fredda. Per tutti gli anni ’80 il Pakistan fu il
principale “subappaltatore” della guerra americana per procura contro l’URSS
in Afghanistan. I servizi segreti pakistani addestrarono i combattenti
mujahedin in Afghanistan e portarono al potere i talebani. Ora gli USA hanno
imposto al Pakistan di abbandonarli al proprio destino. Il Pakistan, in linea
di massima, desidera che qualunque governo emerga tra le macerie
dell’Afghanistan post-bellico, sia un controllabile vassallo. È proprio per
questo che gli USA hanno deciso di orientarsi principalmente verso Islamabad
incoraggiandola con un prestito di 1000 miliardi di dollari concessi del Fondo
Monetario Internazionale. Ma per sfruttare ogni vantaggio, gli USA hanno
deciso di eliminare le sanzioni che gravavano sia sull’India che sul Pakistan.
L’Afghanistan si colloca al crocevia di
un’area in cui sono concentrati grandi giacimenti di petrolio e gas, secondi
probabilmente solo a quelli del Golfo Persico. Per questa ragione tutte le
grandi potenze – gli USA, la Russia, la Cina, la Francia, la Gran Bretagna e
la Germania – stanno tramando da un decennio per porre sotto il proprio
controllo le risorse di quell’area. Gli USA hanno chiarito quali siano le loro
pretese con la ben pubblicizzata operazione militare del 1997 che ha portato
al dispiegamento di 500 paracadutisti della Ottantaduesima Divisione
Aerotrasportata del Nord Carolina nei deserti del Kazakhstan. Nella storia
militare non c’era ancora stata un’operazione di questa gittata (oltre 11500
km.). Si intendeva così dimostrare, come dichiarò il comandate
dell’operazione, il generale della Marina John Sheehan, che non c’è nazione
sulla faccia della terra che non possa essere raggiunta.[9]
Questo record è stato superato nell’attuale guerra in Afghanistan con
l’utilizzo dei bombardieri dei B-2. I bombardieri partono dagli aeroporti del
Missouri, colpiscono l’Afghanistan, e tornano negli USA senza avere la
necessità di fare alcun scalo. Dato che le ricchezze del mar Caspio sono
localizzate a centinaia di chilometri dalle acque internazionali, devono
essere convogliate sui mercati con delle pipelines. Solo quando sapremo gli
itinerari delle pipelines potremo conoscere i veri vincitori e perdenti nella
contesa sul mar Caspio. Dopo il collasso dell’URSS, gli USA hanno provato a
utilizzare tutta la loro potenza per far sì che le pipelines attraversassero
paesi amici e non quelli a loro ostili. E così malgrado che l’itinerario più
breve ed economicamente meno costoso per l’imbarco del petrolio e del gas
fosse quello che andava dall’Iran al Golfo Persico, gli USA hanno promosso un
progetto di pipeline lungo 1.100 miglia che da Baku, attraverso la Georgia,
raggiunga il porto turco di Ceyhan. Questa pipeline (e altri progetti dello
stesso tipo) hanno come obiettivo di evitare itinerari che prevedano il
passaggio delle materie prime dell’Asia Centrale dall’Iran o dalla Russia. Gli
USA hanno cercato di produrre un cuneo tra le ex repubbliche Sovietiche e la
Russia in modo tale che le prime possano vendere le loro risorse naturali
direttamente all’Occidente. L’idea americana secondo cui “Stati indipendenti e
sovrani possano difendersi da soli” (una delle spiegazioni della “Operazione
Sheehan” del 1997) è volta ad indebolire ulteriormente l’ex superpotenza
russa. È in questo contesto che Mosca ha tentato di riaffermare la sua la sua
influenza sulle Repubbliche dell’Asia Centrale (Azerbaijan, Uzbekistan,
Tajikistan, Turkmenistan).[10]
La politica americana in Afghanistan
s'inserisce in questo scontro per il controllo delle risorse petrolifere.
Infatti gli USA e il Pakistan sponsorizzarono l’ascesa dei talebani al potere
come strumento per creare “stabilità” nel paese, proprio nel contesto di
quella strategia.
Oggi il Wall Street Journal si è unito
agli altri media americani nell’invocare la testa dei talebani, ma nel 1997
affermava che “piaccia o non piaccia i talebani sono il soggetto politico, in
questa fase storica, maggiormente in grado di ottenere la pace in
Afghanistan.” Il successo dei talebani è stato decisivo per assicurare
all’Afghanistan “il principale itinerario per l’esportazione delle petrolio,
del gas e delle altre risorse naturali dall’Asia Centrale”. Il più audace dei
progetti, quello di costruire una pipeline (la UNOCAL) che attraversasse
l’Afghanistan per trasportare il gas naturale dal Turkmenistan al Pakistan,
“era basato sulla promessa fatta dai talebani di giungere a conquistare tutto
l’Afghanistan”.
I talebani offrivano agli USA quella stabilità
che poteva rendere realizzabile il progetto UNOCAL.
Comunque gli USA iniziarono a cambiare questa
loro politica dopo il bombardamento delle ambasciate americane in Tanzania e
in Kenya. Iniziarono a convincersi sempre di più che i talebani non avrebbero
accettato per sempre il ruolo che gli USA gli avevano assegnato. Cominciarono
quindi a pensare a come trovare il modo di sostituire il governo dei talebani
con un governo più addomesticato, tre anni prima dell’attacco al World Trade
Center.
A partire dal 2000 “gli Stati Uniti hanno
cominciato silenziosamente a allinearsi a quei governi come la Russia che
esigevano un’azione militare contro l’Afghanistan e si trastullarono con
l’idea di un nuovo raid per togliere di mezzo Osama bin Laden. Malgrado
avessero poi rinunciato a causa delle pressioni in senso contrario che
provenivano da quella regione, gli USA erano persino giunti a esaminare quale
dei paesi dell’Asia Centrale avrebbe eventualmente permesso l’utilizzo del
proprio territorio a quel fine.”[11]
L’operazione Pace Duratura si colloca semplicemente lungo quella traiettoria.
Con la cooperazione russa, gli USA hanno guadagnato l’accesso a due basi
dell’éra sovietica in Uzbekistan and Tajikistan.
La collaborazione tra USA e Russia potrebbe
determinare il cambiamento geopolitico più significativo prodotto dalla crisi
afgana.
Il Presidente Vladimir Putin dopo l’11
settembre ha immediatamente offerto il suo sostegno a Bush.
Ha ignorato
le obiezioni dei sui capi militari
che lo consigliavano di mettere a disposizione le basi delle Repubbliche dell’
Asia Centrale alle Forze Armate americane. Alcuni relazioni suggeriscono
l’idea che le truppe delle unità speciali russe stiano partecipando assieme
agli americani alla guerra in Afghanistan. E sicuramente la Russia (insieme
all’Iran) ha usato la sua influenza per saldare l’Alleanza del Nord
all’attacco occidentale ai talebani.
La nuova politica di Putin segna una svolta
nella tradizionale visione russa che vedeva nella NATO e negli USA delle forze
ostili.[12]
In particolare da quando la NATO ha umiliato la Russia, polverizzando il suo
alleato jugoslavo nel 1999, Putin ha usato la guerra in Cecenia per rafforzare
il controllo della Russia sul suo ex impero. Chiaramente Putin spera che i
suoi servigi all’Occidente saranno ricompensati con la possibilità di avere
maggior mano libera in Cecenia. Putin vuole – e lo vuole anche la Germania, il
suo partner più stretto in Europa – una trasformazione dei rapporti con
l’Occidente. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Condoleeza Rice – un
vecchio combattente della Guerra Fredda e sovietologo – vede possibile una
”fondamentale alterazione” dei rapporti tra la Russia e l’Occidente. Putin ha
adombrato anche l’ipotesi che la Russia possa entrare a far parte della NATO –
uno sviluppo che sarebbe sorprendente dato che una delle missioni principali
della NATO era quella contenere l’influenza russa in Europa.
Comunque Putin (o almeno i suoi capi militari)
potrebbe rammaricarsi un giorno di aver dato autorizzato gli USA a utilizzare
le basi in Asia Centrale. Il 7 ottobre 2001 gli USA hanno concluso un accordo
con l’Uzbekistan impegnandosi a difendere l’ex repubblica sovietica in caso di
intervento esterno. L’accordo, racconta il Wall Street Journal,
“allontana ogni ipotesi che la presenza militare americana nella regione sarà
di breve durata. L’accordo prevede che le forze di terra americane restino per
un anno ma probabilmente alla scadenza l’accordo sarà rinnovato, dice
confidenzialmente un ufficiale.” L’accordo è un passo nella direzione volta a
rendere “le fonti energetiche dell’intera regione un diritto esclusivo
occidentale.”[13]
L’ultima volta che l’Afghanistan fu preso in
considerazione dagli USA fu quando Carter annunciò la sua “dottrina”. In
seguito alla invasione dell’URSS dell’Afghanistan nel 1979, Carter sostenne
apertamente quello che tutte le amministrazioni americane avevano perseguito
dal 1940 in poi: “Un tentativo di qualsiasi forza esterna di guadagnare il
controllo del Golfo Persico sarà considerato come un assalto ai vitali
interessi degli Stati Uniti d’America, e un tale attacco sarà respinto con
tutti mezzi necessari, inclusa la forza militare,”
Gli USA non credevano veramente che l’URSS
stesse usando l’Afghanistan come un ponte per insediarsi nel Golfo Persico. La
“minaccia sovietica” semplicemente giustificava la nuova politica USA che
prevedeva l’intervento diretto in quell’area che era diventata molto più
ostile agli USA (e ai suoi interessi) dopo che la Rivoluzione Iraniana aveva
spodestato il principale alleato degli americani nella regione.[14]
La Guerra del Golfo per salvare la monarchia
del Kuwait portò alla ribalta la dottrina Bush:
“garantire l’assistenza difensiva ai regimi
conservatori ricchi di petrolio contro qualunque forza che li possa
minacciare.”[15]
I tre principali scenari degli USA nel Golfo
Persico prevedono: contenimento dell’Iraq; impedimento della chiusura da parte
dell’Iran dello stretto di Hormuz, il “checkpoint” del Golfo Persico che
sfocia nell’Oceano Indiano; difesa del regime saudita da possibili tensioni
interne o da un tentativo di suo rovesciamento.[16]
Questi scenari, a cui possiamo aggiungere il
rafforzamento delle sanzioni contro l’Iraq e il mantenimento della “no-fly
zones” su quel paese, giustificano ulteriormente la presenza di circa 25.000
soldati e di navi americane nella regione (mentre 155.000 riservisti sono in
stato di allerta e rapidamente dispiegabili).[17]
Ma malgrado questa schiacciante presenza americana nel Golfo:
…gli USA soffrono di due talloni d’Achille in
quanto superpotenza regionale. Il primo è l’incapacità a risolvere la
questione palestinese che ancora minaccia di far esplodere il delicato
equilibrio nella regione. E il secondo, è il suo massiccio insediamento
militare, il quale ha reso le monarchie del Golfo ancora più impopolari …e
instabili.[18]
Inoltre si devono aggiungere le tensioni con i
propri alleati che si sono venute sviluppando nel corso di un decennio a
partire dalla Guerra del Golfo: il rancore delle corporations petrolifere
europee e internazionali per le sanzioni imposte dagli USA all’Iraq e i
tentativi dell’Iran e dell’Arabia Saudita di assumere una posizione
maggiormente indipendente rispetto agli USA.[19]
La crisi attuale in Afghanistan e la “guerra
al terrorismo” offrono la possibilità agli USA di frenare l’erosione della sua
autorità nel Golfo Persico attraverso il maggiore incremento delle forze
armate americane nella zona, dai tempi della guerra del Golfo.
Nel lanciare l’Operazione Pace Duratura, gli
USA stanno compiendo un grande azzardo. Inseriscono la loro potenza al centro
di una delle più instabili regioni del mondo. Il loro obiettivo geostrategico
nell’attuale guerra potrebbe essere chiaro, ma non esiste alcuna garanzia
raggiungano i loro obiettivi. Bush può anche aver promesso che “non falliremo”
ma le contraddizioni intrinseche alla situazione potrebbero far saltare tutto.
In primo luogo le enormi linee di faglia nella
coalizione costruita da Bush potrebbero esplodere in ogni momento. Bush ha
assemblato una coalizione di convenienza, i cui membri hanno interessi
antagonistici tra loro. Il Pakistan e l’India restano con il grilletto alzato,
pronti a entrare in guerra per il Kashmir. Visto che il Pakistan tratta ora
con durezza i militanti islamici, questi potrebbero contrattaccare con
attacchi in Kashmir, imponendo all’India una reazione. Solo il giorno prima
che gli USA entrassero in guerra i militanti islamici pakistani hanno lanciato
una grossa auto-bomba a Srinigar uccidendo 35 persone. Da quando la guerra è
iniziata le forze pakistane e quelle indiane si sono scontrate ripetutamente
lungo “la linea di controllo” del Kashimir. La Georgia e la Russia sono sì
alleate degli USA nella “guerra al terrorismo” ma al contempo la Russia accusa
la Georgia di dare rifugio ai ribelli ceceni. Solo pochi giorni prima che
cominciasse la guerra, truppe russe sono penetrate in Georgia. La Georgia ha
risposto minacciando di ritirarsi dalla Comunità degli Stati Indipendenti e di
mandare delle proprie forze a rioccupare l’Abkhasia, una provincia della
Georgia fuori dal controllo delle truppe di Tblisi che abitualmente i russi
pattugliano.[20]
In secondo luogo le
dispute precedenti all’11 settembre tra gli USA e i “partners della
coalizione”, che momentaneamente sono state messe da parte, riemergeranno. La
Russia e la Cina continueranno a cavalcare il cavallo della “guerra al
terrorismo” fino a quando gli converrà. Ma gli USA abbandoneranno il progetto
di “Guerre Stellari” in cambio della futura collaborazione di Cina e Russia? È
improbabile. Infatti Bush ha già cominciato a “rimpacchettare” il programma di
Difesa Missilistica Nazionale (di seguito NMD) come arma “antiterroristica”. E
anche se gli USA, dietro il sipario hanno fatto tutta una serie di promesse e
fornito tutta una serie di garanzie alla Russia, abbandoneranno i loro
progetti per avere delle pipelines fuori dal controllo russo? Permetteranno
alla Russia di entrare nella NATO? Anche ciò sembra assai improbabile. E con
l’esercito USA che ha già un piede in Asia Centrale è ancora più improbabile
che vengano abbandonati i progetti sul mar Caspio. In un quadro siffatto Cina
e Russia potrebbero facilmente tornare al ruolo che avevano prima dell’11
settembre e cioè quello di principali sfidanti degli americani nell’area
eurasiatica.
In terzo luogo la guerra verserà benzina
sull’incendio politico già appiccato in Medio Oriente e in Asia. Vedere che
gli USA bombardano spudoratamente uno dei paesi più poveri del mondo,
costringendo milioni di persone a fuggire o morire di fame, farà incollerire
altri milioni di persone. Le opposizioni islamiche dall’Egitto alla Arabia
Saudita fino all’Asia Centrale recluteranno nuovi adepti pronti a lanciare
attacchi sugli USA o su paesi suoi alleati. E le atrocità di Israele contro i
palestinesi, attuate mentre gli USA stanno bombardando l’Afghanistan,
accresceranno la violenza. Condizioni di guerra civile potrebbero svilupparsi
nei paesi di tutta la regione. Solo pochi giorni dopo l’inizio dei
bombardamenti degli USA e della Gran Bretagna, le forze armate pakistane hanno
sparato sui manifestanti in città di tutto il paese. L’autorità palestinese ha
dovuto fronteggiare il più duro confronto con gli islamici a partire dal 1994,
costringendo la polizia palestinese a chiedere dei mezzi antisommossa ad
Israele!
Tutte queste tensioni potrebbero crescere
enormemente – e la coalizione esplodere – quando gli USA avanzeranno verso il
loro prossimo obiettivo “antiterroristico.”
In un incredibile editoriale il direttore
della National Review, Richard Lowry, si è sentito in dovere di
presentare un proprio fantasioso programma per l’Iraq. Questo programma non
prevedrebbe solo il rovesciamento di Saddam Hussein ma anche l’imposizione di
un regime coloniale in Iraq governato dagli americani sul modello di quello
britannico imposto all’India nel XIX secolo[21].
Ma per quanto i piani dell’amministrazione USA
siano distanti da quelli di Lowry, non c’è dubbio che alcuni membri
dell’amministrazione condividano i suoi punti di vista. Inoltre
l’Amministrazione americana ha già pronti dei piani per condurre un’operazione
simile “di ricostruzione nazionale” in Afghanistan, mettendo così da parte le
critiche che Bush aveva rivolta Clinton in campagna elettorale sulla
“ricostruzione nazionale” in Somalia, ad Haiti e nei Balcani.Se si riuscisse a
far funzionare questo schema si preannuncerebbe un’occupazione decennale
dell’Afghanistan sul tipo di quella del Kosovo, un compito militare che
sarebbe “lungo, costoso e in ultima istanza destinato a fallire.”[22]
Qualunque espansione della guerra verso il
Medio Oriente metterebbe sotto ulteriore pressione la già tenue alleanza tra
gli USA e i cosiddetti Stati arabi “moderati” (leggi filo USA).
Nella regione milioni di persone sono
coscienti che gli USA hanno sostenuto le sanzioni genocide contro l’Iraq.
Sanno che gli USA puntellano regimi dittatoriali in tutta la regione. E sanno
anche che gli USA coprono politicamente la repressione israeliana contro i
palestinesi. Che siano fanatici dell’islam o meno, questa gente non sarà
propensa ad accettare un revival del colonialismo del XIX secolo coperto dal
presupposto razzista del “paternalismo illuminato”. Se gli USA si
indirizzeranno verso l’imposizione di un regime coloniale in Iraq o in
qualsiasi altro paese, ciò farà esplodere il movimento di liberazione
nazionale più importante dai tempi della Rivoluzione Iraniana. Una campagna
degli USA in Libano contro gli hezbollah non dovrà confrontarsi con
un’accozzaglia di terroristi isolati ma con un movimento politico solido,
largamente radicato nella società libanese. Inoltre il ruolo avuto dagli
hezbollah nel cacciar fuori dal sud del Libano gli Israeliani gli ha fatto
guadagnare uno status di eroi nazionali, che trascende le divisioni politiche
e religiose del paese. Lowry dovrebbe ricordarsi con qualche tristezza quanto
successe allo shah dell’Iran.
Gli USA cominciano il XXI secolo da posizione
di forza simili a quelle di grandi imperi del passato (dall’antica Roma fino
alla Bretagna vittoriana). La sua economia rappresenta il 22% della produzione
mondiale e rimane il primo paese del mondo nella ricerca e nella produzione
dell’high-tech. La sua spesa militare è superiore alla somma delle spese
belliche delle 15 più importanti potenze militari del mondo. Se si somma la
spesa americana a quella dei più leali alleati – i paesi della NATO, la Corea
del Sud e il Giappone – si giunge a una cifra che supera la spesa militare di
tutto il resto del mondo.[23]
Questo dominio ha generato un tipo di arroganza imperiale che ha contribuito a
far sorgere sogni come quelli di Lowry.
Ogni impero che ha pensato di poter
riorganizzare il mondo a propria immagine e somiglianza ha finito per
crollare. L’imperialismo ha sempre generato resistenza sia da parte dei suoi
potenziali rivali sia da parte dai popoli e dalle nazioni che tenta di
soggiogare. In questo preciso momento i più probabili “competitori strategici”
dell’America, la Russia e la Cina, sono allineati con la “guerra al
terrorismo”. Ma non bisogna avere molta immaginazione per capire che non
accetteranno la “leadership” americana per sempre. E se gli USA accresceranno
la loro superiorità in Asia Centrale, essi potrebbero essere spinti ad opporsi
nuovamente ai piani di Wahington. La Russia e la Cina, che contrapponevano una
visione del mondo “multipolare” a quella di un mondo “unipolare” dominato
dagli USA prima dell’11 settembre, potrebbero ridiventare dei rivali (magari
insieme ad altri paesi) degli USA nella arena politica mondiale.
Prima di quanto si pensi, l’imperversare
americano provocherà opposizione anche al centro del suo stesso impero. La sua
forza dipende dall’alleanza con alcuni dei più corrotti e repressivi regimi
del mondo. Inevitabilmente le vittime di questi regimi reagiranno minacciando
non solo i loro governi ma la stessa potenza americana. Se oggi l’Arabia
Saudita fosse veramente sull’orlo di una minaccia insurrezionale che gli USA
non sono in grado di reprimere, quest’ultimi si troverebbero di fronte alla
prospettiva del più grande disastro di politica estera dalla Seconda Guerra
mondiale in poi. Il rovesciamento del regime saudita potrebbe non essere così
imminente, ma il fatto che questa possibilità sia solo ventilata sottolinea la
fragilità del dominio USA.
In quanto unica superpotenza mondiale, gli USA
si interpongono in ogni conflitto che scoppia nel mondo. Come fece già in
Vietnam, quando rilevò l’amministrazione coloniale francese, tutto ciò finisce
per “americanizzare” i conflitti trasformando gli USA nel bersaglio di
qualsiasi popolo che lotta per la propria autodeterminazione. Se gli USA
perseguiranno una politica ultra imperialista tipo quella invocata da Lowry,
queste sfide semplicemente si moltiplicheranno. Molte dei timori che circolano
oggi in USA sono legati alla possibilità che l’Afghanistan si trasformi in un
pantano come il Vietnam.
Se la “guerra al terrorismo” si estenderà dal
Libano alle Filippine, o all’Indonesia (come molti funzionari
dell’Amministrazione lasciano intendere) ci si potrebbe trovare di fronte a
due, tre, molti Vietnam.
Last but not least
gli USA potrebbero trovarsi di fronte a una opposizione interna che non si
identificherebbe semplicemente con il movimento antimilitarista. La “guerra al
terrorismo” di Bush si dipana in un contesto di recessione mondiale. I livelli
di disoccupazione negli USA sono i più alti degli ultimi dieci anni e il
rallentamento della produzione mondiale è il più marcato dalla fine della
Seconda Guerra mondiale. Ciò significa che tanto più Bush si imbarcherà in
guerre e tanto più milioni di operai americani le pagheranno con licenziamenti
e tagli delle spese sociali per far ingrassare i principali fornitori di armi.
Come disse nel 1918 il leader socialista Eugene V. Debs:
…la classe operaia che combatte tutte le
battaglie, la classe operaia che fa i supremi sacrifici, la classe operaia che
incondizionatamente versa il proprio sangue e getta i propri corpi [in
battaglia], non ha ancora avuto voce né nel dichiarare guerre né nel
sottoscrivere paci. Sono le classi dominanti che, invariabilmente, fanno le
une e le altre.[24]
Nello spazio di pochi giorni, le promesse dei
politici di rendere mutuabili i prodotti farmaceutici e di “salvare i servizi
sociali”, sono evaporate. Al contrario il Congresso ha distribuito qualcosa
come 15 bilioni di dollari di aiuti ai padroni delle compagnie aeree, mentre
rifiutava di aiutare gli oltre 100.000 lavoratori licenziati dalle compagnie
aeree stesse.
L’America delle Corporations con una mano
sventola la bandiera e con l’altra riempie le proprie tasche a spese dei
lavoratori” ha spiegato a questo proposito un funzionario del sindacato
dell’auto (UAW).[25]
Tanto più la guerra si trascinerà e l’economia
peggiorerà e tanta più gente inizierà a realizzare di non avere alcun
interesse in questa guerra. Allora Bush dovrà rispondere di quella cinica
manipolazione della gente comune, oltraggiata dagli attacchi dell’11
settembre, realizzata solo per portare avanti il suo programma di destra.
Questo è il tipo di opposizione che Bush teme di più.
L’attacco al World Trade
Center e al Pentagono sembrano abbiano provocato un caso di amnesia nel mondo
intero. Negli Stati Uniti tutta l’opposizione alle principali questioni di
politica estera – dalla conferma ad ambasciatore alle Nazioni Unite
dell’apologeta degli squadroni della morte John Negroponte, alle Guerre
Stellari fino all’incremento di quasi 42 bilioni di dollari della spesa
militare – si è dissolta. All’estero, ogni critica avanzata contro l’arroganza
degli USA è stata dimenticata e i paesi di tutto il mondo si sono uniti alla
“lotta antiterrorismo” di Bush.
The Nation[26]
si è congratulato con
l’amministrazione per la sua “inaspettata – ed opportuna – conversione
all’internazionalismo” per aver premuto sul Congresso perché paghi i debiti di
lunga data accumulati con le Nazioni Unite e per aver spinto il Senato ad
approvare una convenzione con le Nazioni Unite sul terrorismo.[27]
La rivista si concentra sulle supposte dispute tra Powell e i falchi
dell’Amministrazione ponendo l’accento sul fatto che le “voci della ragione”
all’interno dell’Amministrazione, che puntano sulla diplomazia e sulla
cooperazione con altre nazioni, abbiano prevalso sulla politica
dell’Amministrazione prima dell’11 settembre che affermava “o con noi o contro
di noi”.
Questi superficiali cambi di tono sono
sufficienti a confondere i liberali che scrivono per The Nation o per
Salon.[28]
Ma la realtà è ben diversa. Prendiamo per esempio l’interpretazione secondo
cui la politica di Bush che ha posto al centro la costruzione di una
coalizione contro il terrorismo avrebbe forzato l’amministrazione a
abbandonare i suoi istinti “unilaterali”. Non è pertinente. Bush non ha fatto
segreto del fatto che la “guerra al terrorismo” è un’azione diretta dagli USA
che le altre nazioni devono solo sottoscrivere. Queste ultime non sono
invitate a definirne il corso. Gli USA hanno dichiarato l’emergenza e offerto
una soluzione militare, la sola che siano in grado di mettere in campo. Il
fatto che gli altri paesi – dagli alleati NATO fino alla Russia e alle
monarchie del Golfo – vogliano saltare sul vagone dell’orchestra americana non
è una sorpresa.
La maggioranza di questi paesi preferisce
avere in buoni rapporti con la sola superpotenza mondiale oggi esistente,
piuttosto che il contrario.“Cose che erano impossibili prima dell’11 settembre
improvvisamente sono diventate reali, ma ciò non significa che l’impulso
unilateralista si sia dissolto” ha affermato Michael Lindsay, esperto della
Brookings Institution .[29]
Tuttavia, Bush e i suoi amici non hanno
aspettato gli altri paesi per farsi la loro opinione. Gli USA hanno mobilitato
le truppe e le portaerei sin dall’11 settembre. Poi le hanno dislocate per
ottenere l’approvazione e la cooperazione dei servizi segreti dei novelli
alleati. Senza dubbio gli USA hanno stipulato una serie accordi segreti e
fornito assicurazioni per conquistare alcuni dei loro nuovi amici. Hanno usato
ogni carota e ogni bastone a loro disposizione. Hanno eliminato le sanzioni
contro il Pakistan, l’India e il Sudan. Hanno spinto il Fondo Monetario ad
approvare prestiti per 1000 miliardi di dollari a favore del Pakistan e hanno
fatto pressione sull’Arabia Saudita e sugli Emirati Arabi perché rompessero le
relazioni con i talebani.
Il solo fatto che Bush stia provando a far
allineare gli altri paesi nella “guerra contro il terrorismo” non significa
che questi metteranno da parte per sempre le loro critiche nei confronti della
politica estera statunitense. Gli USA possono aver avuto successo nel far
scattare il dispositivo dell’articolo cinque della Carta della NATO, il quale
afferma che l’attacco agli USA era un attacco a tutti i paesi membri
dell’alleanza. Ma Bush non ha accettato l’Accordo di Kyoto e non ha fatto
alcun passo indietro rispetto ai piani della Difesa Missilistica Nazionale per
ricambiare il favore ai suoi alleati europei.
Un’altra falsa speranza è quella di qualche
analista della Difesa secondo cui dopo l’11 settembre gli USA riorienteranno
le loro priorità militari. Il Dr. Dennis Blair, del Centro per le Informazioni
della Difesa, ha posto questa questione così:
I bilanci della difesa di solito, con i loro gretti impegni per estesi,
pesanti arsenali destinati a sfidare “competitori strategici” stranieri,
provocano crescente scetticismo di fronte ai seri danni inflitti da una
piccola banda di terroristi armati di coltelli. Attualmente impegnarsi in un
costoso riamo militare sembra quasi inutile di fronte alla principale minaccia
rappresentata dal terrorismo globale.
Spendere miliardi per satelliti, in grado di
“contare i fagioli” ma non in grado di scrutare nelle caverne afgane o di
origliare nei piccoli conclavi di radicali che tramano la distruzione
dell’America sembra un dubbio investimento, come del resto gettare miliardi di
dollari in progetti di difesa missilistica significa occuparsi di attacchi
missilistici del tutto immaginari contro la patria americana.[30]
L’analisi di Blair è un appello al buonsenso
di coloro i quali pensano che la razionalità e l’efficienza guidino oggigiorno
l’azione del complesso militar-industriale americano. Ma se vediamo quanta
attenzione prestino tutti principali decision-maker a analisi come
quella di Blair, non farebbe alcuna differenza se questa fosse stata scritta
in antico sanscrito piuttosto che in inglese. Solo pochi giorni dopo dagli
attacchi, entrambe le camere del Congresso hanno approvato le spese militari
proposte da Bush senza che si levasse nessuna voce d’opposizione. Piuttosto
che ridurre “le dispendiose attrezzature militari […]designate a sfidare
competitori strategici”, il Congresso ha devoluto a questo scopo una montagna
di soldi. I prodotti più gettonati restano gli aeroplani e le navi per portare
avanti i progetti americani di potenza globale. E il NMD è stato implementato
di 3 bilioni di dollari, cioè del 57%. Complessivamente la spesa bellica è
aumentata rispetto allo scorso anno di 32,6 bilioni di dollari (l’11%).[31]
Quando l’amministrazione ha pubblicato alla
fine di settembre il “QDR”, è diventato chiaro che gli obiettivi
imperiali degli USA erano rimasti inalterati.
Benché gran parte del “QDR” fosse stato
scritto prima dell’11 settembre, gli attacchi hanno permesso
all’Amministrazione di rilanciare il ruolo del Pentagono e la retorica “della
difesa della patria”.
Malgrado il Pentagono giustifichi il proprio
ruolo in termini di “difesa della patria”, il “QDR” non perde troppo
tempo a spiegare cosa ciò significhi. Dei nove principali “interessi e
obiettivi principali” degli USA, solo tre possono essere considerati collegati
alla difesa della “patria americana”.
Il rapporto riafferma l’obiettivo di
proiettare la forza USA dovunque nel mondo Infatti essa lega questa missione
di “difesa della patria […] alla capacità di proiettare la potenza in un largo
raggio e ciò aiuta a dissuadere gli atti minacciosi contro gli USA e quando è
necessario, a scompigliare, rinnegare o distruggere entità ostili a distanza.”[32]
Questa ultima affermazione dimostra come il
governo USA utilizzi la “difesa della patria” come la più ragionevole delle
giustificazioni per i suoi obiettivi globali. Con un bilancio della difesa che
differisce poco dalle proposte di Bush precedenti l’11 settembre, è difficile
dire che la “guerra al terrorismo” ha cambiato la politica americana. Invece,
la “guerra al terrorismo di Bush” ha fornito il perfetto pretesto per il
Pentagono, le agenzie di intelligence e l’autorità giudiziaria per portare
avanti una lunga lista di sogni a lungo custoditi nel cassetto. La retorica
dell’Amministrazione può darsi sia cambiata dopo l’11 settembre, ma non la sua
politica.
Noam Chomsky
La militarizzazione
dello spazio
Noam Chomsky,
professoreal Massachusetts Institute of Technology, è autore di numerosi libri
sulla politica estera degli USA e sui diritti dell’uomo Recentemente in Italia
è stato pubblicato Egemonia
americana e “Stati fuorilegge”
(Dedalo, Bari, 2001)
Circa vent’anni fa Michael Albert della
rivista Z mi chiese di scrivere un libro intitolato Turning the Tide.
Il libro parlava di come le cose stessero andando nel modo sbagliato e alla
fine, per far contento Michael, aggiunsi un paio di paragrafi abbastanza
ottimisti.
Effettivamente, a quel tempo non sapevo
dell’esistenza di numerosi movimenti popolari di ampio respiro nel Sud del
Mondo, il cosiddetto Terzo Mondo – Brasile, India e altrove. Ho cominciato a
capirne qualcosa più tardi, in alcuni casi per esperienza personale, per
esempio venendo a sapere di media popolari e di villaggi autogovernati. Questi
movimenti sono molto solidi e molto incoraggianti. Negli ultimi due anni si
sono creati importanti rapporti fra i movimenti nel Sud e i movimenti di base
qui in America. Questo è uno sviluppo davvero incoraggiante. Di tanto in tanto
acquista una visibilità tale da non poter essere ignorato persino dagli
ambienti più tradizionalisti.
Ma di una cosa potete star certi: i centri del
potere non li ignorano di certo, anzi ne sono turbati. Sono preoccupati per
l’esistenza di moltissime persone che hanno preso a nuotare controcorrente,
con bracciate vigorose. Oggi c’è il rischio che la corrente cambi direzione e
penso alla possibilità scrivere un libro molto più ottimista di allora, con lo
stesso titolo e stavolta anche con un contenuto che lo giustifichi.
Un esempio simbolico di quanto dicendo, e che
voi tutti conoscerete, è la decisione dell’Organizzazione Mondiale del
Commercio di tenere il prossimo summit in una località remota, come il Quatar,
dove, almeno si spera, nessuno potrà arrivare. Se date una scorsa alla stampa
finanziaria più seria, non mancherete di cogliere una viva preoccupazione nei
riguardi dei movimenti popolari. Circa dieci anni fa questa preoccupazione
iniziò a penetrare perlomeno nella retorica, e fino a un certo punto anche
nella programmazione, di istituzioni finanziarie internazionali come la Banca
Mondiale e, ultimamente, il FMI che capiscono di dover rispondere in un modo o
nell’altro a una massiccia opposizione in grande ascesa.
Una delle reazioni più interessanti che
abbiamo visto è stata il silenzio. Ci si limita a sopprimere le questioni
principali, le questioni davvero importanti. Perché si sa che, una volta
diventate di dominio pubblico, provocherebbero un’enorme opposizione. La
cosiddetta Zona di Libero Scambio delle Americhe è un esempio attuale e molto
rappresentativo di questo fenomeno.
Voglio parlare di cose che, se analizzate da
sole, apparirebbero davvero scoraggianti. Tuttavia, se le consideriamo insieme
alle reazioni che si stanno sviluppando, sembra davvero che possiamo fare
qualcosa. Gli sviluppi potenziali di questa situazione sono sinistre, da tanto
da arrivare a mettere in discussione la sopravvivenza del genere umano.
Tuttavia, lo ripeto, i progressi delle iniziative che si oppongono a questa
tendenza sono molto incoraggianti e offrono una base per allargare un
movimento spontaneo di grandi proporzioni.
Iniziamo con alcuni degli sviluppi più
sinistri, per esempio col rapporto del 1998 della Rumsfeld Commission sul
rischio costituito dai missili balistici per gli Stati Uniti, che oggi viene
presentato essenzialmente all’interno dei programmi nazionali di difesa
missilistica.
Questi programmi stanno giustamente sollevando
un’enorme opposizione in tutto il mondo. Ma dobbiamo anche avere un’idea
chiara del loro significato. Le difese missilistiche sono solo una piccola
parte di qualcosa di più ampio. La questione fondamentale è un’altra: la
militarizzazione dello spazio.
Questo non è un programma ideato da Bush: ma
un programma bipartisan. Alcune delle parti programmatiche più importanti e
interessanti risalgono all’amministrazione Clinton. Di recente il Comando
Spaziale (Space Command) degli Stati Uniti ha pubblicato un’elegante brochure
patinata che vale davvero la pena di studiare. Si intitola Vision for 2020,
ed espone le linee direttive per il futuro. Alle difese missilistiche è
dedicato pochissimo spazio, forse appena una nota in calce.
La copertina della brochure è graficamente
interessante e afferma che la militarizzazione dello spazio è volta a
“proteggere gli interessi e l’investimento degli Stati Uniti”. Questa
protezione richiede varie cose: innanzitutto, la militarizzazione dello
spazio, necessita armi antisatellite in grado di distruggere tutte le
comunicazioni o la sorveglianza di qualsiasi potenziale avversario, richiede
misure di protezione per i satelliti USA, perché la difesa missilistica non
funziona se questi satelliti non sono attivi. E ricordate: tecnicamente
eliminare un satellite è molto più semplice di abbattere un missile. I
satelliti sono fissi, stazionari oppure si muovono in un’orbita
predeterminata. È quindi possibile prevederne sempre la loro posizione. Le
armi antisatellite sono un po’ come la scelta a disposizione dei paesi poveri.
Ma attaccare missili è molto più complesso. Quindi ci vogliono armi
antisatellite e la protezione dalle armi antisatellite degli avversari.
Richiede insomma quello che viene definito “dominio dell’intero spettro”,
ovverosia devi controllare tutto perché tutto è troppo pericoloso. Ci vogliono
armi che colpiscano per prime dallo spazio. Quando l’aereo-spia EP-3 americano
sorvolava la Cina lo scorso aprile, stava chiaramente cercando di ottenere
informazioni utili nel caso di un potenziale primo attacco nucleare. I cinesi
questo lo sapevano. Colpire per primi è la regola degli Stati Uniti, persino
se l’attacco è rivolto contro nazioni sprovviste di capacità nucleari.
Alcuni critici tradizionali hanno
sottolineato, per esempio sulle pagine di Foreign Affairs, una
contraddizione implicita negli attuali piani preoccupa gli analisti: non è
possibile avere sia la difesa missilistica sia le armi antisatellite, visto
che un sistema di difesa missilistica richiede il coordinamento e il controllo
da parte di vari satelliti. Quindi, se ci saranno armi antisatellite, verranno
usate per distruggere i sistemi di difesa missilistica. Ma Vision for 2020
e la Commissione Rumsfeld hanno una soluzione per questo problema.
La risposta è, come ho detto, il dominio
dell’intero spettro – un dominio così assoluto dello spazio che nessun
avversario potrà competere neppure lontanamente. Nessuno pensa seriamente che
sarà possibile riuscire in questo intento, ma non importa. Questo meccanismo
mette comunque in moto una nuova corsa al riarmo, in cui gli USA sono
tecnologicamente così avvantaggiati sui potenziali avversati che nessuno dirà
mai: bene, fatelo pure questo primo attacco nucleare se volete. La macchina si
è messa in moto e continuerà a funzionare secondo le previsioni ossia con lo
sviluppo di armi antisatellite, a cui gli USA dovranno rispondere con una
militarizzazione persino più intensa.
Inoltre, si sa già chi si porrà alla testa
della proliferazione. La Cina reagirà di certo idem La Russia. Se la Cina
sviluppa il suo deterrente, che finora è di dimensioni molto modeste, in grado
di rispondere a questo sistema ampliato, allora l’India reagirà impaurita
della crescita della Cina. Il Pakistan, a sua volta, reagirà agli sviluppi in
India.
Israele reagirà agli sviluppi in Pakistan.
Altri paesi entreranno in gioco e tutto questo avrà chiaramente l’effetto di
portare alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. Nessuno crede
seriamente che un avversario potenziale degli USA sia così folle da cercare di
lanciare un missile. Quindi il sistema di difesa missilistica non è concepito
a scopi difensivi.
È invece concepito come protezione per le
forze USA a terra o nei cieli. In teoria dovrebbe consentire di lanciare un
attacco con relativa fiducia che nessuno cercherà di reagire.
Questo è risaputo. Le forze armate del Canada
hanno informato il loro governo in vari documenti, diventati di dominio
pubblico, del fatto che l’obiettivo della difesa missilistica non ha nulla a
che fare con la difesa. Serve invece a creare una copertura per azioni
militari offensive, compreso forse un primo attacco. Il programma Guerre
Stellari o SDI è stato interpretato nello stesso modo. Quindi, si tratta
essenzialmente di un’arma offensiva.
Ora c’è un grande dibattito sulla fattibilità
tecnica della difesa missilistica nazionale. Funzionerà? Questo non è il
punto. Se anche c’è il minimo sospetto che funzioni, i potenziali avversari
devono prenderla sul serio. Quando si parla di armi di distruzione totale –
della probabilità e della sicurezza di una distruzione totale – anche una
minima probabilità dev’essere interpretata come realtà. Non si possono correre
rischi.
Il Comando Spaziale non si preoccupa veramente
del pericolo di far saltare in aria l’intero Pianeta. Gli preme gettare le
basi per un’azione militare USA, compreso il primo attacco se necessario. Ma,
soprattutto, gli preme proteggere gli investimenti e gli interessi commerciali
degli Stati Uniti. Il Comando Spaziale afferma che la militarizzazione dello
spazio è un po’ come lo sviluppo delle marine militari. La marina inglese
aveva il dominio sui mari per proteggere gli investimenti e gli interessi
commerciali della Gran Bretagna. A lungo andare, ovviamente, altre marine
hanno reagito, come quella tedesca. Continuando su questa strada, si arriva
alla Prima Guerra mondiale.
La militarizzazione dello spazio è paragonata
all’esercito statunitense nel XIX secolo che aveva la responsabilità di
proteggere le carovane di carri e gli insediamenti dei coloni. Questo è un
modo di vedere le cose. Per tradurre questa rappresentazione nell’effettiva
realtà storica, diremo che l’esercito aveva la responsabilità per la
vastissima pulizia etnica ai danni dei nativi e per la conquista di mezzo
Messico, destinata a estendersi poi ai Caraibi e alle Filippine, e poi per la
difesa di ciò che c’era, ossia la difesa di ciò.
Ma anche quando conduci una pulizia etnica e
annienti la popolazione, devi pur sempre proteggerti da qualsiasi eventuale
sacca di resistenza rimasta. Quindi serve l’esercito. E fu proprio così che
tutelarono gli investimenti e gli interessi commerciali. Sembra che ora lo
spazio sia solo un’ennesima frontiera.
Eserciti e marine militari avevano anche altre
funzioni. Per esempio, gettarono le basi dell’economia industriale in via di
sviluppo. Nel caso degli USA, nel XIX, secolo l’esercito gettò le basi di
quello che sarebbe diventato il sistema di produzione in serie. Troppo costoso
e complicato per attirare gli investimenti dei singoli imprenditori, il
sistema americano di produzione in serie, quello stesso che abbagliò il mondo
intero con l’inizio della sua applicazione commerciale, fu in verità preceduto
da circa quarant’anni di esperienze condotte dal servizio approvvigionamento
delle forze armate. Quest’ultimo creò ed utilizzò componenti intercambiabili,
la produzione in serie e via dicendo. Il sistema, insomma, fu sviluppato nelle
armerie di Springfield e in posti del genere, per la produzione degli
armamenti.
Qualcuno ha detto che i problemi tecnici della
militarizzazione dello spazio, che rappresenta quanto vi è di più avanzato
oggi dal punto di vista della tecnologia e dello sviluppo industriale, sono
per certi versi simili a quelli connessi con l’armamento navale di circa un
secolo fa. Questo processo fu la base dello sviluppo della futura industria
automobilistica e di altre. Fu lì che si svilupparono l’esperienza e le
tecnologie necessarie.
La prima corporation miliardaria a nascere
negli Stati Uniti fu, non a caso, la U.S. Steel Corporation di proprietà di
Andrew Carnegie. Carnegie era un noto pacifista, ma fece i soldi, e soldi a
palate, con la produzione di acciaio per le corazzate. Era un business molto
redditizio, che gettò anche le fondamenta dell’industria dell’acciaio prima e
di altri rami della produzione dopo compreso il settore automobilistico che
cambiò tutti i connotati dello sviluppo industriale USA e, in ultima analisi,
anche la vita sociale ed economica del paese.
Creare innovazioni e apportare sviluppi ai
sistemi militari è un’attività che praticamente non pone problemi di
redittività, visto che sono i contribuenti a pagare di tasca loro. E poi si
può ricorrere a una loro comoda e perenne copertura: le esigenze della difesa.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale si
ebbe un’esplosione degli investimenti. La cosiddetta new economy
moderna dipende in larghissima misura da quel boom. I computer e l’elettronica
in generale, l’automazione, l’intermodalità nel trasporto merci,
containerizzazione, l’aeronautica, Internet e le telecomunicazioni sono tutti
nati dalla grande spesa pubblica sotto la copertura dell’industria militare –
una spesa pubblica che poi va a finire nelle tasche dei privati.
Si tratta di un processo lungo, quindi è
perfettamente corretto pensare alla militarizzazione dello spazio come a
qualcosa che assolverà le funzioni che le marine militari e, fino a un certo
punto, anche gli eserciti, ebbero un secolo fa: proteggere gli interessi
commerciali e gli investimenti, fungere da copertura per la socializzazione
della prossima fase dello sviluppo tecnologico e offrire i mezzi per un primo
attacco in caso di necessità, o per l’uso della forza senza doversi curare
della deterrenza.
L’Europa ha criticato duramente della difesa
missilistica nazionale, che, come ormai tutti capiscono, non è solo un
elemento della militarizzazione dello spazio. Ma negli ultimi tempi anche la
posizione dell’Europa sta cambiando. Il cancelliere tedesco Schreöder ha
affermato che anche l’Unione Europea dovrebbe prendere parte a questi
programmi, pena il rischio di venire lasciata indietro nello sviluppo
tecnologico per la prossima fase del progresso economico. Gli europei,
insomma, vogliono assolutamente essere coinvolti in questo aspetto della
faccenda. Certo, si preoccupano dei pericoli, molto tangibili. La
militarizzazione dello spazio potrebbe portare all’ecatombe del Pianeta. Per
loro le cose importanti sono altre.
Conviviamo col pericolo della distruzione
totale del mondo sin dall’ascesa delle armi di distruzione di massa durante la
Seconda Guerra Mondiale, ma è interessante analizzare le reazioni che ha
suscitato. Gli USA godono di una posizione di assoluta sicurezza che non ha
paralleli nella storia. Controllano l’intero emisfero, entrambi gli oceani.
Nessuno è mai riuscito a fare altrettanto. Dopo la guerra del 1812, gli USA
non si sono mai sentiti minacciati. Il loro potere è immenso e dopo l’ultimo
conflitto mondiale ha assunto proporzioni fenomenali. Rimaneva un’unica
minaccia potenziale, ossia i missili balistici intercontinentali provvisti di
testate nucleari, che avrebbero potuto rappresentare un rischio per la
sicurezza degli USA.
Ormai disponiamo di alcuni libri di storia
abbastanza accurati sulla corsa agli armamenti nel secondo dopoguerra. Vari
esperti, come McGeorge Bundy, autore di uno dei volumi più approfonditi
sull’argomento, hanno sottolineato di non aver mai trovato la benché minima
traccia di una preoccupazione, nei primi anni ’50, circa lo sviluppo dei
missili balistici intercontinentali (ICBM) e la loro possibile prevenzione, né
alla luce dei trattati siglati in quegli anni, né sulla base di altri
negoziati che probabilmente si sarebbero potuti organizzare. Gli USA erano
notevolmente in vantaggio. I russi, da parte loro, caldeggiavano in qualche
misura il disarmo, non perché fossero brava gente ma perché sapevano benissimo
di essere molto indietro, e si rendevano conto dei gravi pericoli che
correvano. È quindi più che possibile che un trattato avrebbe potuto prevenire
lo sviluppo dei missili ICBM. Ma nessuno ha mai cercato di proporre questo
trattato. Nessuno se ne dava molta preoccupazione.
Dopo la morte di Stalin, Chrušev, assunto il
potere dopo un breve interregno, alla metà degli anni ’50, iniziò a adoperarsi
notevolmente per ridurre il livello di scontro militare. Questo è tutto quello
che si poté cogliere allora. Ora sappiamo che Chrušev ci stava davvero
provando, che gli USA lo sapevano ma respinsero questa possibilità.
L’amministrazione Eisenhower rifiutò di rispondere alle offerte di Chrušev per
la riduzione delle forze militari offensive, inclusi cacciabombardieri, truppe
e così via. E l’amministrazione Kennedy ci mise definitivamente una pietra
sopra.
A quei tempi i russi avevano operato una
riduzione degli armamenti molto notevole. Chrušev aveva tagliato del 30% circa
le forze aeree d’attacco. La Russia aveva pochi missili e i suoi scienziati
erano lontanissimi dallo sviluppo di nuovi missili. Disponiamo di abbastanza
documenti interni per affermare che l’amministrazione Eisenhower, sia quella
Kennedy, ne erano perfettamente a conoscenza ma decisero di procedere in senso
opposto, con un’escalation della corsa agli armamenti, creando un serio
pericolo non solo per gli USA ma per il mondo in generale. La ragione di
questa decisione degli Stati Uniti è che a quel tempo vi erano considerazioni
ben più importanti, per esempio garantire il predominio su gran parte del
mondo, proteggere gli investimenti e gli interessi commerciali degli USA e
dare un’enorme boccata d’ossigeno all’economia, sotto la copertura della
produzione militare. Dieci anni più tardi, con l’avvento dei MIRV (i veicoli
spaziali multipli di rientro controllabili indipendentemente), la stessa
storia si è ripetuta.
Ma oggi possiamo fermare questo processo?
Possiamo fermare la militarizzazione dello spazio? A prima vista sembra
certamente di sì, per via del fatto che sono solo gli USA, letteralmente solo
loro, a spingere in questa direzione. Tutto il mondo è contrario,
principalmente perché ha paura. Gli USA sono molto in vantaggio su qualsiasi
Paese e nessuno può neppure sognare il dominio dell’intero spettro e il
controllo planetario. Certo, alcuni Stati non mancheranno di reagire, ma
innanzitutto vorrebbero fermare questo processo sul nascere. Esistono numerosi
trattati, già in vigore e appoggiati letteralmente dal mondo intero, che gli
USA stanno cercando di smantellare. Uno è il Trattato sullo spazio aperto del
1967 (Outer Space Treaty), che vieta la collocazione di armamenti nello spazio
aperto. Tutti i Paesi del mondo l’hanno sottoscritto, inclusi gli Stati Uniti.
Finora nessuno ha cercato di mettere armi nello spazio. Il trattato è stato
rispettato e chiunque lo violasse verrebbe facilmente scoperto.
Nel 1999 il trattato fu oggetto di votazione
nel corso dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. I voti a favore furono
163, i contrari 0, con 2 astensioni da parte di USA e Israele, un paese che
vota automaticamente come gli USA. Nello scorso novembre fu nuovamente votato.
Questa volta i voti a favore furono 160, quelli contro 0 e furono 3 i paesi ad
astenersi. Per un motivo o per l’altro, la Micronesia votò con gli Stati
Uniti.
A partire da gennaio le commissioni dell’ONU
per il disarmo si sono riunite in numerose occasioni, cercando di ribadire il
principio della non militarizzazione dello spazio e gli USA da soli stanno
bloccando l’intero processo. Questo non perché gli altri Paesi del mondo siano
“buoni”, ma per via dell’equilibrio del potere. Le altre nazioni ci penseranno
due volte prima di entrare in questo gioco.
Questo trattato non è molto conosciuto, non si
sa perché. L’altro è quello del 1972 sui missili antibalistici (Anti-Ballistic
Treaty), che l’amministrazione Bush si è ripromessa di smantellare. Dobbiamo
ricordare che questo trattato vieta le armi antisatellite, che formano parte
integrante degli progetti americani. Vieta anche qualsiasi interferenza coi
satelliti. Gli USA vogliono quindi disfarsi del trattato perché vogliono poter
distruggere satelliti, comunicazioni e sorveglianza delle altre nazioni. E il
resto del mondo appoggia il trattato ABM nella speranza di prevenire lo
sviluppo delle armi antisatellite.
Quindi esistono già almeno due importanti
trattati sottoscritti pressoché universalmente, almeno sulla carta e in vigore
ormai da anni, che gli USA stanno tentando di smantellare. Questi sforzi
procedono con grande rapidità e vedono l’appoggio congiunto di entrambi i
partiti statunitensi. L’amministrazione Bush non fa che ampliare i programmi
di Clinton, senza alterarli nell’essenza.
Ma non basta: tutti ormai sanno, e i media lo
dicono a destra e a manca da tempo, che oggi la maggiore minaccia per la
sicurezza di tutti noi è probabilmente rappresentata dal collasso
dell’economia sovietica. Da quando l’Occidente ha assunto il controllo
dell’ex-URSS, dieci anni fa, l’economia di quel paese è andata allo sfascio.
Si tratta di una catastrofe demografica di enormi proporzioni. Milioni di
persone sono già morte e la povertà è abissale. L’intero edificio russo sta
crollando. Ma l’ex-Unione Sovietica non è una nazione del terzo Mondo; in
passato aveva un sistema militare molto avanzato. Si dice che possieda tuttora
circa 40.000 armi nucleari. I sistemi di comando e di controllo di queste si
stanno deteriorando, come tutto il resto del paese. In più, ci sono molti
scienziati nucleari esperti che non hanno niente da fare se non guidare un
taxi per sbarcare il lunario. È quindi molto probabile che queste armi
rispunteranno altrove nel mondo o, semplicemente, che esploderanno. I loro
sistemi di controllo non funzionano più.
L’amministrazione Clinton aveva sollecitato i
russi ad adottare una strategia di lancio ossia un sistema automatizzato che
attaccasse le armi nucleari senza alcun intervento nucleare. Questo è il
sistema che hanno gli USA. Gli americano volevano far accettare alla Russia i
suoi programmi di difesa missilistica basati sulla militarizzazione dello
spazio. Insomma, se i russi avessero adottato questo sistema, si sarebbero
sentiti più al sicuro. Di conseguenza che non si sarebbero più tanto
preoccupati della militarizzazione dello spazio.
Dal punto di vista della sopravvivenza, questa
è una strategia suicida. Cercare di convincere una nazione a adottare al
lancio automatizzato di missili, quando si sa benissimo che i suoi sistemi di
comando e di controllo si stanno deteriorando giorno dopo giorno, significa
cercare una guerra nucleare accidentale. Ci sarà qualche incidente, un guasto
del sistema, nessun intervento da parte dell’uomo e i missili esploderanno e
basta. E poi, naturalmente, sarà la fine, visto che gli USA reagiranno.
Di recente una commissione bipartitica del
Senato ha raccomandato che gli USA spendano miliardi di dollari in assistenza
ai russi per lo smantellamento del loro arsenale nucleare e per offrire
opportunità di un impiego in settori meno distruttivi ai molti scienziati
nucleari russi. L’amministrazione Clinton aveva un modesto programma di 800
milioni di dollari per questo fine, ma ora l’amministrazione Bush ha tagliato
queste risorse. Non ci vuole certo un genio per capire la grande pericolosità
di questa mossa. Ma cosa importa... la questione della nostra sopravvivenza
per i prossimi 10 o 20 anni non si pone neppure, così come non si è posta in
passato.
C’è un’altra sezione del documento Vision
for 2020 che vale la pena esaminare. Guardando al futuro, vi si dice che,
secondo le previsioni, la cosiddetta globalizzazione continuerà. Questo, a
detta degli autori del documento, porterà a un divario ancora più netto fra i
ricchi e i poveri, quindi anche a possibili tentativi di nuocere agli
interessi degli Stati Uniti. In altre parole, dobbiamo controllare i poveri
che vogliono fare qualcosa per smetterlo. Ma questo non lo pensano solo gli
autori del documento, questa è l’opinione standard. La comunità dei servizi
segreti statunitensi, compresi la CIA e il National Intelligence Council, ha
appena pubblicato uno studio di previsione per i prossimi 15 anni chiamato
Global Trends 2015, redatto in collaborazione con vari specialisti
universitari ed esponenti della comunità commerciale.
Lo studio presenta vari scenari possibili, di cui il più ottimista dei quali
consiste nel proseguimento della globalizzazione come da programma, anche se
questa evoluzione sarà tormentata, portando a “volatilità finanziaria cronica
e un divario economico crescente”.
E questo è lo scenario più ottimista.
Una maggiore volatilità finanziaria significa
una crescita più lenta. Anzi, il cosiddetto periodo di globalizzazione, gli
ultimi 20 o 25 anni, ha visto un notevole deterioramento nella quasi totalità
dei parametri standard di misurazione: tasso di crescita, tasso di aumento
della produttività, tasso di investimento del capitale e via dicendo. Tutti
questi parametri sono calati sia negli USA sia negli altri Paesi. Ma ora si
prevede un altro periodo simile, quindi anche lo scenario più ottimista indica
un rallentamento ulteriore della crescita per via della volatilità finanziaria
e l’accentuarsi della disuguaglianza, quello che il Comando Spaziale definisce
il “crescente divario fra i ricchi e i poveri”.
Questo dimostra eloquentemente la natura del
concetto di globalizzazione: i funzionari prevedono che la globalizzazione si
espanderà e che la disuguaglianza aumenterà. Ciò significa che la
globalizzazione nel senso tecnico del termine, ossia l’integrazione dei
mercati, calerà. Ma la globalizzazione, nel senso prevalente del termine,
ossia essenzialmente i diritti degli investitori, aumenterà. È proprio quanto
sta succedendo oggi. La disuguaglianza è aumentata molto rapidamente, mentre
la crescita economica è calata anche nel periodo di cosiddetta
globalizzazione, ossia gli ultimi 20 anni circa.
Se questo è il futuro, allora le previsioni
del Comando Spaziale sono plausibili. Vi saranno certo più minacce per gli
interessi degli USA in altri Paesi, quelli poveri. Secondo i calcoli della
comunità dei servizi segreti per l’emisfero occidentale, i produttori di
petrolio, Venezuela, Brasile e Messico, possono aspettarsi un futuro roseo. Ma
il resto dell’emisfero verserà in pessime condizioni e la regione andina
potrebbe diventare un disastro totale, il che significa più minacce per gli
interessi degli Stati Uniti, o per meglio dire per i loro interessi economici
in paesi che sono sull’orlo del collasso. Allora serve più militarizzazione, e
infatti le forze USA in America Latina sono aumentate notevolmente.
Queste sono le previsioni più ottimiste. Hanno
una loro logica e le possiamo capire. Ci danno anche un’idea del programma che
gli USA hanno in serbo per il mondo.
Ma niente di ciò che ho fin qui esposto è
irreversibile. In tutto il mondo c’è una forte opposizione. Ma per far
cambiare rotta agli Stati Uniti sarà necessaria una grande mobilitazione
popolare.
Edward. W. Said
Chiamano tutta la resistenza “terrorismo”
Edward. W. Said
è professore di inglese e
letteratura comparata alla Columbia University. Attivista dei diritti dei
palestinesi, ha scritto molti saggi sul tema. Fra quelli pubblicati in lingua
italiana ricordiamo
La questione palestinese
(Gamberetti editori, Roma, 2001),
Orientalismo
(Feltrinelli, Milano, 1999). Quest’ultimo editore, sempre nel 1999, ha
pubblicato la autobiografia di Said:
Sempre nel posto
sbagliato.
L’intervista è stata
realizzata da David Barsamian, direttore di Radio Alternative.
Questa intervista è stata realizzata nell’estate del 2001, prima degli
attentati dell’11 settembre e la guerra perpetrata da una vasta alleanza
imperialista contro l’Afghanistan. Tuttavia la pubblichiamo ugualmente essendo
comunque interessante per comprendere la situazione in Medio Oriente.
Robert Fisk, il corrispondente dal Medio
Oriente dell’ Indipendent
commenta che “l’ignoranza sul Medio Oriente è così ben radicata negli USA che
solo un piccolo gruppo di giornali riporta qualcosa altro che non sia il punto
di vista d’Israele”.[33]
Ho fatto un’analisi, una cosa fatta in casa,
dei maggiori giornali di Los Angeles, New York, Chicago, Atlanta, e Boston. I
loro reportages sono sempre da Israele, cioè questi giornali hanno
corrispondenti da Gerusalemme (che è Israele in quanto annessa) o da Tel Aviv.
Hanno ben pochi corrispondenti dal mondo arabo che li informino del punto di
vista palestinese. In secondo luogo, fanno il resoconto sulla base di agenzie
che gli sono inviate dalle loro stesse redazioni centrali e i reportages
vengono modificati per riflettere la stessa linea.
Il mantra è la violenza palestinese e
l’insicurezza d’Israele. È sempre stato questo il filo conduttore anche nei
resoconti di avvenimenti in cui centinaia di palestinesi venivano uccisi,
migliaia mutilati e feriti mentre allo steso tempo si ignoravano i rapporti di
Amnesty International, dell’Human Rights Watch, dei dipartimenti delle Nazioni
Unite, dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati. Potrei portarti una
dozzina di esempi tutti facilmente verificabili.
Nessuno di questi fatti ha trovato spazio sui
maggiori giornali, e certamente non in programmi televisivi cosiddetti
“virtuosi” come "NewsHour" su PBS. Anche le stazioni radio pubbliche erano
tutte, in linea di massima, sulla stessa lunghezza d’onda – e ciò mi ha fatto
comprendere che tutte le lettere alle redazioni o le campagne via e-mail che
inondano le redazioni sono orchestrazioni messe in piedi dagli uffici di
pubbliche relazioni, impegnati a far sì che l’attenzione resti focalizzata su
Israele.
C’è un minuscolo gruppo di persone che sta
scrivendo articoli critici sull’Orlando Sentinel, il Seattle
Post-Intelligencer, la rivista Z, il Des Maims Register, e
l’Hartford Courant. Li puoi trovare qua e là. Ma sono pochi e non
raggiungono il pubblico delle grandi testate.
Il terrorismo focalizza l’attenzione dei
media americani. Il Dipartimento di Stato ha recentemente pubblicato il suo
rapporto annuale. Con la solita litania sugli Stati terroristi, tutti tra
l’altro a maggioranza musulmana: Afghanistan, Pakistan, Iran, Iraq, Libia,
Sudan e Siria. “Il terrorismo è una malattia persistente” ha detto Colin
Powell nel presentare il rapporto.[34]
A quale esigenza geopolitica vuole dar voce questa ossessione sul terrorismo?
Prima di tutto questa inesorabile caccia ai
terroristi è dal mio punto di vista, criminale. Da la possibilità agli Stati
Uniti di fare ciò che vogliono nel mondo. Prendi per esempio il bombardamento
del 1998 in Sudan.Fu ordinato in primo luogo perché allora Bill Clinton aveva
il problema di Monica Lewinsky. Si avanzò la scusa inconsistente che era stata
bombardata una “fabbrica del terrore”, ma poi venne fuori che si trattava di
uno stabilimento farmaceutico che produceva metà delle medicine di un paese,
il quale poche settimane dopo fu colpito da una pestilenza Centinaia di
persone morirono perché non avevano medicine.
Il terrorismo è diventato una sorta di schermo
protettivo creato dopo la fine della Guerra Fredda dagli ispiratori della
politica di Washington, gente come Samuel Huntington e Steven Emerson, che
devono in qualche modo guadagnarsi da mangiare. Lo scopo è quello di impaurire
la gente, renderla insicura e giustificare la necessità USA di agire
globalmente.
Qualsiasi minaccia ai loro interessi, si
tratti di petrolio nel Medio Oriente o di equilibri geostrategici in qualche
altro luogo, è etichettata come terroristica. Israele, ha fatto esattamente
così, a partire dalla metà degli anni ’70 in risposta alla resistenza
palestinese.
È interessante notare come la storia del
terrorismo sia legata dalle politiche imperialistiche. I francesi usavano la
parola “terrorismo” per indicare qualunque cosa che gli algerini facessero per
resistere alla loro occupazione, che iniziò nel 1830 e non finì che nel 1962.
I britannici giocarono questa carta a Burma e in Malesia. “Terrorismo” è ogni
cosa che impedisce loro di fare quello che vogliono. Da quando gli USA sono
una superpotenza globale che ha, o pretende di avere, interessi ovunque –
dalla Cina all’Europa dall’Africa del Sud all’America Latina - il terrorismo
diventa un pratico strumento per perpetuare questa prassi.
Anche la resistenza alla globalizzazione ora è
definita terrorista. Qualcuno ha già fatto questo tipo di collegamento, per
esempio, Arundhati Roy che ha bollato come “terrorismo”, tutti i movimenti
popolari di resistenza contro la povertà, la disoccupazione e la distruzione
delle risorse naturali.
In questo circolo vizioso si alimentano gruppi
come quello di Bin Laden e degli uomini ai suoi ordini, siano essi in Arabia
Saudita, Yemen o altrove.
Gli americani ne
ingigantiscono la forza e li gonfiano fino a proporzioni insensate, che non
hanno nulla a che vedere con la realtà. Questa focalizzazione tende a oscurare
gli enormi danni ecologici, militari, economici prodotti dagli USA su scala
mondiale, al cui confronto le conseguenze del terrorismo sono insignificanti.
Infine, si parla molto poco del terrorismo
interno, delle milizie e dei gruppi armati all’interno del paese, o di Timothy
McVeigh. Ricordo molto bene che, dopo l’esplosione dell’edificio federale a
Oklahoma City, il mio ufficio fu inondato di telefonate perché Steven Emerson,
proclamato istantaneamente esperto di terrorismo, affermava che
quell’attentato era di chiara matrice mediorientale.
Queste presunte connessioni hanno
profondamente danneggiato la gente di origine araba o musulmana.
Durante la campagna elettorale del 2000
qualsiasi cosa che avesse a che fare con l’islam o i musulmani fu utilizzata
per screditare i propri oppositori. Hillary Clinton rispedì al mittente un
contributo di 50.000 dollari della Muslim Alliance, un gruppo molto
convenzionale, abbastanza neutrale dal punto di vista politico, perché disse
che quei soldi puzzavano di terrorismo. Questo tipo di etichette possono
creare fenomeni xenofobi che possono coivolgere non solo gli afroamericani e i
latinoamericani ma anche gli arabi americani.
È interessante segnalare che il rapporto del
Dipartimento di Stato, da te citato pone il mondo islamico solo al numero 10
di questa lista.[35]
La più grande sorgente di terrorismo sono gli Stati Uniti stessi e alcuni
paesi dell’America Latina, e non i musulmani. Ma questi rapporti sono
utilizzati, e manipolati sia dalla lobby israeliana sia dallo stesso
Dipartimento di Stato, per sostenere la propria linea politica e intimidire la
gente.
La linea delle
sanzioni verso l’Iraq portata avanti da USA e Gran Bretagna sta franando. Qual
è il tuo giudizio?
Penso che abbiano fallito. Il primo obiettivo
delle sanzioni era di abbattere Saddam Hussein, ma questi si è dimostrato più
forte. In secondo luogo, la popolazione civile irachena ha avuto enormi
perdite, roba da genocidio, e questo grazie agli USA e alla Gran Bretagna. Da
quando sono state imposte le sanzioni 60 mila bambini sono morti ogni anno. E
innumerevoli sono quelli affetti da cancro o da altre malattie. L’embargo ha
portato a un impoverimento dell’intera popolazione. Due commissioni ONU del
programma “petrolio in cambio di alimenti” si sono dimesse per l’inumanità
delle sanzioni.
Inoltre l’Iraq, al contrario di quanto pensano
gli ispiratori della politica americana, non si libra nel vuoto. Si trova non
distante dall’Egitto, uno dei paesi arabi più importanti. La sua economia è
stata storicamente sempre legata ai suoi vicini, in particolare alla
Giordania. Ora sta avvenendo che i giordani si riforniscono di petrolio
iracheno pagandolo il 50% del prezzo [del mercato mondiale], e comunque, in
generale, commerciano con l’Irak. Ci sono altri tipi di collegamenti organici
tra l’Iraq e i suoi vicini, compresi alcuni paesi del Golfo. Le sanzioni di
fatto non hanno la possibilità di continuare a funzionare, così per com’erano
stato progettate.
Colin Powell ha dovuto perciò recarsi in Medio
Oriente lo scorso febbraio, per patrocinare qualcosa che ha denominato
“sanzioni dure”. Mi domando come facciano gli USA a pensare che qualcuno, vada
contro i propri interessi. È impossibile. Si tratterebbe di una politica
totalmente futile e dannosa.
C’è però dell’ironia in tutto ciò. Il potere e
la ricchezza degli Stati Uniti è tale che la maggioranza dei cittadini
americani non è cosciente del danno che essi hanno causato, dell’odio che è
venuto accumulandosi contro di loro in tutto il Medio Oriente e nel mondo
islamico. Si trastullano solo con i vari metodi per continuare a garantire il
dominio di politicanti e di pochi individui, i cui interessi sono legati a una
politica ridicola ed inumana.
Uno dei paesi che ha
sospeso le sanzioni e le cui compagnie aree hanno ripreso i voli per Baghdad è
la Turchia. Dalle basi americane presenti in questo Paese, partono gli
attacchi contro l’Iraq, e l’esercito turco ha invaso più volte il nord
dell’Iraq per dare la caccia ai partigiani curdi.
La Turchia è foraggiata dagli USA nella sua
guerra contro i curdi. Quanto subito dagli albanesi del Kosovo, se lo
compariamo a quanto avviene in Kurdistan, era roba da ragazzini. La Turchia, è
una cosa da non dimenticare, è un’alleata molto stretta d’Israele, tanto da
svolgere manovre militari in comune. C’è un’alleanza militare con gli USA e
con Israele, ma malgrado ciò gli interessi commerciali e regionali prevalgono;
così ora la Turchia commercia con l’Iraq e ne compra il petrolio, il suo
secondo più importante fornitore nella regione.
Pensi che l’alleanza economica e militare
d’Israele con la Turchia sia parte di una più ampia strategia per accerchiare
gli arabi?
No perché anche l’Egitto fa parte
dell’alleanza. Non è un accerchiamento degli arabi. È un accerchiamento di
quelli che sono ritenuti essere gli Stati più intransigenti, come Siria, Iraq
e Iran. L’accerchiamento non è diretto contro gli arabi ma piuttosto contro
quegli Stati che si sono dimostrati troppo antisraeliani e troppo indulgenti
verso i palestinesi. Ma è una strategia senza senso, irrazionale. Alla fine,
queste sono politiche che non possono durare. È come per Syng-man Rhee in
Corea del Sud, o Ky e Thieu in Vietnam. I responsabili della politica
americana sono impenitenti. Ripetono gli stessi errori, con gli stessi costi
umani, economici e politici. Si ostinano in questa politica perché la loro
educazione e le loro prospettive sono sempre le stesse, tramandate di
generazione in generazione.
Il Premio Nobel e attuale ministro degli
Esteri Shimon Peres ha recentemente concesso un’intervista alla stampa turca
negando il genocidio armeno[36].
Anche qui le politiche di Turchia e Israele
sono molto simili. Entrambi questi Stati hanno interesse a nascondere ciò che
il governo turco fece in Armenia all’inizio del Novecento, perché si vogliono
riservare la possibilità di agire ancora in questo modo. Ti faccio un esempio.
Nel 1983 si registrò un programma alla radio di Stato israeliana in cui si
cercava di capire che cosa fosse successo agli armeni, ma ne fu impedita la
messa in onda semplicemente perché si utilizzavano i termini “olocausto” e
“genocidio”, che Israele riserva solo agli ebrei. Questo tipo di politica è
perpetuata dall’atteggiamento di Shimon Peres che, invece di provare a
riconoscere e comprendere cosa possa succedere a un popolo, le tragedie del
Ruanda, dell’Armenia o della Bosnia, affinché non si ripetano mai più, chiude
stupidamente gli occhi. Si vuole organizzare la memoria in modo tale da
focalizzarla esclusivamente su certi gruppi, lasciando da parte altri che
hanno subîto la stessa tragica sorte.
Hai parlato in molte occasioni del
diritto al “ritorno”. Vedi fare qualche passo avanti sulla strada del
riconoscimento di tale diritto?
Io penso che nella coscienza della gente esista un diritto a tornare. Non per
forza in Palestina. La gente non può essere mandata via dalle proprie case o
anche scegliere di abbandonarle, senza avere il diritto a tornare. Questo come
principio generale. Questo diritto fu escluso dal processo di pace di Oslo,
benché i palestinesi costituiscano oggi la più grande comunità di rifugiati
dalla Seconda Guerra Mondiale.
Il diritto al ritorno potrebbe anche servire a
focalizzare l’attenzione sulla situazione dei palestinesi che si trovano nei
Paesi arabi, in Siria e altrove, dove non sono regolarizzati e non gli vengono
assicurati i diritti di residenza, lavoro e spostamento. Non è solo in
Israele, malgrado lì avvenga ai massimi livelli, che i palestinesi vengono
trattati duramente.
Penso a un più ampio movimento che attiri
l’attenzione sul diritto agli immigrati a restare nei paesi che hanno potuto
raggiungere. Se non hanno la possibilità per ragioni politiche o fisiche di
tornare nel proprio paese, gli sia dato almeno il diritto di risiedere dove
già vivono. È un fenomeno mondiale che m’interessa profondamente.
Viviamo in un periodo di migrazioni, di viaggi
e residenze forzate, che hanno letteralmente inghiottito il globo. Ciò ha
prodotto tutta una serie di leggi reazionarie sull’immigrazione, non solo in
Israele, motivate da un qualche mito di purezza della razza dei cittadini di
quei paesi, ma in paesi come l’Italia, la Svezia, la Gran Bretagna e gli USA,
che consentono di respingere questa povera gente, questa razza inferiore di
uomini – principalmente asiatici e africani – che cercano rifugio.
Il principio è lo stesso, sia quando è
impedito il ritorno alle proprie case in Palestina o la costruzione di una
nuova casa in Libano, USA o Svezia, perché si è considerati stranieri o
allogeni. L’intera concezione dello straniero, dell’allogeno e del nativo deve
essere ripensata per includere il destino di quella gente i cui avi furono
sterminati di chi, una volta arrivato in una certa terra, prese a colonizzarla
con la forza come è il caso di Israele e degli Stati Uniti. È un fenomeno di
grande portata che deve essere urgentemente ripensato in modo tale, spero, da
consentire il “diritto al ritorno” dei palestinesi possa essere posto
all’attenzione generale in tutta la sua drammaticità.
Seconda parte
GLOBALIZZAZIONE E IMPERIALISMO
Paul
D’Amato
Gli Stati contano ancora nell’ èra della
globalizzazione?
Paul D’Amato
è vice direttore della
International Socialist Review e cura la
rubrica del settimanale Socialist Worker (USA) “The meaning of
marxism”.
Ci sono due punti di vista sulla
globalizzazione nel movimento per la “giustizia globale” che sono accettati
supinamente. Il primo afferma che l’integrazione economica globale avrebbe
creato un mondo crescentemente dominato da Corporations Transnazionali non
legate a nessun Stato (di seguito CTnS), gli Stati avrebbero perso vieppiù
potere, o addirittura sarebbero diventati irrilevanti nella misura in cui la
globalizzazione implacabilmente segue il suo corso.[37]
Il secondo di questi punti di vista sostiene che la globalizzazione
rappresenterebbe un orientamento economico portato avanti dalle maggiori
potenze mondiali – da quelle più importanti come gli USA, l’Unione Europea e
il Giappone – volto a scardinare i mercati a vantaggio delle merci e degli
investimenti delle proprie “home-based” corporations multinazionali. Questi
due punti di vista sono contraddittori.
In linea di tendenza, è difficile non
concordare con la prima interpretazione. Il commercio mondiale è cresciuto
drammaticamente negli ultimi decenni. Mentre le esportazioni mondiali erano di
16.000 miliardi di dollari nel 1985, nel 1998 hanno raggiunto i 54.000
miliardi di dollari. Gli investimenti stranieri diretti (ISD) sono cresciuti
da 209.000 miliardi di dollari del 1990 ai 1.118.000 di miliardi di dieci anni
dopo (molti dei quali erano fusioni sovranazionali). Una sbalorditiva cifra di
15.000 miliardi di dollari, già nel 1998, cambiavano di mano ogni giorno negli
scambi internazionali.[38]
Il commercio mondiale e gli investimenti sono dominati da 63.000 CTnS con
circa 690.000 filiali all’estero. Le prime cento di queste, con l’eccezione
della Compagnia Petrolifera di Stato del Venezuela, hanno sede nei paesi
economicamente più avanzati: USA, Giappone ed Europa. Esse hanno 6 milioni di
dipendenti in tutto il mondo, patrimoni per 2000 miliardi di dollari e vendite
all’estero dell’ordine di altri 2000 miliardi di dollari.[39]
La tendenza verso politiche neoliberiste che
si è fatta strada nella maggioranza dei paesi dai primi anni ’80 in avanti –
privatizzazione delle imprese e dei servizi di proprietà statale, deregulation
dei mercati, abbassamento delle barriere commerciali, taglio dei servizi
sociali e liberalizzazione dei controlli finanziari e degli investimenti –
hanno indebolito la capacità di regolazione dei governi e rafforzato la
capacità delle CTnS di penetrare i mercati mondiali e di dominarli.
Per quanto interessante, tuttavia,
quest’analisi è unilaterale. Il dominio delle corporations non sostituisce la
lotta tra gli Stati. Le corporations transnazionali non possono fare a meno
del ruolo che lo Stato ha giocato per il capitale nel passato come garante
dell’ordine all’interno, e della forza, all’esterno.
Gli USA sono la più grande potenza militare
del mondo.Questa ha l’obbiettivo di perpetuare il dominio americano e di
accrescerne il peso economico nell’economia mondiale. Tutto ciò non è solo una
sopravvivenza del passato, che sarebbe stata spazzata via con il procedere
della globalizzazione, ma al contrario quest’ultima non può essere compresa
senza cogliere l’importanza dell’imperialismo, il peso delle rivalità tra gli
Stati più potenti.
Intervenendo in un dibattito sull’oppressione
nazionale, il rivoluzionario russo Lenin, coglieva due tendenze all’interno
del capitalismo: da una parte “il ridestarsi di una vita e di movimenti
nazionali [...] la creazione di stati nazionali” e dall’altra, “sviluppo ed
intensificazione di ogni specie di rapporti tra le nazioni” e della
“distruzione delle barriere nazionali”.[40]
Queste due tendenze contraddittorie – verso
l’internazionalizzazione del capitalismo, l’integrazione più completa e
l’interdipendenza, da una parte, e verso la crescita e il consolidamento degli
Stati nazionali dall’altra - sono state le caratteristiche fondamentali del
capitalismo lungo tutta la sua storia. L’equilibrio tra queste due tendenze e
il modo in cui si esprimono tali contraddizioni è cambiato. Ma la
contraddizione resta anche oggi nel cuore del capitalismo mondiale.
I moderni Stati-nazione furono necessari in
quanto mezzi per la creazione di un singolo mercato unificato che avrebbe
facilitato il commercio. Ma lo Stato ebbe anche un ruolo cruciale nel
provvedere alle infrastrutture e qualche volta fu il magnete di capitali
necessari ai capitalisti nazionali per operare e competere effettivamente.
Ma lo Stato come istituzione burocratica ha
un’altra, più importante, funzione. Lenin, citando Engels, definisce l’essenza
dello Stato come “corpi di uomini armati, prigioni, ecc.” in breve uno
strumento per il mantenimento del dominio della minoranza sfruttatrice sulla
maggioranza sfruttata.
Quando il capitalismo supera i confini dello
Stato-nazione, la funzione coercitiva militare dello Stato assume una nuova
dimensione, quella di proteggere (e promuovere) gli interessi dei capitalisti
di un paese verso l’esterno. Nella misura in cui il capitalismo si sviluppa,
cresce il ruolo dello Stato, crescono le dimensioni della burocrazia statale e
crescono anche le dimensioni del suo apparato coercitivo.
Lenin presto affinò questo punto di vista alla
luce dell’inabissamento del mondo nel mattatoio di massa della Prima Guerra
mondiale. Egli affermò che il capitalismo aveva raggiunto un nuovo stadio:
l’imperialismo cioè la lotta delle “grandi potenze” per il dominio mondiale.
La caratteristica centrale dell’imperialismo era la rivalità tra le grandi
potenze, la cui competizione economica apriva la strada a conflitti militari.
Un altro rivoluzionario russo, Lev Trotsky,
pose la questione in questi termini:
le forze produttive che il capitalismo ha
sviluppato hanno superato i limiti delle nazioni e degli Stati. Lo Stato
nazionale, forma politica attuale, è troppo angusto per l’utilizzo di tali
forze. La tendenza naturale del nostro sistema economico quindi è quella di
cercare di smantellare i confini statali. L’intero globo, sia in terra sia in
mare, tanto in superficie che in profondità è diventato un’officina economica,
le cui diverse parti sono inseparabilmente connesse le une con le altre.
Questo lavoro è stato realizzato dal capitalismo. Ma nel portarlo a termine
gli stati capitalisti furono portati a lottare per sottomettere il sistema
economico mondiale, che abbraccia tutto il mondo, agli interessi del profitto
della borghesia di ogni paese [...]
Ma il modo in cui i governi propongono di
risolvere il problema dell’imperialismo non è granché intelligente:
organizzare la cooperazione di tutta l’umanità produttrice ma per mezzo dello
sfruttamento del sistema economico mondiale da parte della classe capitalista
del paese vincitore, di quel paese che attraverso questa guerra è stato
trasformato da grande potenza a potenza mondiale.[41]
Un altro
contemporaneo di Lenin, Nikolaj Bucharin, sottolineava come la contraddizione
tra internazionalizzazione del capitalismo e Stato-nazione fosse il prodotto
della fusione tra Stato e capitale. Tanto più le corporations diventavano
potenti e centralizzate e tanto più tendevano a fondersi con lo Stato, a
creare quello che egli chiamava lo “Stato capitalista dei trusts”. La tendenza
fu accelerata da una crescente centralizzazione del sistema in quanto ogni
Stato usava il suo controllo su una particolare zona nazionale per far
convergere le risorse di capitale necessarie a sviluppare, proteggere e
progettare le proprie industrie entro i confini nazionali e all’estero. La
guerra accelera il processo di fusione tra lo Stato e il capitale, in quanto
lo Stato dispone delle sue risorse per la guerra.
Bucharin tendeva a far diventare un fatto
compiuto quella che era solo una tendenza. Ma egli coglieva con acutezza la
tendenza verso il capitalismo di Stato nell’economia mondiale del tempo. Il
processo raggiungerà il suo zenit negli anni ’30 quando lo Stato russo
completamente nazionalizzato troverà un alter ego in Occidente nello Stato che
controlla autarchicamente un’economia bellica (il fenomeno più pronunciato si
ebbe nella Germania nazista) e in una generale ritirata delle principali
potenze dietro alte barriere tariffarie.
I vincitori della Seconda Guerra mondiale
costruirono una organizzazione economica che incoraggiava sia il commercio sia
il coinvolgimento dello Stato nell’economia. Al pari della Gran Bretagna nel
XIX secolo, gli USA emersero come la più grande superpotenza che controllava
più della metà della produzione mondiale. Favorirono il libero mercato, come
aveva fatto l’impero britannico prima di loro, perché consideravano questa la
miglior politica per assicurare la penetrazione dei capitali americani nel
mercato mondiale.
Ma l’intervento governativo era ora diventato
un mezzo per prevenire la crisi, aumentare i tassi di occupazione, e favorire
lo sviluppo economico. Negli Stati Uniti l’intervento statale prese la forma
del keynesismo militare, con le sue massicce spese belliche. Infatti fu
“l’economia di armamento permanente”[42]
ad assicurare il lungo boom postbellico.
Il secondo dopoguerra vide anche la
proliferazione di nuovi Stati indipendenti che cercavano di sviluppare le
proprie economie dopo decenni di dominio coloniale. Piccole e sottosviluppate,
molte di queste guardavano all’URSS come a un modello di sviluppo. Come ha
scritto Pete Binns, “più è debole la classe capitalista autoctona e più è
grande la pressione per fondere e centralizzare le risorse sotto l’egida dello
Stato”[43].
Ma questo trend verso l’interventismo statale non era basato su una fiducia
nei confronti del socialismo (confusamente identificato con la proprietà
statale); era semplicemente l’espressione del fatto che i Paesi meno
sviluppati, molti dei quali impossibilitati a attirare investimenti stranieri,
pensavano di essere incapaci di concentrare i capitali necessari per competere
sul mercato mondiale senza un intervento diretto dello Stato. Ci fu, scrive
Binns, “in quel periodo la stessa spinta verso la statizzazione, sia nei
governi di sinistra (come in Algeria o in Egitto) che in quelli di destra
(come in Brasile o in Argentina). Ciò mise in grado l’economia mondiale del
lungo boom, di darsi una chiara e precisa traiettoria.[44]
Questa strategia sembrò applicabile finché l’economia mondiale continuò la sua
forte espansione.
Il carattere dell’imperialismo cambiò nel
periodo postbellico, ma non nella sua essenza. Invece di un mondo suddiviso in
molti centri mondiali – Gran Bretagna, Germania, USA - la rivalità imperiale
prese la forma della guerra fredda tra USA e URSS. L’esistenza di armi
nucleari capaci di distruggere il Pianeta fece sì che molti dei conflitti non
assumessero la forma di scontri direttamente militari tra USA e URSS ma di
conflitti più limitati nella periferia del sistema.
All’interno dell’intesa postbellica, invece,
presero piede cambiamenti molecolari. Sotto l’ombrello militare statunitense,
il Giappone e l’Europa diventarono delle grandi potenze economiche, riducendo
lentamente il peso economico degli USA nell’economia mondiale. Mentre lo
sviluppo ineguale del mercato mondiale fece sì che il commercio e gli
investimenti diventassero massicciamente concentrati nei paesi avanzati, un
pugno di nuove nazioni, conosciute come Paesi di Nuova Industrializzazione –
in particolare Sud Corea, Malesia, Singapore e Hong Kong – furono in grado di
raggiungere alti tassi di crescita e di inserirsi [nella competizione] con
successo come nuovi protagonisti globali.
In secondo luogo, l’URSS, che aveva
un’economia molto più debole di quella degli USA, fu costretta a consumare
risorse sempre più consistenti nella competizione con gli USA, mentre gli
impressionanti tassi di crescita degli anni ’50 e ’60 cominciarono a
rallentare e, negli anni ’80, finirono per segnare il passo. La crisi colpì il
cuore del sistema mondiale negli anni ’70, mettendo fine al lungo boom e al
sistema di Bretton Woods, che agganciava le valute mondiali al dollaro. I
cicli di boom e di crisi del periodo prebellico stavano tornando.
La crescita colossale del commercio mondiale
in quel periodo, insieme con la crescita concomitante della interdipendenza
economica tra i diversi comparti dell’economia mondiale, minò in modo
crescente la capacità dei singoli governi di usare l’intervento statale e il
protezionismo per sviluppare il proprio mercato nazionale. “La tendenza
dell’economia mondiale verso l’incorporazione di tutte le economie nazionali
in una singola divisione mondiale del lavoro” scrive Binns, “divenne qualcosa
cui era sempre più difficile resistere, qualunque fosse l’ideologia ufficiale
alla quale i governi facevano riferimento...”.[45]
Il boom prolungato, alla metà degli anni’70,
fece posto a una crisi mondiale resa più cruenta dal forte rincaro dei prezzi
del petrolio. Daniel Singer descrive la risposta delle classi dirigenti alla
crisi così:
Posto di fronte a un rallentamento della crescita, a
un declino dei tassi di produttività, a una caduta tendenziale dei saggi di
profitto e aggravata da un aumento del prezzo del greggio, il sistema finì per
abbandonare il suo compromesso provvisorio e il contratto sociale per
ristabilire le vecchie leggi della giungla capitalista... gli anni ’80 furono
gli anni dell’offensiva a tutto campo.
Come al solito quella offensiva fu prima
preparata e poi rafforzata da una campagna ideologica... la propaganda di
massa rinvigorì i vecchi cliché sulla fragilità del pubblico e sul valore
intrinseco del privato, della “libera” impresa o del perfetto buon senso dei
mercati guidati da una benevolente “mano invisibile”. La propaganda fu
strettamente legata alla pratica.[46]
Come segnala Singer, il processo che ora
vediamo in corso e che viene definito “globalizzazione” incominciò negli anni
’70 e accelerò nei due decenni successivi come uno strumento per rilanciare i
profitti alle spalle della classe operaia e dei poveri. L’America Latina fu
uno dei primi terreni per testare questo nuovo approccio neoliberale – prima
in Cile dopo il golpe militare del 1973 sostenuto dalla CIA – poi applicato
dappertutto. I responsabili della politica USA colsero l’opportunità che si
presentava loro con la crisi del debito per imporre termini e condizioni ai
Paesi indebitati designati a aprire i loro mercati agli investitori. Il fatto
che queste politiche siano ora conosciute con il nome di “Washington
Consensus” dovrebbe fornire qualche indicazione su come le politiche di
riaggiustamento strutturale siano state imposte. Come ha scritto Ducan Green:
I più potenti interessi nel Nord hanno prodotto
ricche ricompense dovute agli aggiustamenti strutturali che aprono le economie
del Sud agli investitori e ai commercianti del Primo Mondo. Nelle gigantesche
privatizzazioni degli ultimi anni ’80 e dei primi anni ’90 le corporations
transnazionali americane ed europee furono in grado di impadronirsi al volo
delle migliori compagnie aeree e di telecomunicazioni latino americane e di
entrare anche nel settore petrolifero.[47]
Si tentò di
utilizzare anche la crisi dei mercati asiatici emergenti per scardinarli.
Walden Bello ha descritto così questo processo:
Usando il FMI come una
testa d’ariete per la liberalizzazione del commercio e degli investimenti nei
settori finanziari e industriali, gli interessi finanziari e industriali USA
transnazionali hanno guidato le acquisizioni dei patrimoni finanziari e
industriali da Seul a Bangkok...
In altre parole, molte delle strutture
finanziarie e industriali messe in piedi in oltre una generazione da
imprenditori asiatici stanno passando alle compagni transnazionali del Nord a
prezzi stracciati. E, in molti casi, l’obbiettivo del compratore non è quello
di aumentare la capacità produttiva ma semplicemente di spogliare queste
aziende dei loro patrimoni o di ridurne la capacità, in linea con un piano di
produzione globale per aumentare la profittabilità e eliminare le scorte per
far fronte alla domanda globale stagnante.[48]
Le politiche
associate con la globalizzazione (ribattezzate Washington Consensus), di cui
gli USA in primo luogo sono i campioni, sono prima di tutto assunte come
iniziative statali. Ma l’importanza dello Stato nel funzionamento del
capitalismo va ben oltre.
C’è del vero nell’idea che gli Stati non
abbiano il reale controllo sull’economia e che la crescente integrazione
dell’economia mondiale renda sempre più futili i loro sforzi volti a
controllare il territorio nazionale. Ma si può dire lo stesso anche per le
corporations. Ciò avviene perché il capitalismo è un sistema anarchico nel
quale la produzione su scala mondiale non è pianificata e coordinata. È per
questo che il capitalismo conosce la piaga, a intervalli più o meno regolari,
di crisi di sovrapproduzione: sia il capitale privato sia gli Stati da cui
dipende sono incapaci, in ultima analisi, di prevenire le crisi. Il flusso
irregolare e senza precedenti di transazioni finanziarie oltre frontiera ha,
come dimostra la débâcle asiatica del 1998, aumentato la volatilità del
sistema.
D’altro canto, sarebbe sbagliato affermare che
gli Stati non hanno alcun impatto sull’economia nazionale o su quella
mondiale. Lo Stato ha i mezzi per intervenire, attraverso la manipolazione dei
tassi d’interesse e l’offerta di moneta; e in quanto “prestatore in ultima
istanza”, in alcuni casi può essere decisivo. Il chairman della Banca
Federale degli USA Alan Greenspain, per fare degli esempi, ha organizzato il
salvataggio della Long Term Capital Managment nel 1998 e, avvertendo la
possibilità di un disastro negli USA sul tipo di quello asiatico, ha immesso
una grande massa di moneta e abbassato i tassi d’interesse. Inoltre i cento
miliardi e più di dollari per il salvataggio dei paesi asiatici non provengono
da capitalisti privati, che stavano cercando il modo di salvare i loro
investimenti. Sono di provenienza FMI, e i fondi del FMI vengono a loro volta
dalle casse dei Paesi membri, in primo luogo USA e Europa.
L’ironia è che più grandi e più concentrate
diventano le imprese capitalistiche, e più lo Stato deve essere pronto a
intervenire di fronte a qualsiasi segno di vacillamento. Una funzione
importante della crisi capitalistica è quella di condurre alcuni business al
fallimento e altri a rimettere insieme i cocci per rilanciare poi il processo
di crescita. Ma le banche e le aziende manifatturiere sono così grandi oggi da
rendere reale il rischio che la crisi, e lasciata a se stessa, possa diventare
troppo devastante. Quindi lo Stato ha attualmente un ruolo assolutamente
cruciale nel fare da baluardo al collasso economico. Così, mentre il ruolo
dello Stato come proprietario di capitale, (con alcune importanti eccezioni,
come l’industria petrolifera del Messico e del Venezuela) si è ridotto, il suo
ruolo economico, da altri punti di vista, è divenuto più importante.
Harry Shut ha commentato così:
Essendoci una spinta senza precedenti a
allontanarsi dalla proprietà statale in favore dei settori privati e a una
deregulation estensiva dei mercati finanziari internazionali, i governi di
tutti i paesi industrializzati hanno raddoppiato la tendenza a usare le
entrate fiscali per sostenere le imprese private (attraverso tagli delle
tasse, sussidi, prestiti garantiti e altri mezzi, ecc.)...[49]
Lasciamo perdere tutte le chiacchiere sul
ruolo declinante dello Stato: le uscite dello Stato in relazione al PIL sono
drammaticamente cresciute durante l’ultimo quarto di secolo. Il rapporto della
Banca Mondiale del 1997 sullo sviluppo economico del mondo mostra che nei
paesi industrialmente avanzati le spese dello Stato sono cresciute
enormemente: nel 1960 erano poco sotto il 20% mentre nel 1995 avevano quasi
raggiunto il 50%.[50]
Le argomentazioni secondo cui le corporations
potrebbero fare a meno dello Stato, e in particolare dello Stato nazionale in
cui hanno le loro sedi principali, non regge. In generale, possiamo dire che
le corporations transnazionali non hanno bisogno dello Stato solo per
garantire la pace sociale (corpi di uomini armati, prigioni, ecc.), dipendono
da esso anche per i fondi per finanziare la ricerca e lo sviluppo, per i
sussidi, per accrescere la propria competitività sui mercati e per una serie
di altri “servizi” (che la critica potrebbe chiamare welfare delle
corporations) cui lo Stato provvede, inclusa, come abbiamo già visto, la sua
capacità di intervenire per salvare le corporations che entrano in crisi. Due
analisti dell’economia globale hanno concluso che:
Delle cento aziende più grandi al mondo nessuna
è realmente “globale”, “senza frontiere”, “libera”. Esiste comunque una
gerarchia nell’internazionalizzazione delle aree funzionali del management:
circa 40 aziende vendono almeno metà della loro produzione all’estero, meno di
20 mantengono almeno metà delle loro strutture all’estero; ma, con pochissime
eccezioni, gli esecutive boards restano strettamente nazionali nella
loro prospettiva; con ancora meno eccezioni i dipartimenti della Ricerca &
Sviluppo rimangono solidamente sotto il controllo nazionale; e la maggioranza
delle compagnie pensa a una globalizzazione delle finanze dell’azienda con
incertezza.[51]
Anche oggi, dopo un’ondata di fusioni
internazionali, la maggioranza delle corporations, a parte poche eccezioni,
tendono a operare a partire dal proprio Paese di origine. Secondo il
Financial Times, gran parte di queste fusioni si sono concluse con
l’acquisizione di un’azienda da parte di una di un’altra. L’ultra annunciata
fusione di Chrysler e Daimler-Benz per esempio ha finito per essere
un’acquisizione tedesca, “causando considerevole amarezza e cause legali da
parte degli azionisti negli USA […]
Ci sono molte compagnie che fanno operazioni
in tutto il mondo. Alcune possiedono anche dirigenze internazionali e teams
esecutivi all’estero. Ma, quasi senza alcuna eccezione, le compagnie di
maggior successo del mondo rimangono chiaramente identificabili con i
rispettivi paesi d’origine.”[52]
Le multinazionali negli USA ricevono enormi
aiuti da parte del governo sotto forma di sussidi diretti, tagli delle tasse,
fondi governativi per la ricerca e lo sviluppo, e tutta un’altra serie di
“welfare delle corporations”. Per fare qualche esempio: il governo USA sta
stanziando vari milioni di dollari in bonus ai top executive della
Lockheed e della Martin Marietta per completare con successo una fusione
iniziata nel 1995. La General Motors ha ricevuto 111 milioni di dollari in
sussidi federali tecnologici tra il 1990 e il 1994, mentre nello stesso
periodo licenziava 104.000 lavoratori. La IBM ha ricevuto nello stesso periodo
58 milioni di dollari[53].
Il punto è che mentre il governo è stato impegnato a privarizzare le industrie
e a tagliare i servizi sociali, ha speso enormi masse di danaro per aiutare la
grande impresa. Uno studio del Boston Globe del 1996 sulle donazioni
alle corporations concludeva che:
I 1590 miliardi di dollari spesi per sussidiare
le corporations e gli sgravi fiscali fanno impallidire il debito di bilancio
annuale di 130 miliardi di dollari. Questi sconti superano di molto i 145
miliardi di dollari stanziati per i programmi di welfare sociale: AFFC[54],
sussidi agli studenti, abitazioni, prodotti alimentari, e tutta l’assistenza
diretta pubblica (esclusa la Social Security e le cure mediche).[55]
Le corporations dipendono dai governi in
relazione al mantenimento di un buon clima negli affari. Esse quindi non
dipendono solo dal “loro” Stato, ma hanno preferenza a investire in quei paesi
dove c’è un buon clima per gli affari, e cioè regimi stabili, che siano in
grado di mantenere il reale dissenso popolare al livello minimo. Il rapporto
della Banca Mondiale del 1997 segnala che: “secondo 69 imprenditori
intervistati, gli Stati “stanno svolgendo in modo insufficiente le loro
funzioni, fallendo nell’assicurare la legge e l’ordine, nel proteggere la
proprietà e nell’applicare le direttive e le politiche promesse. Gli
investitori non considerano tali Stati credibili, e la loro crescita e gli
investimenti ne soffrono di conseguenza.”[56]
Le corporations transnazionali hanno strette
relazioni con “il loro Stato di provenienza” in relazione al perseguimento di
una politica estera – diplomazia, relazioni commerciali e forze armate - che
avvalli i loro interessi. L’idea che le corporations governino senza alcuna
mediazione statale ignora il fatto che queste non solo sfruttano i lavoratori
e rovinano le loro vite per fare profitti ma sono impegnate anche in una
competizione mortale per spartirsi i mercati. Hanno bisogno di ogni muscolo,
di ogni nervo per sconfiggere i competitori e controllare più mercati. Per
questo non possono basarsi solo sulle proprie risorse. Una corporation
“realmente” senza alcun Stato alle spalle è sempre svantaggiata rispetto a una
multinazionale che può contare sulle risorse del suo governo - in particolare
quando si parla di governi potenti come quelli americano, tedesco e
giapponese. Questa verità è stata espressa al meglio da Thomas Friedman nel
magazine sul New York Times del 28 marzo 1998 in un articolo sui
progetti della potenza americana:
Per far funzionare la globalizzazione gli USA
non devono temere di agire come la superpotenza che sono. La mano invisibile
del mercato non funzionerà mai senza un “pugno invisibile”. Mc Donald non può
prosperare senza Mc Donnell Douglas (che ha progettato gli F-15) e il “pugno
invisibile” che mantiene il mondo tranquillo per la tecnologia di Silicon
Valley si chiama Esercito degli Stati Uniti, Air Force, Corpi navali e
della Marina.
Anticipando la linea di Friedman, il
comandante generale della Marina Alfred M. Gray sottolineava nel 1991 come gli
USA avessero bisogno di “un accesso senza ostacoli” per “impiantare e
sviluppare i mercati nel mondo.”[57]
I marines hanno avuto qualcosa a che vedere con l’instaurazione di un “accesso
senza ostacoli” nell’America Latina. Il Generale Maggiore Smedley D. Butler
spiegava nel 1935 come gli USA utilizzavano la potenza militare per estendere
il loro potere economico nei Caraibi e in ogni dove nella prima parte di
questo secolo
Ho speso trentatré anni e
quattro mesi in servizio attivo come membro della forza militare più agile del
paese, il corpo della Marina. E durante questo periodo ho passato la maggior
parte del mio tempo a essere un uomo forte al più alto livello del “Big
Business”, di Wall Street, e dei banchieri. In breve ero il “rackettista” dei
capitalisti...
Così ho aiutato a rendere sicuro nel 1914 il
Messico, e in special modo Tampico, per gli interessi americani legati
all’industria petrolifera. Ho aiutato a rendere Cuba e Haiti dei posti decenti
per accrescere le entrate dei ragazzi della National City Bank... Ho aiutato a
ripulire il Nicaragua nel 1909-1912 per la banca internazionale Brown Brother.
Nella Repubblica Dominicana nel 1918 ho agevolato gli interessi americani nel
settore dello zucchero. E nel 1903 ho aiutato a fare dell’Honduras il posto
giusto per le compagnie americane della frutta.[58]
Gli scopi degli USA sono ben poco cambiati dai
tempi di Smedley Butler. Ciò è stato evidenziato da come il governo e le
corporations americane hanno favorito il “Colombia Plan”, un pacchetto
militare per le Ande di 1,6 miliardi di dollari che fa della Colombia il terzo
più grande fruitore di fondi provenienti dagli USA e che impegna il Pentagono
a provvedere all’addestramento, al supporto di hardaware e di intelligence per
le forze militari della regione. E tutto ciò solo apparentemente per bloccare
il flusso di droga. In realtà come ha fatto notare un ufficiale statunitense:
“Non c’è molta differenza tra l’attività antidroga e quella
controinsurrezionale... Semplicemente non utilizziamo quest’ultima in ogni
situazione perché è qualcosa di politicamente delicato.”[59]
Il “Comando del Sud” degli USA (SOUTHCOMMAD) ha uno spiegamento di 200 Forze
Speciali in America Latina, di basi militari in tutto il Centroamerica e nei
Caraibi come quella di Manta in Ecuador. Il SOUTHCOM sottolinea il suo ruolo
di intelligence per ciò che riguarda le operazioni di sicurezza interna, che è
indistinguibile dalle operazioni violente controinsurrezionali promosse dagli
USA durante la Guerra Fredda per aiutare a reprimere le opposizioni interne in
America Latina. Questa mira non soltanto alla Colombia ma alla
poll-position degli USA nel controllo dell’intera regione.
In un Rapporto recente del NACLA, Michael T.
Klare sottolinea chiaramente come gli USA continuino a rivendicare la
supremazia nella politica e nell’economia mondiale. Egli cita un rapporto del
Dipartimento della Difesa, scritto nel 2000, in cui si afferma che “gli USA
devono restare il leader globale e utilizzare le proprie strutture attraverso
le indiscusse capacità delle sue forze armate per formare un ambiente di
sicurezza internazionale favorevole e rispondere a tutto lo spettro delle
crisi possibili in relazioni agli interessi americani.”[60]
Klare chiarisce che gli USA restano determinati a mantenere un esercito in
grado di confrontarsi con qualsiasi altra potenza mondiale e tanto più con le
potenze regionali più piccole. In altre parole, mantenendo la propria
superiorità militare e il diritto a intervenire dovunque, gli USA non vogliono
solo proteggere gli interessi americani all’estero. Vogliono anche prevenire
la possibilità che altre potenze aspirino a un ruolo di gendarme al di fuori
del controllo americano. Klare cita una bozza di un documento di
programmazione militare, resa pubblica all’inizio del 1992, nel quale si
afferma che la politica da portare avanti dovrà essere quella di “mantenere i
meccanismi atti a impedire che i potenziali competitori possano aspirare a un
ruolo più importante sia su scala regionale che globale.”[61]
Il documento è stato redatto da Paul Wolfowitz, che recentemente è diventato
il numero due del Pentagono subito dietro Donald Rumsfeld.
Per gli USA, spingere per un programma di
libero commercio non significa volere il libero commercio in assoluto, ma
assicurarsi dei vantaggi economici. Che gli USA vedano i commerci e le
politiche commerciali con il prisma del dominio economico americano dovrebbe
essere chiaro dalle affermazioni fatte dal Business Roundtable, una
importante organizzazione che annovera tra i suoi membri i più importanti
uomini d’affari americani. Il titolo di un documento del Business
Roundtable recentemente pubblicato ne rivela i punti deboli: “Lo stato
della leadership americana nel commercio: gli USA stanno scivolando indietro.”
L’articolo lamenta il fatto che mentre gli USA hanno solo due accordi
commerciali – il NAFTA e un accordo bilaterale di libero commercio con Israele
- 130 accordi di libero commercio che coinvolgono L’Unione Europea e una serie
di altri paesi e realtà regionali sono stati firmati a partire dal 1990:
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e fino
a pochi anni fa, c’era un accordo non scritto per i negoziati commerciali: gli
USA erano il paese indispensabile, quello che doveva essere per forza
coinvolto nei negoziati commerciali perché questi avessero successo...
Ma oggi le regole sono cambiate in modo
profondo e irrevvocabile. Gli USA sono ancora un attore principale, ma non più
indispensabile. I nostri partners commerciali hanno iniziato a trattare senza
di noi, accerchiando gradualmente gli USA con una rete di accordi commerciali
preferenziali.[62]
Gli USA sono
particolarmente preoccupati dal fatto che l’Europa abbia firmato 27 accordi
commerciali separati 15 dei quali sono già operanti. Il quadro che ne risulta
non è quello di una realtà fondata sul libero commercio ma su blocchi
commerciali in via di formazione e in competizione tra loro, i quali nei fatti
erigono barriere verso coloro che non ne fanno parte. Ciò che emerge dal
documento sopraccitato è che se gli USA non agiranno rapidamente si potrebbero
trovare tagliati fuori dal trattamento preferenziali di cui beneficiano i loro
competitori:
Cosa succede se altri paesi rendono operanti i
loro accordi e noi no? I businessmen, gli operai e i contadini americani sono
posti di fronte a una minaccia immediata e una a lungo termine. Immediatamente
sono forzati a competere in un campo da gioco non equilibrato. A lungo termine
i nostri partners commerciali stanno creando regole che ci tagliano fuori e
vanno formando alleanze strategiche ostili agli interessi degli USA. Molti
degli accordi.... in cui gli USA non sono parte integrante non sono di vasta
portata, ma costituiscono tuttavia una minaccia considerevole ai nostri
interessi economici.[63]
Qui non vediamo aziende transnazionali che
dilagano in tutto il globo, ma corporations americane che chiedono al loro
governo di utilizzare la sua forza e la sua influenza per negoziare trattati
commerciali di cui beneficino le corporations americane contro le corporations
rivali di altri stati. Gli USA non sono solo interessati a capire come possano
dominare nella competizione commerciale attori più deboli come il Messico, ma
a come possano competere più efficacemente con i loro pari, in particolare
l’Europa o il Giappone. Questi sviluppi hanno spinto l’amministrazione Bush a
apporre la firma sull’accordo per l’Area di Libero Commercio delle Americhe
(FTAA), che porta a espandere il NAFTA a tutto l’emisfero a partire dal 2005.
IL FTAA potrebbe agire come contrappeso ai blocchi commerciali dell’Unione
Europea, al MERCOSUR del Sudamerica e ai blocchi commerciali che coinvolgono
vari paesi asiatici.
L’espansione del commercio mondiale e la
crescita della interdipendenza economica nel mondo, in altre parole, non
riducono le rivalità regionali e i conflitti nazionali ma li esacerbano,
specialmente oggi che a livello internazionale è cominciato un periodo di
difficoltà economica. La competizione internazionale per il mercato mondiale
si intensifica e anche i rapporti commerciali tra le nazioni si surriscaldano.
Ne risulta che gli accordi di libero commercio diventano faccende intorno alle
quali varie forze – private e statali – manovrano avvantaggiarsi più grandi
vantaggi sui loro rivali.
Citando gli sforzi dell’amministrazione
Clinton, nel 1993, per arginare la crisi dell’industria dell’alluminio negli
USA con la formazione di un cartello tramite cui favorire il taglio della
produzione e la crescita dei prezzi, William Greider ha concluso che:
Per riassumere, a dispetto
dell’ortodossia dominante, il sistema globale non può essere propriamente
definito un regime di libero commercio. Quando tutte le contraddizioni, le
eccezioni e le evasioni volontarie saranno tenute in considerazione, si vedrà
che la gran parte del commercio mondiale non è un libero scambio di beni
basato sui prezzi di mercato. In un modo o in un altro, va “massaggiato” e
regolato, governato esplicitamente dai governi e internamente dalle
corporations multinazionali o più spesso da entrambi questi soggetti in una
collaborazione discreta...
Anche il discorso politico convenzionale,
specialmente negli USA, insiste nell’ignorare la realtà e fornisce il ritratto
di un mondo che sta marciando progressivamente verso un sistema sempre di più
liberalizzato.[64]
Un sostenitore del capitalismo, ma critico dei
suoi “eccessi”, Edward Luttwack è ancora più schietto di Greider, enfatizzando
le affinità tra la competizione economica e quella politica:
Il paradosso del peggioramento nell’atmosfera dei
rapporti, nel bel mezzo di una crescita di prosperità di un commercio mondiale
sempre più liberalizzato, non dovrebbe sorprendere. Il commercio conduce
all’interdipendenza che non garantisce l’armonia come i suoi celebratori hanno
sempre proclamato; al contrario conduce a irritazioni...
La guerra, così è in qualche misura differente
dai commerci, ma non abbastanza, evidentemente. In particolare un ciclo di
azione-reazione delle restrizioni commerciali che evoca una ritorsione, ha una
netta somiglianza con l’escalation di crisi che possono portare apertamente
alla guerra...
Sicuramente molti in realtà credono che le
economie dei maggiori Stati sono in definitiva troppo interdipendenti per
permettere avventure geo-economiche... Ma purtroppo l’interdipendenza,
cresciuta così facilmente alla fine dell’era della Guerra Fredda, quando la
compenetrazione economica di ogni campo era il naturale accessorio del
confronto strategico tra le potenze, non garantisce niente a nessuno.
Non esistevano economie più interdipendenti di
quelle francesi e tedesche nell’agosto del 1914...[65]
Infatti il tramonto della Guerra Fredda e in
ritorno al mondo multipolare della competizione tra le “grandi potenze”
richiama il periodo precedente la Prima Guerra Mondiale. Altri hanno affermato
invece che l’integrazione economica potrebbe porre fine all’economia di
distruzione e ai conflitti militari. La realtà ha avuto presto ragione di
questi punti di vista. Ciò non vuol dire comunque che il mondo si trovi oggi
sul precipizio di una guerra mondiale: siamo lungi dal pensarlo. Comunque,
mentre gli USA mantengono (e si sforzano di mantenere) il dominio militare, la
fine della Guerra Fredda e l’ascesa del Giappone e della potenza economica
europea in qualche modo produce nel futuro la possibilità di una ridefinizione
delle forze economiche e militari nel quale altre potenze facciano valere un
ruolo militare più indipendente negli affari mondiali. Questa è certamente
l’implicazione dei piani europei per la creazione di una forza di reazione
rapida al di fuori del controllo della NATO ovvero sia gli USA.
Le tesi che abbiamo qui sostenuto, e cioè che
l’imperialismo rimane la concezione fondamentale per comprendere il carattere
della globalizzazione, sono un correttivo cruciale dell’idea secondo cui le
corporations avrebbero sostituito, o siano in corso di farlo, lo Stato. Per
esempio si potrebbe tentare di vedere il WTO come un qualche tipo di
istituzione sopranazionale alle dirette dipendenze delle corporations “senza
Stato”. Ma questo sarebbe un punto di vista completamente sbagliato. Non solo
il WTO è costituito dalle rappresentanze commerciali di 140 Stati, ma al suo
interno sono gli stati più potenti a tenere in mano il pallino. Come ha
spiegato Martin Khor,
il GATT e il WTO sono stati dominati da un
pugno di grandi nazioni industrializzate. Spesso questi potenti paesi
negoziano e prendono decisioni tra di loro e poi cercano di conquistare al
funzionamento di queste (a volte esercitando intense pressioni) un numero
selezionato dei più importanti o influenti paesi in via di sviluppo. Molti dei
membri del WTO non possono essere invitati a questi “meetings informali” e
potrebbero anche non venire mai a sapere di questi meetings o delle decisioni
che vi si prendono al loro interno. Quando un accordo è raggiunto tra un
gruppo relativamente piccolo di paesi, le decisioni hanno poi la possibilità
di essere ratificate più facilmente attraverso i vari comitati.[66]
Tutti i discorsi sulla libertà del commercio
mondiale e la proliferazione dei trattati bilaterali e regionali negli ultimi
dieci anni, non hanno a che fare con il libero commercio ma piuttosto con i
vantaggi commerciali per gli stati più potenti e le loro corporations
transnazionali. In questo processo la sovranità degli Stati più deboli
potrebbe essere stata calpestata ma ciò non è sicuramente avvenuto per gli
stati più potenti.
Questi punti di vista non solo non affrontano
con precisione la natura di istituzioni quali il WTO ma possono nutrire un
certo tipo di nazionalismo che invita il popolo a stringersi intorno al
“proprio” Stato. In America, dove le lotte contro il NAFTA e il FTAA devono
essere legati all’opposizione ai tentativi americani di dominare l’America
Latina e altre parti del mondo, un tale punto di vista rappresenterebbe
regresso per il movimento. Quando il governo americano decide di onorare una
direttiva del WTO che spazza via le protezioni ecologiche e sociali, dobbiamo
avere chiaro che questo è un attacco delle corporations ai lavoratori e ai
poveri - sotto la conveniente copertura che “è la globalizzazione che ci porta
a far ciò” - e non, come afferma il nazionalista di destra Pat Buchanan una
conseguenza del fatto che l’America si sarebbe “arresa” agli stranieri.
Il nostro compito deve essere quello di
costruire un movimento che unisca i lavoratori e i popoli oppressi oltre le
frontiere, per sfidare le priorità del capitalismo mondiale, senza cadere
nella trappola nazionalista della “difesa” della sovranità americana.
L’alternativa non è quella di ritornare a una
(inesistente) epoca d’oro in cui gli Stati erano sovrani e c’era un briciolo
d’intervento dello Stato che assicurava il salario sociale. Queste politiche
furono adottate dalle classi dominanti sulla base di un boom di lunga durata o
sull’onda di crisi devastanti e guerre. Queste politiche erano state create
per assicurare un funzionamento omogeneo del capitalismo. La crisi degli anni
’70 ha suggerito alle classi dominanti la necessità di trovare altre strade
per recuperare le conquiste realizzate dalle lotte operaie e restaurare il
profitto a spese del mondo dei poveri e degli oppressi. Queste politiche sono
continuate anche quando il capitalismo è tornato a crescere negli anni ’80 e
negli anni ’90. In realtà il boom degli anni ’90 era basato in larga parte
sulle feroci riduzioni degli indennizzi per i lavoratori e del salario
sociale.
Non solo il capitalismo mondiale è ancora oggi
definito dalla rivalità tra gli stati e dalla competizione economica, ma per
certi versi la globalizzazione può essere interpretata come
un’intensificazione della competizione internazionale. Come in passato, la
competizione economica e i conflitti militari non sono fenomeni separati bensì
l’espressione di una dinamica centrale del sistema. Non ci possono essere
soluzioni puramente nazionali alla crisi del capitalismo internazionale. Il
sistema è veramente globale; la risposta lo deve essere altrettanto. E ciò
rende la parola d’ordine di Marx nel Manifesto Comunista ancora più
importante di prima: “I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché
le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi,
unitevi!”[67]
John Pilger
Lo Stato è più potente che mai
John Pilger
è un regista pluripremiato di documentari, giornalista e scrittore. Scrive
regolarmente per il Guardian
(GB) ed è autore di molti libri.
C’è una idea alla moda tra i media secondo la
quale il mondo sarebbe sotto il controllo di gigantesche corporations
multinazionali, che non risponderebbero di fronte a nessuno. “I governi sono
ridotti a giocare il ruolo di servili lacchè del grande business” ha scritto
recentemente il finanziere dissidente Noreena Hertz. Anche il governo
americano avrebbe ceduto il potere statale, dice la Hertz, facendo riferimento
“alla vergognosa ossequiosità verso le grandi corporations dell’energia”.
Malgrado però gli eclatanti esempi del moderno potere delle corporations – la
Motorola, per esempio, ha un fatturato annuale uguale alle entrate di un paese
di 118 milioni di abitanti come la Nigeria – sarebbe folle credere che il
grande business stia forgiando da solo il nuovo ordine mondiale. Ciò ha
permesso di dire che gli argomenti contro la globalizzazione sarebbero
prepolitici, si ridurrebbero alle singole questioni del “commercio etico” e
dei “codici di condotta”, in breve, si è cercato di cooptarlo. Questo punto di
vista non fa i conti con il fatto che il potere degli Stati in Occidente sta
aumentando.
“La globalizzazione non significa impotenza
dello Stato,” scrive l’attivista ed economista russo Boris Kagarlitsky, “ma
dismissione da parte dello Stato delle sue funzioni sociali a favore di quelle
repressive, l’irresponsabilità da parte dei governi e la fine delle libertà
democratiche”. L’idea di un indebilimento dello Stato è eccitante ma in realtà
rappresenta una cortina fumogena sollevata dai designers del moderno potere
centralizzato. Margaret Thatcher concentrava il potere esecutivo mentre
affermava il contrario; Tony Blair ha fatto lo stesso. Il progetto europeo si
riassume nella estensione delle frontiere dello Stato. La Cina totalitaria ha
abbracciato il “libero” mercato mentre consolida il suo vasto apparato
statale. Le autocrazie di Singapore e della Malesia hanno fatto lo stesso
mentre stavano crescendo più rapidamente (non a caso Blair è un ammiratore di
Singapore).
Ma è lo Stato americano ad aver sorpassato
tutti: non è mai stato così potente. L’idea secondo cui George Bush sia
“ossequioso verso le grandi multinazionali dell’energia” (e dovrebbe
vergognarsi di se stesso) è bizzarra. La Big Oil, come le grandi industrie
belliche e il grande agrobusiness, hanno sempre avuto un loro spazio alla Casa
Bianca e nel governo americano. È il modello americano. Senza il patronato del
governo, alcune delle più maggiori corporations sarebbero fallite. La Cargill
Corporation, che domina il commercio del grano, non godrebbe di una opzione di
monopolio se per anni non ci fossero stati dei forti sussidi all’agrobusiness
americano o se il governo USA non avesse utilizzato “gli aiuti alimentari” per
sovvertire l’agricoltura nei paesi in via di sviluppo.
Fu lo Stato americano trionfante che modellò
l’attuale global economy a Bretton Woods nel 1944, in modo tale che le
sue forze armate e le sue corporations avessero accesso illimitato ai
minerali, al petrolio, ai mercati, e alla forza-lavoro a basso costo. Nel 1948
il decano dei pianificatori imperiali, George Kennan, scrisse: “Noi abbiamo il
50% della ricchezza mondiale ma solo il 6,3% della popolazione. In questa
situazione il nostro compito fondamentale nel prossimo periodo è quello di
creare un modello di relazioni che ci permetta di mantenere questa situazione
di disparità. Per far ciò dobbiamo smettere di essere sentimentali con
tutti... Dobbiamo smetterla di pensare ai diritti umani, all’accrescimento dei
livelli di vita e alla democratizzazione.” La Banca Mondiale e il FMI furono
inventati come strumenti di questa strategia. La loro sede è a Washington,
dove sono collegati con un cordone ombelicale al Tesoro USA, che si trova
pochi isolati più avanti. È lì che la globalizzazione della povertà e l’uso
del debito come arma di controllo sono stati concepiti. Quando John Maynard
Keynes, il rappresentante britannico a Bretton Woods, propose una tassa sulle
nazioni creditrici, intesa a prevenire una situazione in cui i paesi poveri
sarebbero caduti nell’indebitamento perpetuo, si sentì rispondere dagli
americani che, se avesse insistito, la Gran Bretagna non avrebbe ottenuto i
prestiti di guerra di cui aveva disperatamente bisogno. Più di mezzo secolo
dopo, il divario tra il 20% più ricco dell’umanità e il 20% più povero è
raddoppiato; e i “programmi di aggiustamento strutturale” hanno garantito un
“impero debitorio” più grande di quello dell’Impero britannico al suo zenit.
Il pericolo di un punto di vista “moderato”,
che ne rifiuti di prendere atto della rapacità tout-court della potenza
statale Occidentale, è quello della cooptazione e del recupero. La Banca
Mondiale e il FMI, ora sotto assedio come mai era successo prima, hanno creato
delle loro tattiche di sopravvivenza. Improvvisamente, il FMI, il più grande
pescecane dei prestiti, ha cominciato a dare a intendere di essere una Madre
Teresa istituzionale, che ha la missione di “sconfiggere la povertà”. Insieme
con la Banca Mondiale e il WTO, sta ora promuovendo il dialogo con le
organizzazioni non governative (ONG) “moderate” che si oppongono alla
globalizzazione, concededo loro la palma di “serie oppositrici” in contrasto
con gli “hooligans” delle strade. Il Dipartimento per lo Sviluppo
Internazionale di Clare Short utilizza la tattica di cooptare i leades delle
ONG con “consulenze” o anche commissionando loro dei contributi per i libri
bianchi governativi. Questa collaborazione non dovrebbe essere sottovalutata.
In seguito all’attacco vincente al WTO portato a Seattle due anni fa, più di
1200 gruppi e organizzazioni di 85 paesi hanno invitato a una “moratoria”
dell’ulteriore liberalizzazione del commercio e a una “verifica” delle
politiche del WTO come primo passo per la sua riforma. Il WTO e i suoi
creatori a Washington erano felicissimi, perché così non si metteva in
discussione la loro legittimità.Tuttavia questa struttura riservata e
completamente non democratica è la predatrice più rapace inventata dalle
potenze imperiali. L’Economist l’ha definita “l’embrione del governo
mondiale”, un governo non eletto da nessuno. Guardatevi dai moderati.
Questo articolo è stato pubblicato per la
prima volta il 9 luglio sul Guardian (GB). Riproduzione autorizzata.
Gregory Palast
Il globalizzatore
venuto dal Freddo
Gregory Palast,è
un giornalista riconosciuto a livello internazionale, e cura la rubrica
“Inside Corporate America” (I retroscena dell’America delle corporations) sul
settimanale Observer (Londra). Questa rubrica e ulteriori informazioni sono
disponibili sul sito: www.GregPalast.com.
“Ha condannato la gente a morte”, mi disse
l’ex apparatčik.
Sembrava una scena tratta da Le Carré. Un
brillante agente anziano arriva dal Freddo passa dalla nostra parte e con un
resoconto di ore e ore, libera la memoria degli orrori commessi in nome di
un’ideologia che ora riconosce come corrotta. Ma questa volta non si trattava
di una vecchia spia reduce dalla Guerra Fredda: Joseph Stiglitz era stato
niente di meno che il principale economista della Banca Mondiale. In larga
misura, il nuovo ordine economico mondiale era il risultato pratico della sua
teoria.
Questa settimana Stiglitz si trova a Washington in occasione dello Spring
Ministerial, la grande affabulatoria della Banca Mondiale e del Fondo
Monetario Internazionale (FMI). Ma invece di presiedere le riunioni di
ministri e i grandi banchieri, Stiglitz è stato trattenuto fuori dai cordoni
blu della polizia, insieme alle suore che trasportavano una grande croce di
legno, ai leader sindacali della Bolivia, ai genitori delle vittime dell’Aids
a agli altri manifestanti dell’ “antiglobalizzazione”.
Due anni fa, la Banca Mondiale lo ha
liquidato. Non ha potuto neppure godersi in pace la pensione; il ministro del
Tesoro degli Stati Uniti pretese infatti una pubblica scomunica poiché
Stiglitz aveva cominciato a esprimere un timido dissenso alla globalizzazione
così come interpretata dalla Banca Mondiale.
Qui, a Washington, abbiamo terminato l’ultima
di diverse ore di interviste esclusive a Stiglitz per l’Observer e per
il programma serale di attualità “Newsnight” della BBC sulle reali attività
interne del FMI, della Banca Mondiale e del ministero del Tesoro, proprietario
al 51% della Banca Mondiale.
E qui, da fonti che non ci è permesso citare
(non Stiglitz), abbiamo ottenuto un plico di documenti classificati come
“Riservato”, “Segreto”, e “Vietato divulgarlo senza l’autorizzazione della
Banca Mondiale”. Stiglitz ci ha aiutato a tradurne uno dal burocratese, il
“Country Assistance Strategy” (Strategia per l’assistenza ai paesi terzi).
Esiste una strategia di assistenza per tutte le nazioni povere del mondo,
formulata, a detta della Banca Mondiale, dopo un attento studio condotto nel
paese in oggetto. Ma, secondo Stiglitz, che di queste cose sarà certo a
conoscenza, lo “studio” per il personale della Banca si limita a un’accurata
ispezione negli alberghi a 5 stelle del paese in questione. Si conclude con
l’incontro fra il personale della Banca e un ministro delle Finanze ridotto
all’elemosina per via della bancarotta, al quale viene offerto un “accordo di
ristrutturazione” predefinito, ma da firmare “volontariamente”, s’intende.
L’economia di ogni nazione viene analizzata
separatamente. In seguito, continua Stiglitz, la Banca consegna a ogni
ministro il medesimo programma basato su quattro punti. Punto primo: la
privatizzazione, che Stiglitz ritiene potrebbe essere più precisamente
definita come “bustarellizzazione”. Anziché protestare contro la liquidazione
delle industrie statali, afferma Stiglitz, i leader nazionali, utilizzando le
richieste avanzate dalla Banca Mondiale per far tacere le critiche locali,
sbolognano senza tanti problemi le società elettriche e idriche. “Dovevate
vedere i loro occhi spalancarsi” alla prospettiva di commissioni del 10%
versate sui loro conti svizzeri, solo per avere abbassato di qualche miliardo
il prezzo di vendita dei beni nazionali. Il governo degli Stati Uniti questo
lo sapeva benissimo, accusa Stiglitz, almeno in occasione della più grande di
tutte le “bustarellizzazioni”: la svendita della Russia nel 1995. “Secondo il
ministro del Tesoro si trattava di un’occasione d’oro, giacché volevamo che
Eltsin fosse rieletto. Non importa se si tratta di un’elezione corrotta.
Vogliamo che i soldi vadano a Eltsin”, sottobanco per la sua campagna
elettorale. Stiglitz non è un pazzo esaltato che inveisce contro i “Black
Helicopters”. Quest’uomo operava all’interno di tutto questo gioco ed
era un membro del gabinetto di Bill Clinton, in qualità di capo del consiglio
dei consulenti economici del presidente.
La cosa peggiore, secondo Stiglitz, è che
l’oligarchia, con l’appoggio degli Stati Uniti, ha smantellato il patrimonio
industriale della Russia, portando a un intreccio corruttivo che ha quasi
dimezzato la produzione nazionale. Dopo la bustarellizzazione, il secondo
punto del programma FMI/Banca Mondiale e del suo “piano universale per salvare
qualunque economia nazionale” consiste nella “liberalizzazione del mercato dei
capitali”. In teoria, la deregulation del mercato dei capitali
permetterebbe agli investimenti a scorrere dentro e fuori il paese.
Sfortunatamente, però, proprio come in Indonesia e in Brasile il denaro in
Russia fluiva solamente all’esterno. Stiglitz lo chiama il ciclo del “denaro
che scotta”. Il denaro liquido entra nel paese per le speculazioni di beni
immobili e valuta, per poi fuggire al primo sentore di guai. Le risorse di una
nazione possono essere prosciugate nel giro di pochi giorni, se non di ore. E
quando accade, per invogliare gli speculatori a riportare i fondi di capitale
nel paese di origine, il FMI chiede a queste nazioni di alzare i tassi
d’interesse al 30, 50 e 80%.
“Il risultato era prevedibile”, dice Stiglitz a proposito dei veri e propri
maremoti finanziari che hanno colpito l’Asia e l’America Latina. L’aumento dei
tassi d’interesse ha distrutto il valore degli immobili, ha stremato la
produzione industriale e ha prosciugato le tesorerie nazionali. Ma a questo
punto entra in scena il FMI, che trascina la nazione boccheggiante al terzo
punto del suo piano: prezzi fissati dal mercato, un elegante eufemismo per
l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, acqua e gas d’uso
domestico. Ciò conduce, inevitabilmente, al terzo punto e mezzo, che Stiglitz
chiama la “rivolta del FMI”.
La rivolta del FMI è penosamente prevedibile. Quando una nazione è “allo
stremo, [il FMI] se ne avvantaggia, spremendole l’ultima goccia di sangue. Poi
alza la fiamma, finché l’intero calderone non esplode”, come quando nel 1998
il FMI ha tolto i sussidi per cibo e combustibile ai poveri in Indonesia.
In questo paese scoppiarono tumulti, ma si trovano altri esempi. le rivolte
boliviane sul prezzo dell’acqua lo scorso anno, e, il febbraio scorso, quelle
in Ecuador contro gli aumenti dei prezzi del gas d’uso domestico imposti dalla
Banca Mondiale. Si ha quasi l’impressione che anche le rivolte siano previste
dal piano.
E lo sono. Ciò che Stiglitz non sapeva era che, mentre si trovava negli Stati
Uniti, “Newsnight” aveva ottenuto diversi documenti da una fonte all’interno
della Banca Mondiale, siglati con quei noiosi avvertimenti: “Riservato”,
“Segreto”, “Da non divulgare”. In uno dei documenti, che riguardava la
“Interim Country Assistance Strategy” (strategia per l’assistenza interinale
ai paesi terzi) destinata lo scorso anno all’Ecuador, la Banca sottolinea più
volte – con fredda precisione – che ci si poteva aspettare come conseguenza
dei piani lo scoppio di “fermenti sociali”, per usare il termine burocratico
con cui definire una nazione in rivolta.
Questo non dovrebbe sorprendere. Il rapporto segreto osserva che il piano per
rendere il dollaro statunitense la moneta corrente in Ecuador aveva spinto il
51% della popolazione al di sotto della soglia di povertà. L’“assistenza”
offerta dalla Banca Mondiale chiede semplicemente di affrontare le conseguenze
negative della contesa civile e soffrire con “risolutezza politica” – e
naturalmente a prezzi ancora più alti.
Le rivolte provocate dal FMI (e per “rivolte” intendo manifestazioni pacifiche
disperse a suon di pallottole, carri armati e gas lacrimogeni) causano panico
e nuove fughe di capitali e la bancarotta dei governi. Questo incendio doloso
dell’economia ha il suo aspetto positivo - per gli stranieri che possono
avvantaggiarsi dei beni restanti, per esempio concessioni per due o tre
miniere o per un paio di porti, svendute a prezzi irrisori.
Stiglitz osserva che il FMI e la Banca Mondiale non sono sostenitori
insensibili delle economie di mercato. Se da una parte impedivano
all’Indonesia di sovvenzionare gli acquisti di generi alimentari, “quando alle
banche occorrono urgenti aiuti finanziari, l’intervento [nel mercato] è più
che benvenuto”. Il FMI ha scroccato circa 100 miliardi di dollari per salvare
i finanzieri dell’Indonesia e, in ultima analisi, anche le banche statunitensi
creditrici di Stati Uniti ed Europa. Emerge un disegno. Ci sono molti perdenti
in questo sistema ma un netto vincitore: le banche dell’Occidente e il
Ministero del Tesoro statunitense, che fanno soldi a palate con questo nuovo
pazzo guazzabuglio del capitale internazionale. Stiglitz mi ha raccontato
dell’infelice incontro, ai primi tempi del suo incarico alla Banca Mondiale,
con il nuovo presidente democratico dell’Etiopia. La Banca Mondiale e il FMI
avevano ordinato all’Etiopia di dirottare gli aiuti in denaro sul conto di
riserva presso il ministero del Tesoro statunitense, che paga un misero
interesse del 4%, mentre la stessa Etiopia prendeva simultaneamente a prestito
dollari statunitensi a un tasso del 12% per sfamare la popolazione.
Arriviamo così al quarto punto di ciò che il FMI e la Banca Mondiale chiamano
“strategia di riduzione della povertà”: il libero mercato. Si tratta del
libero mercato, così come è configurato dalle regole dell’Organizzazione
mondiale del commercio (WTO) e della Banca Mondiale, che Stiglitz, paragona
alle guerre dell’oppio. “Anche allora si trattava dell’apertura dei mercati”,
spiega. Come nel diciannovesimo secolo, oggi gli europei e gli americani
stanno abbattendo gli ostacoli alle vendite in Asia, America Latina e Africa,
mentre alzano barricate ai loro mercati per difenderli dai prodotti agricoli
del Terzo Mondo. Nelle guerre dell’oppio, l’Occidente utilizzò blocchi
militari per imporre l’apertura dei mercati ad uno scambio diseguale. Oggi la
Banca Mondiale può ordinare un blocco finanziario, altrettanto efficace e
talvolta altrettanto letale dei blocchi militari del passato.
Stiglitz è particolarmente turbato dinanzi al trattato sui diritti di
proprietà intellettuale del WTO – TRIPS. È qui, dice l’economista, che il
nuovo ordine globale ha “condannato a morte la gente” imponendo tariffe
astronomiche e tributi da versare alle società farmaceutiche per i medicinali
di marca. A questo proposito, non lasciatevi confondere dall’associazione fra
FMI, Banca Mondiale e WTO. Sono tutte maschere intercambiabili di un unico
sistema di controllo. Si sono saldati assieme per mezzo di quello che hanno
disgustosamente chiamato “triggers” (scatti). Prendendo un prestito dalla
Banca Mondiale per una scuola, “scatta” l’obbligo di accettazione di tutte le
“condizioni” (ce ne sono una media di 111 per nazione) formulate sia dalla
Banca Mondiale sia dal FMI, incluse politiche finanziarie persino più punitive
di quelle del WTO.
La più grande preoccupazione per Stiglitz è che i piani della Banca Mondiale,
progettati in segreto e guidati da un’ideologia assolutista, non sono mai
aperti alla discussione o al dissenso. A dispetto degli sforzi dell’Occidente,
per favorire lo svolgimento di elezioni democratiche in tutti i paesi in via
di sviluppo, i cosiddetti Poverty Reduction Programs (Programmi di riduzione
della povertà) “minano la democrazia”. E soprattutto non funzionano. La
produttività dell’Africa Nera sotto la guida dell’“assistenza” strutturale del
FMI sta andando letteralmente allo sfascio, essendo le entrate del continente
scese del 23% negli ultimi due decenni.
Qualche nazione è riuscita a evitare questo destino? Sì, dice Stiglitz,
indicando il Botswana. Il trucco? “Hanno detto al FMI di fare le valigie e
tornarsene a casa.” Allora ho domandato a Stiglitz. Va bene, esimio
professore, allora cosa farebbe Lei per aiutare lo sviluppo delle nazioni?
Stiglitz ha proposto radicali riforme agrarie, un attacco al cuore del
“latifondismo”, alle rendite dalle oligarchie fondiarrie in tutto il mondo,
per tradizione il 50% dei raccolti di una tenuta. Così, ho dovuto chiedere al
professore: “Dal momento che Lei era il primo economista della Banca Mondiale,
perché la Banca non ha seguito il Suo consiglio?”, “Sfidare [la proprietà
terriera] comprometterebbe il potere delle élites. Chiaramente non è una
priorità nella loro agenda.” No, pare proprio di no.
Ciò che in ultima analisi lo ha spinto a mettere a repentaglio la sicurezza
del suo impiego è stata l’incapacità delle banche e del ministero del Tesoro
statunitense di cambiare rotta di fronte alle crisi – o per meglio dire le
privazioni e le sofferenze causate dal loro “mambo” monetarista a quattro
stadi. Ogni volta che le loro soluzioni di libero mercato sono fallite, il FMI
si è limitato semplicemente a chiedere altre politiche liberiste. “È un po’
come nel Medioevo” mi ha detto Stiglitz. “Di fronte al paziente morto,
dicevano: ‘Hanno terminato il salasso troppo presto, aveva ancora un po’ di
sangue nelle vene.” La soluzione alla povertà e alla crisi del mondo, quindi,
è davvero semplice: eliminiamo le sanguisughe.
Geoff Bailey
Gli americani consumano troppo?
Geoff Bailey
fa parte del Comitato Esecutivo del Global Action Network di Boston ed è
membro dell’International Socialist Organization.
Alcuni americani consumano troppo, è vero.
Lo scorso anno nella casa di Bill Gates, che costa 63 milioni di dollari, sono
stati consumati 17.766.000 litri d’acqua. La bolletta è stata di 24.828
dollari. Se vogliamo prendere un altro esempio, in un recente articolo della
rivista Forbes si parla di un miliardario tedesco il quale possiede un
ranch in Arizona di oltre 20 ettari acri che usa per conservare la sua
collezione privata di veicoli militari della Seconda Guerra mondiale.[68]
Quando George Bush dice che la sua
amministrazione deve costruire centrali nucleari e per mettere l’estrazione
del petrolio nell’Arctic National Wildlife Refuge[69]
perché non può chiedere agli americani di sacrificare la loro qualità
della vita, pensa solo alla gente di cui sopra. Il livello di vita che egli è
stato eletto per difendere, è quello dei ricchi.
Mentre Bush rifiutava il Protocollo di Kyoto
per conto dei suoi amici petrolieri in Texas, per la prima volta lo scorso
inverno il buco dell’ozono ha raggiunto la superficie del nostro pianeta.
Recenti studi suggeriscono che entro il 2100 il clima globale potrebbe
crescere da tre a dieci e più gradi Fahrenheit.[70]
È un cambiamento persino più profondo da quello avutosi durante l’ultima era
glaciale. Chiaramente siamo di fronte a una situazione nella quale non solo la
nostra qualità della vita ma anche la stessa esistenza del nostro pianeta è in
pericolo.
È quasi un luogo comune darne la colpa, almeno
in parte, ai consumi del popolo di questo paese, e non solo più ricchi. Si
pensa subito al numero di automobili in circolazione o alle montagne di cibo
che finiscono nella spazzatura. C’è sicuramente la tentazione di affermare che
noi tutti siamo parte del problema. Dopotutto le nazioni industrializzate con
un quinto della popolazione mondiale consumano i due terzi delle risorse
globali e producono quattro quinti dei rifiuti e dell’inquinamento.[71]
Ma in effetti ciò non spiega nulla. Non basta constatare che un quinto della
popolazione mondiale consuma i due terzi delle risorse del pianeta. Bisogna
chiedersi: chi sta consumando? Cosa si consuma, e perché? E, fatto ancora più
importante, chi trae vantaggio da questa situazione?
Prendiamo l’esempio del cibo. La percezione
comune è che gli americani consumino una straordinaria quantità di cibo e che
buona parte di questa venga sprecata, semplicemente gettata via. Ne
conseguirebbe quindi che, se si consumasse meno cibo negli USA, nel mondo più
gente potrebbe essere nutrita. Prima di tutto bisogna precisare a questo
proposito che non tutti gli americani sono ben nutriti. La ricchezza in questo
paese è più concentrata che in qualsiasi altro periodo dai tempi della
Depressione: l’1% delle famiglie più ricche possiede circa il 40% della
ricchezza nazionale. È più del doppio di quanto possiede l’80% meno benestante
del paese.
Secondo il Dipartimento dell’Agricoltura, nel
1998 circa 36 milioni di persone in tutto il paese non avevano un adeguato
accesso al cibo. Ed è ancora peggio per quanto riguarda i bambini. Un quinto
dei giovani sotto i 18 anni vive in case dove il cibo è scarso.[72]
Come ha scritto Anuradha Mittal, “Le nazioni del Sud del mondo non sono le
sole vittime [...] c’è anche un Sud del Nord, proprio qui negli Stati Uniti.”[73]
Per molta gente il problema non è di consumare troppo cibo ma di non
consumarne abbastanza.
Ma cosa succederebbe se gli americani,
complessivamente, sprecassero meno cibo? Prima di tutto dobbiamo chiederci se
la ragione per cui la gente patisce la fame è da attribuire alla scarsità di
cibo. Secondo le Nazioni Unite, dopo la Seconda Guerra Mondiale la produzione
di cibo ha superato la crescita della popolazione.[74]
Infatti, anche nel Terzo Mondo dove la fame è più concentrata, molti paesi
producono troppo cibo. Secondo l’Associazione Americana per il Progresso
Scientifico, il 78% dei bambini malnutriti sotto i cinque anni vive in paesi
dove esiste un surplus di cibo.[75]
Persino al culmine delle carestie in Somalia, Chad, Bangladesh e India, ognuno
di questi paesi ha continuato a esportare più cibo di quanto ne importasse.
Nel mondo cosiddetto in via di sviluppo, la
gente soffre la fame non perché non ci sia cibo, ma in quanto le economie di
questi paesi sono vincolate a coltivare prodotti destinati ai mercati esteri.
E anche nei paesi industrializzati, dove gran parte di quel cibo viene
importato, il problema non è quello della scarsa produzione di cibo, ma
l’opposto. Il governo USA conserva montagne di grano che non raggiungeranno
mai le bocche affamate. E ogni anno migliaia di tonnellate di burro, formaggio
e latte vengono lasciate putrefare per gonfiare i prezzi.[76]
Quindi chi trae vantaggio da questo stato di
cose? Non certo il coltivatore medio. Tra il 1987 e il 1992, infatti, ogni
anno 38.500 fattorie a conduzione familiare hanno fatto bancarotta.[77]
Oggi, gran parte dell’agricoltura è controllata dall’agrobusiness. Per esempio
due società, la Cargill e la Continental, controllano da sole il 50% delle
esportazioni USA di grano[78].
E 10 cents per ogni dollaro speso in cibo finisce nelle tasche delle società
della Philips Morris.[79]
Anche se gli americani consumassero di meno, le corporations genererebbero la
maggior parte dello spreco solo per ricavare un profitto. Consumare meno nel
migliore dei casi, non basterebbe e nel peggiore dei casi indurrebbe le
corporations a distruggere ancora più cibo. La ragione è spaventosamente
semplice: è più economico distruggere cibo che darlo a gente che non può
permettersi di acquistarlo.
Lo spreco di cibo solleva un’altra importante
questione. Gran parte delle teorie che si focalizzano sul consumo sono basate
su prove aneddotiche dello spreco quotidiano del consumatore che vediamo
intorno a noi: il numero di automobili, l’ammontare di spazzatura, ecc. Ma per
la massima parte i rifiuti e l’inquinamento non sono un prodotto del consumo
ma della produzione. Per esempio, “per ogni tonnellata di rifiuti prodotti dal
consumatore ci sono state probabilmente 20 tonnellate di rifiuti generati
nell’iniziale estrazione di risorse e 5 tonnellate prodotte nella manifattura.[80]
Non è quello che i consumatori comprano ad avere l’impatto maggiore
sull’ambiente, bensì i processi e le tecnologie usati nella produzione di
queste merci. Ma i consumatori possono influire ben poco su queste decisioni,
che sono infatti prese nell’interesse dell’accrescimento dei profitti.[81]
Anche se i consumatori si organizzassero con
successo per cambiare il processo di produzione, questa sarebbe nel migliore
dei casi una misura temporanea. Prendiamo l’esempio dei cibi biologici. Le
fattorie biologiche avevano esordito come un tentativo di creare una coscienza
ecologica e una salutare alternativa all’agrobusiness e al cibo “modificato”.
Ma Gene Kahn, uno dei pionieri delle fattorie organiche degli anni ’70, e ora
vicepresidente della General Mills, spiega come, dinanzi alla crescente
domanda di cibi biologici, le fattorie di questo tipo abbiano cominciato ad
adattarsi: “L’intero concetto di “comunità cooperativa” che avevamo introdotto
cominciò gradualmente a riprodurre le modalità operative del sistema.
Fornivamo cibo al paese usando automezzi alimentati a gasolio: insomma eravamo
ormai diventati coltivatori biologici industriali.”[82]
Un risultato di questo processo è stato un
decreto del Dipartimento dell’Agricoltura USA che permette di classificare
come biologici anche cibi trasformati con ingredienti sintetici. Si potrebbe
perciò vendere un Twinkie organico.[83]
Come ha affermato Roger Blobaum, “il biologico sta diventando proprio ciò a
cui noi speravamo di essere alternativi”.[84]
Il problema è che le strategie del consumatore sono fondamentalmente incapaci
di sfidare il sistema di produzione, al più sono il rifugio temporaneo per chi
ha tempo e mezzi finanziari per occuparsene.
Alcuni teorici affermano tuttavia che
riducendo il consumo si potrebbe deindustrializzare. Martin Kohr sostiene che
il solo modo per limitare il nostro impatto sull’ambiente è quello di limitare
il consumo del mondo industrializzato:
Se lo si facesse, se il livello della
tecnologia industriale scendesse, ci sarebbe meno bisogno di quel tremendo
spreco di energia, materie prime e risorse ora indirizzate verso la produzione
di beni superflui, semplicemente per sostenere la “domanda effettiva” e far sì
che la mostruosa macchina economica vada avanti.[85]
Si parte qui dal presupposto che il
capitalismo accetterebbe volontariamente una produzione e dei profitti più
bassi. Ma il capitalismo ha a cuore l’esatto opposto. Nel capitalismo
un’azienda deve competere con un’altra per il più alto profitto o rischia di
essere estromessa dal business. Per restare in gioco si deve costantemente
produrre e vendere di più.
Ciò solleva un problema fondamentale per le
teorie del sovraconsumo. Qualsiasi aspetto prendano in esame, tutte queste
teorie partono dall’assunto che è la domanda del consumatore a spronare il
sistema, che il processo di produzione si adegua a produrre ciò che noi
desideriamo. Se l’industria dell’auto sta producendo macchine di grossa
cilindrata che “bevono” molto carburante, è perché siamo noi a volerlo. Se la
foresta tropicale sta scomparendo, è perché non riusciamo a fare a meno di
cassette e contenitori per portarci a casa la spesa. Ma nel capitalismo non ci
sono altre vie. Cosa desidera il consumatore è importante solo nella misura in
cui i capitalisti devono vendere i loro prodotti per realizzare profitti. Per
non essere buttati fuori dal business, i capitalisti devono vendere sempre
maggiori quantità di merci e quindi anche cercare nuovi e più ampi mercati.
Come scrive Marx nel Manifesto del Partito Comunista:
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per
tutti i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo
terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi,
dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la
borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo
di tutti i paesi. [...] Ai vecchi bisogni [...] subentrano nuovi bisogni, che
per essere soddisfatti esigono prodotti dei paesi e dei climi più lontani.[86]
Non solo questa è una eccellente descrizione
della globalizzazione del capitalismo, ma coglie anche il modo in cui il
sistema costantemente estirpa tutte le vecchie pratiche, creando nuovi bisogni
e distruggendo le alternative. Un esempio è dato dal modo in cui
l’agrobusiness sta usando le modificazioni genetiche per distruggere
l’agricoltura contadina di sussistenza e creare un mercato per le sementi
provenienti dall’estero.
Per secoli i contadini hanno conservato le
sementi del raccolto di un anno per riseminarle l’anno seguente. Ma usando le
modificazioni genetiche e i recenti cambiamenti nelle leggi dei brevetti,
corporations come Cargill o Monsanto stanno forzando i coltivatori a comprare
nuove sementi ogni anno, creando così un nuovo mercato per i loro prodotti.
Come ha affermato l’ecologista marxista John Bellamy Foster, “quello che noi
consumiamo dipende dalla natura della produzione piuttosto che il contrario.”[87]
Uno dei migliori esempi di questo meccanismo è
il successo dell’automobile. Le automobili private sono responsabili di circa
il 30% delle emissioni di biossido di carbonio e dell’inquinamento atmosferico
ogni anno.[88]
Molti attivisti ed esperti di quest’industria si sono concentrati sulla
passione degli americani per l’automobile. Ma come scrive Foster:
Questa “passione” il più delle volte è un segno
della disperazione che si avverte di fronte a possibilità di scelta
estremamente limitate. I modi in cui sono stati costruiti auto, strade,
sistemi di trasporti pubblici, centri urbani, periferie e centri commerciali
spesso non lasciano altra scelta alla gente che guidare, se vogliono poter
vivere e lavorare.[89]
Quando Henry Ford introdusse la produzione di
massa nell’industria automobilistica, tagliò i prezzi e ciò rese le auto per
la prima volta alla portata della massa dei consumatori. Ma dal 1926
l’industria entrò in recessione. Le vendite erano cresciute tra i ricchi e
nelle classi medie dei sobborghi, ma nelle città si aveva accesso al trasporto
pubblico e quindi c’era scarso bisogno di un’auto. Così l’industria dell’auto
e quella del petrolio si allearono per creare un nuovo mercato.[90]
All’inizio degli anni ’30 la General Motors cominciò a rilevare un alto numero
di sistemi di trasporto pubblico, attraverso una compagnia chiamata Yellow
Truck & Bus Company, smantellando il vecchio sistema tranviario e
sostituendolo con gli autobus. Usò anche il suo pacchetto di controllo della
Greyhound Bus Company e il quasi monopolio nella produzione delle locomotive,
per subordinare il traffico ferroviario e degli autobus a vantaggio delle auto
e quello dei camion per il commercio tra i centri urbani. Come scrive Foster,
la GM “decise consciamente di vendersi sottocosto rispetto alla concorrenza
per il trasporto di massa intercittadino, per trarre più alti profitti con la
produzione automobilistica.”
La GM e la Standard Oil furono riconosciute
colpevoli di aver violato la legge antitrust e furono multate di 5.000 dollari
ognuna. Ma il danno ormai era stato fatto. Il trasporto pubblico in 47 città
era stato smantellato e le macchine e i camion ormai dominavano il traffico
intercittadino. Questo a sua volta, mutò il corso dello sviluppo delle città,
distruggendo la divisione tra città e periferia e portando alla crescita di
quella che è oggi è conosciuta come “urban sprawl”.[91]
Attualmente oltre l’80% dei lavoratori americani si reca al lavoro con
l’automobile e la casalinga media guida, per svolgere le commissioni, per più
di 150 chilometri alla settimana.[92]
L’auto non è più un lusso, ma una necessità.
Ma la creazione di nuovi mercati e di nuovi
prodotti ha un aspetto progressivo che è trascurato dalle teorie del
sovraconsumo. Nella sua ricerca di nuovi prodotti il capitalismo sviluppa
nuove tecnologie che potenzialmente possono ripulire l’ambiente, alleviare le
malattie e ridurre la necessità del lavoro umano. I musei, l’arte, la
televisione, la radio e ora internet sono diventati disponibili ai lavoratori.
E nella sua ricerca in tutto il mondo di nuovi mercati il capitalismo
distrugge le vecchie barriere e i pregiudizi, dà al mondo un “carattere più
cosmopolita” e permette la quasi istantanea comunicazione sul pianeta.
Ma naturalmente, anche se il capitalismo crea
tutto ciò, allo stesso tempo impedisce alla maggioranza della gente del mondo
di avervi l’accesso. Come il re Mida nella sua sete insaziabile ricchezza,
anche il capitalismo corrompe tutto ciò che tocca. I prodotti che la gran
parte della gente può permettersi sono economici e scadenti E invece di una
cultura globale che celebri la diversità e la conoscenza del mondo, ci
propinano “McCulture”, un McDonald per ogni isolato e uno Starbucks[93]
a ogni angolo.
Quelli che si concentrano sull’incredibile
spreco che questo sistema genera hanno ragione ad attirare l’attenzione sul
fatto che l’attuale espansione del capitalismo sia insostenibile. Ma quello
spreco non è prodotto dagli insaziabili appetiti degli operai americani. È un
prodotto della inesorabile corsa del capitalismo a generare profitti. Una
soluzione che si concentri solo sulla limitazione del consumo dei lavoratori
americani contrappone erroneamente le rivendicazioni dei lavoratori americani
per una vita migliore a quelle dei lavoratori del Terzo Mondo.
Una soluzione che possa dirsi efficace deve
basarsi sul potenziale che ci offre il capitalismo. Il nostro obiettivo non
dovrebbe essere quello di abbassare il tenore di vita dei lavoratori del mondo
sviluppato, ma di accrescere quello della maggioranza della popolazione
mondiale. Per far ciò il tremendo potenziale creativo del capitalismo deve
essere strappato dalle mani della minoranza che lo possiede e lo amministra
negli interessi del profitto e per i bisogni quella stessa minoranza. Questo
potenziale deve essere messo nelle mani della vasta maggioranza per essere
gestito democraticamente negli interessi dell’umanità. Un tale cambiamento non
potrà essere realizzato attraverso le lotte dei consumatori, dove la gente è
più debole ed atomizzata, ma per mezzo delle lotte collettive dei lavoratori.
Vandana Shiva
Il controllo delle risorse idriche da parte di
Banca Mondiale, WTO e corporations
Vandana Shiva
dirige la Research Foundation on Science, Technology, and Ecology ed è autrice
di vari libri tra cui Stolen
Harvest: The Hijacking of the Global Food Supply (South End Press). Nel
1993 Shiva ricevette l’“Alternative Nobel Prize” (il riconoscimento Right
Livelihood Award). Prima di dedicarsi all’attivismo, Shiva era uno dei medici
più autorevoli in India. Recentementeiì in Italia è stato pubblicato il suo
libro Monocolture
della mente (Bollati Boringhieri, Torino, 2000).
Da che mondo è mondo, i grandi progetti idrici
hanno arricchito i potenti ed espropriato i deboli. Anche quando questi
progetti sono stati intrapresi da governi e finanziati con le nostre tasse, i
beneficiari di questi progetti sono state le imprese di costruzioni,
dell’industria e la grande agricoltura commerciale. Donald Worster ha coniato
la definizione di “mercato truccato dello stato”, ossia lo stato capitalista
che si adopera per facilitare l’accumulazione illimitata della ricchezza nelle
mani dei privati.
Mentre la privatizzazione e la globalizzazione
sono state accompagnate dalla retorica della scomparsa graduale
dell’intervento dello Stato, ciò a cui stiamo assistendo è esattamente
l’opposto: lo Stato sta intervenendo sempre più con politiche, regolamenti,
legislazioni, investimenti e tecnologie per spostare il controllo delle
risorse idriche del pianeta dalle comunità e dal pubblico agli interessi
commerciali e delle grandi corporation.
Le
politiche di privatizzazione imposte per il tramite della Banca Mondiale e le
normative intese a liberalizzare il commercio, negoziate attraverso
l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ai sensi dell’Accordo generale
sul commercio dei servizi (GATS), creano stati corporativi, ossia stati che
sottraggono alla gente le risorse necessarie a soddisfare bisogni di base,
mettendole nelle mani delle corporation private, allo scopo di trarre profitto
dalla privatizzazione dei servizi essenziali.
Dopo aver creato scarsità e inquinamento
promuovendo di un uso non sostenibile delle risorse idriche, ora la Banca
Mondiale sta trasformando la penuria che essa stessa ha creato in una
occasione di mercato per le corporation del settore idrico. Secondo le stime
della Banca Mondiale, il mercato potenziale dell’acqua ammonterebbe a 800
miliardi di dollari.
Anche Monsanto, il gigante della
biotecnologia, ha in programma da tempo l’ingresso nel settore idrico, in cui
intravede nuove opportunità commerciali per via dell’emergente crisi
dell’acqua e in virtù dei finanziamenti stanziati per mettere a disposizione
della gente questa risorsa essenziale. Come dichiara un documento strategico
di Monsanto:
In primo luogo è nostra opinione che siano probabili alcune discontinuità
(rappresentate o da grandi cambiamenti di politica o da importanti inversioni
di tendenza nella qualità e quantità di questo risorsa), particolarmente
nell’area dell’acqua. Da parte nostra, tramite queste aziende noi saremo in
un’ottima posizione per ricavare un utile ancora maggiore al verificarsi di
queste discontinuità. In secondo luogo stiamo attualmente esplorando le
potenzialità di schemi di finanziamento di tipo non tradizionale (ONG, Banca
Mondiale, USDA, ecc.) che potrebbero essere in grado di ridurre il nostro
investimento, o in alternativa, fornire risorse locali per la costituzione di
aziende nei paesi interessati.
La tendenza da parte della Banca Mondiale ad
usare i propri condizionamenti finanziari per privatizzare l’acqua e stabilire
uno sfruttamento commerciale di questa risorsa coincide perfettamente con le
aspirazioni di Monsanto. La Banca Mondiale si è anzi già offerta di prestare
assistenza. Come conferma il documento strategico di Monsanto:
Siamo particolarmente entusiasti della prospettiva di una potenziale
partnership con la International Finance Corporation (IFC) della Banca
Mondiale, per avviare progetti in partecipazione nei mercati in via di
sviluppo. La IFC è ansiosa di lavorare con Monsanto per la commercializzazione
di una opportuna sostenibilità ed apporterebbe sia capitali di investimento
sia alte capacità in ambito locale.
La crisi provocata dall’inquinamento e
dall’esaurimento delle risorse idriche viene quindi vista da Monsanto come
un’opportunità commerciale. Per Monsanto, “sviluppo sostenibile” significa la
trasformazione di una crisi ecologica in un mercato di beni scarsi.
La logica commerciale dello sviluppo
sostenibile consiste nel fatto che la crescita demografica e lo sviluppo
economico eserciteranno sempre maggiore pressione sui mercati delle risorse
naturali. Entro l’anno 2008, Monsanto prevede di percepire introiti di 420
milioni di dollari e un reddito netto di 63 milioni di dollari dalle attività
idriche in India e in Messico. Entro l’anno 2010, si calcola che circa 2
miliardi e mezzo di persone nel mondo non avranno alcun accesso ad acqua
potabile sicura. Entro l’anno 2025 l’erogazione dell’acqua in India sarà pari
a 700 km3 per anno, mentre secondo le stime la domanda toccherà
quota 1.050 unità. Va da sé che il controllo di questa scarsa risorsa porterà
a profitti sicuri.
La politica di privatizzazione dell’acqua fu
articolata dalla Banca Mondiale nel 1992, in un documento dal titolo “Per una
migliore gestione delle risorse idriche”. La Banca ritiene che la
disponibilità di acqua a basso prezzo o a titolo gratuito non sia economica né
efficiente. Anche i poveri devono pagare. Come afferma la Banca Mondiale:
Laddove l’erogazione dell’acqua è sicuro, le persone povere sono disposte a
pagare mentre... laddove questo servizio non è sicuro, i poveri pagano di più
ma ricevono meno, normalmente affidandosi a venditori ambulanti. Come
sottolineato nel “Rapporto sullo sviluppo mondiale 1992”, è necessario offrire
alle popolazioni povere una più ampia scelta nel livello dei servizi idrici
per cui sono disposte a pagare. In tal modo si offre ai fornitori una quota
finanziaria nel soddisfacimento dei bisogni dei poveri. I tariffari possono
essere strutturati affinché gli utenti ricevano un volume limitato di acqua a
basso prezzo e paghino di più per tutta l’acqua supplementare che consumano.
Questa è la logica di ridurre i diritti
universali e fondamentali, come appunto il diritto all’acqua, al commercio e
ai mercati, e poi “mirare” ai poveri per offrire l’accesso a un sistema che
essenzialmente li esclude. Si è applicata la stessa logica nello
smantellamento dei diritti sui generi alimentari in India. Tuttavia, anche se
in quel caso come principale giustificazione per l’eliminazione delle
sovvenzioni e alla trasformazione del sistema pubblico di distribuzione (PDS)
in un sistema pubblico di distribuzione mirata (TPDS) si era addotto il taglio
della spesa pubblica, la spesa pubblica è invece aumentata, così come sono
aumentati i prezzi. L’unica cosa a calare sono stati i consumi dei poveri. E
mentre migliaia di persone morivano di fame, nei magazzini marcivano milioni
di tonnellate di granaglie.
Proprio come nella distribuzione dei
prodotti alimentari le politiche di riforma economica sono guidare dalla
logica della privatizzazione promossa dalla Banca Mondiale.
Di recente la Banca Mondiale ha varato
varie riforme del settore idrico, intese soprattutto a privatizzare le risorse
e a commercializzare la gestione dei servizi. Questa politica di
privatizzazione raccomanda la commercializzazione delle operazioni a tutti i
livelli, l’investimento privato, un sostanziale aumento dei prezzi dell’acqua,
un aumento delle tariffe elettriche per l’agricoltura e la creazione di
mercati per l’acqua.
Tutte queste sono solo ricette per
trasformare l’acqua in un bene economico, piuttosto che mantenerlo un bene
fondamentale. La privatizzazione aggraverà la crisi dell’acqua poiché, vista
la diseguaglianza fra ricchi e poveri, fra industria e agricoltura, fra città
e campagne, i mercati idrici taglieranno l’acqua ai poveri per darla ai
ricchi, portandola da aree rurali già impoverite a enclave urbane affluenti.
Porterà inoltre all’ipersfruttamento dell’acqua, in quanto se l’accesso
all’acqua sarà dettato dal mercato e non da limitazioni di rinnovabilità, il
ciclo idrico sarà violato in modo sistematico e la crisi dell’acqua non farà
che accentuarsi. La gestione da parte delle comunità locali è un prerequisito
sia per la conservazione sia per un uso equo dell’acqua.
Ma la Banca Mondiale, ignorando queste
limitazioni di disponibilità dell’acqua e l’imperativo della sua
conservazione, raccomanda invece lo spostamento da un approccio “orientato
verso l’offerta” ad uno “orientato verso la domanda”. In altre parole, la
domanda da parte dei ricchi avrà la meglio sui bisogni dei poveri e sulle
limitazioni imposte dalla natura. La parziale applicazione di questa logica di
prestiti della Banca Mondiale non sta alla radice della presente crisi.
L’applicazione totale della logica della privatizzazione non allevierà certo
la crisi, anzi la aggraverà.
L’acqua è diventata un grande business per le
corporation globali, che intravedono mercati illimitati nella crescenti di
scarsità e nella domanda in aumento per questa risorsa.
Le due principali corporation del
mercato dell’acqua stanno guardando con grande attenzione alla privatizzazione
dei servizi pubblici per l’acqua potabile e al mercato dell’acqua in
bottiglia. I due massimi nomi nell’industria dell’acqua sono Vivendi
Environment e Suez-Lyonnaise des Eaux. Entrambe hanno sede a Parigi ma stanno
costruendo un impero di dimensioni mondiali. Questi giganti francesi
dell’acqua hanno infatti interessi in ben 120 paesi.
Vivendi Environment, il braccio dei
“servizi ambientali” di Vivendi Universal, si occupa di acqua, gestione dei
rifiuti, energia e trasporti. Vivendi Universal è una società globale di
comunicazioni e media attiva nei settori di TV, cinema, editoria, musica,
internet, telecomunicazioni e, naturalmente, acqua. Il 20 giugno 2000 si è
fusa con Seagram Co. Ltd. e con Canal Plas SA. Il 27 gennaio 2000 Vivendi si è
aggiudicata un contratto valutato in 43 milioni di euro per il trattamento
delle acque di scolo nella città di Berna.
Vivendi possiede inoltre al 50% una
società in partecipazione con SAUR chiamata CTSE, nella Repubblica Ceca. Le
vendite nette totali sono stimate intorno ai 200 milioni di euro. Una
consociata di Vivendi, Onyx, ha rilevato le operazioni di Waste Management
Inc. in Messico, per la somma di 47 milioni di dollari. Vivendi ha poi
acquistato da Waste Management i servizi di gestione dei rifiuti a Hong Kong e
in Brasile, per la somma di 136 milioni di dollari.
Thames Water, Biwater e United Utilities
sono aziende idriche del Regno Unito attive in Asia, Sud Africa e nelle
Americhe. Tuttavia, Thames è stata acquistata per oltre 6 miliardi di dollari
da RWE, una grande azienda elettrica molto diversificata che ora ha fatto il
suo ingresso nel settore idrico. Biwater venne costituita nel 1968. Il suo
nome (“Biwater”, ossia “due acque”) intendeva rispecchiare la duplice natura
delle attività dell’azienda, specializzata sia nell’acqua potabile che nelle
acque di scolo.
Negli anni ’70 Biwater stipulò contratti
in Indonesia, Hong Kong, Iraq, Kenya e Melawi, mentre nel 1986 si aggiudicò il
contratto per l’erogazione idrica nelle campagne della Malesia. Nel 1989 fece
il suo ingresso nel mercato dell’acqua del Regno Unito, durante la
privatizzazione di questo servizio da parte del governo, ma era già attiva in
Messico e nelle Filippine negli anni ’40. Nel 1992 acquisì l’azienda tedesca
IBO GmbH e nel 1993 la polacca Megadex. Infine, nel 2000 ha dato vita a una
società chiamata Cascal, in partecipazione con l’olandese NV Nuon ENW. Tramite
Cascal, ora può vantare concessioni nel Regno Unito, in Cile, nelle Filippine,
nel Kazakhstan, nel Messico e in Sud Africa.
La spagnola Aquas de Barcelona è attiva
in America Latina. Anche la General Electric sta collaborando con la Banca
Mondiale per creare un fondo di investimento finalizzato alla privatizzazione
dell’elettricità e dell’acqua in tutto il mondo. Altrove, il gigante
dell’energia Enron ha iniziato a partecipare a gare d’appalto per i contratti
idrici in Bulgaria, a Rio de Janeiro, Berlino e Panama. La società idrica di
Enron è Azurix, che prevede di spendere 600 miliardi di dollari in
infrastrutture idriche e fognarie in tutto il mondo nei prossimi dieci anni,
con un introito annuo totale di circa 400 miliardi di dollari. Ma Azurix non è
riuscita a competere con Vivendi e Suez-Lyonnaise e ora Enron sta
riacquistando l’azienda, preparandosi al suo smantellamento.
La privatizzazione dei servizi idrici è
il primo passo nella privatizzazione dell’acqua. Il mercato statunitense
dell’acqua, che secondo le stime vale 90 miliardi di dollari, è il più grande
del mondo. Vivendi sta investendo ingenti somme per assumerne il controllo.
Nel marzo del 1999 ha acquistato U.S. Filter Corporation per oltre 6 miliardi
di dollari e ha costituito la più grande corporation in tutto il Nord America,
con utili previsti di 12 miliardi di dollari.
La privatizzazione dei servizi idrici
porta a un aumento dei prezzi che i consumatori pagano per l’acqua. In Francia
le bollette sono aumentate del 150% a seguito della privatizzazione, ma
nonostante ciò la qualità dell’acqua è peggiorata. Un rapporto del governo
francese rivela che oltre 5,2 milioni di abitanti hanno ricevuto acqua
“inaccettabile dal punto di vista del contenuto batterico”. In Inghilterra, le
bollette dell’acqua sono aumentate del 450%, i profitti per le corporation del
692% e i salari dei loro direttori generali del 709%. Nel frattempo, il numero
di sospensioni forzate dell’erogazione per via degli aumenti improvvisi dei
prezzi è cresciuto del 50%. I casi di dissenteria sono sestuplicati e la
British Medical Association, l’associazione dei medici inglesi, ha condannato
la privatizzazione dell’acqua per via delle pesantissime ripercussioni
sanitarie che sta avendo nel paese.
In Argentina l’azienda idrica statale,
Obras Samitarias de la Naceon, è stata venduta ad Aguas Argentinas, una
consociata di Suez-Lyonnaise des Eaux. La IFC, una diramazione della Banca
Mondiale, ha concesso ad Aguas Argentinas prestiti per 172,5 milioni di
dollari nel 1994. Un’altra consociata dell’azienda francese ha vinto un
contratto trentennale per l’erogazione idrica nelle campagne. Ha
immediatamente raddoppiato i prezzi, ma non è riuscita a fornire acqua pulita.
Dinanzi al rifiuto degli utenti di pagare le bollette, in seguito ha dovuto
battere in ritirata.
Nella zona delle fabbriche maquiladoras
in Messico, l’acqua potabile è così scarsa che a neonati e bambini si fanno
bere Coca-Cola e Pepsi. È palese che la scarsità dell’acqua è una fonte di
profitto per le corporation. Coca-Cola vende in ben 195 paesi del mondo, con
introiti di 16 miliardi di dollari. Come riferisce un rapporto annuale di
Coca-Cola:
Tutti noi della grande famiglia Coca-Cola possiamo alzarci il mattino sapendo
che quel giorno ognuno dei 5,6 miliardi di abitanti del mondo avrà sete. Se
facciamo sì che quei 5,6 miliardi non possano sottrarsi a Coca-Cola,
garantiremo il nostro futuro successo per molti anni a venire. Non possiamo
permetterci di agire diversamente.
Ma aziende come Coca-Cola sanno benissimo che
solo l’acqua disseta davvero e, insieme ad altre grandi corporation, stanno
tuffandosi nel business dell’acqua in bottiglia. Coca-Cola ha un marchio
internazionale per l’acqua, Bon Aqua (chiamato “Dasani” in America), mentre
Pepsi ha la linea Aquafina. Coca-Cola prevede che le vendite di acqua
supereranno quelle delle bevande analcoliche. In India la linea di acqua di
proprietà di Coca-Cola si chiama Kinley. Quando l’azienda ha usato un medico
per fare pubblicità alla sua acqua in bottiglia, il governo è stato costretto
a intervenire. Ha quindi deciso di classificare l’acqua in bottiglia come un
“alimento”, sotto l’egida della legislazione Prevention of Food Adulteration
Act (legge per la prevenzione dell’adulterazione alimentare). Una circolare
introdotta precedentemente dal governo non consentiva ai medici di promuovere
specifici prodotti alimentari e Coca-Cola è stata costretta a interrompere la
campagna pubblicitaria a sostegno di Kinley.
Oltre a Coca-Cola e a Pepsi, ci sono numerose
altre marche di acqua molto conosciute, come Perrier, Evian, Naya, Poland
String, Clearly Canadian, Purely Alaskan. Esistono poi migliaia di altri
piccoli imbottigliatori. Nel marzo 1999 il Natural Resourse Defense Council
(Consiglio per la tutela delle risorse naturali) ha preso in esame 103 marche
di acqua in bottiglia e ha appurato che l’acqua in bottiglia non è più sicura
dell’acqua del rubinetto. In più, un terzo delle marche conteneva arsenico e
il batterio E. Coli, mentre un quarto conteneva semplice acqua di
rubinetto imbottigliata. In India, uno studio condotto sull’acqua in bottiglia
e pubblicato sul numero di gennaio-febbraio 1998 del periodico Insight
pubblicato dal Consumer Education and Research Centre di Ahmedabad ha
riscontrato che, su 13 marche di acqua molto conosciute, solo 3 risultavano
conformi a tutte le specifiche. Nessuna delle marche era esente da batteri,
sebbene alcune pretendessero di essere “mancanti da germi” e 100% esenti da
batteri.
Nella regione semidesertica di Cochobamba, in
Bolivia, l’acqua è un bene scarso e prezioso. Nel 1999, la Banca Mondiale ha
raccomandato la privatizzazione dell’azienda idrica municipale di Cochobamba,
la SEMAPA, tramite una concessione ad Aguas del Tunari, un consorzio privato,
che includeva anche International Water, una consociata di Bechtel. Si è
quindi varata una legge nell’ottobre 1999, la cosiddetta Drinking Water and
Sanitation Law (legge sull’acqua potabile e sui servizi igienico-sanitari),
con cui si revocavano le sovvenzioni ai servizi essenziali e se ne autorizzava
la privatizzazione.
La nuova azienda idrica privata in men che non
si dica ha raddoppiato i prezzi e, in una città dove il salario minimo non
tocca neppure i 100 dollari al mese, il costo dell’acqua è salito a 20 dollari
al mese, pari quasi al costo del sostentamento di una famiglia di cinque
persone per un intero mese. L’improvviso aumento del prezzo dell’acqua, ossia
la fonte di profitto per Bechtel, si basava quindi sulla privazione di cibo,
vestiario, istruzione e cure sanitarie per i bambini già poveri. Nel gennaio
2000 gli abitanti hanno formato un’alleanza, La Coordinadora[94],
che ha bloccato tutta la città per quattro intere giornate. A quel punto il
governo ha promesso di revocare gli aumenti dei prezzi, ma poi non l’ha fatto.
La Coordinadora ha quindi organizzato una marcia pacifica nel mese di
febbraio, con “una simbolica assunzione del controllo della città di
Cochobamba, chiedendo l’abrogazione della Drinking Water and Sanitation Law,
l’annullamento delle ordinanze che autorizzavano la privatizzazione, la revoca
del contratto e la partecipazione dei cittadini alla stesura di una nuova
legislazione sulle risorse idriche, la Water Resource Law. Le proteste sono
state represse con violenza dal governo.
La mobilitazione dei cittadini verteva
direttamente sulla logica della privatizzazione dell’acqua. La critica
fondamentale della concessione, avanzata dalla Coordinadora, riguardava la
negazione dei diritti di proprietà che la comunità poteva vantare sulle
risorse idriche, i diritti tradizionali (“usos y costumbres”), e i diritti e
gli obblighi di corporation idriche, comitati e associazioni.
Gli slogan del movimento dei cittadini di
Cochobamba erano questi: “L’acqua è un dono di Dio, non una merce” e “L’acqua
è vita”. Riprendendosi l’acqua dalle corporation e dal mercato, i cittadini
della Bolivia hanno dimostrato che la privatizzazione non è un fatto
ineluttabile e che la volontà democratica può impedire alle corporation di
assumere il controllo delle nostre risorse idriche essenziali.
Questo articolo è un estratto da Water Wars: Pollution, Profits, and
Privatization, di imminente pubblicazione presso South End Press. Riproduzione
autorizzata.
Nigel Harris
Cina:
globalizzazione e nuova agenda
Nigel Harris
economista e giornalista residente a Londra, ha scritto numerosi lavori sui
paesi in via di sviluppo e sulle migrazioni internazionali. È autore di due
libri di prossima pubblicazione presso la IB Taurus (Thinking
the Unthinkable: The Myth of Immigration e The Return of Cosmopolitan
Bourgeoisie: Globalization, the State, War, and Capital).
In Italia è stato pubblicato recentemente (2000) un suo saggio per i tipi del
Saggiatore, Gli intoccabili.
“Laddove invece (…) il potere statale interno
di un paese è entrato in opposizione col suo sviluppo economico, come ad un
certo grado di sviluppo è occorso sinora ogni potere politico, la lotta ogni
volta è finita con la caduta del potere politico. Senza eccezione ed
ineluttabilmente lo sviluppo economico si è aperta la via (…)”
(Friedrich Engels “Anti-Dühring)
Engels aveva ragione? Da allora abbiamo avuto
numerose occasioni per verificare le sue conclusioni. La necessità dello
sviluppo economico non sembra aver disciplinato il nazismo tedesco, né, per
lungo tempo, l’Unione Sovietica. In Cina l’equilibrio fra imperativi politici
ed economici non è assolutamente una conclusione scontata.
Ci sono, in questo senso, due temi centrali.
Il primo lo possiamo chiamare “il vecchio ordine del giorno” delle rivalità
globali tra stati sovrani. In questo contesto la Cina sta emergendo come
grande potenza in un mondo dominato dagli USA. Sappiamo cosa è avvenuto in
passato quando una nuova potenza, la Germania, ha provato a farsi spazio in un
mondo dominato da vecchie potenze come la Gran Bretagna, la Francia e il
resto: due guerre mondiali. In base a questo ordine del giorno, la posizione
geopolitica, il territorio, l’onore nazionale, e il diritto alla sovranità
sono tutto, ma il terreno delle rivalità potrebbe apparire triviale (la
rivendicazione di un pezzettino d’isola o la visita di politici taiwanesi a
Tokyo o a New York).
Ma c’è un secondo tema che non era all’ordine
del giorno quando la Germania provò a farsi strada nel sistema: il crescente
dominio dei mercati mondiali sugli Stati, l’indebolimento della sovranità. In
questo senso tutti i governi sono posti di fronte alla stessa contraddizione.
Da una parte, la crescente integrazione nel sistema mondiale è la condizione
per una crescita economica; dall’altra, l’integrazione riduce progressivamente
l’area di discrezionalità dello stato e quindi anche la sua capacità di
plasmare l’economia nazionale in conformità ai suoi obiettivi.
Nelle “società in transizione” – i paesi che
sono passati da un ordine totalmente statalista (come gli Stati del vecchio
blocco comunista) a uno dominato dal mercato – questo problema si presenta con
caratteristiche particolari. In Cina, come del resto in Unione Sovietica, la
politica apparentemente era tutto, mentre l’economia le era interamente
subordinata. Con il mercato, l’ideologia centrale (il comunismo), decade e non
può essere più il collante che tiene insieme la vecchia società. Dappertutto è
stato sostituito dal nazionalismo, dalla xenofobia. Così il nazionalismo russo
di Boris Eltsin ha sconfitto “l’internazionalismo sovietico” di Michail
Gorbačev; il nazionalismo serbo di Slobodan Milosevič ha rimpiazzato
“l’internazionalismo jugoslavo”.
La situazione in Cina è analoga. Con il
decadere del Partito Comunista i quadri usano la loro posizione politica per
far soldi attraverso la gestione delle Imprese di Proprietà Statale (di
seguito, IPS), aprendo nuovi business gestiti dagli enti locali o nuove
aziende private. La sola etica su cui si basano per garantire un livello
minimo di unità sociale è quella della xenofobia, dell’ostilità verso il resto
del mondo. Ma più l’ordine dominante fa assegnamento sulla xenofobia per
tenere insieme la società e tanto meno è in grado di siglare quegli accordi di
collaborazione con altre potenze che tengono aperti i mercati delle
esportazioni, le fonti delle importazioni e del capitale straniero, ovvero le
componenti dell’alta crescita economica e di conseguenza del consenso
politico.
Il futuro prossimo è pieno di incognite. A
Pechino hanno paura che accettando le condizioni poste per entrare nel WTO
verrà danneggiata l’agricoltura dopo un lungo periodo di stagnazione, si
accelererà il declino delle IPS e aumenterà la disoccupazione. L’inquietudine
sociale potrebbe offrire le basi per una sfida xenofoba all’ordine dominante,
specialmente se acuita dalla peculiare struttura decentralizzata del potere
nel paese e dalle crescenti differenze tra le varie regioni. L’inquietudine
sociale potrebbe insomma minacciare l’unità stessa del paese.
Il battibecco tra la nuova amministrazione
Bush e il governo cinese è, per il momento, finito. La crisi era nata per via
della perdita da parte della marina statunitense dell’aereo spia EP-3,
costretto ad atterrare sull’isola di Hainan il 1° aprile dopo una collisione
con un caccia cinese, il cui il pilota rimase ucciso. Ma questo è stato solo
il punto più drammatico di una serie di cambiamenti nella politica estera USA
che Pechino vedeva come ostile: l’adozione del programma di difesa
missilistica nazionale (NMD); il mutato atteggiamento verso la Cina che,
mentre nell’approccio clintoniano era vista come un “partner strategico”, ora
viene identificata come “competitore strategico”; la firma del più grande
contratto militare USA con Taiwan da nove anni a questa parte; l’aver permesso
al presidente di Taiwan Chen Shui-bian di visitare New York e di incontrarsi
con ufficiali americani di alto grado; il ricevimento del Dalai Lama e così
via.
Ci sono state divisioni nelle riunioni dei
vertici a Pechino su come rispondere a questi atti minacciosi. Da una parte
Pechino è su una debole difensiva; ha bisogno del favore degli USA per tenere
aperto il suo più importante mercato per l’esportazione, per sostenere
l’afflusso di tecnologia e capitali e per guadagnarsi l’entrata nel WTO.
D’altro canto una Grande Potenza non può accettare tali insulti dinanzi agli
occhi del mondo. Pare che un funzionario del ministero degli Esteri di Pechino
abbia detto che l’esercito cinese premeva sul governo per l’arresto, il
processo e la condanna a pena detentiva del pilota dell’aereo spia e dei due
copiloti. Il gruppo del Presidente Jiang Zemin è riuscito a resistere a queste
pressioni, magari lanciando ai cani dell’esercito l’osso di consolazione
dell’arresto e del processo di tre ricercatori cino-americani accusati di
essere spie di Taiwan (tutti poi espulsi).
Malgrado un po’ di rumore, non è avvenuto
nulla di paragonabile alle reazioni dopo il bombardamento NATO dell’ambasciata
cinese a Belgrado. In quell’occasione una folla ben organizzata prese a
sassate e diede alle fiamme l’ambasciata americana, mentre il “Quotidiano del
Popolo” con una frase memorabile paragonò Washington “ai cani che non possono
smettere di mangiare i loro escrementi”. L’equipaggio dell’aereo spia è stato
rilasciato e ora l’aereo smantellato è stato anch’esso rispedito negli USA. Le
proteste cinesi sono state miti, senza minacce di ritorsioni salvo una vaga
minaccia di vendere armi ai nemici di Washington nel Medio Oriente.
Anche le prospettive di un intervento militare
contro Taiwan sono state ridimensionate. Nel 1996 L’Esercito Popolare di
Liberazione [nome ufficiale dell’Esercito cinese n.d.r.] fece 10 test
missilistici nelle acque territoriali di Taiwan, in una specie di danza di
guerra appena oltreconfine. Questa volta, invece, l’esercito cinese ha
mobilitato forze nell’“Operazione Liberazione Uno” sull’isola turistica di
Dongshan, mettendo in bella mostra le sue nuove armi (i caccia Su-27,
sottomarini, carri anfibi, missili avanzati). Forse i generali volevano che
questa fosse vista come una grande prova di forza, ma i media ufficiali hanno
dato poco spazio alla notizia, descrivendola come un’esercitazione militare di
routine.
In cambio, l’amministrazione americana si è
prodotta in umili scuse, recitando la sua parte del copione.
Bush ha quindi rinnovato il diritto della Cina
a basse tariffe commerciali sul mercato americano, in attesa della sua entrata
nel WTO. Jiang Zemin e il suo gruppo riformista hanno bisogno di scontare dei
successi all’estero per giustificare la loro politica interna, e
l’approvazione americana, simbolizzata dalla visita di Clinton a Pechino nel
1998, costituisce uno di questi risultati positivi. In questo modo gli
xenofobi possono essere tenuti a bada. È un successo particolarmente
importante data la prossima entrata nel WTO e le paure degli effetti dannosi
che a breve termine quest’adesione potrebbe determinare. Bush ha in calendario
una visita a Pechino ad ottobre. E la leadership cinese è stata infine
ricompensata con l’organizzazione dei Giochi Olimpici del 2008.
Comunque questo non deve creare illusioni sul
fatto che la Cina, a lungo andare, cercherà senz’altro di sgomitare con
Washington in gran parte dell’Asia. Pechino ha infatti continuato il suo
assiduo corteggiamento della Russia, sia per la vendita di armi che per
assicurare una opposizione congiunta alla potenza globale USA. Il Primo
Ministro Zhu Ronghzi, nella sua visita a Mosca del febbraio 1999, firmò ben 11
accordi di cooperazione e il Presidente Vladimir Putin ha visitato Pechino nel
luglio dello scorso anno per preparare il trattato di cooperazione varato poi
quest’anno. Ma in questo senso c’è ben poco di nuovo. Eltsin e Jiang Zemin
avevano già firmato firmato “una partnership strategica per il ventunesimo
secolo” nell’aprile del 1996. Le questioni che dividono Russia e Cina - come
evidenziate a tutto il mondo dallo strappo cino-sovietico degli anni ’60 –
rimangono sostanziali e Mosca è sempre più interessata a trattare con
Washington da pari piuttosto che con la Cina.
Lo sforzo della Cina di trasformare il gruppo
dei paesi del Sudest asiatico in forze antiamericane non è stato coronato da
successo. Non le è restato quindi che cercare di mirare alle parti più deboli
dell’Asia meridionale e sud-orientale, spesso in antagonismo con l’India (come
il Nepal e Burma o Myanmar). Ci sono stati momenti in cui sembrava possibile
che la Cina potesse allearsi con l’India (nei giorni felici prima del 1962 e
degli scontri di frontiera), ma le rivalità sono troppo accese. È possibile
che la rapida abolizione delle sanzioni americane contro l’India, dopo
l’esplosione di tre ordigni nucleari nel 1998 a Rajasthan, sia stata motivata
dal tentativo di tenere Delhi e Pechino separate. Delhi ha risposto dando la
sua approvazione al programma USA di difesa missilistica nazionale (NMD) come
un mezzo per neutralizzare la capacità missilistica nucleare cinese. A Burma
la giunta militare è diventata economicamente e politicamente dipendente dalla
Cina. La provincia cinese dello Yunnan sta usando il porto di Rangoon (Yangon)
come il principale sbocco per le esportazioni (e come un modo per sottrarsi ai
costi di trasporto da Yunnan alla costa orientale cinese). La zona di confine
è in grande espansione e il commercio è cresciuto in maniera notevolissima –
da 15 milioni di dollari nel 1980 a ben 2 miliardi di dollari; sono in corso
lavori di ampliamento per autostrade e ponti, in parte per portare le armi
cinesi ai generali di Burma.
Nel Sudest Asiatico il quadro è simile –
vendita di armi, estensione del credito e delle esportazioni cinesi. In Laos,
sono i tecnici cinesi che stanno modernizzando l’esercito e costruendo
un’autostrada che dalla Cina porta al Mekong (andando a minacciare
direttamente la Tailandia). Pechino ha offerto di dragare il Mekong in modo
tale che navi più grandi possano raggiungere Vientiane.
Comunque si tratta essenzialmente in
quisquilie, spesso rese possibili solo dal fatto che l’esercito USA è visto
come il garante ultimo della sicurezza regionale contro le minacce cinesi,
senza ambizioni territoriali. La Cina si comporta da stato nazionale di
vecchio stampo, arraffando tutto il territorio su cui riesce a mettere le
mani, finendo per minare qualsiasi sua ambizione di porsi alla guida
dell’Asia. La rivendicazione cinese delle isole Spratly in mare del Sud della
Cina (“territorio sacro della madrepatria cinese”, come affermano le
dichiarazioni cinesi più assurde) conduce a scontri armati con Vietnam,
Filippine, Malesia, ecc. Quando Pechino ha esteso unilateralmente le sue acque
costiere includendo tutte quelle del mare del Sud della Cina, è parsa
immediatamente rivendicare la proprietà delle riserve petrolifere al largo
dell’Indonesia. In Vietnam ha pochi amici. Non solo Mao accettò la richiesta
di Nixon di aiutarlo a cavarsi dai pasticci del Vietnam 30 anni fa, ma i due
paesi hanno combattuto una guerra nel 1979 e hanno avuto almeno due scontri
armati sulle isole Spratly negli anni ’80. Per contro la difesa di Taiwan da
parte degli USA contro la Cina è una chiarissima dimostrazione per il resto
dell’Asia di dove stia il vero potere.
Comunque questi sono giochi geopolitici, robe
da diplomatici.
Giochi che si basano sul vecchio
ordine del giorno, dove i governi erano di gran lunga i protagonisti e avevano
il pieno controllo della loro realtà. Oggi questa realtà è più complicata ed è
fatta di mercati globali che hanno eroso le pretese degli stati sovrani,
rimodellando gli ordini del giorno politici verso direzioni che spesso possono
essere colte solo se non molto tempo dopo.
Comunque i personaggi del
vecchio ordine del giorno – la Cina, gli USA e così via - sono essi stessi da
tempo instabili. La Cina è sempre più strettamente collegata con i mercati
mondiali e gli straordinari alti tassi di crescita economica degli ultimi due
decenni hanno trasformato la sua struttura sociale, contribuendo marcatamente
a insidiare il controllo di Pechino.
Certamente la Cina non è mai
stata stalinista nel senso dell’URSS – con i giganteschi ministeri centrali
moscoviti che esercitavano il potere assoluto sull’immenso territorio della
vecchia Unione Sovietica. La logica della conquista del potere per mezzo della
guerriglia lascia inevitabilmente molta più iniziativa a livello locale e
provinciale, e tutto questo è sopravvissuto anche ai grandi sconvolgimenti del
Grande Balzo in Avanti e della Rivoluzione Culturale. La storia
dell’evoluzione politica della Cina a partire dal 1949 può essere anzi
riassunta nella continua lotta tra il potere centrale e quello locale. Il
potere locale – la regione militare di Canton – garantì la protezione di Deng
Xiao-Ping quando la Banda dei Quattro voleva la sua testa Pechino alla metà
degli anni ’70. Nella repressione militare di Piazza Tienanmen nel 1989,
passarono due settimane tra la dichiarazione dello stato di emergenza e
l’arrivo dell’Esercito, due settimane in cui i rappresentanti di Pechino
furono costretti a correre da una regione militare all’altra per tentare di
assicurarsi un minimo di consenso.
Oltre alle trasformazioni
sociali prodotte dagli alti tassi di crescita si è anche assistito a un
decisivo allontanamento dalla vecchia struttura industriale, da un settore
pubblico nazionale diretto dal centro, con un piano nazionale e finanziato
dalle banche nazionali. Nel 1979 praticamente tutta la produzione industriale
proveniva da questo settore. Questa quota è ora calata al 28% (sebbene gran
parte della forza lavoro urbana sia tuttora impiegata in questo settore). Un
ulteriore 31% proviene dalle cosiddette “imprese di città e di villaggio”,
piccole unità che sono progettate, rese operative, finanziate e, nel caso
chiuse dagli enti locali, collocandosi così fuori dal piano nazionale. Infine
il 40% della produzione è realizzato dal business privato. A quello che viene
chiamato “settore non statale” si devono ora quasi i tre quarti della
produzione industriale nazionale. All’inizio degli anni ’90 c’erano solo poco
di più di 100.000 operazioni private (ossia operazioni che impiegavano 8 o più
lavoratori), alle cui dipendenze lavoravano 1,8 milioni di operai; queste ora
ne impiegano 24 milioni, mentre è probabile che altri trenta milioni siano
impiegati in unità con meno di 8 operai. Molti dei quadri di partito sono
coinvolti nel business privato, sia direttamente sia sfruttando la loro
posizione per sostenerlo (ed ottenendone un debito corrispettivo finanziario).
Fino a ora il partito ha resistito alle richieste dei businessmen che volevano
prendere la tessera, ma ultimamente ha annunciato che i capitalisti possono
farlo apertamente.
Inoltre, nel periodo delle
riforme, nella fase di alta crescita economica la frammentazione del paese si
è accentuata. Uno degli elementi chiave è stata la decisione di provare a
riformare il peso morto delle IPS decentralizzandone il controllo a livello
locale (in prima istanza, in 27 province o in 4 città con status provinciale).
I quadri locali del partito vedono la chiave della loro ascesa (e delle loro
entrate) nella spinta alla più rapida crescita economica locale possibile e a
qualsiasi costo, quindi hanno iniziato a competere furiosamente tra loro per
il capitale e i mercati, comportandosi come se dirigessero paesi separati. Un
elemento fondamentale qui era la protezione dei produttori locali contro le
“importazioni” dal resto della Cina – dal blocco fisico di tali importazioni,
fino all’imposizione di regimi fiscali o tasse o esigendo degli standard
qualitativi speciali. Alcuni dei casi più noti – tra quelli che si conoscono -
hanno riguardato il tabacco, gli alcolici, il grano, la farina, i semi di
soia, l’acqua imbottigliata, le medicine e, caso diventato celebre, i giornali
(Shenhzhen ha tentato persino di escludere i giornali della vicina provincia
del Guandong a vantaggio dei produttori locali di media). All’ultimo Congresso
Nazionale del Popolo i rappresentanti di una delle più grandi imprese edili
del paese, il Shanghai Construction Group, si lamentavano amaramente del fatto
che fosse spesso impossibile per loro vincere un appalto fuori da Shanghai
perché gli enti locali favorivano solo aziende della zona. I quadri usavano I
tribunali e la legislazione locale per bloccare le acquisizioni di ditte
locali e facevano fortissime pressioni sulle banche per salvare quelle in via
di fallimento – da qui i livelli straordinari di indebitamento del sistema
bancario cinese.
Gli esiti sono diversi. Il primo
consiste nel fatto che il grande vantaggio offerto delle dimensioni del
mercato nazionale - lo sfruttamento dell’economia di scala (e la
specializzazione territoriale) - non esiste più; le grandi ed efficienti
aziende e municipalità sono tenute fuori da gran parte del paese. Il secondo è
la crescente differenziazione tra le aree del paese più ricche e ad alta
produttività e quelle più povere.
Un terzo è il problema della
sovracapacità e degli sprechi degli investimenti: ci sono troppe fabbriche di
televisioni e di lavatrici perché gli enti locali le creano fuori da qualsiasi
piano nazionale e le proteggono dalla bancarotta. Consideriamo la produzione
di automobili: attualmente ci sono 120 fabbriche e benché Pechino voglia
ridurle a 6, le province e le municipalità non permetteranno la chiusura di
quelle in eccesso.
C’è poi il problema fiscale. In
Cina, la maggior parte delle entrate fiscali viene raccolta a livello locale e
poi pagata in ultima istanza a Pechino. La quota delle tasse da consegnare
passa attraverso un negoziato. All’inizio del periodo delle riforme,
concessioni speciali venivano fatte alle aree che si favorivano per la
crescita, ma col passare del tempo queste concessioni si sono diffuse anche
altrove. Così, la quota di tasse spettante a Pechino ha teso a contrarsi
costantemente e l’autonomia finanziaria delle amministrazioni locali è
cresciuta.
Pechino ha fatto sforzi continui
per tentare di ricentralizzare gli elementi chiave del potere, specialmente
quelli riguardanti l’erario, ma con successi limitati. Si è più volte proposto
che la privatizzazione delle IPS tagliasse i quadri locali ma questo solleva
l’orrendo problema dei debiti delle IPS, della solvibilità delle banche e dei
licenziamenti di massa. Altri hanno proposto di farla finita con la pratica
dei quadri di assicurarsi avanzamenti di carriera attraverso una crescita
economica accelerata; ma anche in questo caso il problema dell’esecuzione di
queste misure spaventa non poco. Lo scorso aprile, il gabinetto ha
ulteriormente bandito “i blocchi regionali nelle attività di mercato”, ma non
c è nessuna prova che l’equilibrio di potere politico possa garantire a questa
direttiva maggior successo di quelle precedenti.
Comunque, il problema della
riunificazione della economia cinese si sta facendo sempre più pressante. Se
la Cina aderirà al WTO, l’economia interna dovrà essere vista come aperta,
dovrà essere colta come un singolo mercato e non come un groviglio di piccole
enclave protette. Ma attuare tutto ciò è politicamente difficile senza
sollevare un vespaio. Inoltre, l’entrata nel WTO richiede che Pechino tagli le
sovvenzioni all’agricoltura, e ciò colpirà la popolazione agricola – 600
milioni di persone - che non solo in varie aree è già povera, ma che presenta
redditi stagnanti sin alla metà degli anni ’80. La tradizionale guerriglia
rurale e il banditismo non sono stati dimenticati. Inoltre nel Nord si è
assistito a una protratta siccità e a un’estesa desertificazione che ha inciso
sulle culture.
I problemi ambientali che
incombono sulla Cina sono di portata davvero spaventosa. La produttività
dell’agricoltura cinese, da secoli spettacolare sembra approssimarsi a un
punto di crisi per via del fatto che da tempo non si destinano alla terra le
risorse e gli investimenti necessari a garantirne la continuità.
Implicito in tutto ciò è il
sintomo più drammatico di decadenza: la penetrazione della corruzione ovunque
e il profondo cinismo della popolazione circa l’onestà dei suoi leaders. Per
non parlare poi delle dimensioni spettacolari della corruzione – le
corporations enormi e semiprivate dell’esercito, che finanziano la massima
parte del bilancio militare totalmente al di fuori del controllo del governo
centrale. (In teoria il settore era stato abolito nel 1997, ma i fatti
sembrano contraddire questa ipotesi.)
Da sempre vi è un livello
sorprendente di corruzione in Cina – cosa inevitabile visti i poteri
discrezionali permessi a livello locale. Ma l’economia di mercato, insieme
allo stretto rapporto che intercorre fra partito, governo locale e business
sia privato che pubblico, ha aperto una nuova immensa opportunità di
arricchimento. Una serie di casi recenti ha portato alla luce un livello di
gestione partitico-gangsteristica in grandi città — Shenyang, Xiamen, Xingtai
— che potrebbe essere molto più esteso che nei casi citati. Centinaia di
funzionari sono stati arrestati e malgrado i tentativi di proteggere i massimi
dirigenti del partito non è sempre stato possibile farlo, e così uno dei
membri del Politburò è stato condannato a sedici anni di carcere, due sono
stati condannati a morte per corruzione; un vice primo ministro è in attesa di
giudizio per aver accettato bustarelle da contrabbandieri.
Il prossimo anno sarà un anno di sfide per
l’attuale dirigenza. L’economia sembra rallentare malgrado il mercato interno
possa mantenere un tasso rispettabile di crescita nonostante la contrazione
del maggiore sbocco per le esportazioni cinesi: gli USA. L’entrata nel WTO
minaccia di colpire l’agricoltura; la liberalizzazione delle importazioni
industriali potrebbe avere l’effetto di accrescere i debiti degli IPS fino al
punto di costringerli alla bancarotta o a imporre ulteriori licenziamenti.
E, proprio al momento giusto, il
XVI Congresso del partito nel 2002 è fissato per sostituire l’attuale
leadership. Il successore di Jiang Zemin alla guida del partito, nel 2002, e
alla Presidenza dello Stato, nel 2003, Hu Jintao, è già stato identificato e
non ci sono dubbi che altri importanti leaders si stiano già preparando dietro
le quinte (benché la vecchia guardia manterrà ancora posizioni importanti). I
nuovi uomini sono della “quarta generazione”; per la prima volta si tratta di
gente nata dopo che il partito era giunto al potere nel 1949. Ma qualsiasi
transizione nella leadership in tempi così rischiosi può solo accrescere la
vulnerabilità dell’ordine esistente.
Così la globalizzazione si
rifrange nel suo impatto sulla Cina, ingigantendo, a breve termine, alcune
delle pressioni a una più marcata differenziazione sociale e territoriale,
alla frammentazione, alla disintegrazione. Il controllo centrale del partito
si è indebolito, la stupida ed esagerata reazione nel 1999 a Falun Gong ne è
una prova eloquente. Le fazioni che vogliono un atteggiamento più aggressivo
verso l’estero non possono prevalere - le riforme sono andate troppo avanti
ormai - ma possono fare di tutto per sabotare gli sforzi del governo. Taiwan è
stata regolarmente usata dai nazionalisti dell’esercito come un bastone per
colpire il governo e rimane un grave pericolo: coloro i quali sono per
riprendersi l’isola con la forza potrebbero aprire la strada a una guerra con
gli USA e i loro alleati.
Sarebbe confortante accogliere
la valutazione di Engels secondo cui l’economia ha sempre la precedenza sulla
politica, ma se così fosse ci sarebbero state meno guerre nel mondo. Mentre il
vecchio ordine degli stati militari in concorrenza fra loro resta valido, con
gli USA come cardine dell’intero sistema (con un budget per la Difesa uguale a
quello della somma degli altri otto stati che hanno la spesa militare più alta
del mondo), anche se in misura minore il pericolo di guerra rimane. E ha come
teatro più plausibile lo stretto di Taiwan. Là, dove la politica interna della
Cina e l’ordine globale si incontrano.
Terza Parte
IL MOVIMENTO “PER LA GIUSTIZIA GLOBALE”
Mumia Abu-Jamal
Per cosa combatteva Carlo
Mumia Abu-Jamal
è attualmente rinchiuso nel braccio della
morte in Pennsylvania. Scrive abitualmente di politica e pena capitale ed è
autore di molti libri, tra cui All
Things Censored (Seven Sories Press)
La recente uccisione del ventitreenne Carlo
Giuliani da parte della polizia, negli scontri per le vie di Genova, è stata
come un’onda d’urto che ha travolto tutto il mondo.
Giuliani, figlio di un funzionario sindacale,
era uno delle decine di migliaia di manifestanti antiglobal che si erano dati
appuntamento nella città scelta dai politici e dai rappresentanti delle
corporations per una riunione in cui discutere di come continuare a dominare
l’economia mondiale. Carlo faceva parte di un crescente movimento che collega
giovani dei paesi del cosiddetto Primo Mondo con le aspirazioni di molta gente
del cosiddetto Terzo Mondo.
Fu questo movimento che fece tremare Seattle e
rese celebre l’acronimo “WTO” in tutto il mondo.
Per essersi opposto al dominio del capitale,
per essersi opposto all’Impero della Ricchezza, Carlo Giuliani è stato ucciso
dai sicari del Capitale, e come se non bastasse, una jeep dei carabinieri, è
passata sopra il suo corpo prono, ferito.
Con il brutale assassinio di Carlo Giuliani,
il messaggio che si è voluto mandare è che essere contro la globalizzazione è
un reato capitale. Ma questa è solo l’ultima escalation delle forze armate del
capitale, che ha utilizzato livelli più feroci di violenza per intimidire le
file peraltro sempre più compatte, degli antiglobal.
Il sangue sull’asfalto di Genova non ha
iniziato a scorrere quando un carabiniere ha sparato in faccia con la sua
semiautomatica a un anarchico romano mascherato. Il sangue di Genova ha preso
a scorrere nelle strade Gotheborg, dove l’Unione Europea aveva tenuto il suo
summit. In quell’occasione la polizia aveva aperto il fuoco contro i
manifestanti ferendone tre, uno in modo grave.
Ora una anarchico, un antiglobal, è morto.
Quando la notizia è arrivata, mi sono tornate
in mente le parole del commediografo irlandese George Bernard Show, che una
volta disse: “L’anarchismo è un gioco a cui la polizia ti può battere”. Shaw,
pur essendo un fervente socialista, si sarebbe forse corretto alla luce dei
recenti eventi (se avesse potuto).
La cosa più significativa è vedere come i
rappresentanti dello Stato e il loro braccio propagandistico, i media, hanno
reagito alla feroce tragedia.
Mentre i politici all’unisono parlavano con
lingua biforcuta di “tragedia”, non una singola sillaba è stata proferita per
criticare le forze dell’ordine. O mi sbaglio?
Ma i massmedia hanno fatto un gioco diverso.
Praticamente in ogni reportage si parlava di manifestanti violenti, suggerendo
che fossero male informati o semplicemente stupidi, visto che osavano
preoccuparsi dei poveri in Africa, Asia e America Latina. Gaurdate la loro
prevenzione, le loro cronache dettate dalle corporations e fatevi una semplice
domanda: cosa avrebbero scritto se a Genova un poliziotto fosse stato ucciso e
schiacciato dalla Land Rover di un anarchico? Ogni servo delle corporations
avrebbe strombazzato su quanto “feroci” e “violenti” fossero i “terroristi”
antiglobalisti. Questo è poco ma sicuro!
Invece un muto silenzio.
Silenzio, quando i terroristi sono i
poliziotti.
Silenzio, quando gli assassini sono i
poliziotti.
Silenzio, quando i sicari delle corporations
entrano in azione.
Avete certo sentito i politici concionare su
di un “assalto al processo democratico”.
Ma quanto è democratico il G8?
Questo gruppo autoselezionato è formato dalle
sette nazioni più ricche del Pianeta (più la Russia).
Se ci sono circa 193 nazioni nel mondo, è
forse “democratico” che i rappresentanti del 4% della popolazione governino il
resto dell’economia mondiale?
Guardate le cose in un altro modo: il G8 è
composto dai rappresentanti di Canada, Giappone, Germania, Francia, Italia,
Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia. Se si somma tutta la gente che abita in
queste nazioni si arriva a 824 milioni circa di persone. Certo, è un sacco di
gente.
Ma ci sono più di 6 miliardi di persone sulla
Terra!
Come può il 14% della popolazione mondiale
decidere per il restante 86%?
Carlo Giuliani non stava dando l’“assalto al
processo democratico”.
Stava protestando contro un processo
profondamente antidemocratico.
Stava combattendo in nome della schiacciante
maggioranza dell’umanità.
© Mumia Abu-Jamal. Riproduzione autorizzata.
Todd Chretien
Tijuana: lotte in
prima linea contro la globalizzazione
Todd Chretien
è organizzatore della Bay Area
[n.d.r. la vasta zona alla periferia di San Francisco] dell’International
Socialist Organization.
Bastano circa 15 minuti di macchina per andare
dalla città di San Diego a quella di Tijuana. Nel punto d’incontro, lo stato
americano della California e quello messicano di Baja California condividono
le stesse colline ondulate, la vegetazione bassa, il terreno franante e le
spiagge sull’oceano. Tuttavia, il paesaggio umano non potrebbe essere più
diverso.
Dozzine di luccicanti grattacieli di vetro
popolano il profilo di San Diego e un’enorme base navale americana ne domina
il porto. Centinaia di barche a vela e panfili di lusso sono all’ancora ai
suoi porticcioli. Verdi prati artificiali e campi da golf prosciugano le falde
acquifere a beneficio delle classi medie e superiori. Ma appena a sud del
confine, Tijuana è piena zeppa di bar e night club con spogliarelliste, al
servizio di intere bande di studenti e marinai americani. L’aria è malsana a
causa dei fumi industriali e degli scarichi delle auto. Centinaia di bambini
chiedono l’elemosina insieme alle loro madri per le strade, buttandosi su
pochi spiccioli o esibendosi in pericolose acrobazie agli incroci per
rimediare qualche misera offerta.
Il contrasto tra la ricchezza apparente di San
Diego e la povertà di Tijuana è solo uno degli aspetti della globalizzazione
delle grandi corporations. Tuttavia, se si scava più a fondo, ne viene alla
luce un altro: sotto le sembianze esteriori, entrambe le città sono nettamente
spaccate lungo linee di divisione di razza e di classe. A San Diego, l’esigua
popolazione nera patisce i tipici eccessi di brutalità della polizia e la
disoccupazione. I lavoratori ispano-americani, immigrati o nati negli USA,
vengono sistematicamente molestati, arrestati, imprigionati, malmenati e
talvolta uccisi da una miriade di servizi di polizia, dalla “San Diego County
Sheriff” (Polizia Distrettuale di San Diego) all’“Immigration and
Naturalization Service” (INS, Ufficio per l’immigrazione e la
naturalizzazione). Ai lavoratori bianchi alcune di queste palesi umiliazioni
vengono risparmiate, ma sono ugualmente sfruttati – molti restano intrappolati
in lavori malpagati nel settore dei servizi, in quella che rimane una delle
città dell’Ovest più ostili alla sindacalizzazione.
A Tijuana, l’evidente povertà dei molti
nasconde l’oscena ricchezza dei pochi. Politici, proprietari di immobili,
direttori di aziende e alti dirigenti delle maquiladoras vivono in
esclusive zone residenziali sulle colline, protette da feroci cani da guardia
e vigilantes. Verdi prati e piscine, viste spettacolari sul Pacifico, dimore
signorili dotate di aria condizionata e auto sportive parcheggiate in bella
vista distinguono i benestanti. I loro figli frequentano scuole private e
spesso vanno al college negli Stati Uniti.
Le classi dirigenti in entrambe le zone di
confine hanno scoperto molto tempo fa di avere un interesse in comune:
trasformare Tijuana in una gigantesca fabbrica senza sindacato, con un confine
militarizzato per controllare i flussi della forza-lavoro. L’impatto che
questo ha avuto sui lavoratori in Messico e negli Stati Uniti è stato
profondo. In questo articolo verrà esaminata la lotta nelle maquiladoras
di Tijuana e come essa si colleghi a quella in difesa dei diritti dei
lavoratori a nord del confine.
Le fabbriche maquiladoras furono in
origine concepite come piccole operazioni di confine, dove le società
americane potevano operare in zone esenti da imposte e dazi. I lavoratori, che
dall’inizio degli anni ’60, quando le fabbriche aprirono erano pochi, nel 1994
erano diventati 546.433. Il North American Free Trade Agreement (NAFTA,
l’Accordo sul libero scambio nordamericano) estese significativamente questo
genere di operazioni. Gli Stati Uniti e, in misura crescente, produttori dalla
Corea del Sud e da altri paesi asiatici, si riversarono nella regione di
confine per avvantaggiarsi dei bassi salari e della vicinanza al mercato
statunitense. Attualmente, le maquiladoras in Messico impiegano
1.400.000 lavoratori in 3.703 fabbriche. Il valore complessivo delle merci
prodotte dalle industrie maquiladoras ha recentemente sorpassato quello
del petrolio nelle esportazioni messicane.
Tijuana è stata l’epicentro di questa
esplosione, che ha trasformato la città in un’importante zona industriale.
Secondo il Mexican Action Network on Free
Trade (Rete messicana d’azione sul libero mercato): “La media nazionale del
salario minimo nel dicembre 1998 ha perso più di tre quarti del suo potere
d’acquisto, rispetto al 1976”.2
A Tijuana, il salario minimo oscilla tra i 4 e i 4,5 dollari al giorno. Alcuni
lavoratori specializzati percepiscono tre o quattro volte la cifra minima;
tuttavia, la maggior parte dei lavoratori guadagna poco più del minimo, mentre
nelle fabbriche di massimo sfruttamento la paga è persino più bassa.
Un operaio elettronico della Maxell spiega: «I
nostri figli devono andare a lavorare a 12 o 13 anni perché il sistema
economico si sviluppa a beneficio dei proprietari, a discapito dei lavoratori.
Io guadagno 50 pesos al giorno (circa 4,5 dollari), che mi bastano appena per
comprare uova, latte e tortillas»3.
Molte madri che mantengono da sole la famiglia affrontano una sfida per la
sopravvivenza ancora più dura. Diana Arias, un’organizzatrice del Factor X, un
gruppo che informale di lavoratrici delle maquiladoras sui loro diritti
di base e sulla possibilità di organizzarsi, spiega:
I posti di lavoro peggiori sono le fabbriche
tessili clandestine. Allettano le madri costrette ad accettare lavoro,
dicendo: “Sì, effettivamente la paga non è buona, ma puoi portare i bambini
con te e farti aiutare’. Spesso però questi posti chiudono improvvisamente i
battenti e scompaiono senza nemmeno pagare i lavoratori.”4
L’esplosione della popolazione a Tijuana ha
determinato una penuria di case. Decine di migliaia di famiglie con due o tre
membri che lavorano a tempo pieno nelle maquiladoras vivono in baracche
costruite con ogni sorta di rottame utilizzabile. Le ripide colline che
circondano la città sono disseminate di queste case pericolanti, molte delle
quali vengono spazzate via all’arrivo di ogni stagione delle piogge. Interi
quartieri sorgono spontaneamente su terreni abbandonati e sulle colline, man
mano che la popolazione è costretta a spingersi più lontano. Molti di questi
quartieri sono privi di acqua corrente o fognature, e hanno l’elettricità solo
se si collegano di loro iniziativa alla linea. Va da sé che l’assistenza
sanitaria è pressoché inesistente e che la tutela dell’ambiente è disastrosa,
a causa delle aziende che rilasciano abusivamente sostanze tossiche nei
torrenti e nelle discariche.
Nonostante condizioni così difficili, i
lavoratori a Tijuana hanno una lunga tradizione di lotte alle spalle. Gli anni
’70 in Messico, come in molte altre parti del mondo, hanno vinto scioperi e
proteste crescenti, tanto da essere detti gli anni della “insurgencia
obrera”. La rivolta raggiunse presto le zone di confine delle
maquiladoras, dove i lavoratori organizzarono le prime sfide vittoriose
alle misure antisindacali.5
La Confederacion Trabajadores Mexicanos (CTM)
è stato per tradizione strettamente controllato dal Partido Revolucionario
Institucional, (PRI) che ha governato il paese dagli anni ’20 fino alla
sconfitta elettorale della scorsa estate a favore del suo rivale di destra,
Partido de Acción Nacional (PAN). Questi sindacati non hanno tanto
rappresentato gli interessi dei loro iscritti, quanto quelli dei burocrati
statali nel controllo dei lavoratori e nell’imposizione della politica
economica del governo.
Nel 1973 i lavoratori di base della Mattel,
fabbrica maquiladora americana, strapparono il controllo del proprio
sindacato ai burocrati del PRI e proclamarono con successo due scioperi.
Questa lotta suscitò una prima ondata di organizzazione, che portò al
consolidamento di diversi sindacati di base, incluso il Sindicato de la
Industria y Comercio Ignacio Zaragosa (SICIZ, Sindacato dell’industria e del
commercio Ignacio Zaragosa), formatosi in un’azienda elettronica americana, la
Solidey, nel 1978. Militanti del Partido de los Comunistas Mexicanos si misero
alla testa questo sindacato, che raggiunse un accordo contrattuale modello: 46
ore di paga per 40 ore lavorative alla settimana. Dal 1978 fino alla chiusura
della Solidey nel 1983, il SICIZ funse da centro per l’organizzazione, la
politica, l’espressione regionale del malcontento dei lavoratori. I sindacati
indipendenti non contarono mai più di alcune centinaia o un migliaio di
iscritti, ma dimostrarono che le fabbriche potevano essere organizzate.
Ma anche questa piccola testa di ponte
nell’industria risultò inammissibile per i padroni. Nel 1976, il PRI usò
l’esercito per reprimere uno sciopero di lavoratori del settore elettrico e
introdusse una pesante svalutazione della moneta, avviando in tal modo
l’inizio di un attacco su tutti i fronti agli standard di vita della classe
operaia, non molto dissimile dalla repressione attuata da Reagan dello
sciopero dei controllori di volo negli Stati Uniti, che aprì la via a un
attacco contro tutti i sindacati.
A Tijuana, la repressione dei piccoli
sindacati indipendenti andò di pari passo con I licenziamenti e le liste nere
di centinaia di attivisti di base e di radicali. Ai burocrati sindacali del
PRI venne una brillante idea: perché non aggirare il pericolo dei sindacati
indipendenti andando direttamente dai padroni a firmare dei contratti
“fantasma” o di “protezione”? “Fantasma”, perché i lavoratori nulla sapevano
della loro esistenza. In cambio di piccole somme di denaro, i burocrati
cominciarono a firmare decine e quindi centinaia di accordi con il padronato.
Di “protezione”, perché il loro unico scopo, se i lavoratori avessero
cominciato a organizzarsi, era che il padrone potesse dire: «Ma tu ce l’hai
già un sindacato. E io ho un contratto che lo prova!».
Entro l’inizio degli anni ‘90 in tutta la
regione di confine non era rimasto neppure un sindacato indipendente di base.
Questa mancanza totale di organizzazione mantenne i salari a meno di un decimo
di quelli appena oltre confine e pose le basi nel dopo-NAFTA per un aumento di
quasi tre volte della forza-lavoro nelle maquiladoras.
I gruppi di Tijuana, come Factor X e CITTAC,
hanno formulato una strategia a lungo termine per affrontare i problemi
dell’organizzazione nelle maquiladoras. Piuttosto del semplice
tentativo di organizzare una fabbrica alla volta, come spiega Jaime Cota, “noi
vediamo nelle maquiladoras il fulcro di un movimento”.
È all’interno della fabbrica che tutti i
diversi problemi sociali si intrecciano. Naturalmente, i problemi della
fabbrica sono quelli più seri per i lavoratori, ma sono all’ordine del giorno
anche quelli dell’alloggio, dell’assistenza sanitaria e della crisi
ambientale. Anche gli immigrati nativi del Sud finiscono per lavorare qui e
devono fare i conti con la discriminazione etnica oltre che con il sessismo
subito dalle donne lavoratrici. Tutti questi problemi nascono dalle
maquiladoras, ma è anche qui che può sorgere la nostra forza.
Il governo può ignorare la gente nativa in
quanto tale, o la donna come donna. Ma nelle maquiladoras noi abbiamo
il potere come lavoratori, e qui non possono ignorarci. Tuttavia, visto che
organizzare le fabbriche una alla volta è un’operazione molto difficile di
fronte a una repressione così dura, abbiamo deciso di cominciare dai problemi
che potevamo affrontare – vale a dire, i problemi delle donne, dei nativi,
delle abitazioni dei lavoratori e dell’ambiente. Prima cerchiamo di insegnare
alla gente come trattare queste questioni e poi torniamo gradualmente alle
questioni di fabbriche.7
Ci sono chiaramente dei vantaggi in questa
strategia, dal momento che il Factor X e il CITTAC si sono fatta una
reputazione di efficaci organizzatori tra una piccola ma crescente parte di
lavoratori. Per esempio, durante un viaggio a Tijuana ho trovato circa 25
lavoratori delle maquiladoras che discutevano con Cota del possibile
passaggio di proprietà della loro fabbrica e su cosa potevano fare per
difendere il loro posto di lavoro.
Il confine è di solito concepito come un modo
per tenere le persone fuori dagli Stati Uniti. Tuttavia, per quanto strano
possa sembrare, questa non è la vera intenzione – o, almeno, non produce
quell’effetto. La militarizzazione del confine – il raddoppio delle guardie
dell’INS, l’uso di elicotteri e personale militare, la costruzione di una
barriera di metallo lunga oltre 130 km e alta più di 3 metri – non ha portato
a una diminuzione significativa del numero degli immigrati che entrano negli
Stati Uniti. Al contrario l’operazione “Gatekeeper” (Guardiano) dell’INS,
ispirata da Clinton, ha reso semplicemente più difficile e pericoloso
attraversare il confine, portando al raddoppio delle morti accertate dal 1995.8
Di recente il sindacato AFL-CIO (American
Federation of Labor and Congress of Industrial Organisations) si è dichiarato
giustamente a favore di un’amnistia per i lavoratori privi di documenti e ha
organizzato una serie impressionante di iniziative, compreso un raduno nel
giugno 2000 a Los Angeles che ha visto la partecipazione di 20.000 persone.
Mentre negli Stati Uniti la lotta in difesa
dei diritti dei lavoratori si accende, l’esplosiva offerta di lavoro nelle
maquiladoras e la capacità dei padroni di mantenere i salari a livelli
bassissimi non sarebbero concepibili in assenza del confine. Se i lavoratori
di Tijuana non dovessero rischiare la vita per varcare il confine verso la
California, sarebbe molto più difficile mantenere i salari così bassi.
Fintanto che capitali e capitalisti possono
attraversare liberamente i confini, mentre i lavoratori degli Stati Uniti e
del Messico hanno una scarsa o nessuna organizzazione sindacale congiunta, i
padroni manterranno un enorme vantaggio. La dichiarazione dell’AFL-CIO a
favore dell’amnistia per i lavoratori privi di documenti negli Stati Uniti
rappresenta un gradito cambiamento in positivo.
Tuttavia, alcune rappresentanze del movimento
dei lavoratori continuano a vedere i lavoratori messicani come avversari e non
come fratelli e sorelle. Un esempio deplorevole è rappresentato dalla
decisione dei camionisti americani di lanciare una campagna contro l’apertura
del confine ai loro colleghi messicani. Con il pretesto di una campagna a
difesa della “sicurezza sulle autostrade”, la retorica anti-immigrati del
presidente del sindacato dei Teamsters, Jimmy Hoffa, è servita solo a
intensificare ulteriormente il razzismo contro gli immigrati. Alcuni
progressisti hanno tuttavia lottato per inserire nella delibera della
convention dei Teamsters elementi a favore dei lavoratori messicani,
impegnando formalmente il sindacato a stabilire relazioni concrete con i
camionisti messicani.
La California Network of Globaliphobics (Rete
della California Globalifobi) rappresenta una modesta ma comunque importante
iniziativa nella zona di confine. La rete, composta da attivisti e
organizzatori sia americani che messicani, è stata la forza trainante della
protesta delle due nazioni nell’aprile 2001 contro la Free Trade Area of the
Americas (Zona di libero mercato delle Americhe). Da allora, i Globaphobics
hanno costituito una rete d’azione in casi di emergenza, per potersi
mobilitare presso i consolati messicani in tutta la California se gli
organizzatori messicani dovessero trovarsi di fronte a casi di repressione.
Per quest’autunno, la rete sta organizzando una visita ai lavoratori delle
maquiladoras e agli organizzatori di San Diego, Los Angeles e San
Francisco Bay Area, allo scopo di far conoscere le lotte di Tijuana e creare
rapporti fra studenti e sindacati. Un piccolo inizio, certo, ma dal potenziale
immenso.
Circa il 32% della popolazione in California è
ispano-americana. Qualsiasi serio movimento che si proponga di ricostituire i
sindacati dovrà rompere con il razzismo contro gli immigrati. Allo stesso
tempo, la lotta per organizzare le maquiladoras sarà più difficile
fintanto che la solidarietà da questa parte del confine viene praticata
unicamente ai margini del movimento dei lavoratori. Dopo tutto, non bisogna
dimenticare che la maggioranza delle fabbriche maquiladoras sono o
società con sede negli Stati Uniti o ditte che producono in subappalto per gli
Stati Uniti. Nel 1924, alcuni fra i più radicali organizzatori sindacali
messicani e i rivoluzionari dell’Industrial Workers of the World (Lavoratori
Industriali del Mondo), fondato negli Stati Uniti, collaborarono a Tampico, in
Messico, alla costituzione del sindacato dei lavoratori del settore
petrolifero, in quella che al tempo era l’operazione di trivellazione più
grande del mondo[95].
Sapere che questo fu possibile allora dovrebbe spronarci a fare in modo che si
ripeta.
Oscar Olivera
La lotta per l’acqua a
Cochobamba (Bolivia)
Oscar Olivera
è direttore esecutivo della Federazione dei
Lavoratori di Fabbrica di Cochobamba. Ha recentemente guidato una lotta
vittoriosa contro la privatizzazione dell’acqua in Bolivia.
All’inizio dell’agosto 1985, il modello
economico neoliberale fu assunto in Bolivia, molto più che in altri paesi del
continente, come un modo per compiacere le forze reazionarie a livello mondiale.
Si raggruppavano al suo interno i più potenti paesi del mondo, gli organi
finanziari internazionali e le più grandi corporations transnazionali che
stavano solo cercando di dominare il mondo, di sfruttare le nostre risorse
naturali e di accrescere i loro profitti.
Grazie a queste politiche, noi boliviani, così
come i popoli degli altri paesi poveri del mondo, siamo stati spogliati del
nostro patrimonio e delle nostre risorse naturali che erano state il prodotto di
più di 60 anni di lavoro collettivo di uomini e donne che le avevano costruite e
preservate.
Noi boliviani ora possediamo solo l’acqua e
l’aria, ma al più presto queste forze privatizzeranno anche queste risorse. Ci
hanno già derubato dei nostri aerei, dei nostri treni, delle nostre strade, dei
nostri mezzi di comunicazione, dei nostri idrocarburi, delle nostre fabbriche, e
della nostra terra. Non soddisfatti di tutto ciò, le multinazionali, la Banca
Mondiale e i soci della mafia di governo hanno tentato di portarci via l’acqua
di trasformare questa risorsa vitale in un business, quando tutti sanno che è un
bene sociale, un patrimonio naturale di tutti gli esseri viventi: le piante, gli
animali e gli esseri umani. Ecco perché nessuno si può appropriare dell’acqua.
Cochabamba si trova proprio al centro del mio
paese. Ha un milione di abitanti e un centro urbano dove risiedono oltre 600.000
persone che ha sofferto per oltre 50 anni di scarsità d’acqua. I politici e i
businessmen hanno utilizzato la questione dell’approvvigionamento dell’acqua per
manipolare la popolazione al fine di perseguire i loro interessi economici e di
potere.
Facendo leva sulla febbre privatizzatrice i
politici del nostro paese sono diventati partners delle multinazionali Bechtel,
Abengoa e altre. Essi hanno ricevuto la benedizione della Banca Mondiale che ha
esplicitamente proibito al governo boliviano di fare qualsiasi investimento
adeguato, a trovare una soluzione del problema dell’acqua di Cochabamba e che ha
vaticinato che il fardello dei costi fosse posto sulle spalle dei consumatori e
cioè si fosse posto mano a un brutale aumento delle bollette dell’acqua.
La privatizzazione è proceduta attraverso il
passaggio – con una concessione per 40 anni – del servizio pubblico municipale
dell’acqua alla società transnazionale Aguas del Tunari. Questo contratto fu
accompagnato dall’approvazione da parte dell’Assemblea Nazionale della Legge
sull’acqua potabile e di quelle di scarico. Entrambe queste azioni dello Stato
avvennero con una dinamica assolutamente oscura e segnata dalla corruzione e che
la popolazione rigettò.
La mancanza di credibilità dei politici, dei
businessmen, delle “istituzioni tradizionali” della società, e il loro aperto
sostegno alla privatizzazione dell’acqua di servizio pubblico ci costrinse – in
quanto contadini, gruppi ecologisti, professionali e lavoratori urbani (operai
ed insegnati) a formare una coalizione: la Coordinadora de Defesa del Agua y
de la Vida. Questa coalizione emerse dopo un appello diffuso dagli abitanti
della città e della campagna che a partire dalla elementarità del bisogno di
difendere tali servizi basilari come l’accesso all’acqua, hanno invitato tutta
la popolazione a unirsi alla lotta.
La Coordinadora lanciò un appello basato
sulla sua comprensione dell’urgenza di impegnarsi in una azione comune, convinta
che ogni singolo settore non avesse abbastanza forza per resistere
indipendentemente, che non c’era salvezza individuale e che i servizi sociali
debbano essere assicurati a tutti o non saranno assicurati a nessuno.
La Coordinadora rappresenta farmers,
comitati, cooperative dell’acqua (sia urbane che locali) che allora non erano
collegati con la rete di distribuzione dell’acqua ma che non volevano essere
colpite dalle privatizzazioni. Rappresentava anche gente che era già collegata
con la rete centrale di distribuzione dell’acqua ma che era giunta alla
conclusione che le bollette non erano sostenibili e che erano esagerate e
vergognose. Questa coalizione rappresenta anche i lavoratori sindacalizzati la
cui esperienza ci ha aiutati a mantenere la continuità organizzativa in alcuni
momenti del conflitto.
La Coordinadora parla a nome di quella
gente che si sente ignorata, esclusa, abbandonata, di coloro i quali appena un
anno prima della cosiddetta guerra dell’acqua, non avevano nessun spazio per
commentare, discutere ed esprimere le loro sofferenze, la loro realtà, e le loro
speranze. La Coordinadora è la “coscienza del popolo” che controlla e
sfida le azioni del pubblico (governo) e dei privati (aziende). È quella entità
che è stata capace di interpretare e decifrare le esigenze fondamentali della
popolazione.
Abbiamo scoperto che le assemblee pubbliche, le
manifestazioni nelle sale cittadine, e le barricate sono gli strumenti
principali per discutere e lottare. È qui che abbiamo capito che non è
sufficiente riscoprire la nostra dignità, dove è stato possibile non solo far
sentire la nostra voce, ma dove abbiamo compreso che le nostre attuali
condizioni di esistenza sono, tra le altre cose, il prodotto di questa
gigantesca e insolente ruberia chiamata “privatizzazione”.
Infine la Coordinadora è il luogo dove la
gente semplice e che lavora duro è stata capace di confermare che solo
attraverso l’organizzazione, la solidarietà, e la mutua fiducia possiamo perdere
la nostra paura, conquistare una democrazia che abbia un contenuto reale,
scoprire e riappropriarci di quello che è nostro, trasformare la nostra
situazione e la nostra realtà.
In parole semplici per noi la democrazia si
sintetizza in: “chi decide?” Pochi politici e affaristi o noi, la gente semplice
e lavoratrice? Nel caso dell’acqua di Cochabomba volevamo prendere da soli le
decisioni, e ciò per noi è la vera democrazia.
Guidati da questa principî, la gente di
Cochabomba ha cominciato le sue azioni contro la privatizzazione dell’acqua.
Mobilitazioni comuni della città e della campagna sono cominciate l’11 gennaio
del 2000 con un blocco delle strade che è durato quattro giorni. È stata la
gente delle aree rurali e i cosiddetti marginali delle periferie che sono andati
a confrontarsi con la polizia. È stato dopo questa prima lotta che il governo ha
firmato un accordo che lo impegnava a rivedere sia la legge sull’acqua potabile
sia il contratto con la Aguas del Tunari.
Nei giorni più caldi delle mobilitazioni, le
bollette dell’acqua erano aumentate dal 35 al 300%. Per le famiglie l’aumento
significava che in media, ognuno avrebbe dovuto usare un quinto dei suoi
guadagni per pagare la bolletta dell’acqua.
Una seconda mobilitazione in febbraio, che durò
due giorni ed era volta a sconfiggere questo aumento delle bollette, si sviluppò
dopo una intensa battaglia per le vie della città tra polizia e gente comune. Il
grande risultato di questa mobilitazione fu quello di farci perdere la paura.
Venivamo fuori dalle nostre case e comunità per parlare l’uno con l’altro, per
conoscerci l’un l’altro, per imparare ancora ad avere fiducia l’uno nell’altro.
Ma malgrado il fatto che questo governo malvagio
mandasse contro di noi criminali vestiti da poliziotti, le nostre pietre e i
nostri bastoni hanno sconfitto la codardia dei mediocri e corrotti agenti di
polizia del governo.
La solidarietà sconfigge i loro intrighi, e noi
abbaino sfondato la cinica difesa del governo degli affari, di pochi
busniessmen.
Nel marzo del 2000 si tenne una “Consultazione
Popolare” senza precedenti, la prima nella storia del nostro paese. Più di
50.000 persone presero parte volontariamente a una dimostrazione di
partecipazione in cui si affermava chiaramente che il consorzio dell’acqua
doveva essere confiscato e la legge che lo privatizzava doveva essere
modificata.
Una terza ondata di mobilitazioni cominciò il 4
aprile e venne chiamata “L’ultima battaglia”. Dopo otto giorni di blocchi
stradali e di occupazione del centro cittadino (l’ultimo giorno mobilitammo
100.000 persone) fummo capaci di espellere la compagnia transnazionale. Anche la
legge sull’acqua potabile fu modificata profondamente sulla base delle proposte
della Coordinadora diventando la prima vittoria popolare contro il
modello (neoliberale) dopo 15 anni di sconfitte.
Ma per raggiungere questa vittoria abbiamo
dovuto scontrarci non solo con la polizia ma anche con l’esercito che usava
franchi tiratori che hanno ucciso un ragazzo di 17 anni, Victor Daza e che hanno
ferito più di 100 persone.
In Bolivia, senza queste lotte e questa vittoria
non si sarebbe potuto parlare di costruire una nuova società “autogestita”, che
garantisca il servizio dell’acqua sotto il controllo sociale, proprio nel mezzo
di una fase di liberismo selvaggio. Ma la guerra dell’acqua non finisce con il
nostro rientro in possesso della compagnia dell’acqua, delle nostre fonti, delle
nostre lagune, dei fiumi e dei sistemi idrici. Oggi ci poniamo un compito assai
arduo. Abbiamo ereditato una compagnia con enormi debiti, con uno status legale
instabile e deficienze tecniche. Stiamo lavorando contro gli sforzi di un
consorzio internazionale che ci sta chiedendo 40 milioni di dollari di danni nei
tribunali internazionali e contro il governo – supportato dagli uomini d’affari
e dagli intellettuali – che vogliono una rivincita solo perché la gente ha detto
“Ne ho abbastanza”.
Questa vittoria, se colta all’interno del regno
del dominio imposto dal modello (neoliberale), non risolverà i problemi della
gente. Ecco perché la saggezza popolare ha riconosciuto che è necessario
sostituire coloro quali decidono il gioco a cui si deve giocare e ha posto la
questione, attraverso la Coordinadora, della convocazione di una
“Assemblea Costituente”, una assemblea nella quale - al contrario di quanto
viene fatto dai partiti politici tradizionali e dai gruppi con il potere
economico - si possa costruire il nostro paese dal basso, a partire dagli
esclusi, da chi vive nelle periferie e nelle comunità.
Queste sono le nostre sfide principali e per
questo abbiamo bisogno di solidarietà, del sostegno internazionale per
dimostrare che un mondo diverso è possibile, che la gente è capace di costruire,
di proporre alternative, di prendere nelle proprie mani la soluzione dei suoi
problemi e prendere le proprie decisioni.
Per concludere voglio dire che dopo tutto, noi
abbiamo ottenuto due tipi di vittoria. Una è economica. L’aver respinto e
congelato le bollette ha significato tenere a Cochabamba 3 milioni di dollari,
dopo l’espulsione del consorzio. Ogni famiglia risparmierà dai 30 agli 80
dollari all’anno, in una fase in cui, negli ultimi dieci anni, il governo ha
aumentato i salari di una media di 5 dollari l’anno e in un paese in cui il
salario minimo a livello nazionale è appena di 60 dollari al mese. L’altra
vittoria è politica perché la gente ha fatto giustizia, perché l’individualismo,
l’isolamento e la paura sono scomparse dietro lo spirito di solidarietà. Siamo
stati capaci di ricostruire una azienda sociale che il neoliberismo aveva
frammentato e distrutto.
Noi vogliamo una vera democrazia. Noi vogliamo
un governo che tenga conto delle nostre opinioni e decisioni e che
fondamentalmente ignori gli interessi delle istituzioni finanziarie e le loro
politiche neoliberali. Concretamente, io desidero diffondere l’esperienza della
lotta del popolo di Cochabamba contro la privatizzazione dell’acqua, così che
essa possa essere vista come un esempio di coraggio e speranza. Ma non è solo
questo. Perché questa vittoria, questo sforzo collettivo di donne e di uomini
possa rappresentare una vittoria per tutti – non solo per i boliviani – deve
essere considerata una vittoria di tutti noi che abbiamo immaginato e sognato un
mondo diverso da quello disegnato dalla Banca Mondiale, dal FMI, e dal WTO.
La nostra vittoria deve essere anche vostra.
Questo articolo è un adattamento di un discorso
tenuto alla Socialist Summer School a Chicago nel giugno del 2001.
Tim Robbins
Per che cosa ho votato quando ho scelto Nader
Tim Robbins
è un regista e
attore che ha attivamente appoggiato la candidatura alle presidenziali di Ralph
Nader nel 2000. Il suo impegno politico e civile è ben documentato dai film che
ha firmato come regista, tra cui
Dead men walking (1995)
è forse il più noto. Questa è la trascrizione di alcune sue considerazioni fatte
durante la cena annuale della Liberty Hill Foundation, che gli ha recentemente
conferito il riconoscimento Upton Sinclair Award.
Circa un mese fa in un teatro di New York, sono
stato avvicinato da un’agitata coppia di due persone più anziane di me.
“Speriamo che sarai contento ora” mi hanno
detto.
“Di cosa?” ho detto, già sospettando la risposta
che mi avrebbero dato.
“Il tuo Nader ci ha dato Bush.”
Questa non era la prima volta dalle elezioni in
cui venivo attaccato da liberali irati che vedevano il mio sostegno a Nader come
un tradimento, una blasfemia, qualcosa di equivalente al pisciare sulla
Costituzione. Prima delle elezioni io e Susan [Sarandon] siamo stati attaccati
sulle pagine del New York Times; abbiamo ricevuto fax intimidatori da una
femminista molto conosciuta per via del nostro sostegno a Nader. Una settimana
prima delle elezioni abbiamo ricevuto una telefonata dal rappresentante di un
gruppo di pressione di Hollywood che ci chiedeva di chiamare urgentemente Nader
chiedendogli di ritirarsi dalla corsa [per la presidenza]. Se lo avesse fatto,
questo magnate, così diceva avrebbe dato un contributo di 100.000 dollari al
Partito dei Verdi.
Io gli detto che nessuna telefonata avrebbe
influenzato quell’uomo, che non si trattava di una politica di influenze
personali e affari poco puliti, e che i Verdi probabilmente non avrebbero
accettato il suo denaro.
Dopo le elezioni ho letto un articolo in cui un
famoso attore criticava i sostenitori di Nader definendoli “liberali in
limousine” del peggior tipo, gente che non si curava minimamente delle sorti dei
poveri.
Non è stato facile sostenere Nader. Senza alcun
dubbio il messaggio che ci hanno mandato i colleghi e i nostri soci commerciali
era che il nostro sostegno a Nader ci sarebbe costato caro. Sarà così? Non lo
so. Dopo le elezioni uno dei nostri figli è stato ripreso in pubblico dal
magnate di Holywood di cui dicevo prima. E chissà a quali favolose feste non
siamo stati invitati. E quindi cosa possiamo dire? Come uno che ha votato sulla
difensiva in passato e che un tempo sosteneva che i repubblicani erano
l’incarnazione di tutti i mali, io comprendo perfettamente le reazioni di questa
gente. Otto anni fa avrei detto le stesse cose che loro ora dicono a me. Ma
intanto sono avvenuti molti fatti che hanno cambiato il modo in cui la penso.
Dopo aver parlato con i miei amici a Seattle dopo le manifestazioni, e dopo
essere andato con Susan a Washington D.C. ed aver parlato con gli attivisti
delle proteste contro la Banca Mondiale e il FMI, dopo aver discusso, fuori da
un Gap
sulla Quinta Avenue, con tredicenni che diffondevano opuscoli sui luoghi dove si
lavora in condizioni di sfruttamento, dopo aver visto la netta svolta a destra
del Partito Democratico nell’era Clinton, ho cominciato a pensare che avrei
votato secondo coscienza piuttosto che sulla base di considerazioni tattiche.
C’è qualcosa di indubbiamente significativo in
quello che sta succedendo oggi. Un nuovo movimento sta lentamente prendendo
piede nei campus universitari, tra i gruppi di sinistra in Europa e tra i gruppi
per i diritti umani in tutto il mondo. Le manifestazioni a Seattle nel 1999, le
proteste contro la Banca Mondiale - FMI a Washington D.C. nel 2000 e le
agitazioni che si ripetono dovunque gli organismi delle corporations si
riuniscono per dettare le regole dell’economia globale e delle politiche
ambientali non sono, come le descrivono i media, semplicemente il riflesso del
lavoro di frange radicali e di anarchici. Tali iniziative sono il prodotto di
larghe coalizioni di studenti, ambientalisti, sindacalisti, coltivatori,
scienziati e altre organizzazioni che coinvolgono cittadini i quali vedono le
decisioni prese da queste cricche come una prima linea nella battaglia per il
futuro di questo pianeta.
Questo è un movimento che muove solo i suoi
primi passi, ma che credo sia altrettanto coinvolgente dal punto di vista morale
dei primi abolizionisti in lotta per farla finita con la schiavitù nel XVIII
secolo; importante come quello degli attivisti sindacali che esigevano la
sicurezza sul lavoro e la fine del lavoro minorile all’inizio degli anni ’50 del
XIX secolo; irrefutabile come quello degli scienziati che per primi hanno
richiamato l’attenzione del pubblico americano sull’abuso generalizzato del
nostro ambiente da parte delle corporations inquinanti.
Tutti questi movimenti si scontrarono con la schiacciante condanna di entrambi i
partiti; furono ignorati e poi criticati dalla stampa; i loro aderenti furono
perseguitati, arrestati e talvolta persino uccisi dalla polizia e da altri
organi dello Stato. Ma grazie alla loro tenacia furono allo stesso tempo in
grado, nel nostro Paese, di far approvare leggi che posero fine alla schiavitù e
che stabilirono dei minimi salariali, la previdenza sociale e i sussidi di
disoccupazione, la responsabilità ambientale e la sicurezza nei posti di lavoro.
Malgrado anni di progressi nel nostro Paese su
tutte queste questioni, stiamo assistendo alla ricomparsa del lavoro minorile e
schiavistico, di condizioni di lavoro non sicure, di fabbriche dove si attua lo
sfruttamento più bestiale, di una deliberata distruzione dell’ambiente nel Terzo
Mondo ispirata dallo stesso ethos delle corporations che per anni hanno cercato
di opporsi negli Stati Uniti a tutte le conquiste progressiste. Nell’interesse
dei margini di profitto e della crescita economica, le nostre corporations hanno
allungato i tentacoli sull’economia globale, trovando il modo di ritornare a una
situazione primo ottocentesca. Grazie all’incoraggiamento del libero commercio e
alla protezione del NAFTA, del GATT e del WTO, gli USA esportato questi problemi
in altri paesi del mondo.
Nel bel mezzo di un boom economico questi sono
concetti scomodi da sostenere. E certamente non se ne può scrivere sulle nostre
riviste ufficiali. Ma sono idee che si sentono urlare nelle strade e le
argomentazioni dei manifestanti sono sostenute da un’incontrovertibile forza
morale. Ralph Nader è stato l’unico candidato che ha parlato di questi temi e si
è fatto portatore delle preoccupazioni espresse da questo nuovo movimento. Ecco
perché Susan e io abbiamo votato per lui.
Le elezioni dello scorso anno ci hanno posto di
fronte a un bivio importante. Il testa a testa finale tra i due candidati ha
dato la possibilità di sollevare il velo, smascherato la corruzione, la
manipolazione, il modo illegale in cui le elezioni sono tenute in questo paese.
Il momento più umoristico e surreale è davvero stato quando Fidel Castro si è
offerto di mandare osservatori che verificassero la regolarità delle elezioni. A
parte l’evidente frode elettorale in Florida, i riflettori hanno brevemente
messo in luce le pratiche razziste che hanno da sempre caratterizzato le
elezioni in America. Che siano i blocchi stradali fuori dei seggi elettorali nei
distretti dove votano i neri o la scomparsa di nomi afroamericani dai registri
elettorali, che siano invece le inefficienze e le antiquate macchine elettorali
nei distretti poveri, o l’utilizzo della Corte Suprema come una istituzione
politica di parte, il quadro che ne viene fuori è identico: i potenti della
classe dirigente americana hanno paura della democrazia.
C’era un tempo in cui avrei detto che erano i
“cattivi” repubblicani ad avere paura della democrazia. Ma ho dovuto tristemente
realizzare, dopo le elezioni del 2000 e dopo l’esperienza delle reazioni al
nostro sostegno a Nader, che bisogna mettere nel mazzo anche i democratici. Non
solo essi temono la democrazia, ma molti nell’élite democratica hanno timore, se
non disprezzo, anche dell’idealismo. Io ho perso parecchio rispetto per un
partito che intimidisce la sua ala progressista, che non tollera il dissenso
nelle sue file e che cerca di demonizzare il più importante e influente tra i
difensori dei consumatori degli ultimi cinquant’anni.
Ma non dobbiamo sorprenderci. Una simile
reazione si è avuta anche all’inizio del secolo quando un altro importante
sostenitore della giustizia sociale, Upton Sinclair, si presentò come candidato
alla carica di Governatore della California. I gruppi di pressione del Partito
Democratico fecero di tutto per isolarlo. Se lo sostennero in qualche modo, lo
fecero a malincuore, mentre alcuni democratici appoggiarono addirittura il suo
avversario repubblicano, Frank Merriam. E la stampa? Lo demonizzò dicendo che
era un “anti-business”, che era un egocentrico esasperato. Vi ricorda qualcosa?
La maggior parte dei sostenitori di Nader che ho
incontrato è gente realmente impegnata, gente che ha dedicato la sua vita a
sostenere cause giuste, difficili e controverse; il livello del loro impegno
politico merita molto più rispetto e va molto al di là di parecchi di quelli che
li hanno criticati.
L’atteggiamento di sufficiente condiscendenza di
alcuni esponenti della generazione che ha combattuto per la fine della guerra in
Vietnam e lottato per i diritti delle donne è deludente e scoraggiante, ma
comprensibile. Ma io non sono dell’opinione che Bill Clinton fosse il meglio che
questa generazione potesse offrire e mi piacerebbe credere che siano rimasti dei
progressisti che sappiano riconoscere l’importanza di questo nuovo movimento che
sta crescendo intorno a loro. Mi piacerebbe credere che i ragazzi dei tempi del
Vietnam che protestavano per quella ingiusta guerra volessero qualcosa di più
che salvarsi la pelle. Vorrei credere che le femministe, una volta compreso che
nelle fabbriche ad alto tasso di sfruttamento lavorano soprattutto le donne e
che sono soprattutto loro ad essere vendute come schiave, vorranno riconoscere
queste questioni come proprie e cominceranno a guardare oltre i diritti
attinenti alla riproduzione come cartina tornasole per giudicare un candidato.
Mi piacerebbe credere che più alti ideali guidino tutti noi, ideali che abbiano
a che fare con il mondo nel senso più largo del termine.
I giovani che hanno aiutato a lanciare l’idea di
un nuovo partito, un partito che non comprometta il futuro di questo pianeta in
cambio di donazioni delle corporations, credono che i democratici e i
repubblicani siano d’accordo su tutte le problematiche più importanti del nostro
tempo. Questo nuovo movimento rifiuta la politica tradizionale, ed è un rifiuto
che ha implicazioni spaventose, vista la reazione della comunità progressista.
Siamo forse diventati i nostri genitori? Siamo noi ormai l’establishment? Siamo
lo statu quo che cinicamente rigetta chi ha ideali e sogni, che dice agli
idealisti che non c’è spazio per cose del genere in queste elezioni, che si deve
votare strategicamente, che non possiamo permetterci i nostri sogni, che
dobbiamo accettare il minore dei mali?
La coppia del teatro, l’opinionista, il magnate
di Hollywood e l’attore battono i loro tamburi una volta ogni quattro anni per
il loro candidato e descrivono l’eventuale elezione dei loro oppositori come
nientemeno che la fine della civiltà. Ma si tratta di un opinionista gay che non
vuole votare il candidato che sostiene apertamente i matrimoni tra due persone
dello stesso sesso; un magnate che non avrebbe più pernottamenti gratuiti o
proiezioni private in una Casa Bianca repubblicana; un attore che professa di
avere a cuore i poveri, ma poi - chissà come mai! - non si unisce ai picchetti a
sostegno dello sciopero indetto proprio dal suo sindacato.
Io non ho rispetto per gli attivisti
“pantofolai”. Io rispetto invece i ragazzi fuori dal Gap che non vogliono fare
compromessi. Non sono disposto a fare concessioni sul loro idealismo, la loro
passione e la loro visione, a compromettere la loro integrità per un Partito
Democratico che aspira a essere di centro, per un Partito Democratico che
sostiene la pena di morte, che smantella il welfare mentre aumenta i sussidi per
le corporations, che aiuta a creare un sistema economico il quale rappresenta un
attacco al cuore del movimento operaio.
Come dev’essere imbarazzante per i senatori
democratici vedere che ora l’incarnazione del coraggio politico in questo paese
è un repubblicano del Vermont. Forse è tempo di smetterla di demonizzare le
persone per la loro affiliazione politica e di seguire l’esempio dell’uomo che
ha rischiato il suo futuro politico per ascoltare la voce che gli sorge dalla
sua anima, di rigettare la solita politica e aprirsi ai sentimenti della gente
comune, di formare alleanze improbabili in ambienti improbabili.
La lotta per la giustizia è una lunga lotta. È
la base dei movimenti che creano il vero cambiamento; e nessun movimento dal
basso ha mai ottenuto qualcosa facendo compromessi con sui suoi ideali. I
cambiamenti reali non avverranno nei cocktail party a Washington o nella Lincoln
Bedroom. Realizzarli è arduo, ci si sporca le mani e occorre un’agitazione
indefessa. Ci sono voluti oltre cent’anni di impegno per eliminare la schiavitù,
più di cento anni per mettere fine al lavoro minorile, e altrettanti per
introdurre i minimi salariali. Questo movimento sta muovendo solo i suoi primi
passi, ma è ben vivo e non scomparirà tanto facilmente. Le sue porte ti sono
aperte. Può intimorire attraversarne la soglia, ma fare questo passo è
essenziale.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima
volta sul numero di Nation del 6 agosto 2001. Riproduzione autorizzata.
Michael Löwy
Davos e Porto Alegre: due progetti opposti di
civiltà
Michael Löwy
è Direttore per la ricerca in sociologia al Centro Nazionale per la Ricerca
Scientifica a Parigi. Pubblica regolarmente contributi per la New left
Review e Socialist Register. È autore di molti libri, diversi dei
quali, sono stati tradotti in italiano. Tra questi ricordiamo Per una
sociologia degli intellettuali rivoluzionari (La Salamadra, Milano, 1978).
Alcune anime belle cercano di riconciliare il
Forum Economico di Davos e il World Social Forum di Porto Alegre sostenendo che
entrambi hanno lo stesso obiettivo, vale a dire, umanizzare l’economia globale.
Secondo me, e penso non sia l’unico qui a pensarla così, Davos e Porto Alegre
rappresentano due prospettive storiche, due piani di civiltà e due opposte
realtà sociali antagonistiche e irreconciliabili. Il nuovo secolo che sta
cominciando dovrà scegliere tra questi due percorsi. La cosiddetta Terza Via[96]
non esiste.
A Davos si parla frequentemente di “dialogo”. Le
discussioni via satellite fra i rappresentati dei due forum hanno dimostrato
l’impossibilità di questo dialogo, per il quale non esiste un linguaggio comune.
La gente di Porto Alegre vive nel mondo reale, mentre i portavoce di Davos
vivono in un’altro pianeta, nel quale il mercato libero e non regolamentato
porta felicità e prosperità per tutti, mentre le politiche neoliberali eliminano
la disoccupazione.
A Davos è rappresentata l’élite polico-economica
del sistema capitalista globale. Ci sono banchieri, tecnocrati, imprenditori,
speculatori, funzionari statali e vari ministri che, salvo rare eccezioni,
rappresentano gli interessi dell’oligarchia finanziaria che domina il mercato
mondiale. Condividono la stessa identica posizione, malgrado certe differenze di
dettaglio, lo stesso feticismo per il mercato, la stessa “idolatria del mercato”
– per prendere a prestito una espressione di teologi della liberazione come
Leonardo Boff o Frei Barreto – un idolo vorace che pretende sacrifici umani.
Rappresentano un sistema, il capitalismo
neoliberale, che è intrinsecamente perverso, inumano, e responsabile degli
“orrori economici” della disoccupazione e di una mostruosa ineguaglianza
sociale. Ci basti citare un solo dato: - tre miliardari nordamericani che
potrebbero benissimo essere a Davos - possiedono una fortuna equivalente al PNL
di 42 paesi poveri con una popolazione complessiva di 600 milioni di persone.
Essi sono i rappresentanti del sistema delle politiche neoliberali, degli
“aggiustamenti strutturali” che sacrificano la spesa per la sanità e
l’educazione al pagamento dei debiti, di un sistema responsabile della
distruzione accelerata dell’ambiente; dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e
della terra; così come dell’effetto serra, che potrebbe produrre un disastro
ecologico di proporzioni inimmaginabili nel giro di pochi anni. È un sistema
governato dalla legge della giungla, una guerra in cui tutti combattono contro
tutti e i più forti, i più feroci e spietati, vincono.
Il World Social Forum, questo primo progetto di
contropotere globale, cosa rappresenta? Rappresenta la speranza, il piano
possibile e realistico per un altro mondo, per un’altra economia locale,
nazionale e internazionale orientata verso la soddisfazione dei bisogni sociali
e il rispetto degli equilibri ambientali. Un piano realistico e possibile per
un’altra società basata sui valori dell’eguaglianza, della solidarietà, della
fraternità, della cooperazione e del mutuo sostegno. Ci sono molti fra noi che
vedono nel socialismo sia l’unica, radicale, autentica alternativa all’ordine
esistente. Tuttavia siamo insieme a nostri amici, i quali non condividono questa
opinione, nella lotta per rivendicazioni concrete e immediate: la Tobin Tax sui
capitali speculativi, la cancellazione del debito, l’abolizione dei cosiddetti
paradisi fiscali, la riforma agraria, la moratoria sui cibi geneticamente
modificati.
Il forum di Porto Alegre rappresenta anche un
progetto di vera democrazia, basata sull’ attiva partecipazione della
popolazione, una democrazia che ha già alle sue spalle dodici anni di esperienze
a Porto Alegre e due anni di esperienza nello Stato del Rio Grande do Sul, e che
senza dubbio si radicherà a São Paulo nel prossimo futuro.
Il Presidente svizzero, aprendo il forum di
Davos, ha affermato irritato che Davos rappresenta governi eletti, mentre a
Porto Alegre ci sono solo Organizzazioni Non Governative non elette. Chi elegge
Bill Gates presidente della più grande multinazionale del mondo? Che controllo
hanno i cittadini sulle multinazionali o sui movimenti del capitale speculativo?
E senza menzionare il fatto che il più importante governo rappresentato a Davos,
il governo americano, ha un presidente che è stato eletto dai giudici della
Corte Suprema e non dal popolo americano.
Tuttavia questo contropotere globale non può
costruirsi, maturare, senza avere rami, foglie e frutti, senza avere radici
nella concreta realtà locale, nella espereinza locale di controllo democratico
ma anche di lotta. Io segnalerò solo due esempi di movimenti sociali, tra i più
attivi, coinvolti nel progetto del forum di Porto Alegre: la Confédération
Paysanne di José Bové e il movimento Sem Terra in Brasile. Noi ci
associamo a loro perchè loro hanno la forza, perché sono radicati in esperienze,
bisogni ed esperienze locali. Questi sono movimenti radicali nel senso che vanno
alla radice del problema; pochi giorni fa ci hanno dato una buona lezione di
radicalismo estirpando qualcosa di marcio, in questo caso le piantagioni dei
cibi geneticamente modificati della multinazionale Monsanto.
Per concludere, una certa stampa neoliberale,
per creare confusione, ci chiama “antiglobalisti”. Questo non è niente di più
che un tentativo deliberato di disinformare. Questo movimento e questo forum non
sono da nessun punto di vista “antiglobalisti”; sono contro questo mondo
– capitalista, neoliberale, ingiusto e inumano – e cercano di costruire un
altro mondo, di solidarietà e fraternità. Questo nuovo mondo comincia forse
a Porto Alegre, nel gennaio 2001.
Questo articolo è
l’adattamento dell’intervento tenuto al World Social Forum a Porto Alegre,
Brasile, gennaio 2001.
Howard Zinn
“Quello che sta a cuore a milioni di persone sono le questioni di classe"
Howard Zinn
è professore emerito alla Boston University. È autore del classico
A People’s History of the
United States, che la rete HBO sta attualmente adattando per la televisione.
In Italia gli Editori Riuniti hanno pubblicato la sua pièce teatrale Marx a
Soho (2001). L’intervista è stata curata da Anthony Arnove, membro
della redazione della International Socialist Review ed uno degli
animatori della casa editrice South End Press.
Tu hai scritto molto sui
movimenti popolari degli anni ’60. Quali sono le similitudini e quali le
differenze tra i movimenti di oggi contro la globalizzazione capitalista e le
lotte a cui hai partecipato e sulle quali hai scritto ?
Le manifestazioni di massa, la
gente che scende nelle strade, che usa le arti e che si scontra con la polizia,
assieme ad altre forme di protesta a cui stiamo assistendo ora, le abbiamo già
tutte viste negli anni ’60. Le tattiche della protesta non sono cambiate molto.
Attraverso questi mezzi si tenta di impedire a chi che è al potere di fare
quello che sta facendo, attirando la pubblica attenzione su questioni importanti
e incoraggiando chi protesta a portare tanta altra gente nelle strade, perché
capiscano di non essere soli. Questo succedeva negli anni ’60 e lo stesso sta
succedendo oggi a Quebec City, a Washington, a Philadelphia e così via.
Una delle più maggiori differenze
tra le manifestazioni gli anni ’60 e quelle degli ultimi anni sta nella
centralità delle questioni economiche oggi. Non era di certo così negli anni
’60. Allora le questioni principali erano quelle razziali, quelle legate alla
guerra del Vietnam, ai diritti delle donne, alle lotte dei prigionieri. Ma fare
della distribuzione della ricchezza e degli effetti del capitalismo, le
questioni centrali è qualcosa di nuovo.
E questo significa essere posti di
fronte a maggiori difficoltà e a compiti più complessi di quelli che avevi di
fronte prima, perché il razzismo, almeno nei suoi aspetti superficiali, può
essere affrontato entro i limiti del sistema. Il sistema può, fino a un certo
punto, assorbire la fine della segregazione razziale; può farla finita con i
simboli della segregazione e continuare a funzionare.
Lo stesso vale per il movimento
contro la guerra del Vietnam. Ci si può ritirare dal Vietnam ma mantenere
l’apparato militare nel mondo da qualche altra parte del mondo, mantenere
l’industria e la spesa militare. Ma le questioni economiche, quelle riguardanti
la concentrazione della ricchezza, e del potere economico, sono di più vasta
portata e richiedono azioni più drastiche per essere affrontate.
Abbiamo visto reazioni molto violente da parte
dei politici e dei giornalisti, così come misure molto repressive contro i
manifestanti che tentavano di dar voce alla loro opposizione ed esercitare i
diritti fondamentali di assemblea, di parola e di protesta.
La centralità delle questioni economiche
significa che in futuro il potere sarà più accanito nel difendersi, perché ora
tu stai colpendo al cuore il sistema. Tu stai colpendo il cuore del suo potere
economico. Ciò suggerisce quindi che lo scontro sarà più militante e più duro di
quello degli anni ’60. I primi segnali li abbiamo visti a Seattle. Li abbiamo
visti nel livello di repressione usato contro i manifestanti quando questi si
riuniscono per protestare contro le riunioni dei paesi più potenti, contro
istituzioni come il WTO e il FMI.
Un altro sviluppo interessante è
il ruolo dei lavoratori in queste proteste. Dato che la questione di classe è
così centrale, in queste manifestazioni si è vista una partecipazione di
sindacalisti e attivisti dei lavoratori, a differenza di quanto era avvenuto
negli anni ’60.
Sembra che gli studenti stiano davvero facendo
passi avanti nel collegare il loro attivismo politico con le più ampie questioni
di classe, economiche e dell’imperialismo, uscendo dai campus per unirsi insieme
ad altri soggetti.
Negli anni ’60 gli studenti
manifestavano nei campus contro la guerra e la segregazione razziale. Negli anni
’70 e negli anni ’80 hanno manifestato contro l’apartheid e l’intervento degli
USA in America Centrale. Le loro azioni sono state molto significative perché
cercavano di andare oltre l’università. Per questa ragione le loro azioni si
sono dimostrate molto più importanti e hanno avuto perciò un grande impatto su
altri settori della popolazione. È incoraggiante vedere che ciò avviene ancora
più diffusamente oggi sulle questioni dei posti di lavoro ad alto sfruttamento,
sui salari minimi e sulla concentrazione della ricchezza in sempre meno mani.
Come si può lottare contro la globalizzazione
delle corporations coinvolgendo anche persone che potrebbero non identificarsi
in maniera immediata con la gente che vedono in televisione protestare contro
l’Area di Libero Commercio delle Americhe o il FMI a Washington?
Penso che la questione della
globalizzazione e del libero commercio possa essere molto complicata. E mentre
le manifestazioni a Quebec City, a Praga e Seattle avevano lanciato un messaggio
molto importante sul potere delle multinazionali, penso che ora debba essere
fatto molto di più per portare queste grandi questioni verso problemi concreti,
come quelli di quale tipo di sanità avremo come risultato delle privatizzazioni
e del potere delle grandi compagnie farmaceutiche.
Noi dobbiamo affrontare la
questione del libero mercato e di quanto il mercato stia veramente facendo per
affrontare i problemi dell’umanità. Perché il libero mercato non sta facendo
nulla per la gente che ha fame? In altre parole, prendiamo un problema come
quello dei senzatetto e le difficoltà per la gente di trovare abitazioni
accessibili economicamente, per via del mercato immobiliare e dei piani
urbanistici formulati seguendo delle forze di mercato.
Guardiamo le questioni più
importanti: la casa, la sanità e la pubblica istruzione. Tutte queste cose
essenziali stanno iniziando a mancare perché le forze del mercato esigono che le
nostre tasse siano usate per fini militari e che il sistema di tassazione venga
modificato per dare ulteriori benefici ai pochi che stanno nella fascia di
reddito più alta.
Le grandi questioni di classe che
sono state poste a Seattle hanno bisogno di essere rapportate ai fondamentali
problemi biologici vitali, delle necessità, dell’educazione dei nostri figli.
Queste sono le questioni che stanno a cuore a milioni e milioni di persone.
Noi dobbiamo fare di più per
collegare i problemi di cui la gente è già a conoscenza, le cose che sanno
essere sbagliate circa il controllo dei mercati nazionali e internazionali sulle
loro vite, nonché i modi con cui è possibile sfidare il potere delle
corporations e il mercato.
Ahmed
Shawki
La lotta per un mondo diverso
Le grandi manifestazioni di Genova contro il
vertice del G8 di luglio sono una pietra miliare nel movimento per una giustizia
globale. Queste manifestazioni rappresentano una nuova fase nello sviluppo del
movimento e sollevano nuove questioni politiche e organizzative. Genova ha
definito più precisamente i contorni di una nuova sinistra internazionale e ha
reso più chiari i compiti che ci stanno di fronte.
Poco più di un decennio fa, i leaders del mondo
occidentale affermarono che il socialismo era morto e proclamarono che “non
c’era alternativa” (TINA, “there is not alternative”) al sistema di mercato e al
capitalismo. Ma al posto di un nuovo mondo di crescita economica nel quale
“tutte le navi hanno il vento in poppa”, l’economia mondiale è stata testimone
di uno dei più rapidi e drammatici spostamenti di ricchezza che si siano mai
visti. Ora si sta sostituendo TINA con l’idea del “TMBAA” (“there must be an
alternative”, ci deve esser un’alternativa) o più elegantemente, per usare le
parole della dichiarazione del primo World Social Forum di Porto Alegre del
gennaio 2001, che “Un altro mondo è possibile”.
Se l’ultimo quindicennio è stato segnato dalla
vittoria ideologica del mercato e dalla “fine del socialismo”, ora stiamo
assistendo all’affermarsi del suo opposto: la crisi dell’ideologia del mercato
e, più lentamente, magari, di maggiori difficoltà del capitalismo in ambito
internazionale. Dopo un decennio di boom economico, il movimento per la
giustizia globale è emerso come un’ opposizione agli effetti della
globalizzazione capitalistica. Il passaggio del sistema dal boom alla crisi non
farà che rendere più chiara questa linea di faglia. Le economie oggi più
vulnerabili, Turchia e Argentina, stanno ingurgitando un’altra dose della
medicina del Fondo Monetario Internazionale e degli enormi costi sociali che ne
derivano. Ciò ha solo gettato benzina sul fuoco dei sentimenti di opposizione
alle istituzioni finanziarie e alle corporations che dettano il futuro di gran
parte della popolazione mondiale.Sia i sentimenti di opposizione che
l’affermarsi dell’idea che un altro mondo è necessario e possibile
sono stati gli elementi più impressionanti delle tre giornate di proteste a
Genova. Questi sentimenti hanno portato nelle piazze decine di migliaia di
persone, a partire dalla manifestazione in solidarietà con gli immigrati dietro
lo slogan “Siamo tutti clandestini” del 19 luglio, passando per la disobbedienza
civile del 20, per finire con la manifestazione di massa dei trecentomila per le
vie della città vecchia il 21 luglio.
Le dimensioni e la scala delle manifestazioni
sono state largamente ignorate o non riportate dai principali mass-media
statunitensi. Ma non si deve permettere che l’assalto della polizia ai
manifestanti e la concentrazione dei media sulla violenza e il black bloc
sminuiscano il significato di ciò che è avvenuto. Significativamente, decine di
migliaia di persone si sono raccolte malgrado il fatto che il governo italiano e
i mezzi di informazione fossero impegnati in una sistematica campagna di
allarmismo per tenere la gente a casa. Una moltitudine di persone si sono
riversate in strada il 21 giugno nonostante l’assassinio di Carlo Giuliani il
giorno prima e malgrado l’assenza delle principali organizzazioni della sinistra
riformista.
Dopo Genova, a migliaia, in tutta Italia sono
scesi in piazza per protestare, determinando una crisi politica per il governo
Berlusconi. All’estero, i giornali che in un primo tempo avevano concentrato la
loro attenzione sulle violenze dei dimostranti hanno messo in prima pagina i
racconti del brutale attacco della polizia alla sede del Genoa Social Forum, il
principale organizzatore delle proteste.
Per alcuni Genova diventerà sinonimo di violenza
e questa è indubbiamente la linea che molti dei principali giornali hanno deciso
di sostenere. Sfortunatamente, stanno facendo lo stesso anche alcune
organizzazioni non governative. Ma qui si pongono due problemi distinti. Il
primo ha a che vedere con la violenza dello Stato diretta contro il movimento;
l’altro è la questione di come il movimento si debba confrontare con una piccola
minoranza di individui autoselezionati che hanno scelto di impegnarsi in una
serie di tattiche che vanno a discapito di tutto il movimento. Non dobbiamo
lasciare che la presenza del black bloc (o di agenti provocatori che si facevano
passare per membri del black bloc) celi l’identità dei veri provocatori della
violenza a Genova. Sin dalla nascita del movimento, i governi e le corporations
che dominano il mondo hanno portato avanti una doppia strategia che abbina il
tentativo di screditare, dividere e reprimere il movimento allo sforzo di
contenerlo e sovvertirlo. Per esempio, a Seattle nel 1999 la polizia fu
sguinzagliata in quello che è stato descritto da più parti come un “tumulto
poliziesco”; poi venne la carota, nella forma del discorso “Io soffro insieme a
voi” di Bill Clinton.
Ciò che era chiaro anche prima di Genova è che
il pendolo stava oscillando verso una maggiore repressione e una maggiore
violenza. Le altre manifestazioni tenutesi quest’anno, a Quebec City e
Gotheborg, così come le provocazioni della polizia a Barcellona, ne sono una
chiara prova. Quello che è successo a Genova riflette la decisione da parte di
chi gestisce questo sistema di non tollerare il dissenso.
A coloro che tentano di mettere sullo stesso
piano le azioni del black bloc con quelle dello Stato, ha risposto enfaticamente
il padre di Carlo Giuliani:
“Nella manifestazione di venerdì Carlo
indossava, certo, un passamontagna. Ma tu non puoi paragonare il lancio di un
estintore con un colpo di pistola alla testa”. O, come ha dichiarato Luca
Casarini delle tute bianche: “C’è una differenza abissale tra chi costruisce una
barricata per difendersi e chi decide invece di stroncare militarmente un
movimento ampio e articolato come quello contro la globalizzazione economica”.
Tuttavia sappiamo c’è un black bloc genuino, un
gruppo autoselezionato che si organizza fuori del controllo degli organizzatori
delle manifestazioni con lo scopo di provocare scontri con la polizia. Casarini
ha ragione quando dice a Il Manifesto che “Sono persone che credono che
per colpire il capitalismo basti sfasciare una vetrina. [...] Noi la pensiamo
diversamente. Noi crediamo in un processo di trasformazione sociale [...]”
La questione della tattica, della violenza e
della non violenza, deve emanare dagli scopi del movimento. Il rivoluzionario
russo Lev Trotsky disse che se fosse bastato gridare “All’attacco!” in ogni
battaglia, senza tenere conto del rapporto di forze, senza tenere conto del
terreno, senza tenere conto di chi è il nemico, o senza tenere conto di chi hai
a fianco, qualsiasi idiota potrebbe essere un generale rivoluzionario. Coloro
che gestiscono il sistema hanno messo in chiaro che agiranno con la violenza
contro il nostro movimento. Noi non possiamo semplicemente dire a gran voce che
faremo quel che ci pare senza aspettarci di dover pagare un prezzo.
Non è la prima volta che la questione della
violenza individuale è stata sollevata in un movimento radicale. Il movimento
rivoluzionario russo cominciò con atti eroici individuali contro lo Car’. Karl
Marx scrisse con tenerezza e in appoggio totale di Vera Zasulič, un membro della
“Narodnaja Volija” che aveva assassinato un funzionario della polizia zarista.
La giuria fu così colpita dal suo contegno al processo e dal suo odio per la
violenza e l’oppressione dello zarismo che la lasciò libera.
Noi non dobbiamo condannare moralmente gli atti
individuali di violenza, ma possiamo e dobbiamo affermare che essi sono un
vicolo cieco per il movimento. Ancora Trotsky scrisse che non è uno dei nostri
scopi quello di colpire i rappresentanti individuali del sistema; il nostro
obiettivo è quello di trasformare l’intera società. Ciò non si compirà con gli
atti di eroi individuali:
“I profeti anarchici della “propaganda
dell’azione” possono argomentare tutto ciò che vogliono sull’alta e stimolante
influenza delle azioni terroriste sulle masse: considerazioni teoriche e
l’esperienza politica provano il contrario. Più è “efficace” l’azione
terrorista, più ampio è il suo impatto, più l’attenzione delle masse si
concentra su di essa, più diminuirà l’interesse delle masse
nell’autorganizzazione e nell’autoeducazione.”[97]
Noi siamo per la costruzione di un movimento che
determini da sé il proprio futuro, che costruisca da sé la sua organizzazione e
che imponga la sua democrazia. Non possiamo sostituire gli atti di piccole
minoranze a questo processo.
Ci sono alcune organizzazioni che hanno deciso
di non partecipare alla manifestazione del 21 luglio perché, dicevano, non
potevano garantire l’incolumità dei propri membri. In questo senso Genova è
stato un bivio per il movimento. Gli eventi di Genova – e in particolare le
grandi manifestazioni in tutta Italia la settimana successiva – mostrano che il
movimento non si lascerà intimorire e ridurre al silenzio. Ci ricorda coloro i
quali sono passati attraverso gli anni ’60 e in qualcuna delle manifestazioni
dei primi anni ’70, che dinanzi agli idranti e alla brutalità dicevano: “Non
importa. È giusto protestare, troverò un modo per protestare, troverò un modo
per dire chiaramente come la penso.”
Il padre di Carlo Giuliani, riassumendo cosa
aveva motivato molte migliaia di persone ad andare a Genova, ha semplicemente
detto:
“Carlo non accettava il fatto che otto leader
del mondo dovessero decidere la vita e la morte di centinaia di migliaia di
persone. Qui a Genova non devi andar lontano per vedere le vittime delle loro
politiche. Torna quando il G8 sarà passato e vedrai la disperazione di quelli
lasciati affamati, di quelli che sono stati forzati ad abbandonare il loro paese
e a stabilirsi qui, costretti a sopravvivere senza nessuna dignità nei vicoli
che circondano il porto”. Ora il movimento è posto di fronte a importanti
questioni, quali quella di come difendersi e di come andare avanti e sfidare
efficacemente i padroni e i loro governi. C’è la questione di come difendere i
nostri diritti fondamentali – di parola, di protesta, di assemblea – senza la
minaccia della violenza della polizia.
La stessa questione si pone per i funzionari del
G8, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, e gente simile. I
principali giornali hanno messo in discussione il futuro di tali incontri e la
loro stessa ragione d’essere. Il londinese Financial Times scrive:
“Una cosa che Genova ha dimostrato è che questi summit sono in realtà abbastanza
futili” (ovviamente si aggiunge che i summit non dovrebbero essere fermati
immediatamente, per evitare di dare l’impressione di darla vinta ai
manifestanti). I padroni sono alle prese con il fatto che questi summit sono
essenzialmente raduni simbolici dei ricchi e dei potenti e che le decisioni
reali sono prese quotidianamente altrove, dai proprietari e dai consigli di
amministrazione delle multinazionali, dalle banche, dalle burocrazie governative
e dai loro eserciti.
L’escalation nell’uso della forza repressiva da
parte dello Stato ha sollevato una questione strategica; come possiamo veramente
sfidare una tale mobilitazione di forze armate? Sarebbe un errore dire che, dato
che questi vertici sono solo simbolici, il movimento non dovrebbe più tentare di
mobilitarsi in forze per sfidarli. Ma come fa un movimento di massa a cominciare
a proteggere le proprie manifestazioni e ad assumerne il controllo in una
situazione in cui la polizia tenta sistematicamente di scontrarsi fisicamente
con esso, anche attraverso l’uso di infiltrati?
Per cominciare, dobbiamo continuare ad
accrescere le dimensioni delle manifestazioni. Genova è stata di gran lunga la
più grande manifestazione dalla nascita del movimento, con quattro o cinque
volte più gente rispetto a Seattle. Lo Stato non poteva impedirla, e già solo
questo è una vittoria.
Ma abbiamo bisogno di qualcosa di più di numeri.
Dobbiamo attirare gruppi che finora non hanno partecipato, gente che possa
mettere sul piatto della bilancia la propria forza organizzata per mobilitazioni
ancora più grandi, ma che rappresenti anche un peso sociale che va al di là
delle manifestazioni: la classe operaia. Abbiamo bisogno non solo di costruire
manifestazioni più grandi, ma di andare anche oltre, per lottare nei quartieri
e, cosa ancora più importante, nei posti di lavoro attraverso i sindacati. La
dicotomia tra locale e globale, tra le manifestazioni in occasione dei summit e
le manifestazioni locali, può essere affrontata da un movimento che abbia come
obiettivo quello di dare voce alle aspirazioni e agli interessi di una vasta
maggioranza. In Italia questa discussione è già cominciata in ambiti non
ristretti, come conseguenza delle proteste di Genova. Le tute bianche, per
esempio, stanno riesaminando la loro enfatizzazione della disobbedienza civile e
la politica delle azioni simboliche. In una recente intervista a Il
Manifesto, Casarini si è mosso in questa direzione: “Sono questi ulteriori
fattori che mi portano a dire che si è esaurita la fase della disobbedienza
civile. Ora bisogna passare alla disobbedienza sociale” e cioè che si devono
collegare la lotta contro il G8 alle lotte sociali quotidiane nelle comunità e
nei posti di lavoro, facendo diventare queste ultime parte integrante della
lotta più complessiva.
Negli anni ’60 dopo aver provato a usare la
tattica della disobbedienza civile, della non-violenza e della persuasione
morale per oltre un decennio, il movimento dei diritti civili negli USA si trovò
di fronte lo stesso corpo di questioni, che condussero non solo al riesame della
tattica della non violenza ma anche a una più profonda comprensione di classe di
ciò per cui stava combattendo il movimento. Il reverendo Martin Luther King Jr.,
parlando agli organizzatori del movimento nel 1967, sollevò alcune di queste
questioni:
“Noi dobbiamo onestamente riconoscere il fatto
che il movimento deve porsi la questione della ristrutturazione dell’intera
società americana. Abbiamo 40 milioni di poveri. E prima o poi dovremo
chiederci: “Perché ci sono 40 milioni di poveri in America?”. E quando tu
incominci a porre la questione, inizi a porti il problema del sistema economico,
il problema di una più generalizzata distribuzione della ricchezza. Quando poni
questa questione inizi a mettere in discussione l’economia capitalistica. E a
farti domande sull’intera società. Noi siamo chiamati ad aiutare gli scoraggiati
mendicanti nel mercato della vita. Ma dobbiamo arrivare a comprendere che un
edificio che produce mendicanti ha bisogno di essere ristrutturato. Ciò
significa che è necessario sollevare questa questione. Vedete, amici miei,
quando inizi ad affrontare tutto questo, finisci per domandarti “A chi
appartiene il ferro?” Cominci a domandarti: “Com’è che quella gente deve pagare
la bolletta dell’acqua in un mondo che è per due terzi acqua?” Queste sono
domande che devono essere poste.”[98]
Domande che devono essere poste ancora oggi. Una
intera generazione giunse alla conclusione, alla fine degli anni ’60, che se
voleva che le sue lotte fossero vincenti doveva sfidare il capitalismo in quanto
tale. Oggi c’è una rinascita della sinistra che sta avvenendo a livello
internazionale e il sistema viene nuovamente messo in questione. Il padre di
Carlo Giuliani ha concluso l’elogio funebre per il figlio dicendo “In qualche
misura non ci capivamo. Io sono iscritto ai Democratici di Sinistra. O per
meglio dire lo ero - la nostra sezione è chiusa ormai da mesi. Non ci sarà più
per casa la sua vivacità. Non avremo più le nostre canzonature calcistiche. E
non avremo mai più le nostre discussioni politiche. Ma forse ora è tempo che
nuova gente apra nuove sedi, in modo che si possa portare avanti la
discussione.”
Ha ragione. È tempo di cominciare a discutere,
di iniziare a costruire. L’idea e l’organizzazione socialista sono decisive in
questo progetto.
Dal Manifesto del Partito Comunista in
avanti, Karl Marx e Friedrich Engels hanno sempre respinto l’idea che la
liberazione dallo sfruttamento e dall’oppressione potesse venire per mezzo
dell’azione di una minoranza illuminata. Ma neppure le moltitudini pure e
semplici possono vincere le forze armate di uno Stato. Solo la lotta
rivoluzionaria, basata sulla forza dei lavoratori, può costruire un’alternativa:
“Sia per la produzione su scala di massa di
questa coscienza comunista, sia per il successo della causa stessa, è necessario
un cambiamento degli uomini su scala di massa. Questo cambiamento può
realizzarsi solo in un movimento pratico, in una rivoluzione; la rivoluzione è
necessaria, quindi, non solo perché la classe dominante non può essere
rovesciata in nessun altro modo, ma anche perché la classe che sovverte solo in
una rivoluzione vincente può liberare se stessa da tutto il vecchio marciume e
diventare idonea a fondare da capo una società.”[99]
Ecco perché oggi qualsiasi discussione sul
socialismo, sulla trasformazione della società, deve cominciare dalle parole che
Marx scrisse più di 150 anni fa: “L’emancipazione della classe operaia deve
essere a opera della classe operaia stessa”.
[1]
La International Socialist Review è una rivista bimensile pubblicata
sotto gli auspici dall’International Socialist Organization (ISO)
statunitense dal 1997. L’ISO, sorta nel 1977, fa riferimento alle
tradizioni del marxismo rivoluzionario antistalinista e al patrimonio
teorico dell’International Socialism di cui Tony Cliff (1917-2000), autore
di una delle prime e più originali teorie del capitalismo di Stato in
Russia, è stato uno dei principali dirigenti. Tutti i contributi inclusi in
questo volume sono stati pubblicati sul numero 19 (agosto-settembre 2001) di
detta rivista ad eccezione del saggio di Paul D’Amato apparso sul numero 17
(aprile-maggio 2001) della stessa rivista con il titolo “Imperialism and
State” e il contributo “La nuova guerra di Bush” di Selfa Lance e Ahmed
Shawki che apre il volume, il quale appare qui per la prima volta.
[2]
Citato in Mark Curtis, The Great Deception: Anglo-American Power and
World Order. (Pluto Press, London 1998), p. 40
[3]
“What we say goes” frase colloquiale tipico di George Bush jr.
[4]
Dipartimento della Difesa USA, Quadrennial Defense Review Report, 30
settembre, 2001, (Washington: U.S. GPO, 2001), p. 4. Disponibile sul sito
www.defenselink.mil/qdr2001.pdf.
[6]
Francesco Sisci, “Why China is taking America's side” Asian Times Online,
26 settembre, 2001, disponibile sul sito www.atimes.com.
[8]
Mandavi Mehta and Teresita C. Schaffer, “India And The United States:
Security Interests” South Asia Monitor 34, 1 giugno 2001, disponibile
sul sito www.csis.org.
[9]
Sheehan citato in David Brindley e Kevin Whitelaw, “Asia’s Big Oil Rush;
Count Us In” U.S. News and World Report, 29 settembre 1997.
[10]
vedi Michael T. Klare, Resource Wars (New York: Henry Holt and
Company, 2001) In questo volume si descrivono le macchinazioni delle grandi
potenze nella regione del mar Caspio.
[11]
Citato da Frederick Starr, Chairman of the Central Asia-Caucasus Institute
alla Johns Hopkins Nitze School Advanced International Studies in Nafeez
Mosaddeq Ahmed, “Afghanistan, the Taliban and the United States” disponibile
sul sito www.mediamonitor.net. L’articolo
di Ahmed , su cui ci siamo ampiamente basati per questo articolo, è
eccellente. Tra l’altro l’intuito di Starr non dovrebbe essere messo in
discussione. Fino al 2001 il suo capo alla “Johns Hopkins” non era niente
altri che Paul Wolfowitz.
[12]
Vedi Alexie G. Arbatov, “The Transformation of Russian Military Doctrine:
Lessons Learned from Kosovo and Chechnya” (Garmisch-Partenkirchen, Germany:
George C. Marshall European Center for Security Studies, 2000).
[13]
“U.S. Indicates New Military Partnership with Uzbekistan” Wall Street
Journal, 15 ottobre, 2001.
[14]
Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Carter, Zbigniew Brezinski, più
tardi si vantò che la CIA aveva cominciato ad assistere in segreto la
guerriglia afgana prima dell’invasione sovietica per spingere l’URSS in
quella palude. È un ulteriore prova che Carter usò la “minaccia sovietica”
per giustificare la politica dell’intervento diretto americano nel Golfo.
Vedi Ahmed, “Afghanistan, the Taliban and the United States”
[15]
Citato in Curtis, p. 117.
[16]
Klare, Resource Wars, pp. 68-78
[17]
Questi dati provengono da Anthony H. Cordesman, U.S. Forces in the Middle
East (Boulder, Col.: Westview Press, 1997) pp. 48, 79.
[18]
Paul D’Amato, “Blood for Oil” International Socialist Review n°15
(dicembre 2000-gennaio 2001), p. 33.
[19]
Vedi Mohamedi and Sadowski, “The Decline (But Not Fall) of US Hegemony in
the Middle East”
[20]
Robert Cottrell, “Tensions Between Russia and Georgia Reach New Heights”
Financial Times, 11 ottobre 2001.
[23]
Vedi Christopher Helman, “U.S. Military Spending vs. the World” Defense
Monitor 30 agosto 2001.
[24]
Citato da “The Canton Speech,” in Jean Y. Tussey, ed., Eugene V. Debs
Speaks (New York: Pathfinder Press, 1972), p. 261.
[25]
Lee Sustar, “Bosses Cash In On U.S. War Drive” in Socialist Worker,
19 ottobre, 2001.
[26]
The Nation celebre settimanale americano di vedute progressiste
fondato nel 1865.
[27]
“Rules of Engagement” The Nation, 15 ottobre 2001.
[28]
Agenzia di stampa online americana (www.salon.com).
[30]
Bruce G. Blair, “Terror Attacks Define New Military Agenda” Defense News,
17 settembre 2001.
[31]
Si veda la suddivisione del bilancio di Bush in “Fiscal Year 2002 Budget
Request” Defense Monitor, agosto 2001, Washington, D.C., Center for
Defense Information, disponibile sul sito
www.cdi.org.
[33]
Robert Fisk, “I am being vilified for telling the truth about
palestinians”, The Indipendent, 13 dicembre 2000
[34]
Segretario di Stato Colin L. Powell, “Statement upon release of patterns of
global terrorism 2000”, 30 aprile 2001, Washington, disponibili online sul
sito www.state.gov.
[35]
U.S. Department of State, Patterns of Global Terrorism – 2000,
disponibile online sul sito www.state.gov/s/ct/rls/pgtrpy/2000
[36]
“Peres: Armenian allegations are meaningless”, Turkish daily News, 10
aprile 2001.
[37]
William Robinson in un recente rapporto NACLA, portando alle estreme
conseguenze questo punto di vista, ha affermato che la globalizzazione
nullifica l’imperialismo: “Io non concordo con la nozione prevalente secondo
cui l’ordine del capitalismo globale emergente sia basato sulla egemonia
USA. Le analisi basate sullo Stato-nazione sono superate e non permettono di
comprendere le dinamiche transnazionali nella nuova era. Noi siamo testimoni
del declino della supremazia americana e delle prime fasi di una emergente
egemonia transnazionale come espressione di un nuovo blocco che è globale
negli scopi e che è basato sulla egemonia delle corporations
transnazionali.”
William I. Robinson “Polyarchy”. Coercision’s New face in Latin America”
NACLA Report on Americas, vol. XXXIV, No. 3 November/Dicember 2000 p. 45
[38]
United Nation Department for Public Information, “Fact Sheet: Global
Financial Profile,” Gennaio 2001.
[39]
UNCTAD World Investment Report 2000, disponibile a www.unctad.org/wir.
[40]
Lenin “Osservazioni critiche sulla questione nazionale” (OC ed. italiana
vol. 20 p. 19).
[41]
Leon Trotsky The Bolsheviks and the World Peace (Boni & Liveright,
Inc., 1918) pp. 20-22
[42]
La teoria della “Economia di Armamento Permanente” fu sviluppata negli anni
’60 da Michael Kidron allora membro del gruppo britannico International
Socialism.
[43]
Pete Binns “Revolution and State Capitalism in the Third World”,
International Socialism 25, autunno 1984, p.55
[46]
Daniel Singer Whose Millenium: Theirs or Ours? (New York: Monthly
Review Press, 1999) pp. 192-193
[47]
Duncan Green, Silent Revolution: The Rise of Market Economy in America
Latina (London: Cassell and LAB, 1995) p. 51
[48]
Walden Bello “U.S. Economics Expansion: Asia’s Crisis in America’s gain”
Bangkok Post, 7 aprile, 2000
[49]
Harry Shurt, The trouble with Capitalism: an Enquiry into the Causes of
Global Economic Failure (London: Zed Books, 1998)
[50]
1997 World Development Report: “The State in a Changing World”.
L’eccezione
sono gli USA, dove le spese statali in relazione al PIL hanno conosciuto un
declino negli anni ’90. Lo Stato americano, comunque investe in armi il 36%
di tutta la spesa bellica mondiale: un aumento relativo in relazione agli
ultimi anni.
[51]
Winfred Ruigrok and Rob van Tulder, The Logic of International
Restructuring (London and New York, 1995), p. 159
[52]
Michael Skapinker, “Worlds Apart: Despite a wave of mergers and
acquisitions, the long predicted global corporation remains a distant
ideal,” Financial Times, 1 marzo, 2001.
[53]
Anticonsumerism website, at www.malthys.com/consumer/govt.htm
[54]
Aiuto alle Famiglie con Figli a Carico
[55]
Charles M. Sennott “The 150 Billion “Welfare” Recipients: U.S.
Corporations,” Boston Globe, 7 luglio 1996.
[56]
Sintesi del “The State in the Changing World,” UNCTAD World Investment
Report 2000
[57]
J. Parrice McSherry “Preserving Hegemony: National Security Doctrine in the
Post-Cold War Era” NACLA Report on the Americas, vol. XXIV, No. 3,
November-December 2000, pp. 27-28.
[58]
Sidney Lens, The Forging of the American Empire (New York: Thomas Y.
Crowell Company, 1971) pp. 270-271.
[59]
Citato in J. Patrice McSherry, “Preserving the Hegemony: National Security
Doctrine in the Post-Cold War Era” NACLA Report on the Americas, vol.
XXIV, No.3,
novembre/dicembre 2000, pp. 27-28.
[62]
Business Roundtable, “The Case for U.S. Trade Leadership: the U.S. is
falling behind, p. 2.
Disponibile al
sito www.brtble.org
[64]
William Greider, One World Ready or Not: the Manic Logic of Global
Capitalism (New York: Touchstone, 1997), pp. 137-138
[65]
Edward Luttwak, Turbo Capitalism: Winners and Losers in the Global
Capitalism (New York: Haper Perennial, 1999) pp. 146-148
[66]
Martin Khor, “How the South is Getting a Raw Deal” Sara Anderson, Jerry
Mander, eds., Views from the South: The Effects of Globalization and the
WTO on the Third World Countries (Chicago: Food First Books, 2000) pp.
14-15.
[67]
K. Marx-F.
Engels,
Manifesto del Partito Comunista, (Edizioni Lotta Comunista, Milano 1998)
p.99
[68]
Charles Dubow, “Billionaires in toyland”,
Forbes magazine, 4 ottobre 1997.
[69]
Si tratta di zone artiche deserte sotto la giurisdizione statunitense.
(controllare)
[70]
Sherry Wolf “Climate chaos: Can global warming be stopped?”,
International Socialist Review, giugno-luglio 2001,
pag.
79.
[71]
Laurie Ann Mazur, prefazione a Beyond the numbers:
A Reader on Population, Consumption and the Environment,
a cura di Laurie Ann Mazur
ed. (Washington’
D.C.:,
Island Press, 1994)
pag.
xii)
[72]
“Struggling just
to get by”,
Socialist Worker,
8 giugno 2001.,
pag.
1
[73]
Anuradha Mittal,
“The South in the North” View from the South: The Effects of
Globalization and WTO on the Third World Countries,
a cura di.
Sarah Anderson
ed.
(Food First Books and the International Forum on Globalization, Canada,
2000),
pag.
164
[74]
Food and Agricultural Organization, FAO statistics series, Production
Yearbook 1995, tavola 9 (Fao, Roma, 1995).
[75]
Frances Moore Lappé, Jospeph
Collins
eand
Peter Rosset,r
World Hunger: Twelve Myths, 2a ed. (Grove Press, New York, 1998),
pag.9)
[76]
Lappé, Collins e Rossetoser,
op. cit.,
pag.
14.
[77]
Karen Lehman e Al Krebs,
“Control of the world’s
food supply” in The Case against the Global Economy: And for
a Turn to the Local,
. (a
cura di Jerry Mander e Edward Goldsmith
(,
Sierra Club Books, San Francisco:
Sierra Club Books, 1996),
pag.
126
[78]
Lehman e Krebs, op. cit.,
pag.
125
[79]
Lehman e Krebs, op. cit.,
pag.
122
[80]
John Bellamy Foster The Vulnerable Planet: A Short Economic History of
the Environment (New
York: Monthly Review Press,
New York,
1999),
ppagg.
26-27)
[81]
Per esempio la sostituzione di materiali maturali come la carta, il cotone e
la lana con materiali sintetici non biodegradabili,
come il poliestere e
il polistirolo,lo
Styrofoam
è una delle maggiori cause dell’esplosione
della
diffusione dei rifuiuti
solidi dopo la Seconda Guerra
mMondiale.
Ma questa decisione non fu assunta in quanto i consumatori amasserovano
per chissà quale ragione il poliestere, o perchéè
questi materiali fossero necessariamente
più economici,
ma in quanto potevano essere prodotti utilizzando meno forza-lavoro e facevano
così
accrescere
più rapidamente i profitti, soprattutto
quelli delle potenti aziende petrolifere che producono questi
materiali.
[82]
Michael Pollan,
“Naturally”,
New York Magazine, 13 maggio,
2001
[83]
Michael Pollan, art. cit.
I “Twinkie” sono merende di pandispagna contenenti grassi animali e vari
conservanti artificiali.
[84]
Michael Pollan, art. cit.
[85]
Martin Kohr “The global economy and the Third World” in The Case Against
the Global Economy, pag.57
[86]
Karl Marx e Friedrierich
Engels,
Manifesto del Partito Comunista (a cura di E.
C. Cantimori, Milano, Mondadori, 1978),
pag.
104-105??
[87]
John Bellamy Foster “Capitalism’s environmental crisis – Is technology the
answer?”,
Monthly Review, dicembre 2000
[88]
Department of Energy
[(Ministero
delle
Rrisorse
energetiche])Dipartimento
Energetico Greenhouse Gases Emissions in the United States
1999
(
DOE, Washington D.C.:
DOE, 1999),.
disponibile online
sulal
sito www.eia.doe.gov/oiaf/1605/ggrpt/carbon.html
[89]
John Bellamy Foster “Capitalism’s environmental crisis”, art.cit.
[90]
Gran parte dei cenni sulla storia dell’industria dell’automobile sono
ripresi da Glenn Yago The decline of Transit (New
York: Cambridge University Press,
New York, 1984)
e
da John Bellamy Foster,
The Vulnerable
PlanetPlanet.
[91]
Modo di dire anglossassone
per indicare uno sviluppo urbano
caoticodisordinato,
senza piano regolatore.
[92]
Pew Center for Civic Journalism “Straight talk from Americans 2000” (Pew
Center, Washington D.C.:
Pewr
Center, 2000) disponibile online
sulal
sito www.pewcenter.org; Paul M. Sweezy,
“Cars and city” Monthly Review
Press, aprile 2000
[93]
Catena americana di bar-caffè che vendono anche gadgets, ecc.
[94]
A proposito di questo coordinamento di lotta si veda il contributo di
Oscar Oliveira all’interno di questo volume
2
Mexican Action Network on Free Trade (Rete messicana d’azione sul libero
mercato), “NAFTA’s negative impact on wages & employment in Mexico”
(L’impatto negativo del NAFTA sui salari e sull’occupazione in Messico),
Mexican Labor News and Analysis (MNLA,
Notizie e analisi sui lavoratori messicani), luglio 2000,
disponibile
suasul
sito internet: www.ueinternational.org.
3
Intervistato
deall’autore
nell’ufficio del Border Workers Support Commitee (Comitato di sostegno ai
lavoratori di confine) a Tijuana,
il
7 gennaio 2000.
4
Intervistatao
deall’autore
alla conferenza del CITTAC sull’organizzazione delle maquiladoras a
Tijuana, il 14 luglio
2001.
5
Questa sezione si basa considerevolmente su interviste e discussioni
conbattiti
di Jaime Cota del CITTAC e Carmen Valdez del gruppo Factor X.
L’enfasinphasis
e l’interpretazione
sonoappartengono
deal
sottoscritto.
7
Cota,
seminariolaboratorio
sponsorizzato dal CITTAC a Tijuana, il 14 luglio 2001.
8
Justin Akers, International Socialist Review
(Rivista dell’internazionale socialista), giugno/luglio
2001, paggp.
69-70.
11
Donald C. Hodges, Mexican Anarchism after the Revolution
(Anarchismo messicano dopo la rivoluzione),
(Austin, University of Texas Press),
1995, pp. 20-21.
[96]
Di “Terza Via” si cominciò a parlare alla fine degli anni ’90 quando si
pensò di dar vita una sorta di nuova internazionale del centro-sinistra di
cui facesse parte la socialdemocrazia europea, i democratici di Bill Clinton
e alcuni settori del “cattolicesimo democratico”. La “Terza Via”, che
attualmente ha il più prestigioso rappresentante in Tony Blair, ipotizza
di coniugare “il mercato ai bisogni umani”, di “lenire le naturali
ineguaglianze che il mercato attuale produce”.
[97]
Lev Trotsky, “Sul terrorismo”. Opere scelte. Volume uno, p. 343
(Prospettiva Edizioni, Roma, 1994).
[98]
Citato da Jack Bloom, Class, Race and Civil Rights Movement
(Bllomington, ind, Indiana University Press, 1987)
[99]
Citato da Hal Draper Karl Marx’s theory of revolution: the politics of
Social Classes (Monthly Review Press, New York, 1978, p. 74).
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