Ultimo Aggiornamento : 10-09-2003 : Last Release
Nei segni che confondono la borghesia, la nobiltà e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione! - KARL MARX -
 
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aa.vv.

SOTTO IL VULCANO

GUERRA, IMPERIALISMO, GLOBALIZZAZIONE

 

Il primo libro pubblicato dalla GT, nell'ottobre 2001, è ora completamente disponibile on-line. Buona lettura.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

International Socialist Review

 

 

 

Sotto il vulcano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Milano, 2001

 

 

 

 

Edizione a cura di Yurii Colombo

 

Traduzioni dall’originale di Yurii Colombo, Barbara Rossi, Catia Tommasin.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La riproduzione di questi contributi è permessa, previo contatto con l’Editore. Per informazioni e contatti giovanetalpa@tiscalinet.it.

 

Cooperativa Colibrì società a..r..l., 2001

Via Coti Zelati,49 – 20030 Paderno Dugnano (Mi)

colibri@libero.it

 

ISBN  88-86345-39-9

 

 

Indice

 

Introduzione 5

 

Prima parte

L’AMERICA IN GUERRA

 

Selfa Lance e Ahmed Shawki

La nuova guerra di Bush  9

 

Noam Chomsky

La militarizzazione dello spazio  25

 

Intervista a Edward Said

Chiamano tutta la resistenza “terrorismo”  35

 

 

Seconda parte

GLOBALIZZAZIONE E IMPERIALISMO

 

Paul D’Amato

Gli Stati contano ancora nell’èra della globalizzazione

globalizzazione?  45

 

John Pilger

Lo Stato è più potente che mai  61

 

Gregory Palast

Il globalizzatore venuto dal Freddo  65

 

Goeff Bailey

Gli americani consumano troppo? 71

 

Vandana Shiva

Il controllo delle risorse idriche da parte di Banca Mondiale, WTO e corporations       79

 

Nigel Harris

Cina: globalizzazione e nuova agenda  87

 

Terza Parte

IL MOVIMENTO “PER LA GIUSTIZIA GLOBALE”

 

Mumia Abu Jamal

Per cosa combatteva Carlo  99

 

Todd Chrietien

Tijuana: lotte in prima linea contro la globalizzazione  101

 

Oscar Oliveira

La lotta dell’acqua a Cochabamba  109

 

Tim Robbins

Per cosa ho votato quando ho scelto Nader  115

 

Michel Löwy

Davos e Porto Alegre: due progetti opposti di civiltà  121

 

Intervista a Howard Zinn

Quello che sta a cuore a milioni di persone sono le questioni di classe  125

 

Ahmed Shawki

La lotta per un mondo diverso  129

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


 

 

 

 

 

 

 

 


 

Introduzione

 

Questa antologia rappresenta la traduzione di contributi apparsi nei più recenti fascicoli della International Socialist Review[1] sui temi più caldi della politica internazionale degli ultimi mesi. Vengono presi quindi in esame soprattutto i temi più legati al dibattito politico americano, spesso assai poco conosciuti in Italia e in Europa, e soprattutto i problemi aperti dalla “nuova guerra di Bush” (e alle sue prospettive), a cui è dedicato il saggio che apre il volume.

Infatti non si erano ancora spenti gli echi e le riflessioni sulle tempestose giornate di lotta genovesi di luglio che l’11 settembre, con gli attacchi terroristici alle Twin Towers e al Pentagono, tutto il quadro della situazione politica mondiale è mutato repentinamente. Ovviamente non siamo i primi, e non saremo gli ultimi, a segnalare come questi avvenimenti abbiano prodotto delle accelerazioni politiche di cui potremo cogliere la portata solo tra qualche tempo.

Il movimento “antiglobal” in Italia di fronte al precipitare degli eventi è rimasto quasi paralizzato, incapace di fornire analisi e parole d’ordine che fossero all’altezza della situazione. Per certi versi ciò era inevitabile. Se il suo insorgere a livello internazionale aveva rappresentato una ventata fresca di contestazione (seppur parziale) al capitalismo e ai modelli economici liberisti dopo venti anni soffocante pace sociale e conformismo ideologico (e ai temi del movimento per la giustizia globale è dedicata l’ultima parte di questo volume), i limiti di analisi e le rivendicazioni prospettate rischiano di farlo finire in un vicolo cieco anche perché l’incedere della recessione internazionale impone la necessità di porre in primo piano le questioni che toccano più da vicino milioni di persone: l’incertezza del posto di lavoro, il precariato, l’erosione dei servizi sociali, la vacuità degli stili di vita borghesi.

Molte delle analisi (e delle illusioni) che avevano accompagnato l’ascesa di questo movimento sono state spazzate via in un attimo. E’ proprio vero: ci sono giorni che valgono anni. Dopo l’11 settembre abbiamo assistito a interventi vigorosi e concertati delle principali banche centrali sia con l’abbassamento ripetuto dei tassi d’interesse sia attraverso iniezioni di liquidità che hanno salvato dalla catastrofe molte multinazionali fino al giorno prima ai vertici di Wall Street. Abbiamo visto presidenti di Stati, presidenti dei consigli dei ministri e ministri degli esteri impegnati in sfibranti tour diplomatici presso le capitali di paesi di cui probabilmente non conoscevano neppure il nome; abbiamo visto dappertutto forgiarsi quell’union sacré di tutte le forze borghesi che si rende necessaria solo nei momenti più difficili. Altro che progressiva erosione dello Stato nazionale, altro che Impero! Al posto della miope e unilaterale interpretazione della sinistra italiana infeudata dallo stalinismo che ha voluto sempre vedere solo ed esclusivamente il dominio della potenza americana (giungendo perfino sostenere, fino a non più di qualche anno fa, la ridicola tesi dell’Italia colonia statunitense) ci troviamo di fronte a una più intricata ragnatela di rapporti tra grandi potenze globali e piccole potenze regionali per ripartirsi zone d’influenze, ritagliarsi alleanze e accessi alle risorse energetiche dell’Asia Centrale. È la più chiara dimostrazione che i vecchi “attrezzi” metodologici del marxismo troppo rapidamente gettati in soffitta, possono garantire un’analisi capace di comprendere quello che oggi succede superando sia i limiti delle scuole borghesi “realiste” che l’impotente “wilsonismo” pacifista .

La guerra si è materializzata sotto i nostri occhi (sia quella corsara e reazionaria di bin Laden che quella scientifica e mostruosa degli eserciti anglo-americani) non come destino cinico e crudele, non come recrudescente ritorno dell’uomo all’irragionevolezza ma “come forma della vita capitalista, legittima quanto la pace” (Lenin). Altro che riforma dell’ONU! Altro che azioni di polizia internazionale!

Questa guerra, che per stessa ammissione di Bush durerà anni, ci ha mostra un’ulteriore sfaccettatura della globalizzazione, quella della globalizzazione dell’oppressione e del terrore che potrà essere fermata, come scrisse una indimenticata comunista rivoluzionaria, “solo a condizione che i lavoratori (…) sappiano riscuotersi dalla loro ubriacatura, stringersi fraternamente per mano e sovrastare il coro bestiale della canea imperialistica così come le roche strida delle iene capitalistiche, col vecchio e possente grido di guerra del lavoro: Proletari di tutti i paesi, unitevi!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prima parte

L’AMERICA IN GUERRA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Lance Selfa e Ahmed Shawki

 

La nuova guerra di Bush

 

Lance Selfa è redattore della International Socialist Review. Ahmed Shawki è direttore della International Socialist Review.

 

Tutte le operazioni militari statunitensi hanno sempre goduto della copertura di giustificazioni create ad arte per il pubblico che servono a coprirne gli scopi reali. George Bush I fece passare la guerra del Golfo Persico del 1991 per un nobile sforzo volto a dimostrare che “non c’era spazio per le palesi aggressioni”. Nel 1999 Clinton cercò di far passare una guerra intesa a preservare la “credibilità” della NATO per un’operazione umanitaria che aveva quale obiettivo, salvare i rifugiati kosovari. La “guerra al terrorismo” di Gorge Bush II non è diversa. Se Bush fosse stato interessato semplicemente a “assicurare alla giustizia” gli esecutori degli attacchi dell’11 settembre, non avrebbe lanciato una indeterminata, pluriennale “guerra al terrorismo.” Bush parla costantemente di “difesa della libertà” e della necessità di sgominare “il male” per nascondere deliberatamente gli obiettivi geopolitici e imperiali statunitensi in questa guerra.   

Le ragioni di questi inganni sono semplici da spiegare. Se il popolo americano conoscesse le ragioni reali dell’intervento – così come del resto successe durante la guerra del Vietnam – non la sosterrebbe. Strobe Talbott che ha partecipato a questa frode in qualità di plenipotenziario speciale di Clinton in Russia durante la guerra del Kosovo, ha spiegato:

 

Il popolo americano non ha mai accettato la geopolitica tradizionale o i puri calcoli di bilancia di potenza come una ragione sufficiente per espandere le ricchezze nazionali o per inviare soldati americani in terre straniere. Durante questo secolo [il XX] i governi americani hanno spiegato le loro decisioni di inviare truppe “al di fuori” invocando qualche necessità di difendere la democrazia.[2]

 

Fondamentalmente, l’Operazione Libertà Duratura è intesa a difendere un tipo di libertà: la libertà americana a continuare a intervenire in giro per il mondo per piegare i paesi alla sua volontà. Bush spera che l’Operazione Libertà Duratura sarà l’equivalente del XXI secolo dell’Operazione Tempesta nel Deserto che suo padre descrisse come il “campo di prova” per una politica americana del tipo “ciò che diciamo noi è legge”.[3]

Forse nei suoi sogni più sfrenati, Bush II crede che la sua “guerra al terrorismo” diventerà l’equivalente della Guerra Fredda del XXI secolo, con il “terrorismo” al posto del “comunismo” come fine ultimo razionale dei disegni imperiali USA.      

Nell’attuale fase, con l’attacco all’Afghanistan, l’Operazione Libertà Duratura ha permesso agli USA di portare avanti molti dei suoi obiettivi geopolitici, di cui tre spiccano in modo particolare. Si tratterebbe di proiettare la potenza americana “nell’arco del conflitto in Asia”; di erodere l’influenza russa in Asia Centrale per ottenere un più ampio accesso alle risorse petrolifere e di gas naturale del mar Caspio; di rafforzare l’egemonia USA nel Medio Oriente.

      

Dalla fine della Guerra Fredda, gli USA si sono posti la priorità di impedire o ritardare l’ascesa di un “competitore strategico” che possa disporre di una forza militare ed economica che possa potenzialmente sfidare l’egemonia americana su un’area geografica che si estende dall’ Europa all’Asia. I principali scenari disegnati dalle Forze Armate USA assegnano il ruolo di “competitore strategico” a una di queste tre potenze asiatiche: Russia, Cina o India. Come afferma la redazione della Quadrennial Defense Review (di seguito “QDR”) nel numero del 30 settembre 2001

 

Esiste la possibilità che un concorrente militare con formidabili risorse di base emergerà nella regione. Il litorale dell’Asia Orientale – dalla baia del Bengala al mar del Giappone – rappresenta un area particolarmente impegnativa. Gli Stati Uniti hanno anche meno minor certezza di accesso ai vantaggi nella regione. Ciò pone il problema di assicurarsi accessi addizionali e accordi infrastrutturali e lo sviluppo di sistemi in grado di sostenere operazioni a grandi distanze con il minimo supporto di teatro di base.[4]

 

L’establishment della Difesa americana è convinto che il probabile “sfidante” per l’egemonia regionale nei prossimi due decenni sarà la Cina. Gli USA vedono l’Asia come la regione potenzialmente più instabile del mondo, un’ipotesi che ha guadagnato credibilità quando, due acerrimi nemici regionali, India e Pakistan, hanno realizzato esperimenti nucleari a una settimana di distanza l’uno dall’altra nel 1998. A differenza dell’Europa, dove la fine della Guerra Fredda ha portato a una significativa riduzione delle forze di occupazione, gli USA hanno accresciuto lo stanziamento di truppe a Okinawa e in Corea del Sud. Ma i recenti sviluppi regionali – dalla riconciliazione sulla penisola Coreana ai movimenti per mandar via gli USA da Okinawa – hanno reso i bastioni americani in Asia Orientale più incerti.[5]

 

Cosa ha a che vedere tutto ciò con la “guerra al terrorismo” intrapresa in Afghanistan? Molto. In primo luogo se si getta uno sguardo alle cartine militari degli schieramenti militari e navali americani disponibili al pubblico si vedrà che gli USA circondano quella regione con truppe, navi e altri mezzi bellici. Rimane ancora da vedere se gli USA pensino a un dislocamento di forze in Uzbekistan and Tajikistan e a un tentativo di negoziare il ritorno di una base navale nelle Filippine come strumento permanente della loro “difesa avanzata”. Ciò potrebbe certamente aiutare il piano USA a lunga scadenza di trasferire in Asia altre forze ora stanziate in Europa.  

In secondo luogo se la Cina è il principale “competitore strategico” per il futuro, le operazioni militari USA in Afghanistan aiutano a mettere la Cina in una morsa. Le forze armate USA potrebbero essere ora schierate sul fianco orientale cinese in Giappone, Corea e nello stretto di Taiwan, e sul fianco cinese occidentale in Asia Centrale. La Cina non è in grado di fermare la proiezione USA in Asia Centrale e non osa tagliare la strada agli USA. Così ha deciso per un limitato sostegno agli USA in quanto

 

[Washington] sarebbe disponibile una estensione dell’influenza cinese in Asia Centrale in modo da bilanciare l’espansione americana nella regione; gli USA sarebbero pieni di gratitudine e si garantirebbe una rinnovata fiducia tra i due paesi. Pechino inoltre potrebbe in cambio ottenere qualcosa sulle questioni di Taiwan e Xinjiang.[6]

 

La Cina, un alleato del Pakistan da più di 50 anni, ha giocato, dietro le quinte, un ruolo chiave per garantire la cooperazione di Islamabad con Washington.[7] L’obiettivo a lunga scadenza della Cina diventare una potenza regionale in Asia dipende dalla sua capacità attuale di tenere a bada gli USA. Così, almeno temporaneamente, l’interesse di Pechino a far sì che gli USA non diventino un proprio nemico coincide con l’interesse USA di controllare la Cina.

Gli USA sanno che la “stabilità” nel Sud dell’Asia dipende dalla sua capacità di barcamenarsi tra Pakistan e India. Dalla fine della Guerra Fredda, l’India, che è rivale della Cina, ha cercato di diventare nella regione uno dei partners strategici degli USA. È stato il solo paese di una certa importanza, se si eccettua Israele, ad applaudire il discorso del 1 maggio 2001 di Bush in cui venivano descritti i piani di Guerre Stellari. E così non desta sorpresa che l’India abbia offerto agli USA l’utilizzo delle proprie basi, messo a disposizione la propria intelligence e, soprattutto, fornito il proprio sostegno politico, alla guerra americana contro il “fondamentalismo islamico”.

Gli Stati Uniti guardano alla disputa indo-pakistana, con la sua dimensione nucleare, come alla più importante minaccia alla sicurezza della regione, pericoli terroristici inclusi. Su tutte questioni le politiche dell’India sono cruciali per la pace nella regione.[8]

 

Ma gli USA non potevano accettare tutte le offerte indiane. Si sono invece orientati maggiormente verso il Pakistan, un vecchio alleato della Guerra Fredda. Per tutti gli anni ’80 il Pakistan fu il principale “subappaltatore” della guerra americana per procura contro l’URSS in Afghanistan. I servizi segreti pakistani addestrarono i combattenti mujahedin in Afghanistan e portarono al potere i talebani. Ora gli USA hanno imposto al Pakistan di abbandonarli al proprio destino. Il Pakistan, in linea di massima, desidera che qualunque governo emerga tra le macerie dell’Afghanistan post-bellico, sia un controllabile vassallo. È proprio per questo che gli USA hanno deciso di orientarsi principalmente verso Islamabad incoraggiandola con un prestito di 1000 miliardi di dollari concessi del Fondo Monetario Internazionale. Ma per sfruttare ogni vantaggio, gli USA hanno deciso di eliminare le sanzioni che gravavano sia sull’India che sul Pakistan.

 

L’Afghanistan si colloca al crocevia di un’area in cui sono concentrati  grandi giacimenti di petrolio e gas, secondi probabilmente solo a quelli del Golfo Persico. Per questa ragione tutte le grandi potenze – gli USA, la Russia, la Cina, la Francia, la Gran Bretagna e la Germania – stanno tramando da un decennio per porre sotto il proprio controllo le risorse di quell’area. Gli USA hanno chiarito quali siano le loro pretese con la ben pubblicizzata operazione militare del 1997 che ha portato al dispiegamento di 500 paracadutisti della Ottantaduesima Divisione Aerotrasportata del Nord Carolina nei deserti del Kazakhstan. Nella storia militare non c’era ancora stata un’operazione di questa gittata (oltre 11500 km.). Si intendeva così dimostrare, come dichiarò il comandate dell’operazione, il generale della Marina John Sheehan, che non c’è nazione sulla faccia della terra che non possa essere raggiunta.[9] Questo record è stato superato nell’attuale guerra in Afghanistan con l’utilizzo dei bombardieri dei B-2. I bombardieri partono dagli aeroporti del Missouri, colpiscono l’Afghanistan, e tornano negli USA senza avere la necessità di fare alcun scalo. Dato che le ricchezze del mar Caspio sono localizzate a centinaia di chilometri dalle acque internazionali, devono essere convogliate sui mercati con delle pipelines. Solo quando sapremo gli itinerari delle pipelines potremo conoscere i veri vincitori e perdenti nella contesa sul mar Caspio. Dopo il collasso dell’URSS, gli USA hanno provato a utilizzare tutta la loro potenza per far sì che le pipelines attraversassero paesi amici e non quelli a loro ostili. E così malgrado che l’itinerario più breve ed economicamente meno costoso per l’imbarco del petrolio e del gas fosse quello che andava dall’Iran al Golfo Persico, gli USA hanno promosso un progetto di pipeline lungo 1.100 miglia che da Baku, attraverso la Georgia, raggiunga il porto turco di Ceyhan. Questa pipeline (e altri progetti dello stesso tipo) hanno come obiettivo di evitare itinerari che prevedano il passaggio delle materie prime dell’Asia Centrale dall’Iran o dalla Russia. Gli USA hanno cercato di produrre un cuneo tra le ex repubbliche Sovietiche e la Russia in modo tale che le prime possano vendere le loro risorse naturali direttamente all’Occidente. L’idea americana secondo cui “Stati indipendenti e sovrani possano difendersi da soli” (una delle spiegazioni della “Operazione Sheehan” del 1997) è volta ad indebolire ulteriormente l’ex superpotenza russa. È in questo contesto che Mosca ha tentato di riaffermare la sua la sua influenza sulle Repubbliche dell’Asia Centrale (Azerbaijan, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan).[10]

La politica americana in Afghanistan s'inserisce in questo scontro per il controllo delle risorse petrolifere. Infatti gli USA e il Pakistan sponsorizzarono l’ascesa dei talebani al potere come strumento per creare “stabilità” nel paese, proprio nel contesto di quella strategia.

Oggi il Wall Street Journal si è unito agli altri media americani nell’invocare la testa dei talebani, ma nel 1997 affermava che “piaccia o non piaccia i talebani sono il soggetto politico, in questa fase storica, maggiormente in grado di ottenere la pace in Afghanistan.” Il successo dei talebani è stato decisivo per assicurare all’Afghanistan “il principale itinerario per l’esportazione delle petrolio, del gas e delle altre risorse naturali dall’Asia Centrale”. Il più audace dei progetti, quello di costruire una pipeline (la UNOCAL) che attraversasse l’Afghanistan per trasportare il gas naturale dal Turkmenistan al Pakistan, “era basato sulla promessa fatta dai talebani di giungere a conquistare tutto l’Afghanistan”.

I talebani offrivano agli USA quella stabilità che poteva rendere realizzabile il progetto UNOCAL.

Comunque gli USA iniziarono a cambiare questa loro politica dopo il bombardamento delle ambasciate americane in Tanzania e in Kenya. Iniziarono a convincersi sempre di più che i talebani non avrebbero accettato per sempre il ruolo che gli USA gli avevano assegnato. Cominciarono quindi a pensare a come trovare il modo di sostituire il governo dei talebani con un governo più addomesticato, tre anni prima dell’attacco al World Trade Center.

      

A partire dal 2000 “gli Stati Uniti hanno cominciato silenziosamente a allinearsi a quei governi come la Russia che esigevano un’azione militare contro l’Afghanistan e si trastullarono con l’idea di un nuovo raid per togliere di mezzo Osama bin Laden. Malgrado avessero poi rinunciato a causa delle pressioni in senso contrario che provenivano da quella regione, gli USA erano persino giunti a esaminare quale dei paesi dell’Asia Centrale avrebbe eventualmente permesso l’utilizzo del proprio territorio a quel fine.”[11] L’operazione Pace Duratura si colloca semplicemente lungo quella traiettoria. Con la cooperazione russa, gli USA  hanno guadagnato l’accesso a due basi dell’éra sovietica in Uzbekistan and Tajikistan.

La collaborazione tra USA e Russia potrebbe determinare il cambiamento geopolitico più significativo prodotto dalla crisi afgana.

Il Presidente Vladimir Putin dopo l’11 settembre ha immediatamente offerto il suo sostegno a Bush. Ha ignorato le obiezioni dei sui capi militari che lo consigliavano di mettere a disposizione le basi delle Repubbliche dell’ Asia Centrale alle Forze Armate americane. Alcuni relazioni suggeriscono l’idea che le truppe delle unità speciali russe stiano partecipando assieme agli americani alla guerra in Afghanistan. E sicuramente la Russia (insieme all’Iran) ha usato la sua influenza per saldare l’Alleanza del Nord all’attacco occidentale ai talebani.

La nuova politica di Putin segna una svolta nella tradizionale visione russa che vedeva nella NATO e negli USA delle forze ostili.[12] In particolare da quando la NATO  ha umiliato la Russia, polverizzando il suo alleato jugoslavo nel 1999, Putin ha usato la guerra in Cecenia per rafforzare il controllo della Russia sul suo ex impero. Chiaramente Putin spera che i suoi servigi all’Occidente saranno ricompensati con la possibilità di avere maggior mano libera in Cecenia. Putin vuole – e lo vuole anche la Germania, il suo partner più stretto in Europa – una trasformazione dei rapporti con l’Occidente. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Condoleeza Rice – un vecchio combattente della Guerra Fredda e sovietologo – vede possibile una ”fondamentale alterazione” dei rapporti tra la Russia e l’Occidente. Putin ha adombrato anche l’ipotesi che la Russia possa entrare a far parte della NATO – uno sviluppo che sarebbe sorprendente dato che una delle missioni principali della NATO era quella contenere l’influenza russa in Europa.

Comunque Putin (o almeno i suoi capi militari) potrebbe rammaricarsi un giorno di aver dato autorizzato gli USA a utilizzare le basi in Asia Centrale. Il 7 ottobre 2001 gli USA hanno concluso un accordo con l’Uzbekistan impegnandosi a difendere l’ex repubblica sovietica in caso di intervento esterno. L’accordo, racconta il Wall Street Journal, “allontana ogni ipotesi che la presenza militare americana nella regione sarà di breve durata. L’accordo prevede che le forze di terra americane restino per un anno ma probabilmente alla scadenza l’accordo sarà rinnovato, dice confidenzialmente un ufficiale.” L’accordo è un passo nella direzione volta a rendere “le fonti energetiche dell’intera regione un diritto esclusivo occidentale.”[13]

      

L’ultima volta che l’Afghanistan fu preso in considerazione dagli USA fu quando Carter annunciò la sua “dottrina”. In seguito alla invasione dell’URSS dell’Afghanistan nel 1979, Carter sostenne apertamente quello che tutte le amministrazioni americane avevano perseguito dal 1940 in poi: “Un tentativo di qualsiasi forza esterna di guadagnare il controllo del Golfo Persico sarà considerato come un assalto ai vitali interessi degli Stati Uniti d’America, e un tale attacco sarà respinto con tutti mezzi necessari, inclusa la forza militare,” 

Gli USA non credevano veramente che l’URSS stesse usando l’Afghanistan come un ponte per insediarsi nel Golfo Persico. La “minaccia sovietica” semplicemente giustificava la nuova politica USA che prevedeva l’intervento diretto in quell’area che era diventata molto più ostile agli USA (e ai suoi interessi) dopo che la Rivoluzione Iraniana aveva spodestato il principale alleato degli americani nella regione.[14]

La Guerra del Golfo per salvare la monarchia del Kuwait portò alla ribalta la dottrina Bush:

 

“garantire l’assistenza difensiva ai regimi conservatori ricchi di petrolio contro qualunque forza che li possa minacciare.”[15]

 

I tre principali scenari degli USA nel Golfo Persico prevedono: contenimento dell’Iraq; impedimento della chiusura da parte dell’Iran dello stretto di Hormuz, il “checkpoint” del Golfo Persico che sfocia nell’Oceano Indiano; difesa del regime saudita da possibili tensioni interne o da un tentativo di suo rovesciamento.[16]

Questi scenari, a cui possiamo aggiungere il rafforzamento delle sanzioni contro l’Iraq e il mantenimento della “no-fly zones” su quel paese, giustificano ulteriormente la presenza di circa 25.000 soldati e di navi americane nella regione (mentre 155.000 riservisti  sono in stato di allerta e rapidamente dispiegabili).[17] Ma malgrado questa schiacciante presenza americana nel Golfo:

 

…gli USA soffrono di due talloni d’Achille in quanto superpotenza regionale. Il primo è l’incapacità a risolvere la questione palestinese che ancora minaccia di far esplodere il delicato equilibrio nella regione. E il secondo, è il suo massiccio insediamento militare, il quale ha reso le monarchie del Golfo ancora più impopolari …e instabili.[18]

 

Inoltre si devono aggiungere le tensioni con i propri alleati che si sono venute sviluppando nel corso di un decennio a partire dalla Guerra del Golfo: il rancore delle corporations petrolifere europee e internazionali per le sanzioni imposte dagli USA all’Iraq e i tentativi dell’Iran e dell’Arabia Saudita di assumere una posizione maggiormente indipendente rispetto agli USA.[19]

La crisi attuale in Afghanistan e la “guerra al terrorismo” offrono la possibilità agli USA di frenare l’erosione della sua autorità nel Golfo Persico attraverso il maggiore incremento delle forze armate americane nella zona, dai tempi della guerra del Golfo.

 

Nel lanciare l’Operazione Pace Duratura, gli USA stanno compiendo un grande azzardo. Inseriscono la loro potenza al centro di una delle più instabili regioni del mondo. Il loro obiettivo geostrategico nell’attuale guerra potrebbe essere chiaro, ma non esiste alcuna garanzia raggiungano i loro obiettivi. Bush può anche aver promesso che “non falliremo” ma le contraddizioni intrinseche alla situazione potrebbero far saltare tutto.

In primo luogo le enormi linee di faglia nella coalizione costruita da Bush potrebbero esplodere in ogni momento. Bush ha assemblato una coalizione di convenienza, i cui membri hanno interessi antagonistici tra loro. Il Pakistan e l’India restano con il grilletto alzato, pronti a entrare in guerra per il Kashmir. Visto che il Pakistan tratta ora con durezza i militanti islamici, questi potrebbero contrattaccare con attacchi in Kashmir, imponendo all’India una reazione. Solo il giorno prima che gli USA entrassero in guerra i militanti islamici pakistani hanno lanciato una grossa auto-bomba a Srinigar uccidendo 35 persone. Da quando la guerra è iniziata le forze pakistane e quelle indiane si sono scontrate ripetutamente lungo “la linea di controllo” del Kashimir. La Georgia e la Russia sono sì alleate degli USA nella “guerra al terrorismo” ma al contempo la Russia accusa la Georgia di dare rifugio ai ribelli ceceni. Solo pochi giorni prima che cominciasse la guerra, truppe russe sono penetrate in Georgia. La Georgia ha risposto minacciando di ritirarsi dalla Comunità degli Stati Indipendenti e di mandare delle proprie forze a rioccupare l’Abkhasia, una provincia della Georgia fuori dal controllo delle truppe di Tblisi che abitualmente i russi pattugliano.[20]

In secondo luogo le dispute precedenti all’11 settembre tra gli USA e i “partners della coalizione”, che momentaneamente sono state messe da parte, riemergeranno. La Russia e la Cina continueranno a cavalcare il cavallo della “guerra al terrorismo” fino a quando gli converrà. Ma gli USA abbandoneranno il progetto di “Guerre Stellari” in cambio della futura collaborazione di Cina e Russia? È improbabile. Infatti Bush ha già cominciato a “rimpacchettare” il programma di Difesa Missilistica Nazionale (di seguito NMD) come arma “antiterroristica”. E anche se gli USA, dietro il sipario hanno fatto tutta una serie di promesse e fornito tutta una serie di garanzie alla Russia, abbandoneranno i loro progetti per avere delle pipelines fuori dal controllo russo? Permetteranno alla Russia di entrare nella NATO? Anche ciò sembra assai improbabile. E con l’esercito USA che ha già un piede in Asia Centrale è ancora più improbabile che vengano abbandonati i progetti sul mar Caspio. In un quadro siffatto Cina e Russia potrebbero facilmente tornare al ruolo che avevano prima dell’11 settembre e cioè quello di principali sfidanti degli americani nell’area eurasiatica.

In terzo luogo la guerra verserà benzina sull’incendio politico già appiccato in Medio Oriente e in Asia. Vedere che gli USA bombardano spudoratamente uno dei paesi più poveri del mondo, costringendo milioni di persone a fuggire o morire di fame, farà incollerire altri milioni di persone. Le opposizioni islamiche dall’Egitto alla Arabia Saudita fino all’Asia Centrale recluteranno nuovi adepti pronti a lanciare attacchi sugli USA o su paesi suoi alleati. E le atrocità di Israele contro i palestinesi, attuate mentre gli USA stanno bombardando l’Afghanistan, accresceranno la violenza. Condizioni di guerra civile potrebbero svilupparsi nei paesi di tutta la regione. Solo pochi giorni dopo l’inizio dei bombardamenti degli USA e della Gran Bretagna, le forze armate pakistane hanno sparato sui manifestanti in città di tutto il paese. L’autorità palestinese ha dovuto fronteggiare il più duro confronto con gli islamici a partire dal 1994, costringendo la polizia palestinese a chiedere dei mezzi antisommossa ad Israele!             

Tutte queste tensioni potrebbero crescere enormemente – e la coalizione esplodere – quando gli USA avanzeranno verso il loro prossimo obiettivo “antiterroristico.”

In un incredibile editoriale il direttore della National Review, Richard Lowry, si è sentito in dovere di presentare un proprio fantasioso programma per l’Iraq. Questo programma non prevedrebbe solo il rovesciamento di Saddam Hussein ma anche l’imposizione di un regime coloniale in Iraq governato dagli americani sul modello di quello britannico imposto all’India nel XIX secolo[21]

Ma per quanto i piani dell’amministrazione USA siano distanti da quelli di Lowry, non c’è dubbio che alcuni membri dell’amministrazione condividano i suoi punti di vista. Inoltre l’Amministrazione americana ha già pronti dei piani per condurre un’operazione simile “di ricostruzione nazionale” in Afghanistan, mettendo così da parte le critiche che Bush aveva rivolta Clinton in campagna elettorale sulla “ricostruzione nazionale” in Somalia, ad Haiti e nei Balcani.Se si riuscisse a far funzionare questo schema si preannuncerebbe un’occupazione decennale dell’Afghanistan sul tipo di quella del Kosovo, un compito militare che sarebbe “lungo, costoso e in ultima istanza destinato a fallire.”[22]

Qualunque espansione della guerra verso il Medio Oriente metterebbe sotto ulteriore pressione la già tenue alleanza tra gli USA e i cosiddetti Stati arabi “moderati” (leggi filo USA).

Nella regione  milioni di persone sono coscienti che gli USA hanno sostenuto le sanzioni genocide contro l’Iraq. Sanno che gli USA puntellano regimi dittatoriali in tutta la regione. E sanno anche che gli USA coprono politicamente la repressione israeliana contro i palestinesi. Che siano fanatici dell’islam o meno, questa gente non sarà propensa ad accettare un revival del colonialismo del XIX secolo coperto dal presupposto razzista del “paternalismo illuminato”. Se gli USA si indirizzeranno verso l’imposizione di un regime coloniale in Iraq o in qualsiasi altro paese, ciò farà esplodere il movimento di liberazione nazionale più importante dai tempi della Rivoluzione Iraniana. Una campagna degli USA in Libano contro gli hezbollah non dovrà confrontarsi con un’accozzaglia di terroristi isolati ma con un movimento politico solido, largamente radicato nella società libanese. Inoltre il ruolo avuto dagli hezbollah nel cacciar fuori dal sud del Libano gli Israeliani gli ha fatto guadagnare uno status di eroi nazionali,  che trascende le divisioni politiche e religiose del paese. Lowry dovrebbe ricordarsi con qualche tristezza quanto successe allo shah dell’Iran.

 

Gli USA cominciano il XXI secolo da posizione di forza simili a quelle di grandi imperi del passato (dall’antica Roma fino alla Bretagna vittoriana). La sua economia rappresenta il 22% della produzione mondiale e rimane il primo paese del mondo nella ricerca e nella produzione dell’high-tech. La sua spesa militare è superiore alla somma delle spese belliche delle 15 più importanti potenze militari del mondo. Se si somma la spesa americana a quella dei più leali alleati – i paesi della NATO, la Corea del Sud e il Giappone – si giunge a una cifra che supera la spesa militare di tutto il resto del mondo.[23] Questo dominio ha generato un tipo di arroganza imperiale che ha contribuito a far sorgere sogni come quelli di Lowry.

Ogni impero che ha pensato di poter riorganizzare il mondo a propria immagine e somiglianza ha finito per crollare. L’imperialismo ha sempre generato resistenza sia da parte dei suoi potenziali rivali sia da parte dai popoli e dalle nazioni che tenta di soggiogare. In questo preciso momento i più probabili “competitori strategici” dell’America, la Russia e la Cina, sono allineati con la “guerra al terrorismo”. Ma non bisogna avere molta immaginazione per capire che non accetteranno la “leadership” americana per sempre. E se gli USA accresceranno la loro superiorità in Asia Centrale, essi potrebbero essere spinti ad opporsi nuovamente ai piani di Wahington. La Russia e la Cina, che contrapponevano una visione del mondo “multipolare” a quella di un mondo “unipolare” dominato dagli USA prima dell’11 settembre, potrebbero ridiventare dei rivali (magari insieme ad altri paesi) degli USA nella arena politica mondiale.

Prima di quanto si pensi, l’imperversare americano provocherà opposizione anche al centro del suo stesso impero. La sua forza dipende dall’alleanza con alcuni dei più corrotti e repressivi regimi del mondo. Inevitabilmente le vittime di questi regimi reagiranno minacciando non solo i loro governi ma la stessa potenza americana. Se oggi l’Arabia Saudita fosse veramente sull’orlo di una minaccia insurrezionale che gli USA non sono in grado di reprimere, quest’ultimi si troverebbero di fronte alla prospettiva del più grande disastro di politica estera dalla Seconda Guerra mondiale in poi. Il rovesciamento del regime saudita potrebbe non essere così imminente, ma il fatto che questa possibilità sia solo ventilata sottolinea la fragilità del dominio USA.

In quanto unica superpotenza mondiale, gli USA si interpongono in ogni conflitto che scoppia nel mondo. Come fece già in Vietnam, quando rilevò l’amministrazione coloniale francese, tutto ciò finisce per “americanizzare” i conflitti trasformando gli USA nel bersaglio di qualsiasi popolo che lotta per la propria autodeterminazione. Se gli USA perseguiranno una politica ultra imperialista tipo quella invocata da Lowry, queste sfide semplicemente si moltiplicheranno. Molte dei timori che circolano oggi in USA sono legati alla possibilità che l’Afghanistan si trasformi in un pantano come il Vietnam.

Se la “guerra al terrorismo” si estenderà dal Libano alle Filippine, o all’Indonesia (come molti funzionari dell’Amministrazione lasciano intendere) ci si potrebbe trovare di fronte a due, tre, molti Vietnam.          

Last but not least gli USA potrebbero trovarsi di fronte a una opposizione interna che non si identificherebbe semplicemente con il movimento antimilitarista. La “guerra al terrorismo” di Bush si dipana in un contesto di recessione mondiale. I livelli di disoccupazione negli USA sono i più alti degli ultimi dieci anni e il rallentamento della produzione mondiale è il più marcato dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Ciò significa che tanto più Bush si imbarcherà in guerre e tanto più milioni di operai americani le pagheranno con licenziamenti e tagli delle spese sociali per far ingrassare i principali fornitori di armi. Come disse nel 1918 il leader socialista Eugene V. Debs:

      

…la classe operaia che combatte tutte le battaglie, la classe operaia che fa i supremi sacrifici, la classe operaia che incondizionatamente versa il proprio sangue e getta i propri corpi [in battaglia], non ha ancora avuto voce né nel dichiarare guerre né nel sottoscrivere paci. Sono le classi dominanti che, invariabilmente, fanno le une e le altre.[24]

 

Nello spazio di pochi giorni, le promesse dei politici di rendere mutuabili i prodotti farmaceutici e di “salvare i servizi sociali”, sono evaporate. Al contrario il Congresso ha distribuito qualcosa come 15 bilioni di dollari di aiuti ai padroni delle compagnie aeree, mentre rifiutava di aiutare gli oltre 100.000 lavoratori licenziati dalle compagnie aeree stesse.

L’America delle Corporations con una mano sventola la bandiera e con l’altra riempie le proprie tasche a spese dei lavoratori” ha spiegato a questo proposito un funzionario del sindacato dell’auto (UAW).[25]

Tanto più la guerra si trascinerà e l’economia peggiorerà e tanta più gente inizierà a realizzare di non avere alcun interesse in questa guerra. Allora Bush dovrà rispondere di quella cinica manipolazione della gente comune, oltraggiata dagli attacchi dell’11 settembre, realizzata solo per portare avanti il suo programma di destra. Questo è il tipo di opposizione che Bush teme di più. 

 

L’attacco al World Trade Center e al Pentagono sembrano abbiano provocato un caso di amnesia nel mondo intero. Negli Stati Uniti tutta l’opposizione alle principali questioni di politica estera – dalla conferma ad ambasciatore alle Nazioni Unite dell’apologeta degli squadroni della morte John Negroponte, alle Guerre Stellari fino all’incremento di quasi 42 bilioni di dollari della spesa militare – si è dissolta. All’estero, ogni critica avanzata contro l’arroganza degli USA è stata dimenticata e i paesi di tutto il mondo si sono uniti alla “lotta antiterrorismo” di Bush.

The Nation[26] si è congratulato con l’amministrazione per la sua “inaspettata – ed opportuna – conversione all’internazionalismo” per aver premuto sul Congresso perché paghi i debiti di lunga data accumulati con le Nazioni Unite e per aver spinto il Senato ad approvare una convenzione con le Nazioni Unite sul terrorismo.[27] La rivista si concentra sulle supposte dispute tra Powell e i falchi dell’Amministrazione ponendo l’accento sul fatto che le “voci della ragione” all’interno dell’Amministrazione, che puntano sulla diplomazia e sulla cooperazione con altre nazioni, abbiano prevalso sulla politica dell’Amministrazione prima dell’11 settembre che affermava “o con noi o contro di noi”. 

Questi superficiali cambi di tono sono sufficienti a confondere i liberali che scrivono per The Nation o per Salon.[28] Ma la realtà è ben diversa. Prendiamo per esempio l’interpretazione secondo cui la politica di Bush che ha posto al centro la costruzione di una coalizione contro il terrorismo avrebbe forzato l’amministrazione a abbandonare i suoi istinti “unilaterali”. Non è pertinente. Bush non ha fatto segreto del fatto che la “guerra al terrorismo” è un’azione diretta dagli USA che le altre nazioni devono solo sottoscrivere. Queste ultime non sono invitate a definirne il corso. Gli USA hanno dichiarato l’emergenza e offerto una soluzione militare, la sola che siano in grado di mettere in campo. Il fatto che gli altri paesi – dagli alleati NATO fino alla Russia e alle monarchie del Golfo – vogliano saltare sul vagone dell’orchestra americana non è una sorpresa.

La maggioranza di questi paesi preferisce avere in buoni rapporti con la sola superpotenza mondiale oggi esistente, piuttosto che il contrario.“Cose che erano impossibili prima dell’11 settembre improvvisamente sono diventate reali, ma ciò non significa che l’impulso unilateralista si sia dissolto” ha affermato Michael Lindsay, esperto della Brookings Institution .[29]

Tuttavia, Bush e i suoi amici non hanno aspettato gli altri paesi per farsi la loro opinione. Gli USA hanno mobilitato le truppe e le portaerei sin dall’11 settembre. Poi le hanno dislocate per ottenere l’approvazione e la cooperazione dei servizi segreti dei novelli alleati. Senza dubbio gli USA hanno stipulato una serie accordi segreti e fornito assicurazioni per conquistare alcuni dei loro nuovi amici. Hanno usato ogni carota e ogni bastone a loro disposizione. Hanno eliminato le sanzioni contro il Pakistan, l’India e il Sudan. Hanno spinto il Fondo Monetario ad approvare prestiti per 1000 miliardi di dollari a favore del Pakistan e hanno fatto pressione sull’Arabia Saudita e sugli Emirati Arabi perché rompessero le relazioni con i talebani.

Il solo fatto che Bush stia provando a far allineare gli altri paesi nella “guerra contro il terrorismo” non significa che questi metteranno da parte per sempre le loro critiche nei confronti della politica estera statunitense. Gli USA possono aver avuto successo nel far scattare il dispositivo dell’articolo cinque della Carta della NATO, il quale afferma che l’attacco agli USA era un attacco a tutti i paesi membri dell’alleanza. Ma Bush non ha accettato l’Accordo di Kyoto e non ha fatto alcun passo indietro rispetto ai piani della Difesa Missilistica Nazionale per ricambiare il favore ai suoi alleati europei.

Un’altra falsa speranza è quella di qualche analista della Difesa secondo cui dopo l’11 settembre gli USA riorienteranno le loro priorità militari. Il Dr. Dennis Blair, del Centro per le Informazioni della Difesa, ha posto questa questione così:

 

I bilanci della difesa di solito, con i loro gretti impegni per estesi, pesanti arsenali destinati a sfidare “competitori strategici” stranieri, provocano crescente scetticismo di fronte ai seri danni inflitti da una piccola banda di terroristi armati di coltelli. Attualmente impegnarsi in un costoso riamo militare sembra quasi inutile di fronte alla principale minaccia rappresentata dal terrorismo globale.

Spendere miliardi per satelliti, in grado di “contare i fagioli” ma non in grado di scrutare nelle caverne afgane o di origliare nei piccoli conclavi di radicali che tramano la distruzione dell’America sembra un dubbio investimento, come del resto gettare miliardi di dollari in progetti di difesa missilistica significa occuparsi di attacchi missilistici del tutto immaginari contro la patria americana.[30]

 

L’analisi di Blair è un appello al buonsenso di coloro i quali pensano che la razionalità e l’efficienza guidino oggigiorno l’azione del complesso militar-industriale americano. Ma se vediamo quanta attenzione prestino tutti principali decision-maker a analisi come quella di Blair, non farebbe alcuna differenza se questa fosse stata scritta in antico sanscrito piuttosto che in inglese. Solo pochi giorni dopo dagli attacchi, entrambe le camere del Congresso hanno approvato le spese militari proposte da Bush senza che si levasse nessuna voce d’opposizione. Piuttosto che ridurre “le dispendiose attrezzature militari […]designate a sfidare competitori strategici”, il Congresso ha devoluto a questo scopo una montagna di soldi. I prodotti più gettonati restano gli aeroplani e le navi per portare avanti i progetti americani di potenza globale. E il NMD è stato implementato di 3 bilioni di dollari, cioè del 57%. Complessivamente la spesa bellica è aumentata rispetto allo scorso anno di 32,6 bilioni di dollari (l’11%).[31]

Quando l’amministrazione ha pubblicato alla fine di settembre il “QDR”, è diventato chiaro che gli obiettivi imperiali degli USA erano rimasti inalterati.

Benché gran parte del “QDR” fosse stato scritto prima dell’11 settembre, gli attacchi hanno permesso all’Amministrazione di rilanciare il ruolo del Pentagono e la retorica “della difesa della patria”.

Malgrado il Pentagono giustifichi il proprio ruolo in termini di “difesa della patria”, il “QDR” non  perde troppo tempo a spiegare cosa ciò significhi. Dei nove principali “interessi e obiettivi principali” degli USA, solo tre possono essere considerati collegati alla difesa della “patria americana”.

Il rapporto riafferma l’obiettivo di proiettare la forza USA dovunque nel mondo Infatti essa lega questa missione di “difesa della patria […] alla capacità di proiettare la potenza in un largo raggio e ciò aiuta a dissuadere gli atti minacciosi contro gli USA e quando è necessario, a scompigliare, rinnegare o distruggere entità ostili a distanza.”[32]

Questa ultima affermazione dimostra come il governo USA utilizzi la “difesa della patria” come la più ragionevole delle giustificazioni per i suoi obiettivi globali. Con un bilancio della difesa che differisce poco dalle proposte di Bush precedenti l’11 settembre, è difficile dire che la “guerra al terrorismo” ha cambiato la politica americana. Invece, la “guerra al terrorismo di Bush” ha fornito il perfetto pretesto per il Pentagono, le agenzie di intelligence e l’autorità giudiziaria per portare avanti una lunga lista di sogni a lungo custoditi nel cassetto. La retorica dell’Amministrazione può darsi sia cambiata dopo l’11 settembre, ma non la sua politica.              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

Noam Chomsky

 

La militarizzazione dello spazio

 

Noam Chomsky, professoreal Massachusetts Institute of Technology, è autore di numerosi libri sulla politica estera degli USA e sui diritti dell’uomo Recentemente in Italia è stato pubblicato Egemonia americana e “Stati fuorilegge” (Dedalo, Bari, 2001)

 

Circa vent’anni fa Michael Albert della rivista Z mi chiese di scrivere un libro intitolato Turning the Tide.[1] Il libro parlava di come le cose stessero andando nel modo sbagliato e alla fine, per far contento Michael, aggiunsi un paio di paragrafi abbastanza ottimisti.

Effettivamente, a quel tempo non sapevo dell’esistenza di numerosi movimenti popolari di ampio respiro nel Sud del Mondo, il cosiddetto Terzo Mondo – Brasile, India e altrove. Ho cominciato a capirne qualcosa più tardi, in alcuni casi per esperienza personale, per esempio venendo a sapere di media popolari e di villaggi autogovernati. Questi movimenti sono molto solidi e molto incoraggianti. Negli ultimi due anni si sono creati importanti rapporti fra i movimenti nel Sud e i movimenti di base qui in America. Questo è uno sviluppo davvero incoraggiante. Di tanto in tanto acquista una visibilità tale da non poter essere ignorato persino dagli ambienti più tradizionalisti.

Ma di una cosa potete star certi: i centri del potere non li ignorano di certo, anzi ne sono turbati. Sono preoccupati per l’esistenza di moltissime persone che hanno preso a nuotare controcorrente, con bracciate vigorose. Oggi c’è il rischio che la corrente cambi direzione e penso alla possibilità scrivere un libro molto più ottimista di allora, con lo stesso titolo e stavolta anche con un contenuto che lo giustifichi.

Un esempio simbolico di quanto dicendo, e che voi tutti conoscerete, è la decisione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di tenere il prossimo summit in una località remota, come il Quatar, dove, almeno si spera, nessuno potrà arrivare. Se date una scorsa alla stampa finanziaria più seria, non mancherete di cogliere una viva preoccupazione nei riguardi dei movimenti popolari. Circa dieci anni fa questa preoccupazione iniziò a penetrare perlomeno nella retorica, e fino a un certo punto anche nella programmazione, di istituzioni finanziarie internazionali come la Banca Mondiale e, ultimamente, il FMI che capiscono di dover rispondere in un modo o nell’altro a una massiccia opposizione in grande ascesa.

Una delle reazioni più interessanti che abbiamo visto è stata il silenzio. Ci si limita a sopprimere le questioni principali, le questioni davvero importanti. Perché si sa che, una volta diventate di dominio pubblico, provocherebbero un’enorme opposizione. La cosiddetta Zona di Libero Scambio delle Americhe è un esempio attuale e molto rappresentativo di questo fenomeno.

Voglio parlare di cose che, se analizzate da sole, apparirebbero davvero scoraggianti. Tuttavia, se le consideriamo insieme alle reazioni che si stanno sviluppando, sembra davvero che possiamo fare qualcosa. Gli sviluppi potenziali di questa situazione sono sinistre, da tanto da arrivare a mettere in discussione la sopravvivenza del genere umano. Tuttavia, lo ripeto, i progressi delle iniziative che si oppongono a questa tendenza sono molto incoraggianti e offrono una base per allargare un movimento spontaneo di grandi proporzioni.

Iniziamo con alcuni degli sviluppi più sinistri, per esempio col rapporto del 1998 della Rumsfeld Commission sul rischio costituito dai missili balistici per gli Stati Uniti, che oggi viene presentato essenzialmente all’interno dei programmi nazionali di difesa missilistica.

Questi programmi stanno giustamente sollevando un’enorme opposizione in tutto il mondo. Ma dobbiamo anche avere un’idea chiara del loro significato. Le difese missilistiche sono solo una piccola parte di qualcosa di più ampio. La questione fondamentale è un’altra: la militarizzazione dello spazio.

Questo non è un programma ideato da Bush: ma un programma bipartisan. Alcune delle parti programmatiche più importanti e interessanti risalgono all’amministrazione Clinton. Di recente il Comando Spaziale (Space Command) degli Stati Uniti ha pubblicato un’elegante brochure patinata che vale davvero la pena di studiare. Si intitola Vision for 2020[2], ed espone le linee direttive per il futuro. Alle difese missilistiche è dedicato pochissimo spazio, forse appena una nota in calce.

La copertina della brochure è graficamente interessante e afferma che la militarizzazione dello spazio è volta a “proteggere gli interessi e l’investimento degli Stati Uniti”. Questa protezione richiede varie cose: innanzitutto, la militarizzazione dello spazio, necessita armi antisatellite in grado di distruggere tutte le comunicazioni o la sorveglianza di qualsiasi potenziale avversario, richiede misure di protezione per i satelliti USA, perché la difesa missilistica non funziona se questi satelliti non sono attivi. E ricordate: tecnicamente eliminare un satellite è molto più semplice di abbattere un missile. I satelliti sono fissi, stazionari oppure si muovono in un’orbita predeterminata. È quindi possibile prevederne sempre la loro posizione. Le armi antisatellite sono un po’ come la scelta a disposizione dei paesi poveri. Ma attaccare missili è molto più complesso. Quindi ci vogliono armi antisatellite e la protezione dalle armi antisatellite degli avversari. Richiede insomma quello che viene definito “dominio dell’intero spettro”, ovverosia devi controllare tutto perché tutto è troppo pericoloso. Ci vogliono armi che colpiscano per prime dallo spazio. Quando l’aereo-spia EP-3 americano sorvolava la Cina lo scorso aprile, stava chiaramente cercando di ottenere informazioni utili nel caso di un potenziale primo attacco nucleare. I cinesi questo lo sapevano. Colpire per primi è la regola degli Stati Uniti, persino se l’attacco è rivolto contro nazioni sprovviste di capacità nucleari.

Alcuni critici tradizionali hanno sottolineato, per esempio sulle pagine di Foreign Affairs, una contraddizione implicita negli attuali piani preoccupa gli analisti: non è possibile avere sia la difesa missilistica sia le armi antisatellite, visto che un sistema di difesa missilistica richiede il coordinamento e il controllo da parte di vari satelliti. Quindi, se ci saranno armi antisatellite, verranno usate per distruggere i sistemi di difesa missilistica. Ma Vision for 2020 e la Commissione Rumsfeld hanno una soluzione per questo problema.

La risposta è, come ho detto, il dominio dell’intero spettro – un dominio così assoluto dello spazio che nessun avversario potrà competere neppure lontanamente. Nessuno pensa seriamente che sarà possibile riuscire in questo intento, ma non importa. Questo meccanismo mette comunque in moto una nuova corsa al riarmo, in cui gli USA sono tecnologicamente così avvantaggiati sui potenziali avversati che nessuno dirà mai: bene, fatelo pure questo primo attacco nucleare se volete. La macchina si è messa in moto e continuerà a funzionare secondo le previsioni ossia con lo sviluppo di armi antisatellite, a cui gli USA dovranno rispondere con una militarizzazione persino più intensa.

Inoltre, si sa già chi si porrà alla testa della proliferazione. La Cina reagirà di certo idem La Russia. Se la Cina sviluppa il suo deterrente, che finora è di dimensioni molto modeste, in grado di rispondere a questo sistema ampliato, allora l’India reagirà impaurita della crescita della Cina. Il Pakistan, a sua volta, reagirà agli sviluppi in India.

Israele reagirà agli sviluppi in Pakistan. Altri paesi entreranno in gioco e tutto questo avrà chiaramente l’effetto di portare alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. Nessuno crede seriamente che un avversario potenziale degli USA sia così folle da cercare di lanciare un missile. Quindi il sistema di difesa missilistica non è concepito a scopi difensivi.

È invece concepito come protezione per le forze USA a terra o nei cieli. In teoria dovrebbe consentire di lanciare un attacco con relativa fiducia che nessuno cercherà di reagire.

Questo è risaputo. Le forze armate del Canada hanno informato il loro governo in vari documenti, diventati di dominio pubblico, del fatto che l’obiettivo della difesa missilistica non ha nulla a che fare con la difesa. Serve invece a creare una copertura per azioni militari offensive, compreso forse un primo attacco. Il programma Guerre Stellari o SDI è stato interpretato nello stesso modo. Quindi, si tratta essenzialmente di un’arma offensiva.

Ora c’è un grande dibattito sulla fattibilità tecnica della difesa missilistica nazionale. Funzionerà? Questo non è il punto. Se anche c’è il minimo sospetto che funzioni, i potenziali avversari devono prenderla sul serio. Quando si parla di armi di distruzione totale – della probabilità e della sicurezza di una distruzione totale – anche una minima probabilità dev’essere interpretata come realtà. Non si possono correre rischi.

Il Comando Spaziale non si preoccupa veramente del pericolo di far saltare in aria l’intero Pianeta. Gli preme gettare le basi per un’azione militare USA, compreso il primo attacco se necessario. Ma, soprattutto, gli preme proteggere gli investimenti e gli interessi commerciali degli Stati Uniti. Il Comando Spaziale afferma che la militarizzazione dello spazio è un po’ come lo sviluppo delle marine militari. La marina inglese aveva il dominio sui mari per proteggere gli investimenti e gli interessi commerciali della Gran Bretagna. A lungo andare, ovviamente, altre marine hanno reagito, come quella tedesca. Continuando su questa strada, si arriva alla Prima Guerra mondiale.

La militarizzazione dello spazio è paragonata all’esercito statunitense nel XIX secolo che aveva la responsabilità di proteggere le carovane di carri e gli insediamenti dei coloni. Questo è un modo di vedere le cose. Per tradurre questa rappresentazione nell’effettiva realtà storica, diremo che l’esercito aveva la responsabilità per la vastissima pulizia etnica ai danni dei nativi e per la conquista di mezzo Messico, destinata a estendersi poi ai Caraibi e alle Filippine, e poi per la difesa di ciò che c’era, ossia la difesa di ciò.

Ma anche quando conduci una pulizia etnica e annienti la popolazione, devi pur sempre proteggerti da qualsiasi eventuale sacca di resistenza rimasta. Quindi serve l’esercito. E fu proprio così che tutelarono gli investimenti e gli interessi commerciali. Sembra che ora lo spazio sia solo un’ennesima frontiera.

Eserciti e marine militari avevano anche altre funzioni. Per esempio, gettarono le basi dell’economia industriale in via di sviluppo. Nel caso degli USA, nel XIX, secolo l’esercito gettò le basi di quello che sarebbe diventato il sistema di produzione in serie. Troppo costoso e complicato per attirare gli investimenti dei singoli imprenditori, il sistema americano di produzione in serie, quello stesso che abbagliò il mondo intero con l’inizio della sua applicazione commerciale, fu in verità preceduto da circa quarant’anni di esperienze condotte dal servizio approvvigionamento delle forze armate. Quest’ultimo creò ed utilizzò componenti intercambiabili, la produzione in serie e via dicendo. Il sistema, insomma, fu sviluppato nelle armerie di Springfield e in posti del genere, per la produzione degli armamenti.

Qualcuno ha detto che i problemi tecnici della militarizzazione dello spazio, che rappresenta quanto vi è di più avanzato oggi dal punto di vista della tecnologia e dello sviluppo industriale, sono per certi versi simili a quelli connessi con l’armamento navale di circa un secolo fa. Questo processo fu la base dello sviluppo della futura industria automobilistica e di altre. Fu lì che si svilupparono l’esperienza e le tecnologie necessarie.

La prima corporation miliardaria a nascere negli Stati Uniti fu, non a caso, la U.S. Steel Corporation di proprietà di Andrew Carnegie. Carnegie era un noto pacifista, ma fece i soldi, e soldi a palate, con la produzione di acciaio per le corazzate. Era un business molto redditizio, che gettò anche le fondamenta dell’industria dell’acciaio prima e di altri rami della produzione dopo compreso il settore automobilistico che cambiò tutti i connotati dello sviluppo industriale USA e, in ultima analisi, anche la vita sociale ed economica del paese.

Creare innovazioni e apportare sviluppi ai sistemi militari è un’attività che praticamente non pone problemi di redittività, visto che sono i contribuenti a pagare di tasca loro. E poi si può ricorrere a una loro comoda e perenne copertura: le esigenze della difesa.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale si ebbe un’esplosione degli investimenti. La cosiddetta new economy moderna dipende in larghissima misura da quel boom. I computer e l’elettronica in generale, l’automazione, l’intermodalità nel trasporto merci, containerizzazione, l’aeronautica, Internet e le telecomunicazioni sono tutti nati dalla grande spesa pubblica sotto la copertura dell’industria militare – una spesa pubblica che poi va a finire nelle tasche dei privati.

Si tratta di un processo lungo, quindi è perfettamente corretto pensare alla militarizzazione dello spazio come a qualcosa che assolverà le funzioni che le marine militari e, fino a un certo punto, anche gli eserciti, ebbero un secolo fa: proteggere gli interessi commerciali e gli investimenti, fungere da copertura per la socializzazione della prossima fase dello sviluppo tecnologico e offrire i mezzi per un primo attacco in caso di necessità, o per l’uso della forza senza doversi curare della deterrenza.

L’Europa ha criticato duramente della difesa missilistica nazionale, che, come ormai tutti capiscono, non è solo un elemento della militarizzazione dello spazio. Ma negli ultimi tempi anche la posizione dell’Europa sta cambiando. Il cancelliere tedesco Schreöder ha affermato che anche l’Unione Europea dovrebbe prendere parte a questi programmi, pena il rischio di venire lasciata indietro nello sviluppo tecnologico per la prossima fase del progresso economico. Gli europei, insomma, vogliono assolutamente essere coinvolti in questo aspetto della faccenda. Certo, si preoccupano dei pericoli, molto tangibili. La militarizzazione dello spazio potrebbe portare all’ecatombe del Pianeta. Per loro le cose importanti sono altre.

Conviviamo col pericolo della distruzione totale del mondo sin dall’ascesa delle armi di distruzione di massa durante la Seconda Guerra Mondiale, ma è interessante analizzare le reazioni che ha suscitato. Gli USA godono di una posizione di assoluta sicurezza che non ha paralleli nella storia. Controllano l’intero emisfero, entrambi gli oceani. Nessuno è mai riuscito a fare altrettanto. Dopo la guerra del 1812, gli USA non si sono mai sentiti minacciati. Il loro potere è immenso e dopo l’ultimo conflitto mondiale ha assunto proporzioni fenomenali. Rimaneva un’unica minaccia potenziale, ossia i missili balistici intercontinentali provvisti di testate nucleari, che avrebbero potuto rappresentare un rischio per la sicurezza degli USA.

Ormai disponiamo di alcuni libri di storia abbastanza accurati sulla corsa agli armamenti nel secondo dopoguerra. Vari esperti, come McGeorge Bundy, autore di uno dei volumi più approfonditi sull’argomento, hanno sottolineato di non aver mai trovato la benché minima traccia di una preoccupazione, nei primi anni ’50, circa lo sviluppo dei missili balistici intercontinentali (ICBM) e la loro possibile prevenzione, né alla luce dei trattati siglati in quegli anni, né sulla base di altri negoziati che probabilmente si sarebbero potuti organizzare. Gli USA erano notevolmente in vantaggio. I russi, da parte loro, caldeggiavano in qualche misura il disarmo, non perché fossero brava gente ma perché sapevano benissimo di essere molto indietro, e si rendevano conto dei gravi pericoli che correvano. È quindi più che possibile che un trattato avrebbe potuto prevenire lo sviluppo dei missili ICBM. Ma nessuno ha mai cercato di proporre questo trattato. Nessuno se ne dava molta preoccupazione.

Dopo la morte di Stalin, Chrušev, assunto il potere dopo un breve interregno, alla metà degli anni ’50, iniziò a adoperarsi notevolmente per ridurre il livello di scontro militare. Questo è tutto quello che si poté cogliere allora. Ora sappiamo che Chrušev ci stava davvero provando, che gli USA lo sapevano ma respinsero questa possibilità. L’amministrazione Eisenhower rifiutò di rispondere alle offerte di Chrušev per la riduzione delle forze militari offensive, inclusi cacciabombardieri, truppe e così via. E l’amministrazione Kennedy ci mise definitivamente una pietra sopra.

A quei tempi i russi avevano operato una riduzione degli armamenti molto notevole. Chrušev aveva tagliato del 30% circa le forze aeree d’attacco. La Russia aveva pochi missili e i suoi scienziati erano lontanissimi dallo sviluppo di nuovi missili. Disponiamo di abbastanza documenti interni per affermare che l’amministrazione Eisenhower, sia quella Kennedy, ne erano perfettamente a conoscenza ma decisero di procedere in senso opposto, con un’escalation della corsa agli armamenti, creando un serio pericolo non solo per gli USA ma per il mondo in generale. La ragione di questa decisione degli Stati Uniti è che a quel tempo vi erano considerazioni ben più importanti, per esempio garantire il predominio su gran parte del mondo, proteggere gli investimenti e gli interessi commerciali degli USA e dare un’enorme boccata d’ossigeno all’economia, sotto la copertura della produzione militare. Dieci anni più tardi, con l’avvento dei MIRV (i veicoli spaziali multipli di rientro controllabili indipendentemente), la stessa storia si è ripetuta.

Ma oggi possiamo fermare questo processo? Possiamo fermare la militarizzazione dello spazio? A prima vista sembra certamente di sì, per via del fatto che sono solo gli USA, letteralmente solo loro, a spingere in questa direzione. Tutto il mondo è contrario, principalmente perché ha paura. Gli USA sono molto in vantaggio su qualsiasi Paese e nessuno può neppure sognare il dominio dell’intero spettro e il controllo planetario. Certo, alcuni Stati non mancheranno di reagire, ma innanzitutto vorrebbero fermare questo processo sul nascere. Esistono numerosi trattati, già in vigore e appoggiati letteralmente dal mondo intero, che gli USA stanno cercando di smantellare. Uno è il Trattato sullo spazio aperto del 1967 (Outer Space Treaty), che vieta la collocazione di armamenti nello spazio aperto. Tutti i Paesi del mondo l’hanno sottoscritto, inclusi gli Stati Uniti. Finora nessuno ha cercato di mettere armi nello spazio. Il trattato è stato rispettato e chiunque lo violasse verrebbe facilmente scoperto.

Nel 1999 il trattato fu oggetto di votazione nel corso dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. I voti a favore furono 163, i contrari 0, con 2 astensioni da parte di USA e Israele, un paese che vota automaticamente come gli USA. Nello scorso novembre fu nuovamente votato. Questa volta i voti a favore furono 160, quelli contro 0 e furono 3 i paesi ad astenersi. Per un motivo o per l’altro, la Micronesia votò con gli Stati Uniti.

A partire da gennaio le commissioni dell’ONU per il disarmo si sono riunite in numerose occasioni, cercando di ribadire il principio della non militarizzazione dello spazio e gli USA da soli stanno bloccando l’intero processo. Questo non perché gli altri Paesi del mondo siano “buoni”, ma per via dell’equilibrio del potere. Le altre nazioni ci penseranno due volte prima di entrare in questo gioco.

Questo trattato non è molto conosciuto, non si sa perché. L’altro è quello del 1972 sui missili antibalistici (Anti-Ballistic Treaty), che l’amministrazione Bush si è ripromessa di smantellare. Dobbiamo ricordare che questo trattato vieta le armi antisatellite, che formano parte integrante degli progetti americani. Vieta anche qualsiasi interferenza coi satelliti. Gli USA vogliono quindi disfarsi del trattato perché vogliono poter distruggere satelliti, comunicazioni e sorveglianza delle altre nazioni. E il resto del mondo appoggia il trattato ABM nella speranza di prevenire lo sviluppo delle armi antisatellite.

Quindi esistono già almeno due importanti trattati sottoscritti pressoché universalmente, almeno sulla carta e in vigore ormai da anni, che gli USA stanno tentando di smantellare. Questi sforzi procedono con grande rapidità e vedono l’appoggio congiunto di entrambi i partiti statunitensi. L’amministrazione Bush non fa che ampliare i programmi di Clinton, senza alterarli nell’essenza.

Ma non basta: tutti ormai sanno, e i media lo dicono a destra e a manca da tempo, che oggi la maggiore minaccia per la sicurezza di tutti noi è probabilmente rappresentata dal collasso dell’economia sovietica. Da quando l’Occidente ha assunto il controllo dell’ex-URSS, dieci anni fa, l’economia di quel paese è andata allo sfascio. Si tratta di una catastrofe demografica di enormi proporzioni. Milioni di persone sono già morte e la povertà è abissale. L’intero edificio russo sta crollando. Ma l’ex-Unione Sovietica non è una nazione del terzo Mondo; in passato aveva un sistema militare molto avanzato. Si dice che possieda tuttora circa 40.000 armi nucleari. I sistemi di comando e di controllo di queste si stanno deteriorando, come tutto il resto del paese. In più, ci sono molti scienziati nucleari esperti che non hanno niente da fare se non guidare un taxi per sbarcare il lunario. È quindi molto probabile che queste armi rispunteranno altrove nel mondo o, semplicemente, che esploderanno. I loro sistemi di controllo non funzionano più.

L’amministrazione Clinton aveva sollecitato i russi ad adottare una strategia di lancio ossia un sistema automatizzato che attaccasse le armi nucleari senza alcun intervento nucleare. Questo è il sistema che hanno gli USA. Gli americano volevano far accettare alla Russia i suoi programmi di difesa missilistica basati sulla militarizzazione dello spazio. Insomma, se i russi avessero adottato questo sistema, si sarebbero sentiti più al sicuro. Di conseguenza che non si sarebbero più tanto preoccupati della militarizzazione dello spazio.

Dal punto di vista della sopravvivenza, questa è una strategia suicida. Cercare di convincere una nazione a adottare al lancio automatizzato di missili, quando si sa benissimo che i suoi sistemi di comando e di controllo si stanno deteriorando giorno dopo giorno, significa cercare una guerra nucleare accidentale. Ci sarà qualche incidente, un guasto del sistema, nessun intervento da parte dell’uomo e i missili esploderanno e basta. E poi, naturalmente, sarà la fine, visto che gli USA reagiranno.

Di recente una commissione bipartitica del Senato ha raccomandato che gli USA spendano miliardi di dollari in assistenza ai russi per lo smantellamento del loro arsenale nucleare e per offrire opportunità di un impiego in settori meno distruttivi ai molti scienziati nucleari russi. L’amministrazione Clinton aveva un modesto programma di 800 milioni di dollari per questo fine, ma ora l’amministrazione Bush ha tagliato queste risorse. Non ci vuole certo un genio per capire la grande pericolosità di questa mossa. Ma cosa importa... la questione della nostra sopravvivenza per i prossimi 10 o 20 anni non si pone neppure, così come non si è posta in passato.

C’è un’altra sezione del documento Vision for 2020 che vale la pena esaminare. Guardando al futuro, vi si dice che, secondo le previsioni, la cosiddetta globalizzazione continuerà. Questo, a detta degli autori del documento, porterà a un divario ancora più netto fra i ricchi e i poveri, quindi anche a possibili tentativi di nuocere agli interessi degli Stati Uniti. In altre parole, dobbiamo controllare i poveri che vogliono fare qualcosa per smetterlo. Ma questo non lo pensano solo gli autori del documento, questa è l’opinione standard. La comunità dei servizi segreti statunitensi, compresi la CIA e il National Intelligence Council, ha appena pubblicato uno studio di previsione per i prossimi 15 anni chiamato Global Trends 2015, redatto in collaborazione con vari specialisti universitari ed esponenti della comunità commerciale.[3] Lo studio presenta vari scenari possibili, di cui il più ottimista dei quali consiste nel proseguimento della globalizzazione come da programma, anche se questa evoluzione sarà tormentata, portando a “volatilità finanziaria cronica e un divario economico crescente”.

E questo è lo scenario più ottimista.

Una maggiore volatilità finanziaria significa una crescita più lenta. Anzi, il cosiddetto periodo di globalizzazione, gli ultimi 20 o 25 anni, ha visto un notevole deterioramento nella quasi totalità dei parametri standard di misurazione: tasso di crescita, tasso di aumento della produttività, tasso di investimento del capitale e via dicendo. Tutti questi parametri sono calati sia negli USA sia negli altri Paesi. Ma ora si prevede un altro periodo simile, quindi anche lo scenario più ottimista indica un rallentamento ulteriore della crescita per via della volatilità finanziaria e l’accentuarsi della disuguaglianza, quello che il Comando Spaziale definisce il “crescente divario fra i ricchi e i poveri”.

Questo dimostra eloquentemente la natura del concetto di globalizzazione: i funzionari prevedono che la globalizzazione si espanderà e che la disuguaglianza aumenterà. Ciò significa che la globalizzazione nel senso tecnico del termine, ossia l’integrazione dei mercati, calerà. Ma la globalizzazione, nel senso prevalente del termine, ossia essenzialmente i diritti degli investitori, aumenterà. È proprio quanto sta succedendo oggi. La disuguaglianza è aumentata molto rapidamente, mentre la crescita economica è calata anche nel periodo di cosiddetta globalizzazione, ossia gli ultimi 20 anni circa.

Se questo è il futuro, allora le previsioni del Comando Spaziale sono plausibili. Vi saranno certo più minacce per gli interessi degli USA in altri Paesi, quelli poveri. Secondo i calcoli della comunità dei servizi segreti per l’emisfero occidentale, i produttori di petrolio, Venezuela, Brasile e Messico, possono aspettarsi un futuro roseo. Ma il resto dell’emisfero verserà in pessime condizioni e la regione andina potrebbe diventare un disastro totale, il che significa più minacce per gli interessi degli Stati Uniti, o per meglio dire per i loro interessi economici in paesi che sono sull’orlo del collasso. Allora serve più militarizzazione, e infatti le forze USA in America Latina sono aumentate notevolmente.

Queste sono le previsioni più ottimiste. Hanno una loro logica e le possiamo capire. Ci danno anche un’idea del programma che gli USA hanno in serbo per il mondo.

Ma niente di ciò che ho fin qui esposto è irreversibile. In tutto il mondo c’è una forte opposizione. Ma per far cambiare rotta agli Stati Uniti sarà necessaria una grande mobilitazione popolare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



 

Edward. W. Said

 

Chiamano tutta la resistenza “terrorismo”

 

Edward. W. Said è professore di inglese e letteratura comparata alla Columbia University. Attivista dei diritti dei palestinesi, ha scritto molti saggi sul tema. Fra quelli pubblicati in lingua italiana ricordiamo La questione palestinese (Gamberetti editori, Roma, 2001), Orientalismo (Feltrinelli, Milano, 1999). Quest’ultimo editore, sempre nel 1999, ha pubblicato la autobiografia di Said: Sempre nel posto sbagliato.

L’intervista è stata realizzata da David Barsamian, direttore di Radio Alternative.

Questa intervista è stata realizzata nell’estate del 2001, prima degli attentati dell’11 settembre e la guerra perpetrata da una vasta alleanza imperialista contro l’Afghanistan. Tuttavia la pubblichiamo ugualmente essendo comunque interessante per comprendere la situazione in Medio Oriente.

 

Robert Fisk, il corrispondente dal Medio Oriente dell’ Indipendent commenta che “l’ignoranza sul Medio Oriente è così ben radicata negli USA che solo un piccolo gruppo di giornali riporta qualcosa altro che non sia il punto di vista d’Israele”.[33]

 

Ho fatto un’analisi, una cosa fatta in casa, dei maggiori giornali di Los Angeles, New York, Chicago, Atlanta, e Boston. I loro reportages sono sempre da Israele, cioè questi giornali hanno corrispondenti da Gerusalemme (che è Israele in quanto annessa) o da Tel Aviv. Hanno ben pochi corrispondenti dal mondo arabo che li informino del punto di vista palestinese. In secondo luogo, fanno il resoconto sulla base di agenzie che gli sono inviate dalle loro stesse redazioni centrali e i reportages vengono modificati per riflettere la stessa linea.

Il mantra è la violenza palestinese e l’insicurezza d’Israele. È sempre stato questo il filo conduttore anche nei resoconti di avvenimenti in cui centinaia di palestinesi venivano uccisi, migliaia mutilati e feriti mentre allo steso tempo si ignoravano i rapporti di Amnesty International, dell’Human Rights Watch, dei dipartimenti delle Nazioni Unite, dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati. Potrei portarti una dozzina di esempi tutti facilmente verificabili.

Nessuno di questi fatti ha trovato spazio sui maggiori giornali, e certamente non in programmi televisivi cosiddetti “virtuosi” come "NewsHour" su PBS. Anche le stazioni radio pubbliche erano tutte, in linea di massima, sulla stessa lunghezza d’onda – e ciò mi ha fatto comprendere che tutte le lettere alle redazioni o le campagne via e-mail che inondano le redazioni sono orchestrazioni messe in piedi dagli uffici di pubbliche relazioni, impegnati a far sì che l’attenzione resti focalizzata su Israele.

C’è un minuscolo gruppo di persone che sta scrivendo articoli critici sull’Orlando Sentinel, il Seattle Post-Intelligencer, la rivista Z, il Des Maims Register, e l’Hartford Courant. Li puoi trovare qua e là. Ma sono pochi e non raggiungono il pubblico delle grandi testate.

 

Il terrorismo focalizza l’attenzione dei media americani. Il Dipartimento di Stato ha recentemente pubblicato il suo rapporto annuale. Con la solita litania sugli Stati terroristi, tutti tra l’altro a maggioranza musulmana: Afghanistan, Pakistan, Iran, Iraq, Libia, Sudan e Siria. “Il terrorismo è una malattia persistente” ha detto Colin Powell nel presentare il rapporto.[34] A quale esigenza geopolitica vuole dar voce questa ossessione sul terrorismo?

 

Prima di tutto questa inesorabile caccia ai terroristi è dal mio punto di vista, criminale. Da la possibilità agli Stati Uniti di fare ciò che vogliono nel mondo. Prendi per esempio il bombardamento del 1998 in Sudan.Fu ordinato in primo luogo perché allora Bill Clinton aveva il problema di Monica Lewinsky. Si avanzò la scusa inconsistente che era stata bombardata una “fabbrica del terrore”, ma poi venne fuori che si trattava di uno stabilimento farmaceutico che produceva metà delle medicine di un paese, il quale poche settimane dopo fu colpito da una pestilenza Centinaia di persone morirono perché non avevano medicine.

Il terrorismo è diventato una sorta di schermo protettivo creato dopo la fine della Guerra Fredda dagli ispiratori della politica di Washington, gente come Samuel Huntington e Steven Emerson, che devono in qualche modo guadagnarsi da mangiare. Lo scopo è quello di impaurire la gente, renderla insicura e giustificare la necessità USA di agire globalmente.

Qualsiasi minaccia ai loro interessi, si tratti di petrolio nel Medio Oriente o di equilibri geostrategici in qualche altro luogo, è etichettata come terroristica. Israele, ha fatto esattamente così, a partire dalla metà degli anni ’70 in risposta alla resistenza palestinese.

È interessante notare come la storia del terrorismo sia legata dalle politiche imperialistiche. I francesi usavano la parola “terrorismo” per indicare qualunque cosa che gli algerini facessero per resistere alla loro occupazione, che iniziò nel 1830 e non finì che nel 1962. I britannici giocarono questa carta a Burma e in Malesia. “Terrorismo” è ogni cosa che impedisce loro di fare quello che vogliono. Da quando gli USA sono una superpotenza globale che ha, o pretende di avere, interessi ovunque – dalla Cina all’Europa dall’Africa del Sud all’America Latina - il terrorismo diventa un pratico strumento per perpetuare questa prassi.

Anche la resistenza alla globalizzazione ora è definita terrorista. Qualcuno ha già fatto questo tipo di collegamento, per esempio, Arundhati Roy che ha bollato come “terrorismo”, tutti i movimenti popolari di resistenza contro la povertà, la disoccupazione e la distruzione delle risorse naturali.

In questo circolo vizioso si alimentano gruppi come quello di Bin Laden e degli uomini ai suoi ordini, siano essi in Arabia Saudita, Yemen o altrove.

Gli americani ne ingigantiscono la forza e li gonfiano fino a proporzioni insensate, che non hanno nulla a che vedere con la realtà. Questa focalizzazione tende a oscurare gli enormi danni ecologici, militari, economici prodotti dagli USA su scala mondiale, al cui confronto le conseguenze del terrorismo sono insignificanti.

Infine, si parla molto poco del terrorismo interno, delle milizie e dei gruppi armati all’interno del paese, o di Timothy McVeigh. Ricordo molto bene che, dopo l’esplosione dell’edificio federale a Oklahoma City, il mio ufficio fu inondato di telefonate perché Steven Emerson, proclamato istantaneamente esperto di terrorismo, affermava che quell’attentato era di chiara matrice mediorientale.

Queste presunte connessioni hanno profondamente danneggiato la gente di origine araba o musulmana.

Durante la campagna elettorale del 2000 qualsiasi cosa che avesse a che fare con l’islam o i musulmani fu utilizzata per screditare i propri oppositori. Hillary Clinton rispedì al mittente un contributo di 50.000 dollari della Muslim Alliance, un gruppo molto convenzionale, abbastanza neutrale dal punto di vista politico, perché disse che quei soldi puzzavano di terrorismo. Questo tipo di etichette possono creare fenomeni xenofobi che possono coivolgere non solo gli afroamericani e i latinoamericani ma anche gli arabi americani.

È interessante segnalare che il rapporto del Dipartimento di Stato, da te citato pone il mondo islamico solo al numero 10 di questa lista.[35] La più grande sorgente di terrorismo sono gli Stati Uniti stessi e alcuni paesi dell’America Latina, e non i musulmani. Ma questi rapporti sono utilizzati, e manipolati sia dalla lobby israeliana sia dallo stesso Dipartimento di Stato, per sostenere la propria linea politica e intimidire la gente.

 

La linea delle sanzioni verso l’Iraq portata avanti da USA e Gran Bretagna sta franando. Qual è il tuo giudizio?

 

Penso che abbiano fallito. Il primo obiettivo delle sanzioni era di abbattere Saddam Hussein, ma questi si è dimostrato più forte. In secondo luogo, la popolazione civile irachena ha avuto enormi perdite, roba da genocidio, e questo grazie agli USA e alla Gran Bretagna. Da quando sono state imposte le sanzioni 60 mila bambini sono morti ogni anno. E innumerevoli sono quelli affetti da cancro o da altre malattie. L’embargo ha portato a un impoverimento dell’intera popolazione. Due commissioni ONU del programma “petrolio in cambio di alimenti” si sono dimesse per l’inumanità delle sanzioni.

Inoltre l’Iraq, al contrario di quanto pensano gli ispiratori della politica americana, non si libra nel vuoto. Si trova non distante dall’Egitto, uno dei paesi arabi più importanti. La sua economia è stata storicamente sempre legata ai suoi vicini, in particolare alla Giordania. Ora sta avvenendo che i giordani si riforniscono di petrolio iracheno pagandolo il 50% del prezzo [del mercato mondiale], e comunque, in generale, commerciano con l’Irak. Ci sono altri tipi di collegamenti organici tra l’Iraq e i suoi vicini, compresi alcuni paesi del Golfo. Le sanzioni di fatto non hanno la possibilità di continuare a funzionare, così per com’erano stato progettate.

Colin Powell ha dovuto perciò recarsi in Medio Oriente lo scorso febbraio, per patrocinare qualcosa che ha denominato “sanzioni dure”. Mi domando come facciano gli USA a pensare che qualcuno, vada contro i propri interessi. È impossibile. Si tratterebbe di una politica totalmente futile e dannosa.

C’è però dell’ironia in tutto ciò. Il potere e la ricchezza degli Stati Uniti è tale che la maggioranza dei cittadini americani non è cosciente del danno che essi hanno causato, dell’odio che è venuto accumulandosi contro di loro in tutto il Medio Oriente e nel mondo islamico. Si trastullano solo con i vari metodi per continuare a garantire il dominio di politicanti e di pochi individui, i cui interessi sono legati a una politica ridicola ed inumana.

Uno dei paesi che ha sospeso le sanzioni e le cui compagnie aree hanno ripreso i voli per Baghdad è la Turchia. Dalle basi americane presenti in questo Paese, partono gli attacchi contro l’Iraq, e l’esercito turco ha invaso più volte il nord dell’Iraq per dare la caccia ai partigiani curdi.

La Turchia è foraggiata dagli USA nella sua guerra contro i curdi. Quanto subito dagli albanesi del Kosovo, se lo compariamo a quanto avviene in Kurdistan, era roba da ragazzini. La Turchia, è una cosa da non dimenticare, è un’alleata molto stretta d’Israele, tanto da svolgere manovre militari in comune. C’è un’alleanza militare con gli USA e con Israele, ma malgrado ciò gli interessi commerciali e regionali prevalgono; così ora la Turchia commercia con l’Iraq e ne compra il petrolio, il suo secondo più importante fornitore nella regione.

 

Pensi che l’alleanza economica e militare d’Israele con la Turchia sia parte di una più ampia strategia per accerchiare gli arabi?

 

No perché anche l’Egitto fa parte dell’alleanza. Non è un accerchiamento degli arabi. È un accerchiamento di quelli che sono ritenuti essere gli Stati più intransigenti, come Siria, Iraq e Iran. L’accerchiamento non è diretto contro gli arabi ma piuttosto contro quegli Stati che si sono dimostrati troppo antisraeliani e troppo indulgenti verso i palestinesi. Ma è una strategia senza senso, irrazionale. Alla fine, queste sono politiche che non possono durare. È come per Syng-man Rhee in Corea del Sud, o Ky e Thieu in Vietnam. I responsabili della politica americana sono impenitenti. Ripetono gli stessi errori, con gli stessi costi umani, economici e politici. Si ostinano in questa politica perché la loro educazione e le loro prospettive sono sempre le stesse, tramandate di generazione in generazione.

 

Il Premio Nobel e attuale ministro degli Esteri Shimon Peres ha recentemente concesso un’intervista alla stampa turca negando il genocidio armeno[36].

 

Anche qui le politiche di Turchia e Israele sono molto simili. Entrambi questi Stati hanno interesse a nascondere ciò che il governo turco fece in Armenia all’inizio del Novecento, perché si vogliono riservare la possibilità di agire ancora in questo modo. Ti faccio un esempio. Nel 1983 si registrò un programma alla radio di Stato israeliana in cui si cercava di capire che cosa fosse successo agli armeni, ma ne fu impedita la messa in onda semplicemente perché si utilizzavano i termini “olocausto” e “genocidio”, che Israele riserva solo agli ebrei. Questo tipo di politica è perpetuata dall’atteggiamento di Shimon Peres che, invece di provare a riconoscere e comprendere cosa possa succedere a un popolo, le tragedie del Ruanda, dell’Armenia o della Bosnia, affinché non si ripetano mai più, chiude stupidamente gli occhi. Si vuole organizzare la memoria in modo tale da focalizzarla esclusivamente su certi gruppi, lasciando da parte altri che hanno subîto la stessa tragica sorte.

 

Hai parlato in molte occasioni del diritto al “ritorno”. Vedi fare qualche passo avanti sulla strada del riconoscimento di tale diritto?

 

Io penso che nella coscienza della gente esista un diritto a tornare. Non per forza in Palestina. La gente non può essere mandata via dalle proprie case o anche scegliere di abbandonarle, senza avere il diritto a tornare. Questo come principio generale. Questo diritto fu escluso dal processo di pace di Oslo, benché i palestinesi costituiscano oggi la più grande comunità di rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale.

Il diritto al ritorno potrebbe anche servire a focalizzare l’attenzione sulla situazione dei palestinesi che si trovano nei Paesi arabi, in Siria e altrove, dove non sono regolarizzati e non gli vengono assicurati i diritti di residenza, lavoro e spostamento. Non è solo in Israele, malgrado lì avvenga ai massimi livelli, che i palestinesi vengono trattati duramente.

Penso a un più ampio movimento che attiri l’attenzione sul diritto agli immigrati a restare nei paesi che hanno potuto raggiungere. Se non hanno la possibilità per ragioni politiche o fisiche di tornare nel proprio paese, gli sia dato almeno il diritto di risiedere dove già vivono. È un fenomeno mondiale che m’interessa profondamente.

Viviamo in un periodo di migrazioni, di viaggi e residenze forzate, che hanno letteralmente inghiottito il globo. Ciò ha prodotto tutta una serie di leggi reazionarie sull’immigrazione, non solo in Israele, motivate da un qualche mito di purezza della razza dei cittadini di quei paesi, ma in paesi come l’Italia, la Svezia, la Gran Bretagna e gli USA, che consentono di respingere questa povera gente, questa razza inferiore di uomini – principalmente asiatici e africani – che cercano rifugio.

Il principio è lo stesso, sia quando è impedito il ritorno alle proprie case in Palestina o la costruzione di una nuova casa in Libano, USA o Svezia, perché si è considerati stranieri o allogeni. L’intera concezione dello straniero, dell’allogeno e del nativo deve essere ripensata per includere il destino di quella gente i cui avi furono sterminati di chi, una volta arrivato in una certa terra, prese a colonizzarla con la forza come è il caso di Israele e degli Stati Uniti. È un fenomeno di grande portata che deve essere urgentemente ripensato in modo tale, spero, da consentire il “diritto al ritorno” dei palestinesi possa essere posto all’attenzione generale in tutta la sua drammaticità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

Seconda parte

GLOBALIZZAZIONE E IMPERIALISMO

 

 

 

 


 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


 

 

 

Paul D’Amato

 

Gli Stati contano ancora nell’ èra della globalizzazione?

 

Paul D’Amato è vice direttore della International Socialist Review e cura la rubrica del settimanale Socialist Worker (USA) “The meaning of marxism”.      

 

Ci sono due punti di vista sulla globalizzazione nel movimento per la “giustizia globale” che sono accettati supinamente. Il primo afferma che l’integrazione economica globale avrebbe creato un mondo crescentemente dominato da Corporations Transnazionali non legate a nessun Stato (di seguito CTnS), gli Stati avrebbero perso vieppiù potere, o addirittura sarebbero diventati irrilevanti nella misura in cui la globalizzazione implacabilmente segue il suo corso.[37] Il secondo di questi punti di vista sostiene che la globalizzazione rappresenterebbe un orientamento economico portato avanti dalle maggiori potenze mondiali – da quelle più importanti come gli USA, l’Unione Europea e il Giappone – volto a scardinare i mercati a vantaggio delle merci e degli investimenti delle proprie “home-based” corporations multinazionali. Questi due punti di vista sono contraddittori.

In linea di tendenza, è difficile non concordare con la prima interpretazione. Il commercio mondiale è cresciuto drammaticamente negli ultimi decenni. Mentre le esportazioni mondiali erano di 16.000 miliardi di dollari nel 1985, nel 1998 hanno raggiunto i 54.000 miliardi di dollari. Gli investimenti stranieri diretti (ISD) sono cresciuti da 209.000 miliardi di dollari del 1990 ai 1.118.000 di miliardi di dieci anni dopo (molti dei quali erano fusioni sovranazionali). Una sbalorditiva cifra di 15.000 miliardi di dollari, già nel 1998, cambiavano di mano ogni giorno negli scambi internazionali.[38] Il commercio mondiale e gli investimenti sono dominati da 63.000 CTnS con circa 690.000 filiali all’estero. Le prime cento di queste, con l’eccezione della Compagnia Petrolifera di Stato del Venezuela, hanno sede nei paesi economicamente più avanzati: USA, Giappone ed Europa. Esse hanno 6 milioni di dipendenti in tutto il mondo, patrimoni per 2000 miliardi di dollari e vendite all’estero dell’ordine di altri 2000 miliardi di dollari.[39]

La tendenza verso politiche neoliberiste che si è fatta strada nella maggioranza dei paesi dai primi anni ’80 in avanti – privatizzazione delle imprese e dei servizi di proprietà statale, deregulation dei mercati, abbassamento delle barriere commerciali, taglio dei servizi sociali e liberalizzazione dei controlli finanziari e degli investimenti – hanno indebolito la capacità di regolazione dei governi e rafforzato la capacità delle CTnS di penetrare i mercati mondiali e di dominarli.

Per quanto interessante, tuttavia, quest’analisi è unilaterale. Il dominio delle corporations non sostituisce la lotta tra gli Stati. Le corporations transnazionali non possono fare a meno del ruolo che lo Stato ha giocato per il capitale nel passato come garante dell’ordine all’interno, e della forza, all’esterno.

Gli USA sono la più grande potenza militare del mondo.Questa ha l’obbiettivo di perpetuare il dominio americano e di accrescerne il peso economico nell’economia mondiale. Tutto ciò non è solo una sopravvivenza del passato, che sarebbe stata spazzata via con il procedere della globalizzazione, ma al contrario quest’ultima non può essere compresa senza cogliere l’importanza dell’imperialismo, il peso delle rivalità tra gli Stati più potenti.

Intervenendo in un dibattito sull’oppressione nazionale, il rivoluzionario russo Lenin, coglieva due tendenze all’interno del capitalismo: da una parte “il ridestarsi di una vita e di movimenti nazionali [...] la creazione di stati nazionali” e dall’altra, “sviluppo ed intensificazione di ogni specie di rapporti tra le nazioni” e della “distruzione delle barriere nazionali”.[40]

Queste due tendenze contraddittorie – verso l’internazionalizzazione del capitalismo, l’integrazione più completa e l’interdipendenza, da una parte, e verso la crescita e il consolidamento degli Stati nazionali dall’altra - sono state le caratteristiche fondamentali del capitalismo lungo tutta la sua storia. L’equilibrio tra queste due tendenze e il modo in cui si esprimono tali contraddizioni è cambiato. Ma la contraddizione resta anche oggi nel cuore del capitalismo mondiale.

I moderni Stati-nazione furono necessari in quanto mezzi per la creazione di un singolo mercato unificato che avrebbe facilitato il commercio. Ma lo Stato ebbe anche un ruolo cruciale nel provvedere alle infrastrutture e qualche volta fu il magnete di capitali necessari ai capitalisti nazionali per operare e competere effettivamente.

Ma lo Stato come istituzione burocratica ha un’altra, più importante, funzione. Lenin, citando Engels, definisce l’essenza dello Stato come “corpi di uomini armati, prigioni, ecc.” in breve uno strumento per il mantenimento del dominio della minoranza sfruttatrice sulla maggioranza sfruttata.

Quando il capitalismo supera i confini dello Stato-nazione, la funzione coercitiva militare dello Stato assume una nuova dimensione, quella di proteggere (e promuovere) gli interessi dei capitalisti di un paese verso l’esterno. Nella misura in cui il capitalismo si sviluppa, cresce il ruolo dello Stato, crescono le dimensioni della burocrazia statale e crescono anche le dimensioni del suo apparato coercitivo.

Lenin presto affinò questo punto di vista alla luce dell’inabissamento del mondo nel mattatoio di massa della Prima Guerra mondiale. Egli affermò che il capitalismo aveva raggiunto un nuovo stadio: l’imperialismo cioè la lotta delle “grandi potenze” per il dominio mondiale. La caratteristica centrale dell’imperialismo era la rivalità tra le grandi potenze, la cui competizione economica apriva la strada a conflitti militari.

Un altro rivoluzionario russo, Lev Trotsky, pose la questione in questi termini:

 

le forze produttive che il capitalismo ha sviluppato hanno superato i limiti delle nazioni e degli Stati. Lo Stato nazionale, forma politica attuale, è troppo angusto per l’utilizzo di tali forze. La tendenza naturale del nostro sistema economico quindi è quella di cercare di smantellare i confini statali. L’intero globo, sia in terra sia in mare, tanto in superficie che in profondità è diventato un’officina economica, le cui diverse parti sono inseparabilmente connesse le une con le altre. Questo lavoro è stato realizzato dal capitalismo. Ma nel portarlo a termine gli stati capitalisti furono portati a lottare per sottomettere il sistema economico mondiale, che abbraccia tutto il mondo, agli interessi del profitto della borghesia di ogni paese [...]

Ma il modo in cui i governi propongono di risolvere il problema dell’imperialismo non è granché intelligente: organizzare la cooperazione di tutta l’umanità produttrice ma per mezzo dello sfruttamento del sistema economico mondiale da parte della classe capitalista del paese vincitore, di quel paese che attraverso questa guerra è stato trasformato da grande potenza a potenza mondiale.[41]

 

Un altro contemporaneo di Lenin, Nikolaj Bucharin, sottolineava come la contraddizione tra internazionalizzazione del capitalismo e Stato-nazione fosse il prodotto della fusione tra Stato e capitale. Tanto più le corporations diventavano potenti e centralizzate e tanto più tendevano a fondersi con lo Stato, a creare quello che egli chiamava lo “Stato capitalista dei trusts”. La tendenza fu accelerata da una crescente centralizzazione del sistema in quanto ogni Stato usava il suo controllo su una particolare zona nazionale per far convergere le risorse di capitale necessarie a sviluppare, proteggere e progettare le proprie industrie entro i confini nazionali e all’estero. La guerra accelera il processo di fusione tra lo Stato e il capitale, in quanto lo Stato dispone delle sue risorse per la guerra.

Bucharin tendeva a far diventare un fatto compiuto quella che era solo una tendenza. Ma egli coglieva con acutezza la tendenza verso il capitalismo di Stato nell’economia mondiale del tempo. Il processo raggiungerà il suo zenit negli anni ’30 quando lo Stato russo completamente nazionalizzato troverà un alter ego in Occidente nello Stato che controlla autarchicamente un’economia bellica (il fenomeno più pronunciato si ebbe nella Germania nazista) e in una generale ritirata delle principali potenze dietro alte barriere tariffarie.

 

I vincitori della Seconda Guerra mondiale costruirono una organizzazione economica che incoraggiava sia il commercio sia il coinvolgimento dello Stato nell’economia. Al pari della Gran Bretagna nel XIX secolo, gli USA emersero come la più grande superpotenza che controllava più della metà della produzione mondiale. Favorirono il libero mercato, come aveva fatto l’impero britannico prima di loro, perché consideravano questa la miglior politica per assicurare la penetrazione dei capitali americani nel mercato mondiale.

Ma l’intervento governativo era ora diventato un mezzo per prevenire la crisi, aumentare i tassi di occupazione, e favorire lo sviluppo economico. Negli Stati Uniti l’intervento statale prese la forma del keynesismo militare, con le sue massicce spese belliche. Infatti fu “l’economia di armamento permanente”[42] ad assicurare il lungo boom postbellico.

Il secondo dopoguerra vide anche la proliferazione di nuovi Stati indipendenti che cercavano di sviluppare le proprie economie dopo decenni di dominio coloniale. Piccole e sottosviluppate, molte di queste guardavano all’URSS come a un modello di sviluppo. Come ha scritto Pete Binns, “più è debole la classe capitalista autoctona e più è grande la pressione per fondere e centralizzare le risorse sotto l’egida dello Stato”[43]. Ma questo trend verso l’interventismo statale non era basato su una fiducia nei confronti del socialismo (confusamente identificato con la proprietà statale); era semplicemente l’espressione del fatto che i Paesi meno sviluppati, molti dei quali impossibilitati a attirare investimenti stranieri, pensavano di essere incapaci di concentrare i capitali necessari per competere sul mercato mondiale senza un intervento diretto dello Stato. Ci fu, scrive Binns, “in quel periodo la stessa spinta verso la statizzazione, sia nei governi di sinistra (come in Algeria o in Egitto) che in quelli di destra (come in Brasile o in Argentina). Ciò mise in grado l’economia mondiale del lungo boom, di darsi una chiara e precisa traiettoria.[44] Questa strategia sembrò applicabile finché l’economia mondiale continuò la sua forte espansione.

Il carattere dell’imperialismo cambiò nel periodo postbellico, ma non nella sua essenza. Invece di un mondo suddiviso in molti centri mondiali – Gran Bretagna, Germania, USA - la rivalità imperiale prese la forma della guerra fredda tra USA e URSS. L’esistenza di armi nucleari capaci di distruggere il Pianeta fece sì che molti dei conflitti non assumessero la forma di scontri direttamente militari tra USA e URSS ma di conflitti più limitati nella periferia del sistema.

 

All’interno dell’intesa postbellica, invece, presero piede cambiamenti molecolari. Sotto l’ombrello militare statunitense, il Giappone e l’Europa diventarono delle grandi potenze economiche, riducendo lentamente il peso economico degli USA nell’economia mondiale. Mentre lo sviluppo ineguale del mercato mondiale fece sì che il commercio e gli investimenti diventassero massicciamente concentrati nei paesi avanzati, un pugno di nuove nazioni, conosciute come Paesi di Nuova Industrializzazione – in particolare Sud Corea, Malesia, Singapore e Hong Kong – furono in grado di raggiungere alti tassi di crescita e di inserirsi [nella competizione] con successo come nuovi protagonisti globali.

In secondo luogo, l’URSS, che aveva un’economia molto più debole di quella degli USA, fu costretta a consumare risorse sempre più consistenti nella competizione con gli USA, mentre gli impressionanti tassi di crescita degli anni ’50 e ’60 cominciarono a rallentare e, negli anni ’80, finirono per segnare il passo. La crisi colpì il cuore del sistema mondiale negli anni ’70, mettendo fine al lungo boom e al sistema di Bretton Woods, che agganciava le valute mondiali al dollaro. I cicli di boom e di crisi del periodo prebellico stavano tornando.

La crescita colossale del commercio mondiale in quel periodo, insieme con la crescita concomitante della interdipendenza economica tra i diversi comparti dell’economia mondiale, minò in modo crescente la capacità dei singoli governi di usare l’intervento statale e il protezionismo per sviluppare il proprio mercato nazionale. “La tendenza dell’economia mondiale verso l’incorporazione di tutte le economie nazionali in una singola divisione mondiale del lavoro” scrive Binns, “divenne qualcosa cui era sempre più difficile resistere, qualunque fosse l’ideologia ufficiale alla quale i governi facevano riferimento...”.[45]

Il boom prolungato, alla metà degli anni’70, fece posto a una crisi mondiale resa più cruenta dal forte rincaro dei prezzi del petrolio. Daniel Singer descrive la risposta delle classi dirigenti alla crisi così:

 

Posto di fronte a un rallentamento della crescita, a un declino dei tassi di produttività, a una caduta tendenziale dei saggi di profitto e aggravata da un aumento del prezzo del greggio, il sistema finì per abbandonare il suo compromesso provvisorio e il contratto sociale per ristabilire le vecchie leggi della giungla capitalista... gli anni ’80 furono gli anni dell’offensiva a tutto campo.

Come al solito quella offensiva fu prima preparata e poi rafforzata da una campagna ideologica... la propaganda di massa rinvigorì i vecchi cliché sulla fragilità del pubblico e sul valore intrinseco del privato, della “libera” impresa o del perfetto buon senso dei mercati guidati da una benevolente “mano invisibile”. La propaganda fu strettamente legata alla pratica.[46]

 

Come segnala Singer, il processo che ora vediamo in corso e che viene definito “globalizzazione” incominciò negli anni ’70 e accelerò nei due decenni successivi come uno strumento per rilanciare i profitti alle spalle della classe operaia e dei poveri. L’America Latina fu uno dei primi terreni per testare questo nuovo approccio neoliberale – prima in Cile dopo il golpe militare del 1973 sostenuto dalla CIA – poi applicato dappertutto. I responsabili della politica USA colsero l’opportunità che si presentava loro con la crisi del debito per imporre termini e condizioni ai Paesi indebitati designati a aprire i loro mercati agli investitori. Il fatto che queste politiche siano ora conosciute con il nome di “Washington Consensus” dovrebbe fornire qualche indicazione su come le politiche di riaggiustamento strutturale siano state imposte. Come ha scritto Ducan Green:

 

I più potenti interessi nel Nord hanno prodotto ricche ricompense dovute agli aggiustamenti strutturali che aprono le economie del Sud agli investitori e ai commercianti del Primo Mondo. Nelle gigantesche privatizzazioni degli ultimi anni ’80 e dei primi anni ’90 le corporations transnazionali americane ed europee furono in grado di impadronirsi al volo delle migliori compagnie aeree e di telecomunicazioni latino americane e di entrare anche nel settore petrolifero.[47]

[C1] 

Si tentò di utilizzare anche la crisi dei mercati asiatici emergenti per scardinarli. Walden Bello ha descritto così questo processo:

 

Usando il FMI come una testa d’ariete per la liberalizzazione del commercio e degli investimenti nei settori finanziari e industriali, gli interessi finanziari e industriali USA transnazionali hanno guidato le acquisizioni dei patrimoni finanziari e industriali da Seul a Bangkok...

In altre parole, molte delle strutture finanziarie e industriali messe in piedi in oltre una generazione da imprenditori asiatici stanno passando alle compagni transnazionali del Nord a prezzi stracciati. E, in molti casi, l’obbiettivo del compratore non è quello di aumentare la capacità produttiva ma semplicemente di spogliare queste aziende dei loro patrimoni o di ridurne la capacità, in linea con un piano di produzione globale per aumentare la profittabilità e eliminare le scorte per far fronte alla domanda globale stagnante.[48]

 

Le politiche associate con la globalizzazione (ribattezzate Washington Consensus), di cui gli USA in primo luogo sono i campioni, sono prima di tutto assunte come iniziative statali. Ma l’importanza dello Stato nel funzionamento del capitalismo va ben oltre.

C’è del vero nell’idea che gli Stati non abbiano il reale controllo sull’economia e che la crescente integrazione dell’economia mondiale renda sempre più futili i loro sforzi volti a controllare il territorio nazionale. Ma si può dire lo stesso anche per le corporations. Ciò avviene perché il capitalismo è un sistema anarchico nel quale la produzione su scala mondiale non è pianificata e coordinata. È per questo che il capitalismo conosce la piaga, a intervalli più o meno regolari, di crisi di sovrapproduzione: sia il capitale privato sia gli Stati da cui dipende sono incapaci, in ultima analisi, di prevenire le crisi. Il flusso irregolare e senza precedenti di transazioni finanziarie oltre frontiera ha, come dimostra la débâcle asiatica del 1998, aumentato la volatilità del sistema.

D’altro canto, sarebbe sbagliato affermare che gli Stati non hanno alcun impatto sull’economia nazionale o su quella mondiale. Lo Stato ha i mezzi per intervenire, attraverso la manipolazione dei tassi d’interesse e l’offerta di moneta; e in quanto “prestatore in ultima istanza”, in alcuni casi può essere decisivo. Il chairman della Banca Federale degli USA Alan Greenspain, per fare degli esempi, ha organizzato il salvataggio della Long Term Capital Managment nel 1998 e, avvertendo la possibilità di un disastro negli USA sul tipo di quello asiatico, ha immesso una grande massa di moneta e abbassato i tassi d’interesse. Inoltre i cento miliardi e più di dollari per il salvataggio dei paesi asiatici non provengono da capitalisti privati, che stavano cercando il modo di salvare i loro investimenti. Sono di provenienza FMI, e i fondi del FMI vengono a loro volta dalle casse dei Paesi membri, in primo luogo USA e Europa.

L’ironia è che più grandi e più concentrate diventano le imprese capitalistiche, e più lo Stato deve essere pronto a intervenire di fronte a qualsiasi segno di vacillamento. Una funzione importante della crisi capitalistica è quella di condurre alcuni business al fallimento e altri a rimettere insieme i cocci per rilanciare poi il processo di crescita. Ma le banche e le aziende manifatturiere sono così grandi oggi da rendere reale il rischio che la crisi, e lasciata a se stessa, possa diventare troppo devastante. Quindi lo Stato ha attualmente un ruolo assolutamente cruciale nel fare da baluardo al collasso economico. Così, mentre il ruolo dello Stato come proprietario di capitale, (con alcune importanti eccezioni, come l’industria petrolifera del Messico e del Venezuela) si è ridotto, il suo ruolo economico, da altri punti di vista, è divenuto più importante.

Harry Shut ha commentato così:

 

Essendoci una spinta senza precedenti a allontanarsi dalla proprietà statale in favore dei settori privati e a una deregulation estensiva dei mercati finanziari internazionali, i governi di tutti i paesi industrializzati hanno raddoppiato la tendenza a usare le entrate fiscali per sostenere le imprese private (attraverso tagli delle tasse, sussidi, prestiti garantiti e altri mezzi, ecc.)...[49]

 

Lasciamo perdere tutte le chiacchiere sul ruolo declinante dello Stato: le uscite dello Stato in relazione al PIL sono drammaticamente cresciute durante l’ultimo quarto di secolo. Il rapporto della Banca Mondiale del 1997 sullo sviluppo economico del mondo mostra che nei paesi industrialmente avanzati le spese dello Stato sono cresciute enormemente: nel 1960 erano poco sotto il 20% mentre nel 1995 avevano quasi raggiunto il 50%.[50]

Le argomentazioni secondo cui le corporations potrebbero fare a meno dello Stato, e in particolare dello Stato nazionale in cui hanno le loro sedi principali, non regge. In generale, possiamo dire che le corporations transnazionali non hanno bisogno dello Stato solo per garantire la pace sociale (corpi di uomini armati, prigioni, ecc.), dipendono da esso anche per i fondi per finanziare la ricerca e lo sviluppo, per i sussidi, per accrescere la propria competitività sui mercati e per una serie di altri “servizi” (che la critica potrebbe chiamare welfare delle corporations) cui lo Stato provvede, inclusa, come abbiamo già visto, la sua capacità di intervenire per salvare le corporations che entrano in crisi. Due analisti dell’economia globale hanno concluso che:

 

Delle cento aziende più grandi al mondo nessuna è realmente “globale”, “senza frontiere”, “libera”. Esiste comunque una gerarchia nell’internazionalizzazione delle aree funzionali del management: circa 40 aziende vendono almeno metà della loro produzione all’estero, meno di 20 mantengono almeno metà delle loro strutture all’estero; ma, con pochissime eccezioni, gli esecutive boards restano strettamente nazionali nella loro prospettiva; con ancora meno eccezioni i dipartimenti della Ricerca & Sviluppo rimangono solidamente sotto il controllo nazionale; e la maggioranza delle compagnie pensa a una globalizzazione delle finanze dell’azienda con incertezza.[51]

 

Anche oggi, dopo un’ondata di fusioni internazionali, la maggioranza delle corporations, a parte poche eccezioni, tendono a operare a partire dal proprio Paese di origine. Secondo il Financial Times, gran parte di queste fusioni si sono concluse con l’acquisizione di un’azienda da parte di una di un’altra. L’ultra annunciata fusione di Chrysler e Daimler-Benz per esempio ha finito per essere un’acquisizione tedesca, “causando considerevole amarezza e cause legali da parte degli azionisti negli USA […]

Ci sono molte compagnie che fanno operazioni in tutto il mondo. Alcune possiedono anche dirigenze internazionali e teams esecutivi all’estero. Ma, quasi senza alcuna eccezione, le compagnie di maggior successo del mondo rimangono chiaramente identificabili con i rispettivi paesi d’origine.”[52]

 

Le multinazionali negli USA ricevono enormi aiuti da parte del governo sotto forma di sussidi diretti, tagli delle tasse, fondi governativi per la ricerca e lo sviluppo, e tutta un’altra serie di “welfare delle corporations”. Per fare qualche esempio: il governo USA sta stanziando vari milioni di dollari in bonus ai top executive della Lockheed e della Martin Marietta per completare con successo una fusione iniziata nel 1995. La General Motors ha ricevuto 111 milioni di dollari in sussidi federali tecnologici tra il 1990 e il 1994, mentre nello stesso periodo licenziava 104.000 lavoratori. La IBM ha ricevuto nello stesso periodo 58 milioni di dollari[53]. Il punto è che mentre il governo è stato impegnato a privarizzare le industrie e a tagliare i servizi sociali, ha speso enormi masse di danaro per aiutare la grande impresa. Uno studio del Boston Globe del 1996 sulle donazioni alle corporations concludeva che:

 

I 1590 miliardi di dollari spesi per sussidiare le corporations e gli sgravi fiscali fanno impallidire il debito di bilancio annuale di 130 miliardi di dollari. Questi sconti superano di molto i 145 miliardi di dollari stanziati per i programmi di welfare sociale: AFFC[54], sussidi agli studenti, abitazioni, prodotti alimentari, e tutta l’assistenza diretta pubblica (esclusa la Social Security e le cure mediche).[55]

 

Le corporations dipendono dai governi in relazione al mantenimento di un buon clima negli affari. Esse quindi non dipendono solo dal “loro” Stato, ma hanno preferenza a investire in quei paesi dove c’è un buon clima per gli affari, e cioè regimi stabili, che siano in grado di mantenere il reale dissenso popolare al livello minimo. Il rapporto della Banca Mondiale del 1997 segnala che: “secondo 69 imprenditori intervistati, gli Stati “stanno svolgendo in modo insufficiente le loro funzioni, fallendo nell’assicurare la legge e l’ordine, nel proteggere la proprietà e nell’applicare le direttive e le politiche promesse. Gli investitori non considerano tali Stati credibili, e la loro crescita e gli investimenti ne soffrono di conseguenza.”[56]

Le corporations transnazionali hanno strette relazioni con “il loro Stato di provenienza” in relazione al perseguimento di una politica estera – diplomazia, relazioni commerciali e forze armate - che avvalli i loro interessi. L’idea che le corporations governino senza alcuna mediazione statale ignora il fatto che queste non solo sfruttano i lavoratori e rovinano le loro vite per fare profitti ma sono impegnate anche in una competizione mortale per spartirsi i mercati. Hanno bisogno di ogni muscolo, di ogni nervo per sconfiggere i competitori e controllare più mercati. Per questo non possono basarsi solo sulle proprie risorse. Una corporation “realmente” senza alcun Stato alle spalle è sempre svantaggiata rispetto a una multinazionale che può contare sulle risorse del suo governo - in particolare quando si parla di governi potenti come quelli americano, tedesco e giapponese. Questa verità è stata espressa al meglio da Thomas Friedman nel magazine sul New York Times del 28 marzo 1998 in un articolo sui progetti della potenza americana:

 

Per far funzionare la globalizzazione gli USA non devono temere di agire come la superpotenza che sono. La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un “pugno invisibile”. Mc Donald non può prosperare senza Mc Donnell Douglas (che ha progettato gli F-15) e il “pugno invisibile” che mantiene il mondo tranquillo per la tecnologia di Silicon Valley si chiama Esercito degli Stati Uniti, Air Force, Corpi navali e della Marina.

 

Anticipando la linea di Friedman, il comandante generale della Marina Alfred M. Gray sottolineava nel 1991 come gli USA avessero bisogno di “un accesso senza ostacoli” per “impiantare e sviluppare i mercati nel mondo.”[57] I marines hanno avuto qualcosa a che vedere con l’instaurazione di un “accesso senza ostacoli” nell’America Latina. Il Generale Maggiore Smedley D. Butler spiegava nel 1935 come gli USA utilizzavano la potenza militare per estendere il loro potere economico nei Caraibi e in ogni dove nella prima parte di questo secolo

 

Ho speso trentatré anni e quattro mesi in servizio attivo come membro della forza militare più agile del paese, il corpo della Marina. E durante questo periodo ho passato la maggior parte del mio tempo a essere un uomo forte al più alto livello del “Big Business”, di Wall Street, e dei banchieri. In breve ero il “rackettista” dei capitalisti...

Così ho aiutato a rendere sicuro nel 1914 il Messico, e in special modo Tampico, per gli interessi americani legati all’industria petrolifera. Ho aiutato a rendere Cuba e Haiti dei posti decenti per accrescere le entrate dei ragazzi della National City Bank... Ho aiutato a ripulire il Nicaragua nel 1909-1912 per la banca internazionale Brown Brother. Nella Repubblica Dominicana nel 1918 ho agevolato gli interessi americani nel settore dello zucchero. E nel 1903 ho aiutato a fare dell’Honduras il posto giusto per le compagnie americane della frutta.[58]

 

Gli scopi degli USA sono ben poco cambiati dai tempi di Smedley Butler. Ciò è stato evidenziato da come il governo e le corporations americane hanno favorito il “Colombia Plan”, un pacchetto militare per le Ande di 1,6 miliardi di dollari che fa della Colombia il terzo più grande fruitore di fondi provenienti dagli USA e che impegna il Pentagono a provvedere all’addestramento, al supporto di hardaware e di intelligence per le forze militari della regione. E tutto ciò solo apparentemente per bloccare il flusso di droga. In realtà come ha fatto notare un ufficiale statunitense: “Non c’è molta differenza tra l’attività antidroga e quella controinsurrezionale... Semplicemente non utilizziamo quest’ultima in ogni situazione perché è qualcosa di politicamente delicato.”[59] Il “Comando del Sud” degli USA (SOUTHCOMMAD) ha uno spiegamento di 200 Forze Speciali in America Latina, di basi militari in tutto il Centroamerica e nei Caraibi come quella di Manta in Ecuador. Il SOUTHCOM sottolinea il suo ruolo di intelligence per ciò che riguarda le operazioni di sicurezza interna, che è indistinguibile dalle operazioni violente controinsurrezionali promosse dagli USA durante la Guerra Fredda per aiutare a reprimere le opposizioni interne in America Latina. Questa mira non soltanto alla Colombia ma alla poll-position degli USA nel controllo dell’intera regione.

In un Rapporto recente del NACLA, Michael T. Klare sottolinea chiaramente come gli USA continuino a rivendicare la supremazia nella politica e nell’economia mondiale. Egli cita un rapporto del Dipartimento della Difesa, scritto nel 2000, in cui si afferma che “gli USA devono restare il leader globale e utilizzare le proprie strutture attraverso le indiscusse capacità delle sue forze armate per formare un ambiente di sicurezza internazionale favorevole e rispondere a tutto lo spettro delle crisi possibili in relazioni agli interessi americani.”[60] Klare chiarisce che gli USA restano determinati a mantenere un esercito in grado di confrontarsi con qualsiasi altra potenza mondiale e tanto più con le potenze regionali più piccole. In altre parole, mantenendo la propria superiorità militare e il diritto a intervenire dovunque, gli USA non vogliono solo proteggere gli interessi americani all’estero. Vogliono anche prevenire la possibilità che altre potenze aspirino a un ruolo di gendarme al di fuori del controllo americano. Klare cita una bozza di un documento di programmazione militare, resa pubblica all’inizio del 1992, nel quale si afferma che la politica da portare avanti dovrà essere quella di “mantenere i meccanismi atti a impedire che i potenziali competitori possano aspirare a un ruolo più importante sia su scala regionale che globale.”[61] Il documento è stato redatto da Paul Wolfowitz, che recentemente è diventato il numero due del Pentagono subito dietro Donald Rumsfeld.

Per gli USA, spingere per un programma di libero commercio non significa volere il libero commercio in assoluto, ma assicurarsi dei vantaggi economici. Che gli USA vedano i commerci e le politiche commerciali con il prisma del dominio economico americano dovrebbe essere chiaro dalle affermazioni fatte dal Business Roundtable, una importante organizzazione che annovera tra i suoi membri i più importanti uomini d’affari americani. Il titolo di un documento del Business Roundtable recentemente pubblicato ne rivela i punti deboli: “Lo stato della leadership americana nel commercio: gli USA stanno scivolando indietro.” L’articolo lamenta il fatto che mentre gli USA hanno solo due accordi commerciali – il NAFTA e un accordo bilaterale di libero commercio con Israele - 130 accordi di libero commercio che coinvolgono L’Unione Europea e una serie di altri paesi e realtà regionali sono stati firmati a partire dal 1990:

 

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e fino a pochi anni fa, c’era un accordo non scritto per i negoziati commerciali: gli USA erano il paese indispensabile, quello che doveva essere per forza coinvolto nei negoziati commerciali perché questi avessero successo...

Ma oggi le regole sono cambiate in modo profondo e irrevvocabile. Gli USA sono ancora un attore principale, ma non più indispensabile. I nostri partners commerciali hanno iniziato a trattare senza di noi, accerchiando gradualmente gli USA con una rete di accordi commerciali preferenziali.[62]

 

Gli USA sono particolarmente preoccupati dal fatto che l’Europa abbia firmato 27 accordi commerciali separati 15 dei quali sono già operanti. Il quadro che ne risulta non è quello di una realtà fondata sul libero commercio ma su blocchi commerciali in via di formazione e in competizione tra loro, i quali nei fatti erigono barriere verso coloro che non ne fanno parte. Ciò che emerge dal documento sopraccitato è che se gli USA non agiranno rapidamente si potrebbero trovare tagliati fuori dal trattamento preferenziali di cui beneficiano i loro competitori:

 

Cosa succede se altri paesi rendono operanti i loro accordi e noi no? I businessmen, gli operai e i contadini americani sono posti di fronte a una minaccia immediata e una a lungo termine. Immediatamente sono forzati a competere in un campo da gioco non equilibrato. A lungo termine i nostri partners commerciali stanno creando regole che ci tagliano fuori e vanno formando alleanze strategiche ostili agli interessi degli USA. Molti degli accordi.... in cui gli USA non sono parte integrante non sono di vasta portata, ma costituiscono tuttavia una minaccia considerevole ai nostri interessi economici.[63]

 

Qui non vediamo aziende transnazionali che dilagano in tutto il globo, ma corporations americane che chiedono al loro governo di utilizzare la sua forza e la sua influenza per negoziare trattati commerciali di cui beneficino le corporations americane contro le corporations rivali di altri stati. Gli USA non sono solo interessati a capire come possano dominare nella competizione commerciale attori più deboli come il Messico, ma a come possano competere più efficacemente con i loro pari, in particolare l’Europa o il Giappone. Questi sviluppi hanno spinto l’amministrazione Bush a apporre la firma sull’accordo per l’Area di Libero Commercio delle Americhe (FTAA), che porta a espandere il NAFTA a tutto l’emisfero a partire dal 2005. IL FTAA potrebbe agire come contrappeso ai blocchi commerciali dell’Unione Europea, al MERCOSUR del Sudamerica e ai blocchi commerciali che coinvolgono vari paesi asiatici.

L’espansione del commercio mondiale e la crescita della interdipendenza economica nel mondo, in altre parole, non riducono le rivalità regionali e i conflitti nazionali ma li esacerbano, specialmente oggi che a livello internazionale è cominciato un periodo di difficoltà economica. La competizione internazionale per il mercato mondiale si intensifica e anche i rapporti commerciali tra le nazioni si surriscaldano. Ne risulta che gli accordi di libero commercio diventano faccende intorno alle quali varie forze – private e statali – manovrano avvantaggiarsi più grandi vantaggi sui loro rivali.

Citando gli sforzi dell’amministrazione Clinton, nel 1993, per arginare la crisi dell’industria dell’alluminio negli USA con la formazione di un cartello tramite cui favorire il taglio della produzione e la crescita dei prezzi, William Greider ha concluso che:

 

Per riassumere, a dispetto dell’ortodossia dominante, il sistema globale non può essere propriamente definito un regime di libero commercio. Quando tutte le contraddizioni, le eccezioni e le evasioni volontarie saranno tenute in considerazione, si vedrà che la gran parte del commercio mondiale non è un libero scambio di beni basato sui prezzi di mercato. In un modo o in un altro, va “massaggiato” e regolato, governato esplicitamente dai governi e internamente dalle corporations multinazionali o più spesso da entrambi questi soggetti in una collaborazione discreta...

Anche il discorso politico convenzionale, specialmente negli USA, insiste nell’ignorare la realtà e fornisce il ritratto di un mondo che sta marciando progressivamente verso un sistema sempre di più liberalizzato.[64]

 

Un sostenitore del capitalismo, ma critico dei suoi “eccessi”, Edward Luttwack è ancora più schietto di Greider, enfatizzando le affinità tra la competizione economica e quella politica:

 

Il paradosso del peggioramento nell’atmosfera dei rapporti, nel bel mezzo di una crescita di prosperità di un commercio mondiale sempre più liberalizzato, non dovrebbe sorprendere. Il commercio conduce all’interdipendenza che non garantisce l’armonia come i suoi celebratori hanno sempre proclamato; al contrario conduce a irritazioni...

La guerra, così è in qualche misura differente dai commerci, ma non abbastanza, evidentemente. In particolare un ciclo di azione-reazione delle restrizioni commerciali che evoca una ritorsione, ha una netta somiglianza con l’escalation di crisi che possono portare apertamente alla guerra...

Sicuramente molti in realtà credono che le economie dei maggiori Stati sono in definitiva troppo interdipendenti per permettere avventure geo-economiche... Ma purtroppo l’interdipendenza, cresciuta così facilmente alla fine dell’era della Guerra Fredda, quando la compenetrazione economica di ogni campo era il naturale accessorio del confronto strategico tra le potenze, non garantisce niente a nessuno.

Non esistevano economie più interdipendenti di quelle francesi e tedesche nell’agosto del 1914...[65]

 

Infatti il tramonto della Guerra Fredda e in ritorno al mondo multipolare della competizione tra le “grandi potenze” richiama il periodo precedente la Prima Guerra Mondiale. Altri hanno affermato invece che l’integrazione economica potrebbe porre fine all’economia di distruzione e ai conflitti militari. La realtà ha avuto presto ragione di questi punti di vista. Ciò non vuol dire comunque che il mondo si trovi oggi sul precipizio di una guerra mondiale: siamo lungi dal pensarlo. Comunque, mentre gli USA mantengono (e si sforzano di mantenere) il dominio militare, la fine della Guerra Fredda e l’ascesa del Giappone e della potenza economica europea in qualche modo produce nel futuro la possibilità di una ridefinizione delle forze economiche e militari nel quale altre potenze facciano valere un ruolo militare più indipendente negli affari mondiali. Questa è certamente l’implicazione dei piani europei per la creazione di una forza di reazione rapida al di fuori del controllo della NATO ovvero sia gli USA.

Le tesi che abbiamo qui sostenuto, e cioè che l’imperialismo rimane la concezione fondamentale per comprendere il carattere della globalizzazione, sono un correttivo cruciale dell’idea secondo cui le corporations avrebbero sostituito, o siano in corso di farlo, lo Stato. Per esempio si potrebbe tentare di vedere il WTO come un qualche tipo di istituzione sopranazionale alle dirette dipendenze delle corporations “senza Stato”. Ma questo sarebbe un punto di vista completamente sbagliato. Non solo il WTO è costituito dalle rappresentanze commerciali di 140 Stati, ma al suo interno sono gli stati più potenti a tenere in mano il pallino. Come ha spiegato Martin Khor,

 

il GATT e il WTO sono stati dominati da un pugno di grandi nazioni industrializzate. Spesso questi potenti paesi negoziano e prendono decisioni tra di loro e poi cercano di conquistare al funzionamento di queste (a volte esercitando intense pressioni) un numero selezionato dei più importanti o influenti paesi in via di sviluppo. Molti dei membri del WTO non possono essere invitati a questi “meetings informali” e potrebbero anche non venire mai a sapere di questi meetings o delle decisioni che vi si prendono al loro interno. Quando un accordo è raggiunto tra un gruppo relativamente piccolo di paesi, le decisioni hanno poi la possibilità di essere ratificate più facilmente attraverso i vari comitati.[66]

 

Tutti i discorsi sulla libertà del commercio mondiale e la proliferazione dei trattati bilaterali e regionali negli ultimi dieci anni, non hanno a che fare con il libero commercio ma piuttosto con i vantaggi commerciali per gli stati più potenti e le loro corporations transnazionali. In questo processo la sovranità degli Stati più deboli potrebbe essere stata calpestata ma ciò non è sicuramente avvenuto per gli stati più potenti.

Questi punti di vista non solo non affrontano con precisione la natura di istituzioni quali il WTO ma possono nutrire un certo tipo di nazionalismo che invita il popolo a stringersi intorno al “proprio” Stato. In America, dove le lotte contro il NAFTA e il FTAA devono essere legati all’opposizione ai tentativi americani di dominare l’America Latina e altre parti del mondo, un tale punto di vista rappresenterebbe regresso per il movimento. Quando il governo americano decide di onorare una direttiva del WTO che spazza via le protezioni ecologiche e sociali, dobbiamo avere chiaro che questo è un attacco delle corporations ai lavoratori e ai poveri - sotto la conveniente copertura che “è la globalizzazione che ci porta a far ciò” - e non, come afferma il nazionalista di destra Pat Buchanan una conseguenza del fatto che l’America si sarebbe “arresa” agli stranieri.

Il nostro compito deve essere quello di costruire un movimento che unisca i lavoratori e i popoli oppressi oltre le frontiere, per sfidare le priorità del capitalismo mondiale, senza cadere nella trappola nazionalista della “difesa” della sovranità americana.

L’alternativa non è quella di ritornare a una (inesistente) epoca d’oro in cui gli Stati erano sovrani e c’era un briciolo d’intervento dello Stato che assicurava il salario sociale. Queste politiche furono adottate dalle classi dominanti sulla base di un boom di lunga durata o sull’onda di crisi devastanti e guerre. Queste politiche erano state create per assicurare un funzionamento omogeneo del capitalismo. La crisi degli anni ’70 ha suggerito alle classi dominanti la necessità di trovare altre strade per recuperare le conquiste realizzate dalle lotte operaie e restaurare il profitto a spese del mondo dei poveri e degli oppressi. Queste politiche sono continuate anche quando il capitalismo è tornato a crescere negli anni ’80 e negli anni ’90. In realtà il boom degli anni ’90 era basato in larga parte sulle feroci riduzioni degli indennizzi per i lavoratori e del salario sociale.

Non solo il capitalismo mondiale è ancora oggi definito dalla rivalità tra gli stati e dalla competizione economica, ma per certi versi la globalizzazione può essere interpretata come un’intensificazione della competizione internazionale. Come in passato, la competizione economica e i conflitti militari non sono fenomeni separati bensì l’espressione di una dinamica centrale del sistema. Non ci possono essere soluzioni puramente nazionali alla crisi del capitalismo internazionale. Il sistema è veramente globale; la risposta lo deve essere altrettanto. E ciò rende la parola d’ordine di Marx nel Manifesto Comunista ancora più importante di prima: “I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi, unitevi!”[67]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



 

John Pilger

 

Lo Stato è più potente che mai

 

John Pilger è un regista pluripremiato di documentari, giornalista e scrittore. Scrive regolarmente per il Guardian (GB) ed è autore di molti libri.

 

C’è una idea alla moda tra i media secondo la quale il mondo sarebbe sotto il controllo di gigantesche corporations multinazionali, che non risponderebbero di fronte a nessuno. “I governi sono ridotti a giocare il ruolo di servili lacchè del grande business” ha scritto recentemente il finanziere dissidente Noreena Hertz. Anche il governo americano avrebbe ceduto il potere statale, dice la Hertz, facendo riferimento “alla vergognosa ossequiosità verso le grandi corporations dell’energia”. Malgrado però gli eclatanti esempi del moderno potere delle corporations – la Motorola, per esempio, ha un fatturato annuale uguale alle entrate di un paese di 118 milioni di abitanti come la Nigeria – sarebbe folle credere che il grande business stia forgiando da solo il nuovo ordine mondiale. Ciò ha permesso di dire che gli argomenti contro la globalizzazione sarebbero prepolitici, si ridurrebbero alle singole questioni del “commercio etico” e dei “codici di condotta”, in breve, si è cercato di cooptarlo. Questo punto di vista non fa i conti con il fatto che il potere degli Stati in Occidente sta aumentando.

“La globalizzazione non significa impotenza dello Stato,” scrive l’attivista ed economista russo Boris Kagarlitsky, “ma dismissione da parte dello Stato delle sue funzioni sociali a favore di quelle repressive, l’irresponsabilità da parte dei governi e la fine delle libertà democratiche”. L’idea di un indebilimento dello Stato è eccitante ma in realtà rappresenta una cortina fumogena sollevata dai designers del moderno potere centralizzato. Margaret Thatcher concentrava il potere esecutivo mentre affermava il contrario; Tony Blair ha fatto lo stesso. Il progetto europeo si riassume nella estensione delle frontiere dello Stato. La Cina totalitaria ha abbracciato il “libero” mercato mentre consolida il suo vasto apparato statale. Le autocrazie di Singapore e della Malesia hanno fatto lo stesso mentre stavano crescendo più rapidamente (non a caso Blair è un ammiratore di Singapore).

Ma è lo Stato americano ad aver sorpassato tutti: non è mai stato così potente. L’idea secondo cui George Bush sia “ossequioso verso le grandi multinazionali dell’energia” (e dovrebbe vergognarsi di se stesso) è bizzarra. La Big Oil, come le grandi industrie belliche e il grande agrobusiness, hanno sempre avuto un loro spazio alla Casa Bianca e nel governo americano. È il modello americano. Senza il patronato del governo, alcune delle più maggiori corporations sarebbero fallite. La Cargill Corporation, che domina il commercio del grano, non godrebbe di una opzione di monopolio se per anni non ci fossero stati dei forti sussidi all’agrobusiness americano o se il governo USA non avesse utilizzato “gli aiuti alimentari” per sovvertire l’agricoltura nei paesi in via di sviluppo.

Fu lo Stato americano trionfante che modellò l’attuale global economy a Bretton Woods nel 1944, in modo tale che le sue forze armate e le sue corporations avessero accesso illimitato ai minerali, al petrolio, ai mercati, e alla forza-lavoro a basso costo. Nel 1948 il decano dei pianificatori imperiali, George Kennan, scrisse: “Noi abbiamo il 50% della ricchezza mondiale ma solo il 6,3% della popolazione. In questa situazione il nostro compito fondamentale nel prossimo periodo è quello di creare un modello di relazioni che ci permetta di mantenere questa situazione di disparità.  Per far ciò dobbiamo smettere di essere sentimentali con tutti... Dobbiamo smetterla di pensare ai diritti umani, all’accrescimento dei livelli di vita e alla democratizzazione.” La Banca Mondiale e il FMI furono inventati come strumenti di questa strategia. La loro sede è a Washington, dove sono collegati con un cordone ombelicale al Tesoro USA, che si trova pochi isolati più avanti. È lì che la globalizzazione della povertà e l’uso del debito come arma di controllo sono stati concepiti. Quando John Maynard Keynes, il rappresentante britannico a Bretton Woods, propose una tassa sulle nazioni creditrici, intesa a prevenire una situazione in cui i paesi poveri sarebbero caduti nell’indebitamento perpetuo, si sentì rispondere dagli americani che, se avesse insistito, la Gran Bretagna non avrebbe ottenuto i prestiti di guerra di cui aveva disperatamente bisogno. Più di mezzo secolo dopo, il divario tra il 20% più ricco dell’umanità e il 20% più povero è raddoppiato;  e i “programmi di aggiustamento strutturale”  hanno garantito un “impero debitorio”  più grande di quello dell’Impero britannico al suo zenit.

Il pericolo di un punto di vista “moderato”, che ne rifiuti di prendere atto della rapacità tout-court della potenza statale Occidentale, è quello della cooptazione e del recupero. La Banca Mondiale e il FMI, ora sotto assedio come mai era successo prima, hanno creato delle loro tattiche di sopravvivenza. Improvvisamente, il FMI, il più grande pescecane dei prestiti, ha cominciato a  dare a intendere di essere una Madre Teresa istituzionale, che ha la missione di “sconfiggere la povertà”. Insieme con la Banca Mondiale e il WTO, sta ora promuovendo il dialogo con le organizzazioni non governative (ONG) “moderate” che si oppongono alla globalizzazione, concededo loro la palma di “serie oppositrici” in contrasto con gli “hooligans” delle strade. Il Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale di Clare Short utilizza la tattica di cooptare  i leades delle ONG  con “consulenze” o anche commissionando loro dei contributi per i libri bianchi governativi. Questa collaborazione non dovrebbe essere sottovalutata. In seguito all’attacco vincente al WTO portato a Seattle due anni fa, più di 1200 gruppi e organizzazioni di 85 paesi hanno invitato a una “moratoria” dell’ulteriore liberalizzazione del commercio e a una “verifica” delle politiche del WTO come primo passo per la sua riforma. Il WTO e i suoi creatori a Washington erano felicissimi, perché così non si metteva in discussione la loro legittimità.Tuttavia questa struttura riservata e completamente non democratica è la predatrice più rapace inventata dalle potenze imperiali. L’Economist l’ha definita “l’embrione del governo mondiale”, un governo non eletto da nessuno. Guardatevi dai moderati.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 9 luglio sul Guardian (GB). Riproduzione autorizzata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



 

Gregory Palast

 

Il globalizzatore venuto dal Freddo

 

Gregory Palast,è un giornalista riconosciuto a livello internazionale, e cura la rubrica “Inside Corporate America” (I retroscena dell’America delle corporations) sul settimanale Observer (Londra). Questa rubrica e ulteriori informazioni sono disponibili sul sito: www.GregPalast.com.

 

“Ha condannato la gente a morte”, mi disse l’ex apparatčik.

Sembrava una scena tratta da Le Carré. Un brillante agente anziano arriva dal Freddo passa dalla nostra parte e con un resoconto di ore e ore, libera la memoria degli orrori commessi in nome di un’ideologia che ora riconosce come corrotta. Ma questa volta non si trattava di una vecchia spia reduce dalla Guerra Fredda: Joseph Stiglitz era stato niente di meno che il principale economista della Banca Mondiale. In larga misura, il nuovo ordine economico mondiale era il risultato pratico della sua teoria.

Questa settimana Stiglitz si trova a Washington in occasione dello Spring Ministerial, la grande affabulatoria della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Ma invece di presiedere le riunioni di ministri e i grandi banchieri, Stiglitz è stato trattenuto fuori dai cordoni blu della polizia, insieme alle suore che trasportavano una grande croce di legno, ai leader sindacali della Bolivia, ai genitori delle vittime dell’Aids a agli altri manifestanti dell’ “antiglobalizzazione”.

Due anni fa, la Banca Mondiale lo ha liquidato. Non ha potuto neppure godersi in pace la pensione; il ministro del Tesoro degli Stati Uniti pretese infatti una pubblica scomunica poiché Stiglitz aveva cominciato a esprimere un timido dissenso alla globalizzazione così come interpretata dalla Banca Mondiale.

Qui, a Washington, abbiamo terminato l’ultima di diverse ore di interviste esclusive a Stiglitz per l’Observer e per il programma serale di attualità “Newsnight” della BBC sulle reali attività interne del FMI, della Banca Mondiale e del ministero del Tesoro, proprietario al 51% della Banca Mondiale.

E qui, da fonti che non ci è permesso citare (non Stiglitz), abbiamo ottenuto un plico di documenti classificati come “Riservato”, “Segreto”, e “Vietato divulgarlo senza l’autorizzazione della Banca Mondiale”. Stiglitz ci ha aiutato a tradurne uno dal burocratese, il “Country Assistance Strategy” (Strategia per l’assistenza ai paesi terzi). Esiste una strategia di assistenza per tutte le nazioni povere del mondo, formulata, a detta della Banca Mondiale, dopo un attento studio condotto nel paese in oggetto. Ma, secondo Stiglitz, che di queste cose sarà certo a conoscenza, lo “studio” per il personale della Banca si limita a un’accurata ispezione negli alberghi a 5 stelle del paese in questione. Si conclude con l’incontro fra il personale della Banca e un ministro delle Finanze ridotto all’elemosina per via della bancarotta, al quale viene offerto un “accordo di ristrutturazione” predefinito, ma da firmare “volontariamente”, s’intende.

L’economia di ogni nazione viene analizzata separatamente. In seguito, continua Stiglitz, la Banca consegna a ogni ministro il medesimo programma basato su quattro punti. Punto primo: la privatizzazione, che Stiglitz ritiene potrebbe essere più precisamente definita come “bustarellizzazione”. Anziché protestare contro la liquidazione delle industrie statali, afferma Stiglitz, i leader nazionali, utilizzando le richieste avanzate dalla Banca Mondiale per far tacere le critiche locali, sbolognano senza tanti problemi le società elettriche e idriche. “Dovevate vedere i loro occhi spalancarsi” alla prospettiva di commissioni del 10% versate sui loro conti svizzeri, solo per avere abbassato di qualche miliardo il prezzo di vendita dei beni nazionali. Il governo degli Stati Uniti questo lo sapeva benissimo, accusa Stiglitz, almeno in occasione della più grande di tutte le “bustarellizzazioni”: la svendita della Russia nel 1995. “Secondo il ministro del Tesoro si trattava di un’occasione d’oro, giacché volevamo che Eltsin fosse rieletto. Non importa se si tratta di un’elezione corrotta. Vogliamo che i soldi vadano a Eltsin”, sottobanco per la sua campagna elettorale. Stiglitz non è un pazzo esaltato che inveisce contro i “Black Helicopters”. Quest’uomo operava all’interno di tutto questo gioco ed era un membro del gabinetto di Bill Clinton, in qualità di capo del consiglio dei consulenti economici del presidente.

La cosa peggiore, secondo Stiglitz, è che l’oligarchia, con l’appoggio degli Stati Uniti, ha smantellato il patrimonio industriale della Russia, portando a un intreccio corruttivo che ha quasi dimezzato la produzione nazionale. Dopo la bustarellizzazione, il secondo punto del programma FMI/Banca Mondiale e del suo “piano universale per salvare qualunque economia nazionale” consiste nella “liberalizzazione del mercato dei capitali”. In teoria, la deregulation del mercato dei capitali permetterebbe agli investimenti a scorrere dentro e fuori il paese.

Sfortunatamente, però, proprio come in Indonesia e in Brasile il denaro in Russia fluiva solamente all’esterno. Stiglitz lo chiama il ciclo del “denaro che scotta”. Il denaro liquido entra nel paese per le speculazioni di beni immobili e valuta, per poi fuggire al primo sentore di guai. Le risorse di una nazione possono essere prosciugate nel giro di pochi giorni, se non di ore. E quando accade, per invogliare gli speculatori a riportare i fondi di capitale nel paese di origine, il FMI chiede a queste nazioni di alzare i tassi d’interesse al 30, 50 e 80%.

“Il risultato era prevedibile”, dice Stiglitz a proposito dei veri e propri maremoti finanziari che hanno colpito l’Asia e l’America Latina. L’aumento dei tassi d’interesse ha distrutto il valore degli immobili, ha stremato la produzione industriale e ha prosciugato le tesorerie nazionali. Ma a questo punto entra in scena il FMI, che trascina la nazione boccheggiante al terzo punto del suo piano: prezzi fissati dal mercato, un elegante eufemismo per l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, acqua e gas d’uso domestico. Ciò conduce, inevitabilmente, al terzo punto e mezzo, che Stiglitz chiama la “rivolta del FMI”.

La rivolta del FMI è penosamente prevedibile. Quando una nazione è “allo stremo, [il FMI] se ne avvantaggia, spremendole l’ultima goccia di sangue. Poi alza la fiamma, finché l’intero calderone non esplode”, come quando nel 1998 il FMI ha tolto i sussidi per cibo e combustibile ai poveri in Indonesia.

In questo paese scoppiarono tumulti, ma si trovano altri esempi. le rivolte boliviane sul prezzo dell’acqua lo scorso anno, e, il febbraio scorso, quelle in Ecuador contro gli aumenti dei prezzi del gas d’uso domestico imposti dalla Banca Mondiale. Si ha quasi l’impressione che anche le rivolte siano previste dal piano.

E lo sono. Ciò che Stiglitz non sapeva era che, mentre si trovava negli Stati Uniti, “Newsnight” aveva ottenuto diversi documenti da una fonte all’interno della Banca Mondiale, siglati con quei noiosi avvertimenti: “Riservato”, “Segreto”, “Da non divulgare”. In uno dei documenti, che riguardava la “Interim Country Assistance Strategy” (strategia per l’assistenza interinale ai paesi terzi) destinata lo scorso anno all’Ecuador, la Banca sottolinea più volte – con fredda precisione – che ci si poteva aspettare come conseguenza dei piani lo scoppio di “fermenti sociali”, per usare il termine burocratico con cui definire una nazione in rivolta.

Questo non dovrebbe sorprendere. Il rapporto segreto osserva che il piano per rendere il dollaro statunitense la moneta corrente in Ecuador aveva spinto il 51% della popolazione al di sotto della soglia di povertà. L’“assistenza” offerta dalla Banca Mondiale chiede semplicemente di affrontare le conseguenze negative della contesa civile e soffrire con “risolutezza politica” – e naturalmente a prezzi ancora più alti.

Le rivolte provocate dal FMI (e per “rivolte” intendo manifestazioni pacifiche disperse a suon di pallottole, carri armati e gas lacrimogeni) causano panico e nuove fughe di capitali e la bancarotta dei governi. Questo incendio doloso dell’economia ha il suo aspetto positivo - per gli stranieri che possono avvantaggiarsi dei beni restanti, per esempio concessioni per due o tre miniere o per un paio di porti, svendute a prezzi irrisori.

Stiglitz osserva che il FMI e la Banca Mondiale non sono sostenitori insensibili delle economie di mercato. Se da una parte impedivano all’Indonesia di sovvenzionare gli acquisti di generi alimentari, “quando alle banche occorrono urgenti aiuti finanziari, l’intervento [nel mercato] è più che benvenuto”. Il FMI ha scroccato circa 100 miliardi di dollari per salvare i finanzieri dell’Indonesia e, in ultima analisi, anche le banche statunitensi creditrici di Stati Uniti ed Europa. Emerge un disegno. Ci sono molti perdenti in questo sistema ma un netto vincitore: le banche dell’Occidente e il Ministero del Tesoro statunitense, che fanno soldi a palate con questo nuovo pazzo guazzabuglio del capitale internazionale. Stiglitz mi ha raccontato dell’infelice incontro, ai primi tempi del suo incarico alla Banca Mondiale, con il nuovo presidente democratico dell’Etiopia. La Banca Mondiale e il FMI avevano ordinato all’Etiopia di dirottare gli aiuti in denaro sul conto di riserva presso il ministero del Tesoro statunitense, che paga un misero interesse del 4%, mentre la stessa Etiopia prendeva simultaneamente a prestito dollari statunitensi a un tasso del 12% per sfamare la popolazione.

Arriviamo così al quarto punto di ciò che il FMI e la Banca Mondiale chiamano “strategia di riduzione della povertà”: il libero mercato. Si tratta del libero mercato, così come è configurato dalle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e della Banca Mondiale, che Stiglitz, paragona alle guerre dell’oppio. “Anche allora si trattava dell’apertura dei mercati”, spiega. Come nel diciannovesimo secolo, oggi gli europei e gli americani stanno abbattendo gli ostacoli alle vendite in Asia, America Latina e Africa, mentre alzano barricate ai loro mercati per difenderli dai prodotti agricoli del Terzo Mondo. Nelle guerre dell’oppio, l’Occidente utilizzò blocchi militari per imporre l’apertura dei mercati ad uno scambio diseguale. Oggi la Banca Mondiale può ordinare un blocco finanziario, altrettanto efficace e talvolta altrettanto letale dei blocchi militari del passato.

Stiglitz è particolarmente turbato dinanzi al trattato sui diritti di proprietà intellettuale del WTO – TRIPS. È qui, dice l’economista, che il nuovo ordine globale ha “condannato a morte la gente” imponendo tariffe astronomiche e tributi da versare alle società farmaceutiche per i medicinali di marca. A questo proposito, non lasciatevi confondere dall’associazione fra FMI, Banca Mondiale e WTO. Sono tutte maschere intercambiabili di un unico sistema di controllo. Si sono saldati assieme per mezzo di quello che hanno disgustosamente chiamato “triggers” (scatti). Prendendo un prestito dalla Banca Mondiale per una scuola, “scatta” l’obbligo di accettazione di tutte le “condizioni” (ce ne sono una media di 111 per nazione) formulate sia dalla Banca Mondiale sia dal FMI, incluse politiche finanziarie persino più punitive di quelle del WTO.

La più grande preoccupazione per Stiglitz è che i piani della Banca Mondiale, progettati in segreto e guidati da un’ideologia assolutista, non sono mai aperti alla discussione o al dissenso. A dispetto degli sforzi dell’Occidente, per favorire lo svolgimento di elezioni democratiche in tutti i paesi in via di sviluppo, i cosiddetti Poverty Reduction Programs (Programmi di riduzione della povertà) “minano la democrazia”. E soprattutto non funzionano. La produttività dell’Africa Nera sotto la guida dell’“assistenza” strutturale del FMI sta andando letteralmente allo sfascio, essendo le entrate del continente scese del 23% negli ultimi due decenni.

Qualche nazione è riuscita a evitare questo destino? Sì, dice Stiglitz, indicando il Botswana. Il trucco? “Hanno detto al FMI di fare le valigie e tornarsene a casa.” Allora ho domandato a Stiglitz. Va bene, esimio professore, allora cosa farebbe Lei per aiutare lo sviluppo delle nazioni? Stiglitz ha proposto radicali riforme agrarie, un attacco al cuore del “latifondismo”, alle rendite dalle oligarchie fondiarrie in tutto il mondo, per tradizione il 50% dei raccolti di una tenuta. Così, ho dovuto chiedere al professore: “Dal momento che Lei era il primo economista della Banca Mondiale, perché la Banca non ha seguito il Suo consiglio?”, “Sfidare [la proprietà terriera] comprometterebbe il potere delle élites. Chiaramente non è una priorità nella loro agenda.” No, pare proprio di no.

Ciò che in ultima analisi lo ha spinto a mettere a repentaglio la sicurezza del suo impiego è stata l’incapacità delle banche e del ministero del Tesoro statunitense di cambiare rotta di fronte alle crisi – o per meglio dire le privazioni e le sofferenze causate dal loro “mambo” monetarista a quattro stadi. Ogni volta che le loro soluzioni di libero mercato sono fallite, il FMI si è limitato semplicemente a chiedere altre politiche liberiste. “È un po’ come nel Medioevo” mi ha detto Stiglitz. “Di fronte al paziente morto, dicevano: ‘Hanno terminato il salasso troppo presto, aveva ancora un po’ di sangue nelle vene.” La soluzione alla povertà e alla crisi del mondo, quindi, è davvero semplice: eliminiamo le sanguisughe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Geoff Bailey

 

Gli americani consumano troppo?

 

Geoff Bailey fa parte del Comitato Esecutivo del Global Action Network di Boston ed è membro dell’International Socialist Organization.

 

Alcuni americani consumano troppo, è vero. Lo scorso anno nella casa di Bill Gates, che costa 63 milioni di dollari, sono stati consumati 17.766.000 litri d’acqua. La bolletta è stata di 24.828 dollari. Se vogliamo prendere un altro esempio, in un recente articolo della rivista Forbes si parla di un miliardario tedesco il quale possiede un ranch in Arizona di oltre 20 ettari acri che usa per conservare la sua collezione privata di veicoli militari della Seconda Guerra mondiale.[68]

Quando George Bush dice che la sua amministrazione deve costruire centrali nucleari e per mettere l’estrazione del petrolio nell’Arctic National Wildlife Refuge[69] perché non può chiedere agli americani di sacrificare la loro qualità della vita, pensa solo alla gente di cui sopra. Il livello di vita che egli è stato eletto per difendere, è quello dei ricchi.

Mentre Bush rifiutava il Protocollo di Kyoto per conto dei suoi amici petrolieri in Texas, per la prima volta lo scorso inverno il buco dell’ozono ha raggiunto la superficie del nostro pianeta. Recenti studi suggeriscono che entro il 2100 il clima globale potrebbe crescere da tre a dieci e più gradi Fahrenheit.[70] È un cambiamento persino più profondo da quello avutosi durante l’ultima era glaciale. Chiaramente siamo di fronte a una situazione nella quale non solo la nostra qualità della vita ma anche la stessa esistenza del nostro pianeta è in pericolo.

È quasi un luogo comune darne la colpa, almeno in parte, ai consumi del popolo di questo paese, e non solo più ricchi. Si pensa subito al numero di automobili in circolazione o alle montagne di cibo che finiscono nella spazzatura. C’è sicuramente la tentazione di affermare che noi tutti siamo parte del problema. Dopotutto le nazioni industrializzate con un quinto della popolazione mondiale consumano i due terzi delle risorse globali e producono quattro quinti dei rifiuti e dell’inquinamento.[71] Ma in effetti ciò non spiega nulla. Non basta constatare che un quinto della popolazione mondiale consuma i due terzi delle risorse del pianeta. Bisogna chiedersi: chi sta consumando? Cosa si consuma, e perché? E, fatto ancora più importante, chi trae vantaggio da questa situazione?

Prendiamo l’esempio del cibo. La percezione comune è che gli americani consumino una straordinaria quantità di cibo e che buona parte di questa venga sprecata, semplicemente gettata via. Ne conseguirebbe quindi che, se si consumasse meno cibo negli USA, nel mondo più gente potrebbe essere nutrita. Prima di tutto bisogna precisare a questo proposito che non tutti gli americani sono ben nutriti. La ricchezza in questo paese è più concentrata che in qualsiasi altro periodo dai tempi della Depressione: l’1% delle famiglie più ricche possiede circa il 40% della ricchezza nazionale. È più del doppio di quanto possiede l’80% meno benestante del paese.

Secondo il Dipartimento dell’Agricoltura, nel 1998 circa 36 milioni di persone in tutto il paese non avevano un adeguato accesso al cibo. Ed è ancora peggio per quanto riguarda i bambini. Un quinto dei giovani sotto i 18 anni vive in case dove il cibo è scarso.[72] Come ha scritto Anuradha Mittal, “Le nazioni del Sud del mondo non sono le sole vittime [...] c’è anche un Sud del Nord, proprio qui negli Stati Uniti.”[73] Per molta gente il problema non è di consumare troppo cibo ma di non consumarne abbastanza.

 Ma cosa succederebbe se gli americani, complessivamente, sprecassero meno cibo? Prima di tutto dobbiamo chiederci se la ragione per cui la gente patisce la fame è da attribuire alla scarsità di cibo. Secondo le Nazioni Unite, dopo la Seconda Guerra Mondiale la produzione di cibo ha superato la crescita della popolazione.[74] Infatti, anche nel Terzo Mondo dove la fame è più concentrata, molti paesi producono troppo cibo. Secondo l’Associazione Americana per il Progresso Scientifico, il 78% dei bambini malnutriti sotto i cinque anni vive in paesi dove esiste un surplus di cibo.[75] Persino al culmine delle carestie in Somalia, Chad, Bangladesh e India, ognuno di questi paesi ha continuato a esportare più cibo di quanto ne importasse.

Nel mondo cosiddetto in via di sviluppo, la gente soffre la fame non perché non ci sia cibo, ma in quanto le economie di questi paesi sono vincolate a coltivare prodotti destinati ai mercati esteri. E anche nei paesi industrializzati, dove gran parte di quel cibo viene importato, il problema non è quello della scarsa produzione di cibo, ma l’opposto. Il governo USA conserva montagne di grano che non raggiungeranno mai le bocche affamate. E ogni anno migliaia di tonnellate di burro, formaggio e latte vengono lasciate putrefare per gonfiare i prezzi.[76]

Quindi chi trae vantaggio da questo stato di cose? Non certo il coltivatore medio. Tra il 1987 e il 1992, infatti, ogni anno 38.500 fattorie a conduzione familiare hanno fatto bancarotta.[77] Oggi, gran parte dell’agricoltura è controllata dall’agrobusiness. Per esempio due società, la Cargill e la Continental, controllano da sole il 50% delle esportazioni USA di grano[78]. E 10 cents per ogni dollaro speso in cibo finisce nelle tasche delle società della Philips Morris.[79] Anche se gli americani consumassero di meno, le corporations genererebbero la maggior parte dello spreco solo per ricavare un profitto. Consumare meno nel migliore dei casi, non basterebbe e nel peggiore dei casi indurrebbe le corporations a distruggere ancora più cibo. La ragione è spaventosamente semplice: è più economico distruggere cibo che darlo a gente che non può permettersi di acquistarlo.

Lo spreco di cibo solleva un’altra importante questione. Gran parte delle teorie che si focalizzano sul consumo sono basate su prove aneddotiche dello spreco quotidiano del consumatore che vediamo intorno a noi: il numero di automobili, l’ammontare di spazzatura, ecc. Ma per la massima parte i rifiuti e l’inquinamento non sono un prodotto del consumo ma della produzione. Per esempio, “per ogni tonnellata di rifiuti prodotti dal consumatore ci sono state probabilmente 20 tonnellate di rifiuti generati nell’iniziale estrazione di risorse e 5 tonnellate prodotte nella manifattura.[80] Non è quello che i consumatori comprano ad avere l’impatto maggiore sull’ambiente, bensì i processi e le tecnologie usati nella produzione di queste merci. Ma i consumatori possono influire ben poco su queste decisioni, che sono infatti prese nell’interesse dell’accrescimento dei profitti.[81]

Anche se i consumatori si organizzassero con successo per cambiare il processo di produzione, questa sarebbe nel migliore dei casi una misura temporanea. Prendiamo l’esempio dei cibi biologici. Le fattorie biologiche avevano esordito come un tentativo di creare una coscienza ecologica e una salutare alternativa all’agrobusiness e al cibo “modificato”. Ma Gene Kahn, uno dei pionieri delle fattorie organiche degli anni ’70, e ora vicepresidente della General Mills, spiega come, dinanzi alla crescente domanda di cibi biologici, le fattorie di questo tipo abbiano cominciato ad adattarsi: “L’intero concetto di “comunità cooperativa” che avevamo introdotto cominciò gradualmente a riprodurre le modalità operative del sistema. Fornivamo cibo al paese usando automezzi alimentati a gasolio: insomma eravamo ormai diventati coltivatori biologici industriali.”[82]

Un risultato di questo processo è stato un decreto del Dipartimento dell’Agricoltura USA che permette di classificare come biologici anche cibi trasformati con ingredienti sintetici. Si potrebbe perciò vendere un Twinkie organico.[83] Come ha affermato Roger Blobaum, “il biologico sta diventando proprio ciò a cui noi speravamo di essere alternativi”.[84] Il problema è che le strategie del consumatore sono fondamentalmente incapaci di sfidare il sistema di produzione, al più sono il rifugio temporaneo per chi ha tempo e mezzi finanziari per occuparsene.

Alcuni teorici affermano tuttavia che riducendo il consumo si potrebbe deindustrializzare. Martin Kohr sostiene che il solo modo per limitare il nostro impatto sull’ambiente è quello di limitare il consumo del mondo industrializzato:

 

Se lo si facesse, se il livello della tecnologia industriale scendesse, ci sarebbe meno bisogno di quel tremendo spreco di energia, materie prime e risorse ora indirizzate verso la produzione di beni superflui, semplicemente per sostenere la “domanda effettiva” e far sì che la mostruosa macchina economica vada avanti.[85]

 

Si parte qui dal presupposto che il capitalismo accetterebbe volontariamente una produzione e dei profitti più bassi. Ma il capitalismo ha a cuore l’esatto opposto. Nel capitalismo un’azienda deve competere con un’altra per il più alto profitto o rischia di essere estromessa dal business. Per restare in gioco si deve costantemente produrre e vendere di più.

Ciò solleva un problema fondamentale per le teorie del sovraconsumo. Qualsiasi aspetto prendano in esame, tutte queste teorie partono dall’assunto che è la domanda del consumatore a spronare il sistema, che il processo di produzione si adegua a produrre ciò che noi desideriamo. Se l’industria dell’auto sta producendo macchine di grossa cilindrata che “bevono” molto carburante, è perché siamo noi a volerlo. Se la foresta tropicale sta scomparendo, è perché non riusciamo a fare a meno di cassette e contenitori per portarci a casa la spesa. Ma nel capitalismo non ci sono altre vie. Cosa desidera il consumatore è importante solo nella misura in cui i capitalisti devono vendere i loro prodotti per realizzare profitti. Per non essere buttati fuori dal business, i capitalisti devono vendere sempre maggiori quantità di merci e quindi anche cercare nuovi e più ampi mercati. Come scrive Marx nel Manifesto del Partito Comunista:

 

Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per tutti i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.

Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. [...] Ai vecchi bisogni [...] subentrano nuovi bisogni, che per essere soddisfatti esigono prodotti dei paesi e dei climi più lontani.[86]

 

Non solo questa è una eccellente descrizione della globalizzazione del capitalismo, ma coglie anche il modo in cui il sistema costantemente estirpa tutte le vecchie pratiche, creando nuovi bisogni e distruggendo le alternative. Un esempio è dato dal modo in cui l’agrobusiness sta usando le modificazioni genetiche per distruggere l’agricoltura contadina di sussistenza e creare un mercato per le sementi provenienti dall’estero.

Per secoli i contadini hanno conservato le sementi del raccolto di un anno per riseminarle l’anno seguente. Ma usando le modificazioni genetiche e i recenti cambiamenti nelle leggi dei brevetti, corporations come Cargill o Monsanto stanno forzando i coltivatori a comprare nuove sementi ogni anno, creando così un nuovo mercato per i loro prodotti. Come ha affermato l’ecologista marxista John Bellamy Foster, “quello che noi consumiamo dipende dalla natura della produzione piuttosto che il contrario.”[87]

Uno dei migliori esempi di questo meccanismo è il successo dell’automobile. Le automobili private sono responsabili di circa il 30% delle emissioni di biossido di carbonio e dell’inquinamento atmosferico ogni anno.[88] Molti attivisti ed esperti di quest’industria si sono concentrati sulla passione degli americani per l’automobile. Ma come scrive Foster:

 

Questa “passione” il più delle volte è un segno della disperazione che si avverte di fronte a possibilità di scelta estremamente limitate. I modi in cui sono stati costruiti auto, strade, sistemi di trasporti pubblici, centri urbani, periferie e centri commerciali spesso non lasciano altra scelta alla gente che guidare, se vogliono poter vivere e lavorare.[89]

 

Quando Henry Ford introdusse la produzione di massa nell’industria automobilistica, tagliò i prezzi e ciò rese le auto per la prima volta alla portata della massa dei consumatori. Ma dal 1926 l’industria entrò in recessione. Le vendite erano cresciute tra i ricchi e nelle classi medie dei sobborghi, ma nelle città si aveva accesso al trasporto pubblico e quindi c’era scarso bisogno di un’auto. Così l’industria dell’auto e quella del petrolio si allearono per creare un nuovo mercato.[90] All’inizio degli anni ’30 la General Motors cominciò a rilevare un alto numero di sistemi di trasporto pubblico, attraverso una compagnia chiamata Yellow Truck & Bus Company, smantellando il vecchio sistema tranviario e sostituendolo con gli autobus. Usò anche il suo pacchetto di controllo della Greyhound Bus Company e il quasi monopolio nella produzione delle locomotive, per subordinare il traffico ferroviario e degli autobus a vantaggio delle auto e quello dei camion per il commercio tra i centri urbani. Come scrive Foster, la GM “decise consciamente di vendersi sottocosto rispetto alla concorrenza per il trasporto di massa intercittadino, per trarre più alti profitti con la produzione automobilistica.”

La GM e la Standard Oil furono riconosciute colpevoli di aver violato la legge antitrust e furono multate di 5.000 dollari ognuna. Ma il danno ormai era stato fatto. Il trasporto pubblico in 47 città era stato smantellato e le macchine e i camion ormai dominavano il traffico intercittadino. Questo a sua volta, mutò il corso dello sviluppo delle città, distruggendo la divisione tra città e periferia e portando alla crescita di quella che è oggi è conosciuta come “urban sprawl”.[91] Attualmente oltre l’80% dei lavoratori americani si reca al lavoro con l’automobile e la casalinga media guida, per svolgere le commissioni, per più di 150 chilometri alla settimana.[92] L’auto non è più un lusso, ma una necessità.

Ma la creazione di nuovi mercati e di nuovi prodotti ha un aspetto progressivo che è trascurato dalle teorie del sovraconsumo. Nella sua ricerca di nuovi prodotti il capitalismo sviluppa nuove tecnologie che potenzialmente possono ripulire l’ambiente, alleviare le malattie e ridurre la necessità del lavoro umano. I musei, l’arte, la televisione, la radio e ora internet sono diventati disponibili ai lavoratori. E nella sua ricerca in tutto il mondo di nuovi mercati il capitalismo distrugge le vecchie barriere e i pregiudizi, dà al mondo un “carattere più cosmopolita” e permette la quasi istantanea comunicazione sul pianeta.

Ma naturalmente, anche se il capitalismo crea tutto ciò, allo stesso tempo impedisce alla maggioranza della gente del mondo di avervi l’accesso. Come il re Mida nella sua sete insaziabile ricchezza, anche il capitalismo corrompe tutto ciò che tocca. I prodotti che la gran parte della gente può permettersi sono economici e scadenti E invece di una cultura globale che celebri la diversità e la conoscenza del mondo, ci propinano “McCulture”, un McDonald per ogni isolato e uno Starbucks[93] a ogni angolo.

Quelli che si concentrano sull’incredibile spreco che questo sistema genera hanno ragione ad attirare l’attenzione sul fatto che l’attuale espansione del capitalismo sia insostenibile. Ma quello spreco non è prodotto dagli insaziabili appetiti degli operai americani. È un prodotto della inesorabile corsa del capitalismo a generare profitti. Una soluzione che si concentri solo sulla limitazione del consumo dei lavoratori americani contrappone erroneamente le rivendicazioni dei lavoratori americani per una vita migliore a quelle dei lavoratori del Terzo Mondo.

Una soluzione che possa dirsi efficace deve basarsi sul potenziale che ci offre il capitalismo. Il nostro obiettivo non dovrebbe essere quello di abbassare il tenore di vita dei lavoratori del mondo sviluppato, ma di accrescere quello della maggioranza della popolazione mondiale. Per far ciò il tremendo potenziale creativo del capitalismo deve essere strappato dalle mani della minoranza che lo possiede e lo amministra negli interessi del profitto e per i bisogni quella stessa minoranza. Questo potenziale deve essere messo nelle mani della vasta maggioranza per essere gestito democraticamente negli interessi dell’umanità. Un tale cambiamento non potrà essere realizzato attraverso le lotte dei consumatori, dove la gente è più debole ed atomizzata, ma per mezzo delle lotte collettive dei lavoratori.

 

 

 

 

 

 


 



 

Vandana Shiva

 

Il controllo delle risorse idriche da parte di Banca Mondiale, WTO e corporations

 

Vandana Shiva dirige la Research Foundation on Science, Technology, and Ecology ed è autrice di vari libri tra cui Stolen Harvest: The Hijacking of the Global Food Supply (South End Press). Nel 1993 Shiva ricevette l’“Alternative Nobel Prize” (il riconoscimento Right Livelihood Award). Prima di dedicarsi all’attivismo, Shiva era uno dei medici più autorevoli in India. Recentementeiì in Italia è stato pubblicato il suo libro Monocolture della mente (Bollati Boringhieri, Torino, 2000).

 

Da che mondo è mondo, i grandi progetti idrici hanno arricchito i potenti ed espropriato i deboli. Anche quando questi progetti sono stati intrapresi da governi e finanziati con le nostre tasse, i beneficiari di questi progetti sono state le imprese di costruzioni, dell’industria e la grande agricoltura commerciale. Donald Worster ha coniato la definizione di “mercato truccato dello stato”, ossia lo stato capitalista che si adopera per facilitare l’accumulazione illimitata della ricchezza nelle mani dei privati.

Mentre la privatizzazione e la globalizzazione sono state accompagnate dalla retorica della scomparsa graduale dell’intervento dello Stato, ciò a cui stiamo assistendo è esattamente l’opposto: lo Stato sta intervenendo sempre più con politiche, regolamenti, legislazioni, investimenti e tecnologie per spostare il controllo delle risorse idriche del pianeta dalle comunità e dal pubblico agli interessi commerciali e delle grandi corporation.

Le politiche di privatizzazione imposte per il tramite della Banca Mondiale e le normative intese a liberalizzare il commercio, negoziate attraverso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ai sensi dell’Accordo generale sul commercio dei servizi (GATS), creano stati corporativi, ossia stati che sottraggono alla gente le risorse necessarie a soddisfare bisogni di base, mettendole nelle mani delle corporation private, allo scopo di trarre profitto dalla privatizzazione dei servizi essenziali.

 

Dopo aver creato scarsità e inquinamento promuovendo di un uso non sostenibile delle risorse idriche, ora la Banca Mondiale sta trasformando la penuria che essa stessa ha creato in una occasione di mercato per le corporation del settore idrico. Secondo le stime della Banca Mondiale, il mercato potenziale dell’acqua ammonterebbe a 800 miliardi di dollari.

Anche Monsanto, il gigante della biotecnologia, ha in programma da tempo l’ingresso nel settore idrico, in cui intravede nuove opportunità commerciali per via dell’emergente crisi dell’acqua e in virtù dei finanziamenti stanziati per mettere a disposizione della gente questa risorsa essenziale. Come dichiara un documento strategico di Monsanto:

 

In primo luogo è nostra opinione che siano probabili alcune discontinuità (rappresentate o da grandi cambiamenti di politica o da importanti inversioni di tendenza nella qualità e quantità di questo risorsa), particolarmente nell’area dell’acqua. Da parte nostra, tramite queste aziende noi saremo in un’ottima posizione per ricavare un utile ancora maggiore al verificarsi di queste discontinuità. In secondo luogo stiamo attualmente esplorando le potenzialità di schemi di finanziamento di tipo non tradizionale (ONG, Banca Mondiale, USDA, ecc.) che potrebbero essere in grado di ridurre il nostro investimento, o in alternativa, fornire risorse locali per la costituzione di aziende nei paesi interessati.

 

La tendenza da parte della Banca Mondiale ad usare i propri condizionamenti finanziari per privatizzare l’acqua e stabilire uno sfruttamento commerciale di questa risorsa coincide perfettamente con le aspirazioni di Monsanto. La Banca Mondiale si è anzi già offerta di prestare assistenza. Come conferma il documento strategico di Monsanto:

 

Siamo particolarmente entusiasti della prospettiva di una potenziale partnership con la International Finance Corporation (IFC) della Banca Mondiale, per avviare progetti in partecipazione nei mercati in via di sviluppo. La IFC è ansiosa di lavorare con Monsanto per la commercializzazione di una opportuna sostenibilità ed apporterebbe sia capitali di investimento sia alte capacità in ambito locale.

 

La crisi provocata dall’inquinamento e dall’esaurimento delle risorse idriche viene quindi vista da Monsanto come un’opportunità commerciale. Per Monsanto, “sviluppo sostenibile” significa la trasformazione di una crisi ecologica in un mercato di beni scarsi.

La logica commerciale dello sviluppo sostenibile consiste nel fatto che la crescita demografica e lo sviluppo economico eserciteranno sempre maggiore pressione sui mercati delle risorse naturali. Entro l’anno 2008, Monsanto prevede di percepire introiti di 420 milioni di dollari e un reddito netto di 63 milioni di dollari dalle attività idriche in India e in Messico. Entro l’anno 2010, si calcola che circa 2 miliardi e mezzo di persone nel mondo non avranno alcun accesso ad acqua potabile sicura. Entro l’anno 2025 l’erogazione dell’acqua in India sarà pari a 700 km3 per anno, mentre secondo le stime la domanda toccherà quota 1.050 unità. Va da sé che il controllo di questa scarsa risorsa porterà a profitti sicuri.

 

La politica di privatizzazione dell’acqua fu articolata dalla Banca Mondiale nel 1992, in un documento dal titolo “Per una migliore gestione delle risorse idriche”. La Banca ritiene che la disponibilità di acqua a basso prezzo o a titolo gratuito non sia economica né efficiente. Anche i poveri devono pagare. Come afferma la Banca Mondiale:

 

Laddove l’erogazione dell’acqua è sicuro, le persone povere sono disposte a pagare mentre... laddove questo servizio non è sicuro, i poveri pagano di più ma ricevono meno, normalmente affidandosi a venditori ambulanti. Come sottolineato nel “Rapporto sullo sviluppo mondiale 1992”, è necessario offrire alle popolazioni povere una più ampia scelta nel livello dei servizi idrici per cui sono disposte a pagare. In tal modo si offre ai fornitori una quota finanziaria nel soddisfacimento dei bisogni dei poveri. I tariffari possono essere strutturati affinché gli utenti ricevano un volume limitato di acqua a basso prezzo e paghino di più per tutta l’acqua supplementare che consumano.

 

      Questa è la logica di ridurre i diritti universali e fondamentali, come appunto il diritto all’acqua, al commercio e ai mercati, e poi “mirare” ai poveri per offrire l’accesso a un sistema che essenzialmente li esclude. Si è applicata la stessa logica nello smantellamento dei diritti sui generi alimentari in India. Tuttavia, anche se in quel caso come principale giustificazione per l’eliminazione delle sovvenzioni e alla trasformazione del sistema pubblico di distribuzione (PDS) in un sistema pubblico di distribuzione mirata (TPDS) si era addotto il taglio della spesa pubblica, la spesa pubblica è invece aumentata, così come sono aumentati i prezzi. L’unica cosa a calare sono stati i consumi dei poveri. E mentre migliaia di persone morivano di fame, nei magazzini marcivano milioni di tonnellate di granaglie.

      Proprio come nella distribuzione dei prodotti alimentari le politiche di riforma economica sono guidare dalla logica della privatizzazione promossa dalla Banca Mondiale.

      Di recente la Banca Mondiale ha varato varie riforme del settore idrico, intese soprattutto a privatizzare le risorse e a commercializzare la gestione dei servizi. Questa politica di privatizzazione raccomanda la commercializzazione delle operazioni a tutti i livelli, l’investimento privato, un sostanziale aumento dei prezzi dell’acqua, un aumento delle tariffe elettriche per l’agricoltura e la creazione di mercati per l’acqua.

      Tutte queste sono solo ricette per trasformare l’acqua in un bene economico, piuttosto che mantenerlo un bene fondamentale. La privatizzazione aggraverà la crisi dell’acqua poiché, vista la diseguaglianza fra ricchi e poveri, fra industria e agricoltura, fra città e campagne, i mercati idrici taglieranno l’acqua ai poveri per darla ai ricchi, portandola da aree rurali già impoverite a enclave urbane affluenti. Porterà inoltre all’ipersfruttamento dell’acqua, in quanto se l’accesso all’acqua sarà dettato dal mercato e non da limitazioni di rinnovabilità, il ciclo idrico sarà violato in modo sistematico e la crisi dell’acqua non farà che accentuarsi. La gestione da parte delle comunità locali è un prerequisito sia per la conservazione sia per un uso equo dell’acqua.

      Ma la Banca Mondiale, ignorando queste limitazioni di disponibilità dell’acqua e l’imperativo della sua conservazione, raccomanda invece lo spostamento da un approccio “orientato verso l’offerta” ad uno “orientato verso la domanda”. In altre parole, la domanda da parte dei ricchi avrà la meglio sui bisogni dei poveri e sulle limitazioni imposte dalla natura. La parziale applicazione di questa logica di prestiti della Banca Mondiale non sta alla radice della presente crisi. L’applicazione totale della logica della privatizzazione non allevierà certo la crisi, anzi la aggraverà.

 

L’acqua è diventata un grande business per le corporation globali, che intravedono mercati illimitati nella crescenti di scarsità e nella domanda in aumento per questa risorsa.

      Le due principali corporation del mercato dell’acqua stanno guardando con grande attenzione alla privatizzazione dei servizi pubblici per l’acqua potabile e al mercato dell’acqua in bottiglia. I due massimi nomi nell’industria dell’acqua sono Vivendi Environment e Suez-Lyonnaise des Eaux. Entrambe hanno sede a Parigi ma stanno costruendo un impero di dimensioni mondiali. Questi giganti francesi dell’acqua hanno infatti interessi in ben 120 paesi.

      Vivendi Environment, il braccio dei “servizi ambientali” di Vivendi Universal, si occupa di acqua, gestione dei rifiuti, energia e trasporti. Vivendi Universal è una società globale di comunicazioni e media attiva nei settori di TV, cinema, editoria, musica, internet, telecomunicazioni e, naturalmente, acqua. Il 20 giugno 2000 si è fusa con Seagram Co. Ltd. e con Canal Plas SA. Il 27 gennaio 2000 Vivendi si è aggiudicata un contratto valutato in 43 milioni di euro per il trattamento delle acque di scolo nella città di Berna.

      Vivendi possiede inoltre al 50% una società in partecipazione con SAUR chiamata CTSE, nella Repubblica Ceca. Le vendite nette totali sono stimate intorno ai 200 milioni di euro. Una consociata di Vivendi, Onyx, ha rilevato le operazioni di Waste Management Inc. in Messico, per la somma di 47 milioni di dollari. Vivendi ha poi acquistato da Waste Management i servizi di gestione dei rifiuti a Hong Kong e in Brasile, per la somma di 136 milioni di dollari.

      Thames Water, Biwater e United Utilities sono aziende idriche del Regno Unito attive in Asia, Sud Africa e nelle Americhe. Tuttavia, Thames è stata acquistata per oltre 6 miliardi di dollari da RWE, una grande azienda elettrica molto diversificata che ora ha fatto il suo ingresso nel settore idrico. Biwater venne costituita nel 1968. Il suo nome (“Biwater”, ossia “due acque”) intendeva rispecchiare la duplice natura delle attività dell’azienda, specializzata sia nell’acqua potabile che nelle acque di scolo.

      Negli anni ’70 Biwater stipulò contratti in Indonesia, Hong Kong, Iraq, Kenya e Melawi, mentre nel 1986 si aggiudicò il contratto per l’erogazione idrica nelle campagne della Malesia. Nel 1989 fece il suo ingresso nel mercato dell’acqua del Regno Unito, durante la privatizzazione di questo servizio da parte del governo, ma era già attiva in Messico e nelle Filippine negli anni ’40. Nel 1992 acquisì l’azienda tedesca IBO GmbH e nel 1993 la polacca Megadex. Infine, nel 2000 ha dato vita a una società chiamata Cascal, in partecipazione con l’olandese NV Nuon ENW. Tramite Cascal, ora può vantare concessioni nel Regno Unito, in Cile, nelle Filippine, nel Kazakhstan, nel Messico e in Sud Africa.

      La spagnola Aquas de Barcelona è attiva in America Latina. Anche la General Electric sta collaborando con la Banca Mondiale per creare un fondo di investimento finalizzato alla privatizzazione dell’elettricità e dell’acqua in tutto il mondo. Altrove, il gigante dell’energia Enron ha iniziato a partecipare a gare d’appalto per i contratti idrici in Bulgaria, a Rio de Janeiro, Berlino e Panama. La società idrica di Enron è Azurix, che prevede di spendere 600 miliardi di dollari in infrastrutture idriche e fognarie in tutto il mondo nei prossimi dieci anni, con un introito annuo totale di circa 400 miliardi di dollari. Ma Azurix non è riuscita a competere con Vivendi e Suez-Lyonnaise e ora Enron sta riacquistando l’azienda, preparandosi al suo smantellamento.

      La privatizzazione dei servizi idrici è il primo passo nella privatizzazione dell’acqua. Il mercato statunitense dell’acqua, che secondo le stime vale 90 miliardi di dollari, è il più grande del mondo. Vivendi sta investendo ingenti somme per assumerne il controllo. Nel marzo del 1999 ha acquistato U.S. Filter Corporation per oltre 6 miliardi di dollari e ha costituito la più grande corporation in tutto il Nord America, con utili previsti di 12 miliardi di dollari.

      La privatizzazione dei servizi idrici porta a un aumento dei prezzi che i consumatori pagano per l’acqua. In Francia le bollette sono aumentate del 150% a seguito della privatizzazione, ma nonostante ciò la qualità dell’acqua è peggiorata. Un rapporto del governo francese rivela che oltre 5,2 milioni di abitanti hanno ricevuto acqua “inaccettabile dal punto di vista del contenuto batterico”. In Inghilterra, le bollette dell’acqua sono aumentate del 450%, i profitti per le corporation del 692% e i salari dei loro direttori generali del 709%. Nel frattempo, il numero di sospensioni forzate dell’erogazione per via degli aumenti improvvisi dei prezzi è cresciuto del 50%. I casi di dissenteria sono sestuplicati e la British Medical Association, l’associazione dei medici inglesi, ha condannato la privatizzazione dell’acqua per via delle pesantissime ripercussioni sanitarie che sta avendo nel paese.

      In Argentina l’azienda idrica statale, Obras Samitarias de la Naceon, è stata venduta ad Aguas Argentinas, una consociata di Suez-Lyonnaise des Eaux. La IFC, una diramazione della Banca Mondiale, ha concesso ad Aguas Argentinas prestiti per 172,5 milioni di dollari nel 1994. Un’altra consociata dell’azienda francese ha vinto un contratto trentennale per l’erogazione idrica nelle campagne. Ha immediatamente raddoppiato i prezzi, ma non è riuscita a fornire acqua pulita. Dinanzi al rifiuto degli utenti di pagare le bollette, in seguito ha dovuto battere in ritirata.

Nella zona delle fabbriche maquiladoras in Messico, l’acqua potabile è così scarsa che a neonati e bambini si fanno bere Coca-Cola e Pepsi. È palese che la scarsità dell’acqua è una fonte di profitto per le corporation. Coca-Cola vende in ben 195 paesi del mondo, con introiti di 16 miliardi di dollari. Come riferisce un rapporto annuale di Coca-Cola:

 

Tutti noi della grande famiglia Coca-Cola possiamo alzarci il mattino sapendo che quel giorno ognuno dei 5,6 miliardi di abitanti del mondo avrà sete. Se facciamo sì che quei 5,6 miliardi non possano sottrarsi a Coca-Cola, garantiremo il nostro futuro successo per molti anni a venire. Non possiamo permetterci di agire diversamente.

 

Ma aziende come Coca-Cola sanno benissimo che solo l’acqua disseta davvero e, insieme ad altre grandi corporation, stanno tuffandosi nel business dell’acqua in bottiglia. Coca-Cola ha un marchio internazionale per l’acqua, Bon Aqua (chiamato “Dasani” in America), mentre Pepsi ha la linea Aquafina. Coca-Cola prevede che le vendite di acqua supereranno quelle delle bevande analcoliche. In India la linea di acqua di proprietà di Coca-Cola si chiama Kinley. Quando l’azienda ha usato un medico per fare pubblicità alla sua acqua in bottiglia, il governo è stato costretto a intervenire. Ha quindi deciso di classificare l’acqua in bottiglia come un “alimento”, sotto l’egida della legislazione Prevention of Food Adulteration Act (legge per la prevenzione dell’adulterazione alimentare). Una circolare introdotta precedentemente dal governo non consentiva ai medici di promuovere specifici prodotti alimentari e Coca-Cola è stata costretta a interrompere la campagna pubblicitaria a sostegno di Kinley.

Oltre a Coca-Cola e a Pepsi, ci sono numerose altre marche di acqua molto conosciute, come Perrier, Evian, Naya, Poland String, Clearly Canadian, Purely Alaskan. Esistono poi migliaia di altri piccoli imbottigliatori. Nel marzo 1999 il Natural Resourse Defense Council (Consiglio per la tutela delle risorse naturali) ha preso in esame 103 marche di acqua in bottiglia e ha appurato che l’acqua in bottiglia non è più sicura dell’acqua del rubinetto. In più, un terzo delle marche conteneva arsenico e il batterio E. Coli, mentre un quarto conteneva semplice acqua di rubinetto imbottigliata. In India, uno studio condotto sull’acqua in bottiglia e pubblicato sul numero di gennaio-febbraio 1998 del periodico Insight pubblicato dal Consumer Education and Research Centre di Ahmedabad ha riscontrato che, su 13 marche di acqua molto conosciute, solo 3 risultavano conformi a tutte le specifiche. Nessuna delle marche era esente da batteri, sebbene alcune pretendessero di essere “mancanti da germi” e 100% esenti da batteri.

Nella regione semidesertica di Cochobamba, in Bolivia, l’acqua è un bene scarso e prezioso. Nel 1999, la Banca Mondiale ha raccomandato la privatizzazione dell’azienda idrica municipale di Cochobamba, la SEMAPA, tramite una concessione ad Aguas del Tunari, un consorzio privato, che includeva anche International Water, una consociata di Bechtel. Si è quindi varata una legge nell’ottobre 1999, la cosiddetta Drinking Water and Sanitation Law (legge sull’acqua potabile e sui servizi igienico-sanitari), con cui si revocavano le sovvenzioni ai servizi essenziali e se ne autorizzava la privatizzazione.

La nuova azienda idrica privata in men che non si dica ha raddoppiato i prezzi e, in una città dove il salario minimo non tocca neppure i 100 dollari al mese, il costo dell’acqua è salito a 20 dollari al mese, pari quasi al costo del sostentamento di una famiglia di cinque persone per un intero mese. L’improvviso aumento del prezzo dell’acqua, ossia la fonte di profitto per Bechtel, si basava quindi sulla privazione di cibo, vestiario, istruzione e cure sanitarie per i bambini già poveri. Nel gennaio 2000 gli abitanti hanno formato un’alleanza, La Coordinadora[94], che ha bloccato tutta la città per quattro intere giornate. A quel punto il governo ha promesso di revocare gli aumenti dei prezzi, ma poi non l’ha fatto. La Coordinadora ha quindi organizzato una marcia pacifica nel mese di febbraio, con “una simbolica assunzione del controllo della città di Cochobamba, chiedendo l’abrogazione della Drinking Water and Sanitation Law, l’annullamento delle ordinanze che autorizzavano la privatizzazione, la revoca del contratto e la partecipazione dei cittadini alla stesura di una nuova legislazione sulle risorse idriche, la Water Resource Law. Le proteste sono state represse con violenza dal governo.

La mobilitazione dei cittadini verteva direttamente sulla logica della privatizzazione dell’acqua. La critica fondamentale della concessione, avanzata dalla Coordinadora, riguardava la negazione dei diritti di proprietà che la comunità poteva vantare sulle risorse idriche, i diritti tradizionali (“usos y costumbres”), e i diritti e gli obblighi di corporation idriche, comitati e associazioni.

Gli slogan del movimento dei cittadini di Cochobamba erano questi: “L’acqua è un dono di Dio, non una merce” e “L’acqua è vita”. Riprendendosi l’acqua dalle corporation e dal mercato, i cittadini della Bolivia hanno dimostrato che la privatizzazione non è un fatto ineluttabile e che la volontà democratica può impedire alle corporation di assumere il controllo delle nostre risorse idriche essenziali.

 

Questo articolo è un estratto da Water Wars: Pollution, Profits, and Privatization, di imminente pubblicazione presso South End Press. Riproduzione autorizzata.


 

Nigel Harris

 

Cina: globalizzazione e nuova agenda

 

Nigel Harris economista e giornalista residente a Londra, ha scritto numerosi lavori sui paesi in via di sviluppo e sulle migrazioni internazionali. È autore di due libri di prossima pubblicazione presso la IB Taurus (Thinking the Unthinkable: The Myth of Immigration e The Return of Cosmopolitan Bourgeoisie: Globalization, the State, War, and Capital). In Italia è stato pubblicato recentemente (2000) un suo saggio per i tipi del Saggiatore, Gli intoccabili.

 

“Laddove invece (…) il potere statale interno di un paese è entrato in opposizione col suo sviluppo economico, come ad un certo grado di sviluppo è occorso sinora ogni potere politico, la lotta ogni volta è finita con la caduta del potere politico. Senza eccezione ed ineluttabilmente lo sviluppo economico si è aperta la via (…)” (Friedrich Engels “Anti-Dühring)

 

Engels aveva ragione? Da allora abbiamo avuto numerose occasioni per verificare le sue conclusioni. La necessità dello sviluppo economico non sembra aver disciplinato il nazismo tedesco, né, per lungo tempo, l’Unione Sovietica. In Cina l’equilibrio fra imperativi politici ed economici non è assolutamente una conclusione scontata.

Ci sono, in questo senso, due temi centrali. Il primo lo possiamo chiamare “il vecchio ordine del giorno” delle rivalità globali tra stati sovrani. In questo contesto la Cina sta emergendo come grande potenza in un mondo dominato dagli USA. Sappiamo cosa è avvenuto in passato quando una nuova potenza, la Germania, ha provato a farsi spazio in un mondo dominato da vecchie potenze come la Gran Bretagna, la Francia e il resto: due guerre mondiali. In base a questo ordine del giorno, la posizione geopolitica, il territorio, l’onore nazionale, e il diritto alla sovranità sono tutto, ma il terreno delle rivalità potrebbe apparire triviale (la rivendicazione di un pezzettino d’isola o la visita di politici taiwanesi a Tokyo o a New York).

Ma c’è un secondo tema che non era all’ordine del giorno quando la Germania provò a farsi strada nel sistema: il crescente dominio dei mercati mondiali sugli Stati, l’indebolimento della sovranità. In questo senso tutti i governi sono posti di fronte alla stessa contraddizione. Da una parte, la crescente integrazione nel sistema mondiale è la condizione per una crescita economica; dall’altra, l’integrazione riduce progressivamente l’area di discrezionalità dello stato e quindi anche la sua capacità di plasmare l’economia nazionale in conformità ai suoi obiettivi.

Nelle “società in transizione” – i paesi che sono passati da un ordine totalmente statalista (come gli Stati del vecchio blocco comunista) a uno dominato dal mercato – questo problema si presenta con caratteristiche particolari. In Cina, come del resto in Unione Sovietica, la politica apparentemente era tutto, mentre l’economia le era interamente subordinata. Con il mercato, l’ideologia centrale (il comunismo), decade e non può essere più il collante che tiene insieme la vecchia società. Dappertutto è stato sostituito dal nazionalismo, dalla xenofobia. Così il nazionalismo russo di Boris Eltsin ha sconfitto “l’internazionalismo sovietico” di Michail Gorbačev; il nazionalismo serbo di Slobodan Milosevič ha rimpiazzato “l’internazionalismo jugoslavo”.

La situazione in Cina è analoga. Con il decadere del Partito Comunista i quadri usano la loro posizione politica per far soldi attraverso la gestione delle Imprese di Proprietà Statale (di seguito, IPS), aprendo nuovi business gestiti dagli enti locali o nuove aziende private. La sola etica su cui si basano per garantire un livello minimo di unità sociale è quella della xenofobia, dell’ostilità verso il resto del mondo. Ma più l’ordine dominante fa assegnamento sulla xenofobia per tenere insieme la società e tanto meno è in grado di siglare quegli accordi di collaborazione con altre potenze che tengono aperti i mercati delle esportazioni, le fonti delle importazioni e del capitale straniero, ovvero le componenti dell’alta crescita economica e di conseguenza del consenso politico.

Il futuro prossimo è pieno di incognite. A Pechino hanno paura che accettando le condizioni poste per entrare nel WTO verrà danneggiata l’agricoltura dopo un lungo periodo di stagnazione, si accelererà il declino delle IPS e aumenterà la disoccupazione. L’inquietudine sociale potrebbe offrire le basi per una sfida xenofoba all’ordine dominante, specialmente se acuita dalla peculiare struttura decentralizzata del potere nel paese e dalle crescenti differenze tra le varie regioni. L’inquietudine sociale potrebbe insomma minacciare l’unità stessa del paese.

Il battibecco tra la nuova amministrazione Bush e il governo cinese è, per il momento, finito. La crisi era nata per via della perdita da parte della marina statunitense dell’aereo spia EP-3, costretto ad atterrare sull’isola di Hainan il 1° aprile dopo una collisione con un caccia cinese, il cui il pilota rimase ucciso. Ma questo è stato solo il punto più drammatico di una serie di cambiamenti nella politica estera USA che Pechino vedeva come ostile: l’adozione del programma di difesa missilistica nazionale (NMD); il mutato atteggiamento verso la Cina che, mentre nell’approccio clintoniano era vista come un “partner strategico”, ora viene identificata come “competitore strategico”; la firma del più grande contratto militare USA con Taiwan da nove anni a questa parte; l’aver permesso al presidente di Taiwan Chen Shui-bian di visitare New York e di incontrarsi con ufficiali americani di alto grado; il ricevimento del Dalai Lama e così via.

Ci sono state divisioni nelle riunioni dei vertici a Pechino su come rispondere a questi atti minacciosi. Da una parte Pechino è su una debole difensiva; ha bisogno del favore degli USA per tenere aperto il suo più importante mercato per l’esportazione, per sostenere l’afflusso di tecnologia e capitali e per guadagnarsi l’entrata nel WTO. D’altro canto una Grande Potenza non può accettare tali insulti dinanzi agli occhi del mondo. Pare che un funzionario del ministero degli Esteri di Pechino abbia detto che l’esercito cinese premeva sul governo per l’arresto, il processo e la condanna a pena detentiva del pilota dell’aereo spia e dei due copiloti. Il gruppo del Presidente Jiang Zemin è riuscito a resistere a queste pressioni, magari lanciando ai cani dell’esercito l’osso di consolazione dell’arresto e del processo di tre ricercatori cino-americani accusati di essere spie di Taiwan (tutti poi espulsi).

Malgrado un po’ di rumore, non è avvenuto nulla di paragonabile alle reazioni dopo il bombardamento NATO dell’ambasciata cinese a Belgrado. In quell’occasione una folla ben organizzata prese a sassate e diede alle fiamme l’ambasciata americana, mentre il “Quotidiano del Popolo” con una frase memorabile paragonò Washington “ai cani che non possono smettere di mangiare i loro escrementi”. L’equipaggio dell’aereo spia è stato rilasciato e ora l’aereo smantellato è stato anch’esso rispedito negli USA. Le proteste cinesi sono state miti, senza minacce di ritorsioni salvo una vaga minaccia di vendere armi ai nemici di Washington nel Medio Oriente.

Anche le prospettive di un intervento militare contro Taiwan sono state ridimensionate. Nel 1996 L’Esercito Popolare di Liberazione [nome ufficiale dell’Esercito cinese n.d.r.] fece 10 test missilistici nelle acque territoriali di Taiwan, in una specie di danza di guerra appena oltreconfine. Questa volta, invece, l’esercito cinese ha mobilitato forze nell’“Operazione Liberazione Uno” sull’isola turistica di Dongshan, mettendo in bella mostra le sue nuove armi (i caccia Su-27, sottomarini, carri anfibi, missili avanzati). Forse i generali volevano che questa fosse vista come una grande prova di forza, ma i media ufficiali hanno dato poco spazio alla notizia, descrivendola come un’esercitazione militare di routine.

 In cambio, l’amministrazione americana si è prodotta in umili scuse, recitando la sua parte del copione.

Bush ha quindi rinnovato il diritto della Cina a basse tariffe commerciali sul mercato americano, in attesa della sua entrata nel WTO. Jiang Zemin e il suo gruppo riformista hanno bisogno di scontare dei successi all’estero per giustificare la loro politica interna, e l’approvazione americana, simbolizzata dalla visita di Clinton a Pechino nel 1998, costituisce uno di questi risultati positivi. In questo modo gli xenofobi possono essere tenuti a bada. È un successo particolarmente importante data la prossima entrata nel WTO e le paure degli effetti dannosi che a breve termine quest’adesione potrebbe determinare. Bush ha in calendario una visita a Pechino ad ottobre. E la leadership cinese è stata infine ricompensata con l’organizzazione dei Giochi Olimpici del 2008.

Comunque questo non deve creare illusioni sul fatto che la Cina, a lungo andare, cercherà senz’altro di sgomitare con Washington in gran parte dell’Asia. Pechino ha infatti continuato il suo assiduo corteggiamento della Russia, sia per la vendita di armi che per assicurare una opposizione congiunta alla potenza globale USA. Il Primo Ministro Zhu Ronghzi, nella sua visita a Mosca del febbraio 1999, firmò ben 11 accordi di cooperazione e il Presidente Vladimir Putin ha visitato Pechino nel luglio dello scorso anno per preparare il trattato di cooperazione varato poi quest’anno. Ma in questo senso c’è ben poco di nuovo. Eltsin e Jiang Zemin avevano già firmato firmato “una partnership strategica per il ventunesimo secolo” nell’aprile del 1996. Le questioni che dividono Russia e Cina - come evidenziate a tutto il mondo dallo strappo cino-sovietico degli anni ’60 – rimangono sostanziali e Mosca è sempre più interessata a trattare con Washington da pari piuttosto che con la Cina.

Lo sforzo della Cina di trasformare il gruppo dei paesi del Sudest asiatico in forze antiamericane non è stato coronato da successo. Non le è restato quindi che cercare di mirare alle parti più deboli dell’Asia meridionale e sud-orientale, spesso in antagonismo con l’India (come il Nepal e Burma o Myanmar). Ci sono stati momenti in cui sembrava possibile che la Cina potesse allearsi con l’India (nei giorni felici prima del 1962 e degli scontri di frontiera), ma le rivalità sono troppo accese. È possibile che la rapida abolizione delle sanzioni americane contro l’India, dopo l’esplosione di tre ordigni nucleari nel 1998 a Rajasthan, sia stata motivata dal tentativo di tenere Delhi e Pechino separate. Delhi ha risposto dando la sua approvazione al programma USA di difesa missilistica nazionale (NMD) come un mezzo per neutralizzare la capacità missilistica nucleare cinese. A Burma la giunta militare è diventata economicamente e politicamente dipendente dalla Cina. La provincia cinese dello Yunnan sta usando il porto di Rangoon (Yangon) come il principale sbocco per le esportazioni (e come un modo per sottrarsi ai costi di trasporto da Yunnan alla costa orientale cinese). La zona di confine è in grande espansione e il commercio è cresciuto in maniera notevolissima – da 15 milioni di dollari nel 1980 a ben 2 miliardi di dollari; sono in corso lavori di ampliamento per autostrade e ponti, in parte per portare le armi cinesi ai generali di Burma.

Nel Sudest Asiatico il quadro è simile – vendita di armi, estensione del credito e delle esportazioni cinesi. In Laos, sono i tecnici cinesi che stanno modernizzando l’esercito e costruendo un’autostrada che dalla Cina porta al Mekong (andando a minacciare direttamente la Tailandia). Pechino ha offerto di dragare il Mekong in modo tale che navi più grandi possano raggiungere Vientiane.

Comunque si tratta essenzialmente in quisquilie, spesso rese possibili solo dal fatto che l’esercito USA è visto come il garante ultimo della sicurezza regionale contro le minacce cinesi, senza ambizioni territoriali. La Cina si comporta da stato nazionale di vecchio stampo, arraffando tutto il territorio su cui riesce a mettere le mani, finendo per minare qualsiasi sua ambizione di porsi alla guida dell’Asia. La rivendicazione cinese delle isole Spratly in mare del Sud della Cina (“territorio sacro della madrepatria cinese”, come affermano le dichiarazioni cinesi più assurde) conduce a scontri armati con Vietnam, Filippine, Malesia, ecc. Quando Pechino ha esteso unilateralmente le sue acque costiere includendo tutte quelle del mare del Sud della Cina, è parsa immediatamente rivendicare la proprietà delle riserve petrolifere al largo dell’Indonesia. In Vietnam ha pochi amici. Non solo Mao accettò la richiesta di Nixon di aiutarlo a cavarsi dai pasticci del Vietnam 30 anni fa, ma i due paesi hanno combattuto una guerra nel 1979 e hanno avuto almeno due scontri armati sulle isole Spratly negli anni ’80. Per contro la difesa di Taiwan da parte degli USA contro la Cina è una chiarissima dimostrazione per il resto dell’Asia di dove stia il vero potere.

Comunque questi sono giochi geopolitici, robe da diplomatici.

Giochi che si basano sul vecchio ordine del giorno, dove i governi erano di gran lunga i protagonisti e avevano il pieno controllo della loro realtà. Oggi questa realtà è più complicata ed è fatta di mercati globali che hanno eroso le pretese degli stati sovrani, rimodellando gli ordini del giorno politici verso direzioni che spesso possono essere colte solo se non molto tempo dopo.

 

Comunque i personaggi del vecchio ordine del giorno – la Cina, gli USA e così via - sono essi stessi da tempo instabili. La Cina è sempre più strettamente collegata con i mercati mondiali e gli straordinari alti tassi di crescita economica degli ultimi due decenni hanno trasformato la sua struttura sociale, contribuendo marcatamente a insidiare il controllo di Pechino.

Certamente la Cina non è mai stata stalinista nel senso dell’URSS – con i giganteschi ministeri centrali moscoviti che esercitavano il potere assoluto sull’immenso territorio della vecchia Unione Sovietica. La logica della conquista del potere per mezzo della guerriglia lascia inevitabilmente molta più iniziativa a livello locale e provinciale, e tutto questo è sopravvissuto anche ai grandi sconvolgimenti del Grande Balzo in Avanti e della Rivoluzione Culturale. La storia dell’evoluzione politica della Cina a partire dal 1949 può essere anzi riassunta nella continua lotta tra il potere centrale e quello locale. Il potere locale – la regione militare di Canton – garantì la protezione di Deng Xiao-Ping quando la Banda dei Quattro voleva la sua testa Pechino alla metà degli anni ’70. Nella repressione militare di Piazza Tienanmen nel 1989, passarono due settimane tra la dichiarazione dello stato di emergenza e l’arrivo dell’Esercito, due settimane in cui i rappresentanti di Pechino furono costretti a correre da una regione militare all’altra per tentare di assicurarsi un minimo di consenso.

Oltre alle trasformazioni sociali prodotte dagli alti tassi di crescita si è anche assistito a un decisivo allontanamento dalla vecchia struttura industriale, da un settore pubblico nazionale diretto dal centro, con un piano nazionale e finanziato dalle banche nazionali. Nel 1979 praticamente tutta la produzione industriale proveniva da questo settore. Questa quota è ora calata al 28% (sebbene gran parte della forza lavoro urbana sia tuttora impiegata in questo settore). Un ulteriore 31% proviene dalle cosiddette “imprese di città e di villaggio”, piccole unità che sono progettate, rese operative, finanziate e, nel caso chiuse dagli enti locali, collocandosi così fuori dal piano nazionale. Infine il 40% della produzione è realizzato dal business privato. A quello che viene chiamato “settore non statale” si devono ora quasi i tre quarti della produzione industriale nazionale. All’inizio degli anni ’90 c’erano solo poco di più di 100.000 operazioni private (ossia operazioni che impiegavano 8 o più lavoratori), alle cui dipendenze lavoravano 1,8 milioni di operai; queste ora ne impiegano 24 milioni, mentre è probabile che altri trenta milioni siano impiegati in unità con meno di 8 operai. Molti dei quadri di partito sono coinvolti nel business privato, sia direttamente sia sfruttando la loro posizione per sostenerlo (ed ottenendone un debito corrispettivo finanziario). Fino a ora il partito ha resistito alle richieste dei businessmen che volevano prendere la tessera, ma ultimamente ha annunciato che i capitalisti possono farlo apertamente.

Inoltre, nel periodo delle riforme, nella fase di alta crescita economica la frammentazione del paese si è accentuata. Uno degli elementi chiave è stata la decisione di provare a riformare il peso morto delle IPS decentralizzandone il controllo a livello locale (in prima istanza, in 27 province o in 4 città con status provinciale). I quadri locali del partito vedono la chiave della loro ascesa (e delle loro entrate) nella spinta alla più rapida crescita economica locale possibile e a qualsiasi costo, quindi hanno iniziato a competere furiosamente tra loro per il capitale e i mercati, comportandosi come se dirigessero paesi separati. Un elemento fondamentale qui era la protezione dei produttori locali contro le “importazioni” dal resto della Cina – dal blocco fisico di tali importazioni, fino all’imposizione di regimi fiscali o tasse o esigendo degli standard qualitativi speciali. Alcuni dei casi più noti – tra quelli che si conoscono - hanno riguardato il tabacco, gli alcolici, il grano, la farina, i semi di soia, l’acqua imbottigliata, le medicine e, caso diventato celebre, i giornali (Shenhzhen ha tentato persino di escludere i giornali della vicina provincia del Guandong a vantaggio dei produttori locali di media). All’ultimo Congresso Nazionale del Popolo i rappresentanti di una delle più grandi imprese edili del paese, il Shanghai Construction Group, si lamentavano amaramente del fatto che fosse spesso impossibile per loro vincere un appalto fuori da Shanghai perché gli enti locali favorivano solo aziende della zona. I quadri usavano I tribunali e la legislazione locale per bloccare le acquisizioni di ditte locali e facevano fortissime pressioni sulle banche per salvare quelle in via di fallimento – da qui i livelli straordinari di indebitamento del sistema bancario cinese.

Gli esiti sono diversi. Il primo consiste nel fatto che il grande vantaggio offerto delle dimensioni del mercato nazionale - lo sfruttamento dell’economia di scala (e la specializzazione territoriale) - non esiste più; le grandi ed efficienti aziende e municipalità sono tenute fuori da gran parte del paese. Il secondo è la crescente differenziazione tra le aree del paese più ricche e ad alta produttività e quelle più povere.

Un terzo è il problema della sovracapacità e degli sprechi degli investimenti: ci sono troppe fabbriche di televisioni e di lavatrici perché gli enti locali le creano fuori da qualsiasi piano nazionale e le proteggono dalla bancarotta. Consideriamo la produzione di automobili: attualmente ci sono 120 fabbriche e benché Pechino voglia ridurle a 6, le province e le municipalità non permetteranno la chiusura di quelle in eccesso.

C’è poi il problema fiscale. In Cina, la maggior parte delle entrate fiscali viene raccolta a livello locale e poi pagata in ultima istanza a Pechino. La quota delle tasse da consegnare passa attraverso un negoziato. All’inizio del periodo delle riforme, concessioni speciali venivano fatte alle aree che si favorivano per la crescita, ma col passare del tempo queste concessioni si sono diffuse anche altrove. Così, la quota di tasse spettante a Pechino ha teso a contrarsi costantemente e l’autonomia finanziaria delle amministrazioni locali è cresciuta.

Pechino ha fatto sforzi continui per tentare di ricentralizzare gli elementi chiave del potere, specialmente quelli riguardanti l’erario, ma con successi limitati. Si è più volte proposto che la privatizzazione delle IPS tagliasse i quadri locali ma questo solleva l’orrendo problema dei debiti delle IPS, della solvibilità delle banche e dei licenziamenti di massa. Altri hanno proposto di farla finita con la pratica dei quadri di assicurarsi avanzamenti di carriera attraverso una crescita economica accelerata; ma anche in questo caso il problema dell’esecuzione di queste misure spaventa non poco. Lo scorso aprile, il gabinetto ha ulteriormente bandito “i blocchi regionali nelle attività di mercato”, ma non c è nessuna prova che l’equilibrio di potere politico possa garantire a questa direttiva maggior successo di quelle precedenti.

Comunque, il problema della riunificazione della economia cinese si sta facendo sempre più pressante. Se la Cina aderirà al WTO, l’economia interna dovrà essere vista come aperta, dovrà essere colta come un singolo mercato e non come un groviglio di piccole enclave protette. Ma attuare tutto ciò è politicamente difficile senza sollevare un vespaio. Inoltre, l’entrata nel WTO richiede che Pechino tagli le sovvenzioni all’agricoltura, e ciò colpirà la popolazione agricola – 600 milioni di persone - che non solo in varie aree è già povera, ma che presenta redditi stagnanti sin alla metà degli anni ’80. La tradizionale guerriglia rurale e il banditismo non sono stati dimenticati. Inoltre nel Nord si è assistito a una protratta siccità e a un’estesa desertificazione che ha inciso sulle culture.

I problemi ambientali che incombono sulla Cina sono di portata davvero spaventosa. La produttività dell’agricoltura cinese, da secoli spettacolare sembra approssimarsi a un punto di crisi per via del fatto che da tempo non si destinano alla terra le risorse e gli investimenti necessari a garantirne la continuità.

Implicito in tutto ciò è il sintomo più drammatico di decadenza: la penetrazione della corruzione ovunque e il profondo cinismo della popolazione circa l’onestà dei suoi leaders. Per non parlare poi delle dimensioni spettacolari della corruzione – le corporations enormi e semiprivate dell’esercito, che finanziano la massima parte del bilancio militare totalmente al di fuori del controllo del governo centrale. (In teoria il settore era stato abolito nel 1997, ma i fatti sembrano contraddire questa ipotesi.)

 

 Da sempre vi è un livello sorprendente di corruzione in Cina – cosa inevitabile visti i poteri discrezionali permessi a livello locale. Ma l’economia di mercato, insieme allo stretto rapporto che intercorre fra partito, governo locale e business sia privato che pubblico, ha aperto una nuova immensa opportunità di arricchimento. Una serie di casi recenti ha portato alla luce un livello di gestione partitico-gangsteristica in grandi città — Shenyang, Xiamen, Xingtai — che potrebbe essere molto più esteso che nei casi citati. Centinaia di funzionari sono stati arrestati e malgrado i tentativi di proteggere i massimi dirigenti del partito non è sempre stato possibile farlo, e così uno dei membri del Politburò è stato condannato a sedici anni di carcere, due sono stati condannati a morte per corruzione; un vice primo ministro è in attesa di giudizio per aver accettato bustarelle da contrabbandieri.

Il prossimo anno sarà un anno di sfide per l’attuale dirigenza. L’economia sembra rallentare malgrado il mercato interno possa mantenere un tasso rispettabile di crescita nonostante la contrazione del maggiore sbocco per le esportazioni cinesi: gli USA. L’entrata nel WTO minaccia di colpire l’agricoltura; la liberalizzazione delle importazioni industriali potrebbe avere l’effetto di accrescere i debiti degli IPS fino al punto di costringerli alla bancarotta o a imporre ulteriori licenziamenti. E, proprio al momento giusto, il XVI Congresso del partito nel 2002 è fissato per sostituire l’attuale leadership. Il successore di Jiang Zemin alla guida del partito, nel 2002, e alla Presidenza dello Stato, nel 2003, Hu Jintao, è già stato identificato e non ci sono dubbi che altri importanti leaders si stiano già preparando dietro le quinte (benché la vecchia guardia manterrà ancora posizioni importanti). I nuovi uomini sono della “quarta generazione”; per la prima volta si tratta di gente nata dopo che il partito era giunto al potere nel 1949. Ma qualsiasi transizione nella leadership in tempi così rischiosi può solo accrescere la vulnerabilità dell’ordine esistente.

Così la globalizzazione si rifrange nel suo impatto sulla Cina, ingigantendo, a breve termine, alcune delle pressioni a una più marcata differenziazione sociale e territoriale, alla frammentazione, alla disintegrazione. Il controllo centrale del partito si è indebolito, la stupida ed esagerata reazione nel 1999 a Falun Gong ne è una prova eloquente. Le fazioni che vogliono un atteggiamento più aggressivo verso l’estero non possono prevalere - le riforme sono andate troppo avanti ormai - ma possono fare di tutto per sabotare gli sforzi del governo. Taiwan è stata regolarmente usata dai nazionalisti dell’esercito come un bastone per colpire il governo e rimane un grave pericolo: coloro i quali sono per riprendersi l’isola con la forza potrebbero aprire la strada a una guerra con gli USA e i loro alleati.

Sarebbe confortante accogliere la valutazione di Engels secondo cui l’economia ha sempre la precedenza sulla politica, ma se così fosse ci sarebbero state meno guerre nel mondo. Mentre il vecchio ordine degli stati militari in concorrenza fra loro resta valido, con gli USA come cardine dell’intero sistema (con un budget per la Difesa uguale a quello della somma degli altri otto stati che hanno la spesa militare più alta del mondo), anche se in misura minore il pericolo di guerra rimane. E ha come teatro più plausibile lo stretto di Taiwan. Là, dove la politica interna della Cina e l’ordine globale si incontrano.

 

 

 

 


 

 

 

 

 


 

Terza Parte

IL MOVIMENTO “PER LA GIUSTIZIA GLOBALE”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

Mumia Abu-Jamal

 

Per cosa combatteva Carlo

 

Mumia Abu-Jamal è attualmente rinchiuso nel braccio della morte in Pennsylvania. Scrive abitualmente di politica e pena capitale ed è autore di molti libri, tra cui All Things Censored (Seven Sories Press)

 

La recente uccisione del ventitreenne Carlo Giuliani da parte della polizia, negli scontri per le vie di Genova, è stata come un’onda d’urto che ha travolto tutto il mondo.

Giuliani, figlio di un funzionario sindacale, era uno delle decine di migliaia di manifestanti antiglobal che si erano dati appuntamento nella città scelta dai politici e dai rappresentanti delle corporations per una riunione in cui discutere di come continuare a dominare l’economia mondiale. Carlo faceva parte di un crescente movimento che collega giovani dei paesi del cosiddetto Primo Mondo con le aspirazioni di molta gente del cosiddetto Terzo Mondo.

Fu questo movimento che fece tremare Seattle e rese celebre l’acronimo “WTO” in tutto il mondo.

Per essersi opposto al dominio del capitale, per essersi opposto all’Impero della Ricchezza, Carlo Giuliani è stato ucciso dai sicari del Capitale, e come se non bastasse, una jeep dei carabinieri, è passata sopra il suo corpo prono, ferito.

Con il brutale assassinio di Carlo Giuliani, il messaggio che si è voluto mandare è che essere contro la globalizzazione è un reato capitale. Ma questa è solo l’ultima escalation delle forze armate del capitale, che ha utilizzato livelli più feroci di violenza per intimidire le file peraltro sempre più compatte, degli antiglobal.

Il sangue sull’asfalto di Genova non ha iniziato a scorrere quando un carabiniere ha sparato in faccia con la sua semiautomatica a un anarchico romano mascherato. Il sangue di Genova ha preso a scorrere nelle strade Gotheborg, dove l’Unione Europea aveva tenuto il suo summit. In quell’occasione la polizia aveva aperto il fuoco contro i manifestanti ferendone tre, uno in modo grave.

Ora una anarchico, un antiglobal, è morto.

Quando la notizia è arrivata, mi sono tornate in mente le parole del commediografo irlandese George Bernard Show, che una volta disse: “L’anarchismo è un gioco a cui la polizia ti può battere”. Shaw, pur essendo un fervente socialista, si sarebbe forse corretto alla luce dei recenti eventi (se avesse potuto).

La cosa più significativa è vedere come i rappresentanti dello Stato e il loro braccio propagandistico, i media, hanno reagito alla feroce tragedia.

Mentre i politici all’unisono parlavano con lingua biforcuta di “tragedia”, non una singola sillaba è stata proferita per criticare le forze dell’ordine. O mi sbaglio?

Ma i massmedia hanno fatto un gioco diverso. Praticamente in ogni reportage si parlava di manifestanti violenti, suggerendo che fossero male informati o semplicemente stupidi, visto che osavano preoccuparsi dei poveri in Africa, Asia e America Latina. Gaurdate la loro prevenzione, le loro cronache dettate dalle corporations e fatevi una semplice domanda: cosa avrebbero scritto se a Genova un poliziotto fosse stato ucciso e schiacciato dalla Land Rover di un anarchico? Ogni servo delle corporations avrebbe strombazzato su quanto “feroci” e “violenti” fossero i “terroristi” antiglobalisti. Questo è poco ma sicuro!

Invece un muto silenzio.

Silenzio, quando i terroristi sono i poliziotti.

Silenzio, quando gli assassini sono i poliziotti.

Silenzio, quando i sicari delle corporations entrano in azione.

Avete certo sentito i politici concionare su di un “assalto al processo democratico”.

Ma quanto è democratico il G8?

Questo gruppo autoselezionato è formato dalle sette nazioni più ricche del Pianeta (più la Russia).

Se ci sono circa 193 nazioni nel mondo, è forse “democratico” che i rappresentanti del 4% della popolazione governino il resto dell’economia mondiale?

Guardate le cose in un altro modo: il G8 è composto dai rappresentanti di Canada, Giappone, Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia. Se si somma tutta la gente che abita in queste nazioni si arriva a 824 milioni circa di persone. Certo, è un sacco di gente.

Ma ci sono più di 6 miliardi di persone sulla Terra!

Come può il 14% della popolazione mondiale decidere per il restante 86%?

Carlo Giuliani non stava dando l’“assalto al processo democratico”.

Stava protestando contro un processo profondamente antidemocratico.

Stava combattendo in nome della schiacciante maggioranza dell’umanità.

 

© Mumia Abu-Jamal. Riproduzione autorizzata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


 



 

Todd Chretien

 

Tijuana: lotte in prima linea contro la globalizzazione

 

Todd Chretien è organizzatore della Bay Area [n.d.r. la vasta zona alla periferia di San Francisco] dell’International Socialist Organization.

 

Bastano circa 15 minuti di macchina per andare dalla città di San Diego a quella di Tijuana. Nel punto d’incontro, lo stato americano della California e quello messicano di Baja California condividono le stesse colline ondulate, la vegetazione bassa, il terreno franante e le spiagge sull’oceano. Tuttavia, il paesaggio umano non potrebbe essere più diverso.

Dozzine di luccicanti grattacieli di vetro popolano il profilo di San Diego e un’enorme base navale americana ne domina il porto. Centinaia di barche a vela e panfili di lusso sono all’ancora ai suoi porticcioli. Verdi prati artificiali e campi da golf prosciugano le falde acquifere a beneficio delle classi medie e superiori. Ma appena a sud del confine, Tijuana è piena zeppa di bar e night club con spogliarelliste, al servizio di intere bande di studenti e marinai americani. L’aria è malsana a causa dei fumi industriali e degli scarichi delle auto. Centinaia di bambini chiedono l’elemosina insieme alle loro madri per le strade, buttandosi su pochi spiccioli o esibendosi in pericolose acrobazie agli incroci per rimediare qualche misera offerta.

Il contrasto tra la ricchezza apparente di San Diego e la povertà di Tijuana è solo uno degli aspetti della globalizzazione delle grandi corporations. Tuttavia, se si scava più a fondo, ne viene alla luce un altro: sotto le sembianze esteriori, entrambe le città sono nettamente spaccate lungo linee di divisione di razza e di classe. A San Diego, l’esigua popolazione nera patisce i tipici eccessi di brutalità della polizia e la disoccupazione. I lavoratori ispano-americani, immigrati o nati negli USA, vengono sistematicamente molestati, arrestati, imprigionati, malmenati e talvolta uccisi da una miriade di servizi di polizia, dalla “San Diego County Sheriff” (Polizia Distrettuale di San Diego) all’“Immigration and Naturalization Service” (INS, Ufficio per l’immigrazione e la naturalizzazione). Ai lavoratori bianchi alcune di queste palesi umiliazioni vengono risparmiate, ma sono ugualmente sfruttati – molti restano intrappolati in lavori malpagati nel settore dei servizi, in quella che rimane una delle città dell’Ovest più ostili alla sindacalizzazione.

A Tijuana, l’evidente povertà dei molti nasconde l’oscena ricchezza dei pochi. Politici, proprietari di immobili, direttori di aziende e alti dirigenti delle maquiladoras vivono in esclusive zone residenziali sulle colline, protette da feroci cani da guardia e vigilantes. Verdi prati e piscine, viste spettacolari sul Pacifico, dimore signorili dotate di aria condizionata e auto sportive parcheggiate in bella vista distinguono i benestanti. I loro figli frequentano scuole private e spesso vanno al college negli Stati Uniti.

Le classi dirigenti in entrambe le zone di confine hanno scoperto molto tempo fa di avere un interesse in comune: trasformare Tijuana in una gigantesca fabbrica senza sindacato, con un confine militarizzato per controllare i flussi della forza-lavoro. L’impatto che questo ha avuto sui lavoratori in Messico e negli Stati Uniti è stato profondo. In questo articolo verrà esaminata la lotta nelle maquiladoras di Tijuana e come essa si colleghi a quella in difesa dei diritti dei lavoratori a nord del confine.

Le fabbriche maquiladoras furono in origine concepite come piccole operazioni di confine, dove le società americane potevano operare in zone esenti da imposte e dazi. I lavoratori, che dall’inizio degli anni ’60, quando le fabbriche aprirono erano pochi, nel 1994 erano diventati 546.433. Il North American Free Trade Agreement (NAFTA, l’Accordo sul libero scambio nordamericano) estese significativamente questo genere di operazioni. Gli Stati Uniti e, in misura crescente, produttori dalla Corea del Sud e da altri paesi asiatici, si riversarono nella regione di confine per avvantaggiarsi dei bassi salari e della vicinanza al mercato statunitense. Attualmente, le maquiladoras in Messico impiegano 1.400.000 lavoratori in 3.703 fabbriche. Il valore complessivo delle merci prodotte dalle industrie maquiladoras ha recentemente sorpassato quello del petrolio nelle esportazioni messicane.

Tijuana è stata l’epicentro di questa esplosione, che ha trasformato la città in un’importante zona industriale.

Secondo il Mexican Action Network on Free Trade (Rete messicana d’azione sul libero mercato): “La media nazionale del salario minimo nel dicembre 1998 ha perso più di tre quarti del suo potere d’acquisto, rispetto al 1976”.2 A Tijuana, il salario minimo oscilla tra i 4 e i 4,5 dollari al giorno. Alcuni lavoratori specializzati percepiscono tre o quattro volte la cifra minima; tuttavia, la maggior parte dei lavoratori guadagna poco più del minimo, mentre nelle fabbriche di massimo sfruttamento la paga è persino più bassa.

Un operaio elettronico della Maxell spiega: «I nostri figli devono andare a lavorare a 12 o 13 anni perché il sistema economico si sviluppa a beneficio dei proprietari, a discapito dei lavoratori. Io guadagno 50 pesos al giorno (circa 4,5 dollari), che mi bastano appena per comprare uova, latte e tortillas»3. Molte madri che mantengono da sole la famiglia affrontano una sfida per la sopravvivenza ancora più dura. Diana Arias, un’organizzatrice del Factor X, un gruppo che informale di lavoratrici delle maquiladoras sui loro diritti di base e sulla possibilità di organizzarsi, spiega:

 

I posti di lavoro peggiori sono le fabbriche tessili clandestine. Allettano le madri costrette ad accettare lavoro, dicendo: “Sì, effettivamente la paga non è buona, ma puoi portare i bambini con te e farti aiutare’. Spesso però questi posti chiudono improvvisamente i battenti e scompaiono senza nemmeno pagare i lavoratori.”4

 

L’esplosione della popolazione a Tijuana ha determinato una penuria di case. Decine di migliaia di famiglie con due o tre membri che lavorano a tempo pieno nelle maquiladoras vivono in baracche costruite con ogni sorta di rottame utilizzabile. Le ripide colline che circondano la città sono disseminate di queste case pericolanti, molte delle quali vengono spazzate via all’arrivo di ogni stagione delle piogge. Interi quartieri sorgono spontaneamente su terreni abbandonati e sulle colline, man mano che la popolazione è costretta a spingersi più lontano. Molti di questi quartieri sono privi di acqua corrente o fognature, e hanno l’elettricità solo se si collegano di loro iniziativa alla linea. Va da sé che l’assistenza sanitaria è pressoché inesistente e che la tutela dell’ambiente è disastrosa, a causa delle aziende che rilasciano abusivamente sostanze tossiche nei torrenti e nelle discariche.

Nonostante condizioni così difficili, i lavoratori a Tijuana hanno una lunga tradizione di lotte alle spalle. Gli anni ’70 in Messico, come in molte altre parti del mondo, hanno vinto scioperi e proteste crescenti, tanto da essere detti gli anni della “insurgencia obrera”. La rivolta raggiunse presto le zone di confine delle maquiladoras, dove i lavoratori organizzarono le prime sfide vittoriose alle misure antisindacali.5

La Confederacion Trabajadores Mexicanos (CTM) è stato per tradizione strettamente controllato dal Partido Revolucionario Institucional, (PRI) che ha governato il paese dagli anni ’20 fino alla sconfitta elettorale della scorsa estate a favore del suo rivale di destra, Partido de Acción Nacional (PAN). Questi sindacati non hanno tanto rappresentato gli interessi dei loro iscritti, quanto quelli dei burocrati statali nel controllo dei lavoratori e nell’imposizione della politica economica del governo.

Nel 1973 i lavoratori di base della Mattel, fabbrica maquiladora americana, strapparono il controllo del proprio sindacato ai burocrati del PRI e proclamarono con successo due scioperi. Questa lotta suscitò una prima ondata di organizzazione, che portò al consolidamento di diversi sindacati di base, incluso il Sindicato de la Industria y Comercio Ignacio Zaragosa (SICIZ, Sindacato dell’industria e del commercio Ignacio Zaragosa), formatosi in un’azienda elettronica americana, la Solidey, nel 1978. Militanti del Partido de los Comunistas Mexicanos si misero alla testa questo sindacato, che raggiunse un accordo contrattuale modello: 46 ore di paga per 40 ore lavorative alla settimana. Dal 1978 fino alla chiusura della Solidey nel 1983, il SICIZ funse da centro per l’organizzazione, la politica, l’espressione regionale del malcontento dei lavoratori. I sindacati indipendenti non contarono mai più di alcune centinaia o un migliaio di iscritti, ma dimostrarono che le fabbriche potevano essere organizzate.

Ma anche questa piccola testa di ponte nell’industria risultò inammissibile per i padroni. Nel 1976, il PRI usò l’esercito per reprimere uno sciopero di lavoratori del settore elettrico e introdusse una pesante svalutazione della moneta, avviando in tal modo l’inizio di un attacco su tutti i fronti agli standard di vita della classe operaia, non molto dissimile dalla repressione attuata da Reagan dello sciopero dei controllori di volo negli Stati Uniti, che aprì la via a un attacco contro tutti i sindacati.

A Tijuana, la repressione dei piccoli sindacati indipendenti andò di pari passo con I licenziamenti e le liste nere di centinaia di attivisti di base e di radicali. Ai burocrati sindacali del PRI venne una brillante idea: perché non aggirare il pericolo dei sindacati indipendenti andando direttamente dai padroni a firmare dei contratti “fantasma” o di “protezione”? “Fantasma”, perché i lavoratori nulla sapevano della loro esistenza. In cambio di piccole somme di denaro, i burocrati cominciarono a firmare decine e quindi centinaia di accordi con il padronato. Di “protezione”, perché il loro unico scopo, se i lavoratori avessero cominciato a organizzarsi, era che il padrone potesse dire: «Ma tu ce l’hai già un sindacato. E io ho un contratto che lo prova!».

Entro l’inizio degli anni ‘90 in tutta la regione di confine non era rimasto neppure un sindacato indipendente di base. Questa mancanza totale di organizzazione mantenne i salari a meno di un decimo di quelli appena oltre confine e pose le basi nel dopo-NAFTA per un aumento di quasi tre volte della forza-lavoro nelle maquiladoras.

I gruppi di Tijuana, come Factor X e CITTAC, hanno formulato una strategia a lungo termine per affrontare i problemi dell’organizzazione nelle maquiladoras. Piuttosto del semplice tentativo di organizzare una fabbrica alla volta, come spiega Jaime Cota, “noi vediamo nelle maquiladoras il fulcro di un movimento”.

È all’interno della fabbrica che tutti i diversi problemi sociali si intrecciano. Naturalmente, i problemi della fabbrica sono quelli più seri per i lavoratori, ma sono all’ordine del giorno anche quelli dell’alloggio, dell’assistenza sanitaria e della crisi ambientale. Anche gli immigrati nativi del Sud finiscono per lavorare qui e devono fare i conti con la discriminazione etnica oltre che con il sessismo subito dalle donne lavoratrici. Tutti questi problemi nascono dalle maquiladoras, ma è anche qui che può sorgere la nostra forza.

Il governo può ignorare la gente nativa in quanto tale, o la donna come donna. Ma nelle maquiladoras noi abbiamo il potere come lavoratori, e qui non possono ignorarci. Tuttavia, visto che organizzare le fabbriche una alla volta è un’operazione molto difficile di fronte a una repressione così dura, abbiamo deciso di cominciare dai problemi che potevamo affrontare – vale a dire, i problemi delle donne, dei nativi, delle abitazioni dei lavoratori e dell’ambiente. Prima cerchiamo di insegnare alla gente come trattare queste questioni e poi torniamo gradualmente alle questioni di fabbriche.7

Ci sono chiaramente dei vantaggi in questa strategia, dal momento che il Factor X e il CITTAC si sono fatta una reputazione di efficaci organizzatori tra una piccola ma crescente parte di lavoratori. Per esempio, durante un viaggio a Tijuana ho trovato circa 25 lavoratori delle maquiladoras che discutevano con Cota del possibile passaggio di proprietà della loro fabbrica e su cosa potevano fare per difendere il loro posto di lavoro.

Il confine è di solito concepito come un modo per tenere le persone fuori dagli Stati Uniti. Tuttavia, per quanto strano possa sembrare, questa non è la vera intenzione – o, almeno, non produce quell’effetto. La militarizzazione del confine – il raddoppio delle guardie dell’INS, l’uso di elicotteri e personale militare, la costruzione di una barriera di metallo lunga oltre 130 km e alta più di 3 metri – non ha portato a una diminuzione significativa del numero degli immigrati che entrano negli Stati Uniti. Al contrario l’operazione “Gatekeeper” (Guardiano) dell’INS, ispirata da Clinton, ha reso semplicemente più difficile e pericoloso attraversare il confine, portando al raddoppio delle morti accertate dal 1995.8

Di recente il sindacato AFL-CIO (American Federation of Labor and Congress of Industrial Organisations) si è dichiarato giustamente a favore di un’amnistia per i lavoratori privi di documenti e ha organizzato una serie impressionante di iniziative, compreso un raduno nel giugno 2000 a Los Angeles che ha visto la partecipazione di 20.000 persone.

Mentre negli Stati Uniti la lotta in difesa dei diritti dei lavoratori si accende, l’esplosiva offerta di lavoro nelle maquiladoras e la capacità dei padroni di mantenere i salari a livelli bassissimi non sarebbero concepibili in assenza del confine. Se i lavoratori di Tijuana non dovessero rischiare la vita per varcare il confine verso la California, sarebbe molto più difficile mantenere i salari così bassi.

Fintanto che capitali e capitalisti possono attraversare liberamente i confini, mentre i lavoratori degli Stati Uniti e del Messico hanno una scarsa o nessuna organizzazione sindacale congiunta, i padroni manterranno un enorme vantaggio. La dichiarazione dell’AFL-CIO a favore dell’amnistia per i lavoratori privi di documenti negli Stati Uniti rappresenta un gradito cambiamento in positivo.

Tuttavia, alcune rappresentanze del movimento dei lavoratori continuano a vedere i lavoratori messicani come avversari e non come fratelli e sorelle. Un esempio deplorevole è rappresentato dalla decisione dei camionisti americani di lanciare una campagna contro l’apertura del confine ai loro colleghi messicani. Con il pretesto di una campagna a difesa della “sicurezza sulle autostrade”, la retorica anti-immigrati del presidente del sindacato dei Teamsters, Jimmy Hoffa, è servita solo a intensificare ulteriormente il razzismo contro gli immigrati. Alcuni progressisti hanno tuttavia lottato per inserire nella delibera della convention dei Teamsters elementi a favore dei lavoratori messicani, impegnando formalmente il sindacato a stabilire relazioni concrete con i camionisti messicani.

La California Network of Globaliphobics (Rete della California Globalifobi) rappresenta una modesta ma comunque importante iniziativa nella zona di confine. La rete, composta da attivisti e organizzatori sia americani che messicani, è stata la forza trainante della protesta delle due nazioni nell’aprile 2001 contro la Free Trade Area of the Americas (Zona di libero mercato delle Americhe). Da allora, i Globaphobics hanno costituito una rete d’azione in casi di emergenza, per potersi mobilitare presso i consolati messicani in tutta la California se gli organizzatori messicani dovessero trovarsi di fronte a casi di repressione. Per quest’autunno, la rete sta organizzando una visita ai lavoratori delle maquiladoras e agli organizzatori di San Diego, Los Angeles e San Francisco Bay Area, allo scopo di far conoscere le lotte di Tijuana e creare rapporti fra studenti e sindacati. Un piccolo inizio, certo, ma dal potenziale immenso.

Circa il 32% della popolazione in California è ispano-americana. Qualsiasi serio movimento che si proponga di ricostituire i sindacati dovrà rompere con il razzismo contro gli immigrati. Allo stesso tempo, la lotta per organizzare le maquiladoras sarà più difficile fintanto che la solidarietà da questa parte del confine viene praticata unicamente ai margini del movimento dei lavoratori. Dopo tutto, non bisogna dimenticare che la maggioranza delle fabbriche maquiladoras sono o società con sede negli Stati Uniti o ditte che producono in subappalto per gli Stati Uniti. Nel 1924, alcuni fra i più radicali organizzatori sindacali messicani e i rivoluzionari dell’Industrial Workers of the World (Lavoratori Industriali del Mondo), fondato negli Stati Uniti, collaborarono a Tampico, in Messico, alla costituzione del sindacato dei lavoratori del settore petrolifero, in quella che al tempo era l’operazione di trivellazione più grande del mondo[95]. Sapere che questo fu possibile allora dovrebbe spronarci a fare in modo che si ripeta.

 

 

 

 

 


 

 


 

 

 

 

 

 

 

 



 

Oscar Olivera

 

La lotta per l’acqua a Cochobamba (Bolivia)

 

Oscar Olivera è direttore esecutivo della Federazione dei Lavoratori di Fabbrica di Cochobamba. Ha recentemente guidato una lotta vittoriosa contro la privatizzazione dell’acqua in Bolivia.

 

All’inizio dell’agosto 1985, il modello economico neoliberale fu assunto in Bolivia, molto più che in altri paesi del continente, come un modo per compiacere le forze reazionarie a livello mondiale. Si raggruppavano al suo interno i più potenti paesi del mondo, gli organi finanziari internazionali e le più grandi corporations transnazionali che stavano solo cercando di dominare il mondo, di sfruttare le nostre risorse naturali e di accrescere i loro profitti.

Grazie a queste politiche, noi boliviani, così come i popoli degli altri paesi poveri del mondo, siamo stati spogliati del nostro patrimonio e delle nostre risorse naturali che erano state il prodotto di più di 60 anni di lavoro collettivo di uomini e donne che le avevano costruite e preservate.

Noi boliviani ora possediamo solo l’acqua e l’aria, ma al più presto queste forze privatizzeranno anche queste risorse. Ci hanno già derubato dei nostri aerei, dei nostri treni, delle nostre strade, dei nostri mezzi di comunicazione, dei nostri idrocarburi, delle nostre fabbriche, e della nostra terra. Non soddisfatti di tutto ciò, le multinazionali, la Banca Mondiale e i soci della mafia di governo hanno tentato di portarci via l’acqua di trasformare questa risorsa vitale in un business, quando tutti sanno che è un bene sociale, un patrimonio naturale di tutti gli esseri viventi: le piante, gli animali e gli esseri umani. Ecco perché nessuno si può appropriare dell’acqua.

Cochabamba si trova proprio al centro del mio paese. Ha un milione di abitanti e un centro urbano dove risiedono oltre 600.000 persone che ha sofferto per oltre 50 anni di scarsità d’acqua. I politici e i businessmen hanno utilizzato la questione dell’approvvigionamento dell’acqua per manipolare la popolazione al fine di perseguire i loro interessi economici e di potere.

Facendo leva sulla febbre privatizzatrice i politici del nostro paese sono diventati partners delle multinazionali Bechtel, Abengoa e altre. Essi hanno ricevuto la benedizione della Banca Mondiale che ha esplicitamente proibito al governo boliviano di fare qualsiasi investimento adeguato, a trovare una soluzione del problema dell’acqua di Cochabamba e che ha vaticinato che il fardello dei costi fosse posto sulle spalle dei consumatori e cioè si fosse posto mano a un brutale aumento delle bollette dell’acqua.

La privatizzazione è proceduta attraverso il passaggio – con una concessione per 40 anni – del servizio pubblico municipale dell’acqua alla società transnazionale Aguas del Tunari. Questo contratto fu accompagnato dall’approvazione da parte dell’Assemblea Nazionale della Legge sull’acqua potabile e di quelle di scarico. Entrambe queste azioni dello Stato avvennero con una dinamica assolutamente oscura e segnata dalla corruzione e che la popolazione rigettò.

La mancanza di credibilità dei politici, dei businessmen, delle “istituzioni tradizionali” della società, e il loro aperto sostegno alla privatizzazione dell’acqua di servizio pubblico ci costrinse – in quanto contadini, gruppi ecologisti, professionali e lavoratori urbani (operai ed insegnati) a formare una coalizione: la Coordinadora de Defesa del Agua y de la Vida. Questa coalizione emerse dopo un appello diffuso dagli abitanti della città e della campagna che a partire dalla elementarità del bisogno di difendere tali servizi basilari come l’accesso all’acqua, hanno invitato tutta la popolazione a unirsi alla lotta.

La Coordinadora lanciò un appello basato sulla sua comprensione dell’urgenza di impegnarsi in una azione comune, convinta che ogni singolo settore non avesse abbastanza forza per resistere indipendentemente, che non c’era salvezza individuale e che i servizi sociali debbano essere assicurati a tutti o non saranno assicurati a nessuno.

La Coordinadora rappresenta farmers, comitati, cooperative dell’acqua (sia urbane che locali) che allora non erano collegati con la rete di distribuzione dell’acqua ma che non volevano essere colpite dalle privatizzazioni. Rappresentava anche gente che era già collegata con la rete centrale di distribuzione dell’acqua ma che era giunta alla conclusione che le bollette non erano sostenibili e che erano esagerate e vergognose. Questa coalizione rappresenta anche i lavoratori sindacalizzati la cui esperienza ci ha aiutati a mantenere la continuità organizzativa in alcuni momenti del conflitto.

La Coordinadora parla a nome di quella gente che si sente ignorata, esclusa, abbandonata, di coloro i quali appena un anno prima della cosiddetta guerra dell’acqua, non avevano nessun spazio per commentare, discutere ed esprimere le loro sofferenze, la loro realtà, e le loro speranze. La Coordinadora è la “coscienza del popolo” che controlla e sfida le azioni del pubblico (governo) e dei privati (aziende). È quella entità che è stata capace di interpretare e decifrare le esigenze fondamentali della popolazione.

Abbiamo scoperto che le assemblee pubbliche, le manifestazioni nelle sale cittadine, e le barricate sono gli strumenti principali per discutere e lottare. È qui che abbiamo capito che non è sufficiente riscoprire la nostra dignità, dove è stato possibile non solo far sentire la nostra voce, ma dove abbiamo compreso che le nostre attuali condizioni di esistenza sono, tra le altre cose, il prodotto di questa gigantesca e insolente ruberia chiamata “privatizzazione”.

Infine la Coordinadora è il luogo dove la gente semplice e che lavora duro è stata capace di confermare che solo attraverso l’organizzazione, la solidarietà, e la mutua fiducia possiamo perdere la nostra paura, conquistare una democrazia che abbia un contenuto reale, scoprire e riappropriarci di quello che è nostro, trasformare la nostra situazione e la nostra realtà.

In parole semplici per noi la democrazia si sintetizza in: “chi decide?” Pochi politici e affaristi o noi, la gente semplice e lavoratrice? Nel caso dell’acqua di Cochabomba volevamo prendere da soli le decisioni, e ciò per noi è la vera democrazia.

Guidati da questa principî, la gente di Cochabomba ha cominciato le sue azioni contro la privatizzazione dell’acqua. Mobilitazioni comuni della città e della campagna sono cominciate l’11 gennaio del 2000 con un blocco delle strade che è durato quattro giorni. È stata la gente delle aree rurali e i cosiddetti marginali delle periferie che sono andati a confrontarsi con la polizia. È stato dopo questa prima lotta che il governo ha firmato un accordo che lo impegnava a rivedere sia la legge sull’acqua potabile sia il contratto con la Aguas del Tunari.

Nei giorni più caldi delle mobilitazioni, le bollette dell’acqua erano aumentate dal 35 al 300%. Per le famiglie l’aumento significava che in media, ognuno avrebbe dovuto usare un quinto dei suoi guadagni per pagare la bolletta dell’acqua.

Una seconda mobilitazione in febbraio, che durò due giorni ed era volta a sconfiggere questo aumento delle bollette, si sviluppò dopo una intensa battaglia per le vie della città tra polizia e gente comune. Il grande risultato di questa mobilitazione fu quello di farci perdere la paura. Venivamo fuori dalle nostre case e comunità per parlare l’uno con l’altro, per conoscerci l’un l’altro, per imparare ancora ad avere fiducia l’uno nell’altro.

Ma malgrado il fatto che questo governo malvagio mandasse contro di noi criminali vestiti da poliziotti, le nostre pietre e i nostri bastoni hanno sconfitto la codardia dei mediocri e corrotti agenti di polizia del governo.

La solidarietà sconfigge i loro intrighi, e noi abbaino sfondato la cinica difesa del governo degli affari, di pochi busniessmen.

Nel marzo del 2000 si tenne una “Consultazione Popolare” senza precedenti, la prima nella storia del nostro paese. Più di 50.000 persone presero parte volontariamente a una dimostrazione di partecipazione in cui si affermava chiaramente che il consorzio dell’acqua doveva essere confiscato e la legge che lo privatizzava doveva essere modificata.

Una terza ondata di mobilitazioni cominciò il 4 aprile e venne chiamata “L’ultima battaglia”. Dopo otto giorni di blocchi stradali e di occupazione del centro cittadino (l’ultimo giorno mobilitammo 100.000 persone) fummo capaci di espellere la compagnia transnazionale. Anche la legge sull’acqua potabile fu modificata profondamente sulla base delle proposte della Coordinadora diventando la prima vittoria popolare contro il modello (neoliberale) dopo 15 anni di sconfitte.

Ma per raggiungere questa vittoria abbiamo dovuto scontrarci non solo con la polizia ma anche con l’esercito che usava franchi tiratori che hanno ucciso un ragazzo di 17 anni, Victor Daza e che hanno ferito più di 100 persone.

In Bolivia, senza queste lotte e questa vittoria non si sarebbe potuto parlare di costruire una nuova società “autogestita”, che garantisca il servizio dell’acqua sotto il controllo sociale, proprio nel mezzo di una fase di liberismo selvaggio. Ma la guerra dell’acqua non finisce con il nostro rientro in possesso della compagnia dell’acqua, delle nostre fonti, delle nostre lagune, dei fiumi e dei sistemi idrici. Oggi ci poniamo un compito assai arduo. Abbiamo ereditato una compagnia con enormi debiti, con uno status legale instabile e deficienze tecniche. Stiamo lavorando contro gli sforzi di un consorzio internazionale che ci sta chiedendo 40 milioni di dollari di danni nei tribunali internazionali e contro il governo – supportato dagli uomini d’affari e dagli intellettuali – che vogliono una rivincita solo perché la gente ha detto “Ne ho abbastanza”.

Questa vittoria, se colta all’interno del regno del dominio imposto dal modello (neoliberale), non risolverà i problemi della gente. Ecco perché la saggezza popolare ha riconosciuto che è necessario sostituire coloro quali decidono il gioco a cui si deve giocare e ha posto la questione, attraverso la Coordinadora, della convocazione di una “Assemblea Costituente”, una assemblea nella quale - al contrario di quanto viene fatto dai partiti politici tradizionali e dai gruppi con il potere economico - si possa costruire il nostro paese dal basso, a partire dagli esclusi, da chi vive nelle periferie e nelle comunità.

Queste sono le nostre sfide principali e per questo abbiamo bisogno di solidarietà, del sostegno internazionale per dimostrare che un mondo diverso è possibile, che la gente è capace di costruire, di proporre alternative, di prendere nelle proprie mani la soluzione dei suoi problemi e prendere le proprie decisioni.

Per concludere voglio dire che dopo tutto, noi abbiamo ottenuto due tipi di vittoria. Una è economica. L’aver respinto e congelato le bollette ha significato tenere a Cochabamba 3 milioni di dollari, dopo l’espulsione del consorzio. Ogni famiglia risparmierà dai 30 agli 80 dollari all’anno, in una fase in cui, negli ultimi dieci anni, il governo ha aumentato i salari di una media di 5 dollari l’anno e in un paese in cui il salario minimo a livello nazionale è appena di 60 dollari al mese. L’altra vittoria è politica perché la gente ha fatto giustizia, perché l’individualismo, l’isolamento e la paura sono scomparse dietro lo spirito di solidarietà. Siamo stati capaci di ricostruire una azienda sociale che il neoliberismo aveva frammentato e distrutto.

Noi vogliamo una vera democrazia. Noi vogliamo un governo che tenga conto delle nostre opinioni e decisioni e che fondamentalmente ignori gli interessi delle istituzioni finanziarie e le loro politiche neoliberali. Concretamente, io desidero diffondere l’esperienza della lotta del popolo di Cochabamba contro la privatizzazione dell’acqua, così che essa possa essere vista come un esempio di coraggio e speranza. Ma non è solo questo. Perché questa vittoria, questo sforzo collettivo di donne e di uomini possa rappresentare una vittoria per tutti – non solo per i boliviani – deve essere considerata una vittoria di tutti noi che abbiamo immaginato e sognato un mondo diverso da quello disegnato dalla Banca Mondiale, dal FMI, e dal WTO.

La nostra vittoria deve essere anche vostra.

 

Questo articolo è un adattamento di un discorso tenuto alla Socialist Summer School a Chicago nel giugno del 2001.



 

Tim Robbins

 

Per che cosa ho votato quando ho scelto Nader

 

Tim Robbins è un regista e attore che ha attivamente appoggiato la candidatura alle presidenziali di Ralph Nader nel 2000. Il suo impegno politico e civile è ben documentato dai film che ha firmato come regista, tra cui Dead men walking (1995) è forse il più noto. Questa è la trascrizione di alcune sue considerazioni fatte durante la cena annuale della Liberty Hill Foundation, che gli ha recentemente conferito il riconoscimento Upton Sinclair Award.[4]

 

Circa un mese fa in un teatro di New York, sono stato avvicinato da un’agitata coppia di due persone più anziane di me.

“Speriamo che sarai contento ora” mi hanno detto.

“Di cosa?” ho detto, già sospettando la risposta che mi avrebbero dato.

“Il tuo Nader ci ha dato Bush.”

Questa non era la prima volta dalle elezioni in cui venivo attaccato da liberali irati che vedevano il mio sostegno a Nader come un tradimento, una blasfemia, qualcosa di equivalente al pisciare sulla Costituzione. Prima delle elezioni io e Susan [Sarandon] siamo stati attaccati sulle pagine del New York Times; abbiamo ricevuto fax intimidatori da una femminista molto conosciuta per via del nostro sostegno a Nader. Una settimana prima delle elezioni abbiamo ricevuto una telefonata dal rappresentante di un gruppo di pressione di Hollywood che ci chiedeva di chiamare urgentemente Nader chiedendogli di ritirarsi dalla corsa [per la presidenza]. Se lo avesse fatto, questo magnate, così diceva avrebbe dato un contributo di 100.000 dollari al Partito dei Verdi.

Io gli detto che nessuna telefonata avrebbe influenzato quell’uomo, che non si trattava di una politica di influenze personali e affari poco puliti, e che i Verdi probabilmente non avrebbero accettato il suo denaro.

Dopo le elezioni ho letto un articolo in cui un famoso attore criticava i sostenitori di Nader definendoli “liberali in limousine” del peggior tipo, gente che non si curava minimamente delle sorti dei poveri.

Non è stato facile sostenere Nader. Senza alcun dubbio il messaggio che ci hanno mandato i colleghi e i nostri soci commerciali era che il nostro sostegno a Nader ci sarebbe costato caro. Sarà così? Non lo so. Dopo le elezioni uno dei nostri figli è stato ripreso in pubblico dal magnate di Holywood di cui dicevo prima. E chissà a quali favolose feste non siamo stati invitati. E quindi cosa possiamo dire? Come uno che ha votato sulla difensiva in passato e che un tempo sosteneva che i repubblicani erano l’incarnazione di tutti i mali, io comprendo perfettamente le reazioni di questa gente. Otto anni fa avrei detto le stesse cose che loro ora dicono a me. Ma intanto sono avvenuti molti fatti che hanno cambiato il modo in cui la penso. Dopo aver parlato con i miei amici a Seattle dopo le manifestazioni, e dopo essere andato con Susan a Washington D.C. ed aver parlato con gli attivisti delle proteste contro la Banca Mondiale e il FMI, dopo aver discusso, fuori da un Gap[5] sulla Quinta Avenue, con tredicenni che diffondevano opuscoli sui luoghi dove si lavora in condizioni di sfruttamento, dopo aver visto la netta svolta a destra del Partito Democratico nell’era Clinton, ho cominciato a pensare che avrei votato secondo coscienza piuttosto che sulla base di considerazioni tattiche.

C’è qualcosa di indubbiamente significativo in quello che sta succedendo oggi. Un nuovo movimento sta lentamente prendendo piede nei campus universitari, tra i gruppi di sinistra in Europa e tra i gruppi per i diritti umani in tutto il mondo. Le manifestazioni a Seattle nel 1999, le proteste contro la Banca Mondiale - FMI a Washington D.C. nel 2000 e le agitazioni che si ripetono dovunque gli organismi delle corporations si riuniscono per dettare le regole dell’economia globale e delle politiche ambientali non sono, come le descrivono i media, semplicemente il riflesso del lavoro di frange radicali e di anarchici. Tali iniziative sono il prodotto di larghe coalizioni di studenti, ambientalisti, sindacalisti, coltivatori, scienziati e altre organizzazioni che coinvolgono cittadini i quali vedono le decisioni prese da queste cricche come una prima linea nella battaglia per il futuro di questo pianeta.

Questo è un movimento che muove solo i suoi primi passi, ma che credo sia altrettanto coinvolgente dal punto di vista morale dei primi abolizionisti in lotta per farla finita con la schiavitù nel XVIII secolo; importante come quello degli attivisti sindacali che esigevano la sicurezza sul lavoro e la fine del lavoro minorile all’inizio degli anni ’50 del XIX secolo; irrefutabile come quello degli scienziati che per primi hanno richiamato l’attenzione del pubblico americano sull’abuso generalizzato del nostro ambiente da parte delle corporations inquinanti.

Tutti questi movimenti si scontrarono con la schiacciante condanna di entrambi i partiti; furono ignorati e poi criticati dalla stampa; i loro aderenti furono perseguitati, arrestati e talvolta persino uccisi dalla polizia e da altri organi dello Stato. Ma grazie alla loro tenacia furono allo stesso tempo in grado, nel nostro Paese, di far approvare leggi che posero fine alla schiavitù e che stabilirono dei minimi salariali, la previdenza sociale e i sussidi di disoccupazione, la responsabilità ambientale e la sicurezza nei posti di lavoro.

Malgrado anni di progressi nel nostro Paese su tutte queste questioni, stiamo assistendo alla ricomparsa del lavoro minorile e schiavistico, di condizioni di lavoro non sicure, di fabbriche dove si attua lo sfruttamento più bestiale, di una deliberata distruzione dell’ambiente nel Terzo Mondo ispirata dallo stesso ethos delle corporations che per anni hanno cercato di opporsi negli Stati Uniti a tutte le conquiste progressiste. Nell’interesse dei margini di profitto e della crescita economica, le nostre corporations hanno allungato i tentacoli sull’economia globale, trovando il modo di ritornare a una situazione primo ottocentesca. Grazie all’incoraggiamento del libero commercio e alla protezione del NAFTA, del GATT e del WTO, gli USA esportato questi problemi in altri paesi del mondo.

Nel bel mezzo di un boom economico questi sono concetti scomodi da sostenere. E certamente non se ne può scrivere sulle nostre riviste ufficiali. Ma sono idee che si sentono urlare nelle strade e le argomentazioni dei manifestanti sono sostenute da un’incontrovertibile forza morale. Ralph Nader è stato l’unico candidato che ha parlato di questi temi e si è fatto portatore delle preoccupazioni espresse da questo nuovo movimento. Ecco perché Susan e io abbiamo votato per lui.

Le elezioni dello scorso anno ci hanno posto di fronte a un bivio importante. Il testa a testa finale tra i due candidati ha dato la possibilità di sollevare il velo, smascherato la corruzione, la manipolazione, il modo illegale in cui le elezioni sono tenute in questo paese. Il momento più umoristico e surreale è davvero stato quando Fidel Castro si è offerto di mandare osservatori che verificassero la regolarità delle elezioni. A parte l’evidente frode elettorale in Florida, i riflettori hanno brevemente messo in luce le pratiche razziste che hanno da sempre caratterizzato le elezioni in America. Che siano i blocchi stradali fuori dei seggi elettorali nei distretti dove votano i neri o la scomparsa di nomi afroamericani dai registri elettorali, che siano invece le inefficienze e le antiquate macchine elettorali nei distretti poveri, o l’utilizzo della Corte Suprema come una istituzione politica di parte, il quadro che ne viene fuori è identico: i potenti della classe dirigente americana hanno paura della democrazia.

C’era un tempo in cui avrei detto che erano i “cattivi” repubblicani ad avere paura della democrazia. Ma ho dovuto tristemente realizzare, dopo le elezioni del 2000 e dopo l’esperienza delle reazioni al nostro sostegno a Nader, che bisogna mettere nel mazzo anche i democratici. Non solo essi temono la democrazia, ma molti nell’élite democratica hanno timore, se non disprezzo, anche dell’idealismo. Io ho perso parecchio rispetto per un partito che intimidisce la sua ala progressista, che non tollera il dissenso nelle sue file e che cerca di demonizzare il più importante e influente tra i difensori dei consumatori degli ultimi cinquant’anni.

Ma non dobbiamo sorprenderci. Una simile reazione si è avuta anche all’inizio del secolo quando un altro importante sostenitore della giustizia sociale, Upton Sinclair, si presentò come candidato alla carica di Governatore della California. I gruppi di pressione del Partito Democratico fecero di tutto per isolarlo. Se lo sostennero in qualche modo, lo fecero a malincuore, mentre alcuni democratici appoggiarono addirittura il suo avversario repubblicano, Frank Merriam. E la stampa? Lo demonizzò dicendo che era un “anti-business”, che era un egocentrico esasperato. Vi ricorda qualcosa?

La maggior parte dei sostenitori di Nader che ho incontrato è gente realmente impegnata, gente che ha dedicato la sua vita a sostenere cause giuste, difficili e controverse; il livello del loro impegno politico merita molto più rispetto e va molto al di là di parecchi di quelli che li hanno criticati.

L’atteggiamento di sufficiente condiscendenza di alcuni esponenti della generazione che ha combattuto per la fine della guerra in Vietnam e lottato per i diritti delle donne è deludente e scoraggiante, ma comprensibile. Ma io non sono dell’opinione che Bill Clinton fosse il meglio che questa generazione potesse offrire e mi piacerebbe credere che siano rimasti dei progressisti che sappiano riconoscere l’importanza di questo nuovo movimento che sta crescendo intorno a loro. Mi piacerebbe credere che i ragazzi dei tempi del Vietnam che protestavano per quella ingiusta guerra volessero qualcosa di più che salvarsi la pelle. Vorrei credere che le femministe, una volta compreso che nelle fabbriche ad alto tasso di sfruttamento lavorano soprattutto le donne e che sono soprattutto loro ad essere vendute come schiave, vorranno riconoscere queste questioni come proprie e cominceranno a guardare oltre i diritti attinenti alla riproduzione come cartina tornasole per giudicare un candidato. Mi piacerebbe credere che più alti ideali guidino tutti noi, ideali che abbiano a che fare con il mondo nel senso più largo del termine.

I giovani che hanno aiutato a lanciare l’idea di un nuovo partito, un partito che non comprometta il futuro di questo pianeta in cambio di donazioni delle corporations, credono che i democratici e i repubblicani siano d’accordo su tutte le problematiche più importanti del nostro tempo. Questo nuovo movimento rifiuta la politica tradizionale, ed è un rifiuto che ha implicazioni spaventose, vista la reazione della comunità progressista. Siamo forse diventati i nostri genitori? Siamo noi ormai l’establishment? Siamo lo statu quo che cinicamente rigetta chi ha ideali e sogni, che dice agli idealisti che non c’è spazio per cose del genere in queste elezioni, che si deve votare strategicamente, che non possiamo permetterci i nostri sogni, che dobbiamo accettare il minore dei mali?

La coppia del teatro, l’opinionista, il magnate di Hollywood e l’attore battono i loro tamburi una volta ogni quattro anni per il loro candidato e descrivono l’eventuale elezione dei loro oppositori come nientemeno che la fine della civiltà. Ma si tratta di un opinionista gay che non vuole votare il candidato che sostiene apertamente i matrimoni tra due persone dello stesso sesso; un magnate che non avrebbe più pernottamenti gratuiti o proiezioni private in una Casa Bianca repubblicana; un attore che professa di avere a cuore i poveri, ma poi - chissà come mai! - non si unisce ai picchetti a sostegno dello sciopero indetto proprio dal suo sindacato.

Io non ho rispetto per gli attivisti “pantofolai”. Io rispetto invece i ragazzi fuori dal Gap che non vogliono fare compromessi. Non sono disposto a fare concessioni sul loro idealismo, la loro passione e la loro visione, a compromettere la loro integrità per un Partito Democratico che aspira a essere di centro, per un Partito Democratico che sostiene la pena di morte, che smantella il welfare mentre aumenta i sussidi per le corporations, che aiuta a creare un sistema economico il quale rappresenta un attacco al cuore del movimento operaio.

Come dev’essere imbarazzante per i senatori democratici vedere che ora l’incarnazione del coraggio politico in questo paese è un repubblicano del Vermont. Forse è tempo di smetterla di demonizzare le persone per la loro affiliazione politica e di seguire l’esempio dell’uomo che ha rischiato il suo futuro politico per ascoltare la voce che gli sorge dalla sua anima, di rigettare la solita politica e aprirsi ai sentimenti della gente comune, di formare alleanze improbabili in ambienti improbabili.

La lotta per la giustizia è una lunga lotta. È la base dei movimenti che creano il vero cambiamento; e nessun movimento dal basso ha mai ottenuto qualcosa facendo compromessi con sui suoi ideali. I cambiamenti reali non avverranno nei cocktail party a Washington o nella Lincoln Bedroom. Realizzarli è arduo, ci si sporca le mani e occorre un’agitazione indefessa. Ci sono voluti oltre cent’anni di impegno per eliminare la schiavitù, più di cento anni per mettere fine al lavoro minorile, e altrettanti per introdurre i minimi salariali. Questo movimento sta muovendo solo i suoi primi passi, ma è ben vivo e non scomparirà tanto facilmente. Le sue porte ti sono aperte. Può intimorire attraversarne la soglia, ma fare questo passo è essenziale.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul numero di Nation del 6 agosto 2001. Riproduzione autorizzata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Michael Löwy

 

Davos e Porto Alegre: due progetti opposti di civiltà

 

Michael Löwy è Direttore per la ricerca in sociologia al Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica a Parigi. Pubblica regolarmente contributi per la New left Review e Socialist Register. È autore di molti libri, diversi dei quali, sono stati tradotti in italiano. Tra questi ricordiamo Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari (La Salamadra, Milano, 1978).

 

Alcune anime belle cercano di riconciliare il Forum Economico di Davos e il World Social Forum di Porto Alegre sostenendo che entrambi hanno lo stesso obiettivo, vale a dire, umanizzare l’economia globale. Secondo me, e penso non sia l’unico qui a pensarla così, Davos e Porto Alegre rappresentano due prospettive storiche, due piani di civiltà e due opposte realtà sociali antagonistiche e irreconciliabili. Il nuovo secolo che sta cominciando dovrà scegliere tra questi due percorsi. La cosiddetta Terza Via[96] non esiste.

A Davos si parla frequentemente di “dialogo”. Le discussioni via satellite fra i rappresentati dei due forum hanno dimostrato l’impossibilità di questo dialogo, per il quale non esiste un linguaggio comune. La gente di Porto Alegre vive nel mondo reale, mentre i portavoce di Davos vivono in un’altro pianeta, nel quale il mercato libero e non regolamentato porta felicità e prosperità per tutti, mentre le politiche neoliberali eliminano la disoccupazione.

A Davos è rappresentata l’élite polico-economica del sistema capitalista globale. Ci sono banchieri, tecnocrati, imprenditori, speculatori, funzionari statali e vari ministri che, salvo rare eccezioni, rappresentano gli interessi dell’oligarchia finanziaria che domina il mercato mondiale. Condividono la stessa identica posizione, malgrado certe differenze di dettaglio, lo stesso feticismo per il mercato, la stessa “idolatria del mercato” – per prendere a prestito una espressione di teologi della liberazione come Leonardo Boff o Frei Barreto – un idolo vorace che pretende sacrifici umani.

Rappresentano un sistema, il capitalismo neoliberale, che è intrinsecamente perverso, inumano, e responsabile degli “orrori economici” della disoccupazione e di una mostruosa ineguaglianza sociale. Ci basti citare un solo dato: - tre miliardari nordamericani che potrebbero benissimo essere a Davos - possiedono una fortuna equivalente al PNL di 42 paesi poveri con una popolazione complessiva di 600 milioni di persone. Essi sono i rappresentanti del sistema delle politiche neoliberali, degli “aggiustamenti strutturali” che sacrificano la spesa per la sanità e l’educazione al pagamento dei debiti, di un sistema responsabile della distruzione accelerata dell’ambiente; dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e della terra; così come dell’effetto serra, che potrebbe produrre un disastro ecologico di proporzioni inimmaginabili nel giro di pochi anni. È un sistema governato dalla legge della giungla, una guerra in cui tutti combattono contro tutti e i più forti, i più feroci e spietati, vincono.

Il World Social Forum, questo primo progetto di contropotere globale, cosa rappresenta? Rappresenta la speranza, il piano possibile e realistico per un altro mondo, per un’altra economia locale, nazionale e internazionale orientata verso la soddisfazione dei bisogni sociali e il rispetto degli equilibri ambientali. Un piano realistico e possibile per un’altra società basata sui valori dell’eguaglianza, della solidarietà, della fraternità, della cooperazione e del mutuo sostegno. Ci sono molti fra noi che vedono nel socialismo sia l’unica, radicale, autentica alternativa all’ordine esistente. Tuttavia siamo insieme a nostri amici, i quali non condividono questa opinione, nella lotta per rivendicazioni concrete e immediate: la Tobin Tax sui capitali speculativi, la cancellazione del debito, l’abolizione dei cosiddetti paradisi fiscali, la riforma agraria, la moratoria sui cibi geneticamente modificati.

Il forum di Porto Alegre rappresenta anche un progetto di vera democrazia, basata sull’ attiva partecipazione della popolazione, una democrazia che ha già alle sue spalle dodici anni di esperienze a Porto Alegre e due anni di esperienza nello Stato del Rio Grande do Sul, e che senza dubbio si radicherà a São Paulo nel prossimo futuro.

Il Presidente svizzero, aprendo il forum di Davos, ha affermato irritato che Davos rappresenta governi eletti, mentre a Porto Alegre ci sono solo Organizzazioni Non Governative non elette. Chi elegge Bill Gates presidente della più grande multinazionale del mondo? Che controllo hanno i cittadini sulle multinazionali o sui movimenti del capitale speculativo? E senza menzionare il fatto che il più importante governo rappresentato a Davos, il governo americano, ha un presidente che è stato eletto dai giudici della Corte Suprema e non dal popolo americano.

Tuttavia questo contropotere globale non può costruirsi, maturare, senza avere rami, foglie e frutti, senza avere radici nella concreta realtà locale, nella espereinza locale di controllo democratico ma anche di lotta. Io segnalerò solo due esempi di movimenti sociali, tra i più attivi, coinvolti nel progetto del forum di Porto Alegre: la Confédération Paysanne di José Bové e il movimento Sem Terra in Brasile. Noi ci associamo a loro perchè loro hanno la forza, perché sono radicati in esperienze, bisogni ed esperienze locali. Questi sono movimenti radicali nel senso che vanno alla radice del problema; pochi giorni fa ci hanno dato una buona lezione di radicalismo estirpando qualcosa di marcio, in questo caso le piantagioni dei cibi geneticamente modificati della multinazionale Monsanto.

Per concludere, una certa stampa neoliberale, per creare confusione, ci chiama “antiglobalisti”. Questo non è niente di più che un tentativo deliberato di disinformare. Questo movimento e questo forum non sono da nessun punto di vista “antiglobalisti”; sono contro questo mondo – capitalista, neoliberale, ingiusto e inumano – e cercano di costruire un altro mondo, di solidarietà e fraternità. Questo nuovo mondo comincia forse a Porto Alegre, nel gennaio 2001.

 

Questo articolo è l’adattamento dell’intervento tenuto al World Social Forum a Porto Alegre, Brasile, gennaio 2001.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

Howard Zinn

 

“Quello che sta a cuore a milioni di persone sono le questioni di classe"

 

Howard Zinn è professore emerito alla Boston University. È autore del classico A People’s History of the United States, che la rete HBO sta attualmente adattando per la televisione. In Italia gli Editori Riuniti hanno pubblicato la sua pièce teatrale Marx a Soho (2001). L’intervista è stata curata da Anthony Arnove, membro della redazione della International Socialist Review ed uno degli animatori della casa editrice South End Press.

 

Tu hai scritto molto sui movimenti popolari degli anni ’60. Quali sono le similitudini e quali le differenze tra i movimenti di oggi contro la globalizzazione capitalista e le lotte a cui hai partecipato e sulle quali hai scritto ?

 

Le manifestazioni di massa, la gente che scende nelle strade, che usa le arti e che si scontra con la polizia, assieme ad altre forme di protesta a cui stiamo assistendo ora, le abbiamo già tutte viste negli anni ’60. Le tattiche della protesta non sono cambiate molto. Attraverso questi mezzi si tenta di impedire a chi che è al potere di fare quello che sta facendo, attirando la pubblica attenzione su questioni importanti e incoraggiando chi protesta a portare tanta altra gente nelle strade, perché capiscano di non essere soli. Questo succedeva negli anni ’60 e lo stesso sta succedendo oggi a Quebec City, a Washington, a Philadelphia e così via.

Una delle più maggiori differenze tra le manifestazioni gli anni ’60 e quelle degli ultimi anni sta nella centralità delle questioni economiche oggi. Non era di certo così negli anni ’60. Allora le questioni principali erano quelle razziali, quelle legate alla guerra del Vietnam, ai diritti delle donne, alle lotte dei prigionieri. Ma fare della distribuzione della ricchezza e degli effetti del capitalismo, le questioni centrali è qualcosa di nuovo.

E questo significa essere posti di fronte a maggiori difficoltà e a compiti più complessi di quelli che avevi di fronte prima, perché il razzismo, almeno nei suoi aspetti superficiali, può essere affrontato entro i limiti del sistema. Il sistema può, fino a un certo punto, assorbire la fine della segregazione razziale; può farla finita con i simboli della segregazione e continuare a funzionare.

Lo stesso vale per il movimento contro la guerra del Vietnam. Ci si può ritirare dal Vietnam ma mantenere l’apparato militare nel mondo da qualche altra parte del mondo, mantenere l’industria e la spesa militare. Ma le questioni economiche, quelle riguardanti la concentrazione della ricchezza, e del potere economico, sono di più vasta portata e richiedono azioni più drastiche per essere affrontate.

 

Abbiamo visto reazioni molto violente da parte dei politici e dei giornalisti, così come misure molto repressive contro i manifestanti che tentavano di dar voce alla loro opposizione ed esercitare i diritti fondamentali di assemblea, di parola e di protesta.

 

La centralità delle questioni economiche significa che in futuro il potere sarà  più accanito nel difendersi, perché ora tu stai colpendo al cuore il sistema. Tu stai colpendo il cuore del suo potere economico. Ciò suggerisce quindi che lo scontro sarà più militante e più duro di quello degli anni ’60. I primi segnali li abbiamo visti a Seattle. Li abbiamo visti nel livello di repressione usato contro i manifestanti quando questi si riuniscono per protestare contro le riunioni dei paesi più potenti, contro istituzioni come il WTO e il FMI.

Un altro sviluppo interessante è il ruolo dei lavoratori in queste proteste. Dato che la questione di classe è così centrale, in queste manifestazioni si è vista una partecipazione di sindacalisti e attivisti dei lavoratori, a differenza di quanto era avvenuto negli anni ’60.

 

Sembra che gli studenti stiano davvero facendo passi avanti nel collegare il loro attivismo politico con le più ampie questioni di classe, economiche e dell’imperialismo, uscendo dai campus per unirsi insieme ad altri soggetti.

 

Negli anni ’60 gli studenti manifestavano nei campus contro la guerra e la segregazione razziale. Negli anni ’70 e negli anni ’80 hanno manifestato contro l’apartheid e l’intervento degli USA in America Centrale. Le loro azioni sono state molto significative perché cercavano di andare oltre l’università. Per questa ragione le loro azioni si sono dimostrate molto più importanti e hanno avuto perciò un grande impatto su altri settori della popolazione. È incoraggiante vedere che ciò avviene ancora più diffusamente oggi sulle questioni dei posti di lavoro ad alto sfruttamento, sui salari minimi e sulla concentrazione della ricchezza in sempre meno mani.

 

Come si può lottare contro la globalizzazione delle corporations coinvolgendo anche persone che potrebbero non identificarsi in maniera immediata con la gente che vedono in televisione protestare contro l’Area di Libero Commercio delle Americhe o il FMI a Washington?

 

Penso che la questione della globalizzazione e del libero commercio possa essere molto complicata. E mentre le manifestazioni a Quebec City, a Praga e Seattle avevano lanciato un messaggio molto importante sul potere delle multinazionali, penso che ora debba essere fatto molto di più per portare queste grandi questioni verso problemi concreti, come quelli di quale tipo di sanità avremo come risultato delle privatizzazioni e del potere delle grandi compagnie farmaceutiche.

Noi dobbiamo affrontare la questione del libero mercato e di quanto il mercato stia veramente facendo per affrontare i problemi dell’umanità. Perché il libero mercato non sta facendo nulla per la gente che ha fame? In altre parole, prendiamo un problema come quello dei senzatetto e le difficoltà per la gente di trovare abitazioni accessibili economicamente, per via del mercato immobiliare e dei piani urbanistici formulati seguendo delle forze di mercato.

Guardiamo le questioni più importanti: la casa, la sanità e la pubblica istruzione. Tutte queste cose essenziali stanno iniziando a mancare perché le forze del mercato esigono che le nostre tasse siano usate per fini militari e che il sistema di tassazione venga modificato per dare ulteriori benefici ai pochi che stanno nella fascia di reddito più alta.

Le grandi questioni di classe che sono state poste a Seattle hanno bisogno di essere rapportate ai fondamentali problemi biologici vitali, delle necessità, dell’educazione dei nostri figli. Queste sono le questioni che stanno a cuore a milioni e milioni di persone.

Noi dobbiamo fare di più per collegare i problemi di cui la gente è già a conoscenza, le cose che sanno essere sbagliate circa il controllo dei mercati nazionali e internazionali sulle loro vite, nonché i modi con cui è possibile sfidare il potere delle corporations e il mercato.

 



 

Ahmed Shawki

 

La lotta per un mondo diverso

 

Le grandi manifestazioni di Genova contro il vertice del G8 di luglio sono una pietra miliare nel movimento per una giustizia globale. Queste manifestazioni rappresentano una nuova fase nello sviluppo del movimento e sollevano nuove questioni politiche e organizzative. Genova ha definito più precisamente i contorni di una nuova sinistra internazionale e ha reso più chiari i compiti che ci stanno di fronte.

Poco più di un decennio fa, i leaders del mondo occidentale affermarono che il socialismo era morto e proclamarono che “non c’era alternativa” (TINA, “there is not alternative”) al sistema di mercato e al capitalismo. Ma al posto di un nuovo mondo di crescita economica nel quale “tutte le navi hanno il vento in poppa”, l’economia mondiale è stata testimone di uno dei più rapidi e drammatici spostamenti di ricchezza che si siano mai visti. Ora si sta sostituendo TINA con l’idea del “TMBAA” (“there must be an alternative”, ci deve esser un’alternativa) o più elegantemente, per usare le parole della dichiarazione del primo World Social Forum di Porto Alegre del gennaio 2001, che “Un altro mondo è possibile”.

Se l’ultimo quindicennio è stato segnato dalla vittoria ideologica del mercato e dalla “fine del socialismo”, ora stiamo assistendo all’affermarsi del suo opposto: la crisi dell’ideologia del mercato e, più lentamente, magari, di maggiori difficoltà del capitalismo in ambito internazionale. Dopo un decennio di boom economico, il movimento per la giustizia globale è emerso come un’ opposizione agli effetti della globalizzazione capitalistica. Il passaggio del sistema dal boom alla crisi non farà che rendere più chiara questa linea di faglia. Le economie oggi più vulnerabili, Turchia e Argentina, stanno ingurgitando un’altra dose della medicina del Fondo Monetario Internazionale e degli enormi costi sociali che ne derivano. Ciò ha solo gettato benzina sul fuoco dei sentimenti di opposizione alle istituzioni finanziarie e alle corporations che dettano il futuro di gran parte della popolazione mondiale.Sia i sentimenti di opposizione che l’affermarsi dell’idea che un altro mondo è necessario e possibile sono stati gli elementi più impressionanti delle tre giornate di proteste a Genova. Questi sentimenti hanno portato nelle piazze decine di migliaia di persone, a partire dalla manifestazione in solidarietà con gli immigrati dietro lo slogan “Siamo tutti clandestini” del 19 luglio, passando per la disobbedienza civile del 20, per finire con la manifestazione di massa dei trecentomila per le vie della città vecchia il 21 luglio.

Le dimensioni e la scala delle manifestazioni sono state largamente ignorate o non riportate dai principali mass-media statunitensi. Ma non si deve permettere che l’assalto della polizia ai manifestanti e la concentrazione dei media sulla violenza e il black bloc sminuiscano il significato di ciò che è avvenuto. Significativamente, decine di migliaia di persone si sono raccolte malgrado il fatto che il governo italiano e i mezzi di informazione fossero impegnati in una sistematica campagna di allarmismo per tenere la gente a casa. Una moltitudine di persone si sono riversate in strada il 21 giugno nonostante l’assassinio di Carlo Giuliani il giorno prima e malgrado l’assenza delle principali organizzazioni della sinistra riformista.

Dopo Genova, a migliaia, in tutta Italia sono scesi in piazza per protestare, determinando una crisi politica per il governo Berlusconi. All’estero, i giornali che in un primo tempo avevano concentrato la loro attenzione sulle violenze dei dimostranti hanno messo in prima pagina i racconti del brutale attacco della polizia alla sede del Genoa Social Forum, il principale organizzatore delle proteste.

Per alcuni Genova diventerà sinonimo di violenza e questa è indubbiamente la linea che molti dei principali giornali hanno deciso di sostenere. Sfortunatamente, stanno facendo lo stesso anche alcune organizzazioni non governative. Ma qui si pongono due problemi distinti. Il primo ha a che vedere con la violenza dello Stato diretta contro il movimento; l’altro è la questione di come il movimento si debba confrontare con una piccola minoranza di individui autoselezionati che hanno scelto di impegnarsi in una serie di tattiche che vanno a discapito di tutto il movimento. Non dobbiamo lasciare che la presenza del black bloc (o di agenti provocatori che si facevano passare per membri del black bloc) celi l’identità dei veri provocatori della violenza a Genova. Sin dalla nascita del movimento, i governi e le corporations che dominano il mondo hanno portato avanti una doppia strategia che abbina il tentativo di screditare, dividere e reprimere il movimento allo sforzo di contenerlo e sovvertirlo. Per esempio, a Seattle nel 1999 la polizia fu sguinzagliata in quello che è stato descritto da più parti come un “tumulto poliziesco”; poi venne la carota, nella forma del discorso “Io soffro insieme a voi” di Bill Clinton.

Ciò che era chiaro anche prima di Genova è che il pendolo stava oscillando verso una maggiore repressione e una maggiore violenza. Le altre manifestazioni tenutesi quest’anno, a Quebec City e Gotheborg, così come le provocazioni della polizia a Barcellona, ne sono una chiara prova. Quello che è successo a Genova riflette la decisione da parte di chi gestisce questo sistema di non tollerare il dissenso.

A coloro che tentano di mettere sullo stesso piano le azioni del black bloc con quelle dello Stato, ha risposto enfaticamente il padre di Carlo Giuliani:

“Nella manifestazione di venerdì Carlo indossava, certo, un passamontagna. Ma tu non puoi paragonare il lancio di un estintore con un colpo di pistola alla testa”. O, come ha dichiarato Luca Casarini delle tute bianche: “C’è una differenza abissale tra chi costruisce una barricata per difendersi e chi decide invece di stroncare militarmente un movimento ampio e articolato come quello contro la globalizzazione economica”.

Tuttavia sappiamo c’è un black bloc genuino, un gruppo autoselezionato che si organizza fuori del controllo degli organizzatori delle manifestazioni con lo scopo di provocare scontri con la polizia. Casarini ha ragione quando dice a Il Manifesto che “Sono persone che credono che per colpire il capitalismo basti sfasciare una vetrina. [...] Noi la pensiamo diversamente. Noi crediamo in un processo di trasformazione sociale [...]”

La questione della tattica, della violenza e della non violenza, deve emanare dagli scopi del movimento. Il rivoluzionario russo Lev Trotsky disse che se fosse bastato gridare “All’attacco!” in ogni battaglia, senza tenere conto del rapporto di forze, senza tenere conto del terreno, senza tenere conto di chi è il nemico, o senza tenere conto di chi hai a fianco, qualsiasi idiota potrebbe essere un generale rivoluzionario. Coloro che gestiscono il sistema hanno messo in chiaro che agiranno con la violenza contro il nostro movimento. Noi non possiamo semplicemente dire a gran voce che faremo quel che ci pare senza aspettarci di dover pagare un prezzo.

Non è la prima volta che la questione della violenza individuale è stata sollevata in un movimento radicale. Il movimento rivoluzionario russo cominciò con atti eroici individuali contro lo Car’. Karl Marx scrisse con tenerezza e in appoggio totale di Vera Zasulič, un membro della “Narodnaja Volija” che aveva assassinato un funzionario della polizia zarista. La giuria fu così colpita dal suo contegno al processo e dal suo odio per la violenza e l’oppressione dello zarismo che la lasciò libera.

Noi non dobbiamo condannare moralmente gli atti individuali di violenza, ma possiamo e dobbiamo affermare che essi sono un vicolo cieco per il movimento. Ancora Trotsky scrisse che non è uno dei nostri scopi quello di colpire i rappresentanti individuali del sistema; il nostro obiettivo è quello di trasformare l’intera società. Ciò non si compirà con gli atti di eroi individuali:

 

“I profeti anarchici della “propaganda dell’azione” possono argomentare tutto ciò che vogliono sull’alta e stimolante influenza delle azioni terroriste sulle masse: considerazioni teoriche e l’esperienza politica provano il contrario. Più è “efficace” l’azione terrorista, più ampio è il suo impatto, più l’attenzione delle masse si concentra su di essa, più diminuirà l’interesse delle masse nell’autorganizzazione e nell’autoeducazione.”[97]

 

Noi siamo per la costruzione di un movimento che determini da sé il proprio futuro, che costruisca da sé la sua organizzazione e che imponga la sua democrazia. Non possiamo sostituire gli atti di piccole minoranze a questo processo.

Ci sono alcune organizzazioni che hanno deciso di non partecipare alla manifestazione del 21 luglio perché, dicevano, non potevano garantire l’incolumità dei propri membri. In questo senso Genova è stato un bivio per il movimento. Gli eventi di Genova – e in particolare le grandi manifestazioni in tutta Italia la settimana successiva – mostrano che il movimento non si lascerà intimorire e ridurre al silenzio. Ci ricorda coloro i quali sono passati attraverso gli anni ’60 e in qualcuna delle manifestazioni dei primi anni ’70, che dinanzi agli idranti e alla brutalità dicevano: “Non importa. È giusto protestare, troverò un modo per protestare, troverò un modo per dire chiaramente come la penso.”

Il padre di Carlo Giuliani, riassumendo cosa aveva motivato molte migliaia di persone ad andare a Genova, ha semplicemente detto:

“Carlo non accettava il fatto che otto leader del mondo dovessero decidere la vita e la morte di centinaia di migliaia di persone. Qui a Genova non devi andar lontano per vedere le vittime delle loro politiche. Torna quando il G8 sarà passato e vedrai la disperazione di quelli lasciati affamati, di quelli che sono stati forzati ad abbandonare il loro paese e a stabilirsi qui, costretti a sopravvivere senza nessuna dignità nei vicoli che circondano il porto”. Ora il movimento è posto di fronte a importanti questioni, quali quella di come difendersi e di come andare avanti e sfidare efficacemente i padroni e i loro governi. C’è la questione di come difendere i nostri diritti fondamentali – di parola, di protesta, di assemblea – senza la minaccia della violenza della polizia.

La stessa questione si pone per i funzionari del G8, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, e gente simile. I principali giornali hanno messo in discussione il futuro di tali incontri e la loro stessa ragione d’essere. Il londinese Financial Times scrive: “Una cosa che Genova ha dimostrato è che questi summit sono in realtà abbastanza futili” (ovviamente si aggiunge che i summit non dovrebbero essere fermati immediatamente, per evitare di dare l’impressione di darla vinta ai manifestanti). I padroni sono alle prese con il fatto che questi summit sono essenzialmente raduni simbolici dei ricchi e dei potenti e che le decisioni reali sono prese quotidianamente altrove, dai proprietari e dai consigli di amministrazione delle multinazionali, dalle banche, dalle burocrazie governative e dai loro eserciti.

L’escalation nell’uso della forza repressiva da parte dello Stato ha sollevato una questione strategica; come possiamo veramente sfidare una tale mobilitazione di forze armate? Sarebbe un errore dire che, dato che questi vertici sono solo simbolici, il movimento non dovrebbe più tentare di mobilitarsi in forze per sfidarli. Ma come fa un movimento di massa a cominciare a proteggere le proprie manifestazioni e ad assumerne il controllo in una situazione in cui la polizia tenta sistematicamente di scontrarsi fisicamente con esso, anche attraverso l’uso di infiltrati?

Per cominciare, dobbiamo continuare ad accrescere le dimensioni delle manifestazioni. Genova è stata di gran lunga la più grande manifestazione dalla nascita del movimento, con quattro o cinque volte più gente rispetto a Seattle. Lo Stato non poteva impedirla, e già solo questo è una vittoria.

Ma abbiamo bisogno di qualcosa di più di numeri. Dobbiamo attirare gruppi che finora non hanno partecipato, gente che possa mettere sul piatto della bilancia la propria forza organizzata per mobilitazioni ancora più grandi, ma che rappresenti anche un peso sociale che va al di là delle manifestazioni: la classe operaia. Abbiamo bisogno non solo di costruire manifestazioni più grandi, ma di andare anche oltre, per lottare nei quartieri e, cosa ancora più importante, nei posti di lavoro attraverso i sindacati. La dicotomia tra locale e globale, tra le manifestazioni in occasione dei summit e le manifestazioni locali, può essere affrontata da un movimento che abbia come obiettivo quello di dare voce alle aspirazioni e agli interessi di una vasta maggioranza. In Italia questa discussione è già cominciata in ambiti non ristretti, come conseguenza delle proteste di Genova. Le tute bianche, per esempio, stanno riesaminando la loro enfatizzazione della disobbedienza civile e la politica delle azioni simboliche. In una recente intervista a Il Manifesto, Casarini si è mosso in questa direzione: “Sono questi ulteriori fattori che mi portano a dire che si è esaurita la fase della disobbedienza civile. Ora bisogna passare alla disobbedienza sociale” e cioè che si devono collegare la lotta contro il G8 alle lotte sociali quotidiane nelle comunità e nei posti di lavoro, facendo diventare queste ultime parte integrante della lotta più complessiva.

Negli anni ’60 dopo aver provato a usare la tattica della disobbedienza civile, della non-violenza e della persuasione morale per oltre un decennio, il movimento dei diritti civili negli USA si trovò di fronte lo stesso corpo di questioni, che condussero non solo al riesame della tattica della non violenza ma anche a una più profonda comprensione di classe di ciò per cui stava combattendo il movimento. Il reverendo Martin Luther King Jr., parlando agli organizzatori del movimento nel 1967, sollevò alcune di queste questioni:

 

“Noi dobbiamo onestamente riconoscere il fatto che il movimento deve porsi la questione della ristrutturazione dell’intera società americana. Abbiamo 40 milioni di poveri. E prima o poi dovremo chiederci: “Perché ci sono 40 milioni di poveri in America?”. E quando tu incominci a porre la questione, inizi a porti il problema del sistema economico, il problema di una più generalizzata distribuzione della ricchezza. Quando poni questa questione inizi a mettere in discussione l’economia capitalistica. E a farti domande sull’intera società. Noi siamo chiamati ad aiutare gli scoraggiati mendicanti nel mercato della vita. Ma dobbiamo arrivare a comprendere che un edificio che produce mendicanti ha bisogno di essere ristrutturato. Ciò significa che è necessario sollevare questa questione. Vedete, amici miei, quando inizi ad affrontare tutto questo, finisci per domandarti “A chi appartiene il ferro?” Cominci a domandarti: “Com’è che quella gente deve pagare la bolletta dell’acqua in un mondo che è per due terzi acqua?” Queste sono domande che devono essere poste.”[98]

 

Domande che devono essere poste ancora oggi. Una intera generazione giunse alla conclusione, alla fine degli anni ’60, che se voleva che le sue lotte fossero vincenti doveva sfidare il capitalismo in quanto tale. Oggi c’è una rinascita della sinistra che sta avvenendo a livello internazionale e il sistema viene nuovamente messo in questione. Il padre di Carlo Giuliani ha concluso l’elogio funebre per il figlio dicendo “In qualche misura non ci capivamo. Io sono iscritto ai Democratici di Sinistra. O per meglio dire lo ero - la nostra sezione è chiusa ormai da mesi. Non ci sarà più per casa la sua vivacità. Non avremo più le nostre canzonature calcistiche. E non avremo mai più le nostre discussioni politiche. Ma forse ora è tempo che nuova gente apra nuove sedi, in modo che si possa portare avanti la discussione.”

Ha ragione. È tempo di cominciare a discutere, di iniziare a costruire. L’idea e l’organizzazione socialista sono decisive in questo progetto.

Dal Manifesto del Partito Comunista in avanti, Karl Marx e Friedrich Engels hanno sempre respinto l’idea che la liberazione dallo sfruttamento e dall’oppressione potesse venire per mezzo dell’azione di una minoranza illuminata. Ma neppure le moltitudini pure e semplici possono vincere le forze armate di uno Stato. Solo la lotta rivoluzionaria, basata sulla forza dei lavoratori, può costruire un’alternativa:

“Sia per la produzione su scala di massa di questa coscienza comunista, sia per il successo della causa stessa, è necessario un cambiamento degli uomini su scala di massa. Questo cambiamento può realizzarsi solo in un movimento pratico, in una rivoluzione; la rivoluzione è necessaria, quindi, non solo perché la classe dominante non può essere rovesciata in nessun altro modo, ma anche perché la classe che sovverte solo in una rivoluzione vincente può liberare se stessa da tutto il vecchio marciume e diventare idonea a fondare da capo una società.”[99]

Ecco perché oggi qualsiasi discussione sul socialismo, sulla trasformazione della società, deve cominciare dalle parole che Marx scrisse più di 150 anni fa: “L’emancipazione della classe operaia deve essere a opera della classe operaia stessa”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Questo articolo è l’adattamento di un discorso tenuto presso il Z Media Institute a Woods Hole, Massachusetts, nel giugno 2001.

 

[1] Noam Chomsky, Turning the Tide: U.S. Intervention in Central America and the Struggle for Peace (Boston: South End Press, 1985).

[2] Vision for 2020 è disponibile on-line sul sito www.spacecom.af.mil/usspace/visbook.pdf

[3] Global Trends 2015 è disponibile on-line sul sito www.cia.gov/cia/publications/globaltrends2015

 

[4]  Nella sua opera più famosa, risalente al 1906 e intitolata La Giungla, il romanziere americano Upton Sinclair (1878-1968) sottolineava la finzione del “paradiso americano”, denunciando i crimini del capitale e il costo umano e ambientale della cieca e feroce concorrenza fra i grandi capitalisti, attraverso le terribili condizioni degli operai immigrati nelle fabbriche di produzione di carni in scatola a Chicago.

[5] Catena di negozi di abbigliamento presentegiovane presente in tutta America e in Gran Bretagna e famosanotoria per lo sfruttamento degli operai tessili nell’Estremo Oriente.


 

[1] La International Socialist Review è una rivista bimensile pubblicata sotto gli auspici dall’International Socialist Organization (ISO) statunitense dal 1997. L’ISO, sorta nel 1977,  fa riferimento alle tradizioni del marxismo rivoluzionario antistalinista e al patrimonio teorico dell’International Socialism di cui Tony Cliff (1917-2000), autore di una delle prime e più originali teorie del capitalismo di Stato in Russia, è stato uno dei principali dirigenti. Tutti i contributi inclusi in questo volume sono stati pubblicati sul numero 19 (agosto-settembre 2001) di detta rivista ad eccezione del saggio di Paul D’Amato apparso sul numero 17 (aprile-maggio 2001) della stessa rivista con il titolo “Imperialism and State” e il contributo “La nuova guerra di Bush” di Selfa Lance e Ahmed Shawki che apre il volume, il quale appare qui per la prima volta.

[2] Citato in Mark Curtis, The Great Deception: Anglo-American Power and World Order. (Pluto Press, London 1998), p. 40

[3] “What we say goes” frase colloquiale tipico di George Bush jr.

[4] Dipartimento della Difesa USA, Quadrennial Defense Review Report, 30 settembre, 2001, (Washington: U.S. GPO, 2001), p. 4. Disponibile sul sito www.defenselink.mil/qdr2001.pdf.

[5] Tim Shorrock, “US Faces Pressure to Reduce East Asian Bases” Asia Times Online, 9 ottobre, 200,1 consultabile sul sito www.atimes.com/japan-econ/CJ09Dh01.htm.

[6] Francesco Sisci, “Why China is taking America's side” Asian Times Online, 26 settembre, 2001, disponibile sul sito www.atimes.com.

[7] Francesco Sisci, “China Walks a Fine Line” Asian Times Online,  8 ottobre, 2001 disponibile sul sito www.atimes.com/china/CJO6Ad03.htm.

[8] Mandavi Mehta and Teresita C. Schaffer, “India And The United States: Security Interests” South Asia Monitor 34, 1 giugno 2001, disponibile sul sito www.csis.org.

[9] Sheehan citato in  David Brindley e Kevin Whitelaw, “Asia’s Big Oil Rush; Count Us In” U.S. News and World Report, 29 settembre 1997.

[10] vedi Michael T. Klare, Resource Wars (New York: Henry Holt and Company, 2001) In questo volume  si descrivono le macchinazioni delle grandi potenze nella regione del mar Caspio.

[11] Citato da Frederick Starr, Chairman of the Central Asia-Caucasus Institute alla Johns Hopkins Nitze School Advanced International Studies in Nafeez Mosaddeq Ahmed, “Afghanistan, the Taliban and the United States” disponibile sul sito www.mediamonitor.net. L’articolo di Ahmed , su cui ci siamo ampiamente basati per questo articolo, è eccellente. Tra l’altro l’intuito di Starr non dovrebbe essere messo in discussione.  Fino al 2001 il suo capo alla “Johns Hopkins” non era niente altri che Paul Wolfowitz.

[12] Vedi Alexie G. Arbatov, “The Transformation of Russian Military Doctrine: Lessons Learned from Kosovo and Chechnya” (Garmisch-Partenkirchen, Germany: George C. Marshall European Center for Security Studies, 2000).

[13]  “U.S. Indicates New Military Partnership with Uzbekistan” Wall Street Journal, 15 ottobre, 2001.

[14] Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Carter, Zbigniew Brezinski, più tardi si vantò che la CIA aveva cominciato ad assistere in segreto la guerriglia afgana prima dell’invasione sovietica per spingere l’URSS in quella palude. È un ulteriore prova che Carter usò la “minaccia sovietica” per giustificare la politica dell’intervento diretto americano nel Golfo. Vedi Ahmed, “Afghanistan, the Taliban and the United States”

[15] Citato in Curtis, p. 117.

[16] Klare, Resource Wars, pp. 68-78

[17] Questi dati provengono da Anthony H. Cordesman, U.S. Forces in the Middle East (Boulder, Col.: Westview Press, 1997) pp. 48, 79.

[18] Paul D’Amato, “Blood for Oil” International Socialist Review n°15 (dicembre 2000-gennaio 2001), p. 33.

[19] Vedi Mohamedi and Sadowski, “The Decline (But Not Fall) of US Hegemony in the Middle East”

[20] Robert Cottrell, “Tensions Between Russia and Georgia Reach New Heights” Financial Times, 11 ottobre 2001.

[21] Richard Lowry, “End Iraq” National Review, 15 ottobre. 2001. Consultabile sul sito http://www.nationalreview.com/15oct01/lowryprint101501.htm.

[22]  Stratfor, “Conflict Will Follow Taliban’s Fall” 9 ottobre, 2001, consultabile sul sito www.stratfor.com/home/0110091630.htm.

[23] Vedi Christopher Helman, “U.S. Military Spending vs. the World” Defense Monitor 30 agosto 2001.

[24] Citato da “The Canton Speech,” in Jean Y. Tussey, ed., Eugene V. Debs Speaks (New York: Pathfinder Press, 1972), p. 261.

[25] Lee Sustar, “Bosses Cash In On U.S. War Drive” in Socialist Worker, 19 ottobre, 2001.

[26] The Nation celebre settimanale americano di vedute progressiste fondato nel 1865.

[27] “Rules of Engagement” The Nation, 15 ottobre 2001.

[28] Agenzia di stampa online americana (www.salon.com).

[29] Citato in “Foreign Policy Very Much Like the Old” Christian Science Monitor, 3 ottobre 2001, http://www.csmonitor.com/2001/1003/p2s1-uspo.htm.

[30] Bruce G. Blair, “Terror Attacks Define New Military Agenda” Defense News, 17 settembre 2001. 

[31] Si veda la suddivisione del bilancio di Bush in “Fiscal Year 2002 Budget Request” Defense Monitor, agosto 2001, Washington, D.C., Center for Defense Information, disponibile sul sito www.cdi.org.

[32] In “QDR” p.4.

[33] Robert Fisk, “I am being vilified  for telling the truth about palestinians”, The Indipendent, 13 dicembre 2000

[34] Segretario di Stato Colin L. Powell, “Statement upon release of patterns of global terrorism 2000”, 30 aprile 2001, Washington, disponibili online sul sito www.state.gov.

[35] U.S. Department of State, Patterns of Global Terrorism – 2000, disponibile online sul sito www.state.gov/s/ct/rls/pgtrpy/2000

[36] “Peres: Armenian allegations are meaningless”, Turkish daily News, 10 aprile 2001.

[37] William Robinson in un recente rapporto NACLA, portando alle estreme conseguenze questo punto di vista, ha affermato che la globalizzazione nullifica l’imperialismo: “Io non concordo con la nozione prevalente secondo cui l’ordine del capitalismo globale emergente sia basato sulla egemonia USA. Le analisi basate sullo Stato-nazione sono superate e non permettono di comprendere le dinamiche transnazionali nella nuova era. Noi siamo testimoni del declino della supremazia americana e delle prime fasi di una emergente egemonia transnazionale come espressione di un nuovo blocco che è globale negli scopi e che è basato sulla egemonia delle corporations transnazionali.” William I. Robinson “Polyarchy”. Coercision’s New face in Latin America” NACLA Report on Americas, vol. XXXIV, No. 3 November/Dicember 2000 p. 45

[38] United Nation Department for Public Information, “Fact Sheet: Global Financial Profile,” Gennaio 2001.

[39] UNCTAD World Investment Report 2000, disponibile a www.unctad.org/wir.

[40] Lenin “Osservazioni critiche sulla questione nazionale” (OC ed. italiana vol. 20 p. 19).

[41] Leon Trotsky The Bolsheviks and the World Peace (Boni & Liveright, Inc., 1918) pp. 20-22

[42] La teoria della “Economia di Armamento Permanente” fu sviluppata negli anni ’60 da Michael Kidron allora membro del gruppo britannico International Socialism.

[43] Pete Binns “Revolution and State Capitalism in the Third World”, International Socialism 25, autunno 1984, p.55

[44] Ibidem

[45] Binns, p.58

[46] Daniel Singer Whose Millenium: Theirs or Ours? (New York: Monthly Review Press, 1999) pp. 192-193

[47] Duncan Green, Silent Revolution: The Rise of Market Economy in America Latina (London: Cassell and LAB, 1995) p. 51

[48] Walden Bello “U.S. Economics Expansion: Asia’s Crisis in America’s gain” Bangkok Post, 7 aprile, 2000

[49] Harry Shurt, The trouble with Capitalism: an Enquiry into the Causes of Global Economic Failure (London: Zed Books, 1998)

[50] 1997 World Development Report: “The State in a Changing World”. L’eccezione sono gli USA, dove le spese statali in relazione al PIL hanno conosciuto un declino negli anni ’90. Lo Stato americano, comunque investe in armi il 36% di tutta la spesa bellica mondiale: un aumento relativo in relazione agli ultimi anni.

[51] Winfred Ruigrok and Rob van Tulder, The Logic of International Restructuring (London and New York, 1995), p. 159

[52] Michael Skapinker, “Worlds Apart: Despite a wave of mergers and acquisitions, the long predicted global corporation remains a distant ideal,” Financial Times, 1 marzo, 2001.

[53] Anticonsumerism website, at www.malthys.com/consumer/govt.htm

[54] Aiuto alle Famiglie con Figli a Carico

[55] Charles M. Sennott “The 150 Billion “Welfare” Recipients: U.S. Corporations,” Boston Globe, 7 luglio 1996.

[56] Sintesi del “The State in the Changing World,” UNCTAD World Investment Report 2000

[57] J. Parrice McSherry “Preserving Hegemony: National Security Doctrine in the Post-Cold War Era” NACLA Report on the Americas, vol. XXIV, No. 3, November-December 2000, pp. 27-28.

[58] Sidney Lens, The Forging of the American Empire (New York: Thomas Y. Crowell Company, 1971) pp. 270-271.

[59] Citato in J. Patrice McSherry, “Preserving the Hegemony: National Security Doctrine in the Post-Cold War Era” NACLA Report on the Americas, vol. XXIV, No.3, novembre/dicembre 2000, pp. 27-28.

[60] Ibidem, p. 9

[61] Ibidem, p. 10

[62] Business Roundtable, “The Case for U.S. Trade Leadership: the U.S. is falling behind, p. 2. Disponibile al sito www.brtble.org

[63] Ibidem, p.9

[64] William Greider, One World Ready or Not: the Manic Logic of Global Capitalism (New York: Touchstone, 1997), pp. 137-138

[65] Edward Luttwak, Turbo Capitalism: Winners and Losers in the Global Capitalism (New York: Haper Perennial, 1999) pp. 146-148

[66] Martin Khor, “How the South is Getting a Raw Deal” Sara Anderson, Jerry Mander, eds., Views from the South: The Effects of Globalization and the WTO on the Third World Countries (Chicago: Food First Books, 2000) pp. 14-15.

[67] K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, (Edizioni Lotta Comunista, Milano 1998) p.99

[68] Charles Dubow, “Billionaires in toyland”, Forbes magazine, 4 ottobre 1997.

[69]  Si tratta di zone artiche deserte sotto la giurisdizione statunitense. (controllare)

[70] Sherry Wolf “Climate chaos: Can global warming be stopped?”, International Socialist Review, giugno-luglio 2001, pag. 79.

[71] Laurie Ann Mazur, prefazione a Beyond the numbers: A Reader on Population, Consumption and the Environment, a cura di Laurie Ann Mazur ed. (Washington D.C.:, Island Press, 1994) pag. xii)

[72] “Struggling just to get by”, Socialist Worker, 8 giugno 2001., pag. 1

[73] Anuradha Mittal, “The South in the North” View from the South: The Effects of Globalization and WTO on the Third World Countries, a cura di. Sarah Anderson ed. (Food First Books and the International Forum on Globalization, Canada, 2000), pag. 164

[74] Food and Agricultural Organization, FAO statistics series, Production Yearbook 1995, tavola 9 (Fao, Roma, 1995).

[75] Frances Moore Lappé, Jospeph Collins eand Peter Rosset,r World Hunger: Twelve Myths, 2a ed. (Grove Press, New York, 1998), pag.9)

[76] Lappé, Collins e Rossetoser, op. cit., pag. 14.

[77] Karen Lehman e Al Krebs, “Control of the world’s food supply” in The Case against the Global Economy: And for a Turn  to the Local, . (a cura di Jerry Mander e Edward Goldsmith (, Sierra Club Books, San Francisco: Sierra Club Books, 1996), pag. 126

[78] Lehman e Krebs, op. cit., pag. 125

[79] Lehman e Krebs, op. cit., pag. 122

[80] John Bellamy Foster The Vulnerable Planet: A Short Economic History of the Environment (New York: Monthly Review Press, New York,  1999), ppagg. 26-27)

[81] Per esempio la sostituzione di materiali maturali come la carta, il cotone e la lana con materiali sintetici non biodegradabili, come il poliestere e il polistirolo,lo Styrofoam  è una delle maggiori cause dell’esplosione della diffusione dei rifuiuti solidi dopo la Seconda Guerra mMondiale. Ma questa decisione non fu assunta in quanto i consumatori amasserovano per chissà quale ragione il poliestere, o perchéè questi materiali fossero necessariamente più economici, ma in quanto potevano essere prodotti utilizzando meno forza-lavoro e facevano così accrescere più rapidamente i profitti, soprattutto quelli delle potenti aziende petrolifere che producono questi materiali.

[82] Michael Pollan, “Naturally”, New York Magazine, 13 maggio, 2001

[83] Michael Pollan, art. cit. I “Twinkie” sono merende di pandispagna contenenti grassi animali e vari conservanti artificiali.

[84] Michael Pollan, art. cit.

[85] Martin Kohr “The global economy and the Third World” in The Case Against the Global Economy, pag.57

[86] Karl Marx e Friedrierich Engels, Manifesto del Partito Comunista (a cura di E. C. Cantimori, Milano, Mondadori, 1978), pag. 104-105??

[87] John  Bellamy Foster “Capitalism’s environmental crisis – Is technology the answer?”, Monthly Review, dicembre 2000

[88] Department of Energy [(Ministero delle Rrisorse energetiche])Dipartimento Energetico Greenhouse Gases Emissions in the United States 1999 ( DOE, Washington D.C.: DOE, 1999),. disponibile online  sulal sito www.eia.doe.gov/oiaf/1605/ggrpt/carbon.html

[89] John  Bellamy Foster “Capitalism’s environmental crisis”, art.cit.

[90] Gran parte dei cenni sulla storia dell’industria dell’automobile sono ripresi da Glenn Yago The decline of Transit (New York: Cambridge University Press, New York, 1984)  e da John Bellamy Foster, The Vulnerable PlanetPlanet.

[91] Modo di dire anglossassone per indicare uno sviluppo urbano caoticodisordinato, senza piano regolatore.

[92] Pew Center for Civic Journalism “Straight talk from Americans 2000” (Pew Center, Washington D.C.: Pewr Center, 2000) disponibile online sulal sito www.pewcenter.org; Paul M. Sweezy, “Cars and city” Monthly Review Press, aprile 2000

[93] Catena americana di bar-caffè che vendono anche gadgets, ecc.

[94] A proposito di questo coordinamento di  lotta si veda il contributo  di Oscar Oliveira all’interno di questo volume

2 Mexican Action Network on Free Trade (Rete messicana d’azione sul libero mercato), “NAFTA’s negative impact on wages & employment in Mexico” (L’impatto negativo del NAFTA sui salari e sull’occupazione in Messico), Mexican Labor News and Analysis (MNLA, Notizie e analisi sui lavoratori messicani), luglio 2000, disponibile suasul sito internet: www.ueinternational.org.

3 Intervistato deall’autore nell’ufficio del Border Workers Support Commitee (Comitato di sostegno ai lavoratori di confine) a Tijuana, il 7 gennaio 2000.

4 Intervistatao deall’autore alla conferenza del CITTAC sull’organizzazione delle maquiladoras a Tijuana, il 14 luglio  2001.

5 Questa sezione si basa considerevolmente su interviste e discussioni conbattiti di Jaime Cota del CITTAC e Carmen Valdez del gruppo Factor X. L’enfasinphasis e l’interpretazione sonoappartengono deal sottoscritto.

7 Cota, seminariolaboratorio sponsorizzato dal CITTAC a Tijuana, il 14 luglio 2001.

8 Justin Akers, International Socialist Review (Rivista dell’internazionale socialista), giugno/luglio 2001, paggp. 69-70.

11 Donald C. Hodges, Mexican Anarchism after the Revolution (Anarchismo messicano dopo la rivoluzione), (Austin, University of Texas Press), 1995, pp. 20-21.

[96] Di “Terza Via” si cominciò a parlare alla fine degli anni ’90 quando si pensò di dar vita una sorta di nuova internazionale del centro-sinistra di cui facesse parte la socialdemocrazia europea, i democratici di Bill Clinton e alcuni settori del “cattolicesimo democratico”. La “Terza Via”, che attualmente ha il più prestigioso rappresentante in Tony Blair,  ipotizza  di coniugare “il mercato ai bisogni umani”, di “lenire le naturali ineguaglianze che il mercato attuale produce”.

[97] Lev Trotsky, “Sul terrorismo”. Opere scelte. Volume uno, p. 343 (Prospettiva Edizioni, Roma, 1994).

[98] Citato da Jack Bloom, Class, Race and Civil Rights Movement (Bllomington, ind, Indiana University Press, 1987)

[99] Citato da Hal Draper Karl Marx’s theory of revolution: the politics of Social Classes (Monthly Review Press, New York, 1978, p. 74).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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