Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
La
distinzione e la determinazione di lavoro produttivo e lavoro
improduttivo è fondamentale per comprendere la reale natura del
capitale e del suo antagonista diretto: il proletariato, per stabilire
in maniera scientifica il concetto di classe operaia, per svelare
l’arcano della produzione capitalistica.
Per
una corretta analisi, bisogna specificare che non tutti i lavoratori
produttivi sono operai, come non tutti i lavoratori improduttivi sono
parassiti o piccolo borghesi.
Lavoro produttivo, astrattamente inteso, al di fuori di modi di
produzione specifici, è qualsiasi attività lavorativa che produce
valori d’uso. E’ come dice Marx un “ricambio organico” tra uomo e
natura.
Lo
stesso processo di produzione è l’unità del processo produttivo e del
processo di valorizzazione, così come la merce è unità di valore
d’uso e valore di scambio.
Inteso rispetto la produzione di valori d’uso, tutto il lavoro è
lavoro produttivo.
Ma,
tale definizione di lavoro produttivo, così come appare dal punto di
vista del processo lavorativo in generale, non dice niente della
definizione di lavoro produttivo così denominato dal processo di
produzione capitalistico.
Lavoro produttivo e lavoro improduttivo vengono, dunque, determinati
dallo specifico modo di produzione dominante.
Produttivo e improduttivo non concetti mobili; trasformandosi il modo
di produzione, possono trasformarsi gli stessi concetti di lavoro
produttivo e lavoro improduttivo.
Il
lavoro, in quanto capacità lavorativa dell’operaio, separato dal
capitale, non è produttivo, così come non è produttivo fino a quando
resta nell’ambito della circolazione mercantile semplice ( M - D - M) e
si scambia con reddito.
E’
produttivo soltanto quando riproduce il suo contrario.
“Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica è il
lavoro salariato che, nello scambio con la parte salariale del
capitale (la parte del capitale spesa in salario) non solo riproduce
questa parte del capitale (o il valore della propria capacità
lavorativa) ma oltre ciò produce plusvalore per il capitalista. E’
produttivo solo il lavoro salariato che produce capitale (Ciò
significa che esso riproduce, accresciuta, la somma di valore che è
stata spesa in esso, ossia che restituisce più lavoro di quanto ne
riceva sotto la forma di salario. Dunque è produttivo solo la
capacità lavorativa la cui valorizzazione è maggiore del suo valore)
[K. Marx Teorie del plusvalore Vol. 1°].
Il
lavoro produttivo, nella società capitalistica, non ha nulla a che
vedere con il particolare contenuto del lavoro, né con la sua
utilità. Non è il suo valore d’uso, ma il valore di scambio che
interessa il capitalista.
Un
lavoro dello stesso contenuto può essere produttivo o improduttivo a
secondo se rientra o meno nel rapporto di sfruttamento dominante.
La
produzione capitalistica non è rivolta alla soddisfazione dei bisogni;
ma è produzione di plusvalore. Il capitalista ottiene plusvalore solo
con lo scambio con il lavoro, che, per questo, si può definire
lavoro produttivo.
Il
lavoro produttivo descrive il rapporto e il modo in cui la
forza-lavoro sta all’interno del modo di produzione capitalistico.
Il
lavoro produttivo trasforma le condizioni di lavoro in capitale e il
proprietario di capitale in capitalista: esso produce non una merce
specifica, ma il capitale stesso.
Lavoro produttivo è quel lavoro che, scambiandosi direttamente con
denaro in quanto capitale, per l’operaio riproduce il valore della
propria forza-lavoro, mentre per il capitalista è creatore di valore,
di plusvalore.
“Il
concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una
relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del
lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente
sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di
mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Dunque, essere operaio
produttivo non è una fortuna ma una disgrazia”
[ K.
Marx Il Capitale Vol. 1° Cap. quarto].
L’operaio produttivo si trova ad essere quello che meno gode ed
usufruisce della ricchezza da lui prodotta. Per questo è una
disgrazia essere operaio produttivo: egli produce ricchezza, ma per
gli altri.
La
differenza fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo sta nel fatto
che, mentre il primo si scambia denaro in quanto capitale, il
secondo si scambia denaro in quanto denaro.
Questa differenza è importante riguardo l’accumulazione, perché è noto
lo scambio con il lavoro produttivo che è condizione della
trasformazione del plusvalore in capitale.
Lavori improduttivi sono tutte quelle prestazioni o servizi che si
scambiano con reddito, che consumano solo reddito.
“..
e lavoro produttivo il lavoro che produce merci, e lavoro
improduttivo quello che produce servizi personali. Il primo lavoro si
rappresenta in una cosa vendibile: il secondo deve essere consumato
mentre viene effettuato. Il primo comprende (a eccezione del lavoro
che forma la capacità lavorativa stessa) tutta la ricchezza materiale
e intellettuale esistente in forma di cosa, tanto la carne quanto i
libri; il secondo comprende tutti i lavori che soddisfano qualunque
bisogno immaginario o reale dell’individuo, o che anche si impongono
all’individuo contro la sua volontà” [K. Marx Teorie sul plusvalore Vol.
1°]
Il
lavoro produttivo comprende tutto il lavoro materiale o immateriale
che entra nella produzione di merci. Il lavoro improduttivo è tutto
il lavoro che non entra nella produzione di merci.
Ai
prestatori di servizi le loro prestazioni appaiono come merci, ma per
il compratore non sono che valori d’uso. Ovviamente i lavoratori
improduttivi non ottengono gratis il loro reddito, essi devono
lavorare per acquistare le merci, ma non hanno comunque niente a che
fare con la produzione di queste merci.
Ai
prestatori di servizi le loro prestazioni appaiono come merci, ma per
il compratore non sono che valori d’uso. Ovviamente, i lavoratori
improduttivi non ottengono gratis il loro reddito, e la merce che
acquistano, non hanno niente a che fare con la produzione di essa.
I loro salari, come di Marx, derivano dal produttività del lavoro
agricolo e industriale. La forza-lavoro è merce, sia per l’operaio
produttivo che per quello improduttivo, ma il primo produce merce per
il compratore della forza-lavoro, mentre il secondo riproduce un
semplice valore d’uso. “La capacità lavorativa del lavoratore
produttivo è una merce per il lavoratore stesso. Tale è (anche
quella) del lavoratore improduttivo. Ma il lavoratore produttivo
produce merce per il compratore della sua capacità lavorativa. Il
lavoratore improduttivo produce per lui un semplice valore d’uso, non
una merce, produce un valore d’uso immaginario o reale. E’ un
elemento caratteristico del lavoratore improduttivo, quello di non
produrre nessuna merce per il compratore, ma di ricevere invece da
lui” [K. Marx Teorie sul plusvalore Vol. 1°].
Lo
scambio di denaro contro il lavoro non ci rivela ancora nulla della
reale natura di questo scambio. Quando il denaro, in quanto capitale,
acquista merce forza-lavoro, esso si valorizza; quando invece il
denaro, in quanto reddito, si scambia contro una prestazione o
servizio, non c’è nessuna valorizzazione ma consumo di denaro.
Quando, il denaro si scambia con il lavoro, senza che quest’ultimo
produca capitale, esso acquista non lavoro produttivo ma un servizio.
Che il lavoro sia più o meno utile, è un risultato della divisone
sociale del lavoro. In un certo senso il lavoro improduttivo
favorisce ed è indispensabile alla produzione generale. Il lavoro
improduttivo, dunque, diventa funzione di una parte dei lavoratori e
il lavoro produttivo di un’altra parte.
La
distinzione lavoro produttivo/lavoro improduttivo, non è perciò morale
o politica, antropologica o psicologica, ma scientifica.
Allontanarsi da questa definizione significa contrapporsi, coscientemente
al processo di liberazione della classe operaia.
Per
questo, tutte le teorie che cercano in qualche modo di “superare”,
negare … la definizione marxista di lavoro produttivo/lavoro
improduttivo, si perdono nelle nebbie mistiche dell’idealismo.
Il
lavoro improduttivo può negare o non negare nuovi rapporti sociali,
comunque non produce, è, esso stesso, riflesso del lavoro produttivo
ed è da questo, determinato tanto nella quantità, quanto nella
qualità.
Detto in altri termini: il lavoro produttivo produce anche la
negazione del modo produzione capitalistico, mentre il lavoro
improduttivo, in questo caso è il lavoro non capitalistico, residuo
del passato, o sta all’interno del modo di capitalistico per scopi
improduttivi, e in questo caso non si contrappone al capitale. Anzi,
una parte di esso è utile al capitale per mantenere l’ordine
costituito e la società dello sfruttamento.
La
definizione di lavoro produttivo e lavoro improduttivo è fondamentale,
perché soltanto gli operai produttivi sono contrapposti direttamente al
capitale: tutti gli altri lavoratori stanno in un rapporto mediato
con il capitale complessivo.
Sviluppo dell’analisi
Se
teniamo conto delle considerazioni di metodo sopraesposte si deve
denotare che l’area del lavoro produttivo di plusvalore è in continua
espansione negli stessi paesi a capitalismo avanzato.
(Dati prese da fonti OCDE)
OCDE
(x 1000) 1963 1979 1983
Popolazione attiva 285.000 347.000 364.000
(occupati + disoccupati)
Di
cui addetti all’industria 98.200 110.000 103.000
Facciamo un esempio evidente: il trasferimento dei servizi domestici,
prestati tradizionalmente dalla donna casalinga, o da “donne di
servizio” (scambio di lavoro con reddito) a imprese di lavanderia,
stireria, pulizia, parcheggio dei bambini ecc. che impiegano lavoro
salariato (scambio di lavoro con capitale).
Ma
non si tratta solo di ciò. Spesso dietro i dati sulla diminuzione
della classe operaia si celano puri artifici statistici. Per fare
degli esempi: un lavoratore che fa un doppio lavoro salariato è un
operaio o due? (Cioè un posto di lavoro è stato realmente soppresso
o nò?). Un operaio in nero esiste statisticamente o nò? Da queste
perplessità apparentemente di puro ordine statistico, appaiono problemi
di ben più rilevante importanza. Spesso alla espulsione di classe
operaia non corrisponde una diminuzione di posti di lavoro, ma una
assunzione di doppio lavoro da parte degli occupati, oppure a
un’assunzione di lavo in “nero” da parte di “disoccupati” o da parte
di stranieri immigrati. Tutto lavoro che ovviamente costa la metà di
quello “regolare” al capitalista. Dunque molto spesso la cosiddetta
espulsione di classe operaia dal ciclo produttivo, in sostanza si
traduce in maggior sfruttamento dei lavori occupati e a maggior
sfruttamento dei lavoratori che ufficialmente risultano disoccupati
nell’economia sommersa.
La
tendenza a privatizzare i servizi gestiti dallo Stato, contribuisce
rigorosamente alla estensione dell’area del lavoro produttivo di
plusvalore.
Nei
servizi produttivi all’impresa industriale, le condizioni di lavoro
avvicinano sempre di più gli “impiegati” alla condizione operaia.
Molte volte il gonfiamento del settore dei servizi, è un risultato
di un puro e semplice scorporo statistico del lavoro dei servizi
produttivi, tradizionalmente qualificati come lavoro industriale. Il
processo “satellizzazione” che la grande impresa ha posto in atto nei
paesi a capitalismo avanzato, al fine di risparmiare sui costi del
lavoro, ha investito i servizi produttivi. Attività lavorative come la
progettazione, la manutenzione, la programmazione, la contabilità ecc.
prima inserite nel lavoro industriale, spesso ora, in quanto gestite
da imprese più o meno realmente indipendenti dall’impresa industriale
principale, appaiono statisticamente come lavoro nei servizi o
terziario.
Dunque, negli stessi a capitalismo avanzato non solo il lavoro
produttivo di plusvalore è in espansione ma anche la cosiddetta
riduzione del lavoro industriale è molto relativa e le informazioni
statistiche che si danno vanno prese con molto cautela.
Il
mito della scomparsa della classe operaia industriale
Marx
osserva la tendenza del capitalismo a ridurre il tempo di lavoro
socialmente necessario alla produzione di ogni merce.
Se
si osserva le statistiche, è che contrariamente a ciò che
profetizzano i fautori dei licenziamenti (e cioè che si sarebbero
creati altri posti di lavoro in altri settori) la ristrutturazione
comporta un’estensione a libelli mai visti della disoccupazione
industriale Es:
Italia (x1000) disoccupazione totale
1979 1982 1985 1984
------------------------------------------------------------------------------------------
1.582 1955 2381 2611
L’innovazione tecnologica, in pratica l’applicazione dell’informatica nel
processo produttivo, ha permesso dei salti di produttività in quasi
tutte le branche di produzione, rendendo “esuberanti” migliaia di
lavoratori. I computer con le loro capacità di calcolo, hanno
rivoluzionato la gestione delle imprese, la robotica cioè la
sostituzione di alcuni movimenti dell’operaio nella costruzione di
macchine, hanno rivoluzionato il modo di fabbricare.
E
soprattutto sui robot che si è scatenato la fantasia degli scrittori
che profetizzano la sostituzione dei robot agli operai e quindi, come
conseguenza la scomparsa di questi ultimi.
Questa visione si scontra con alcuni dati della realtà. Chissà perché
proprio il paese dove si sono installati il maggior numero di robot
industriali (il Giappone) è anche uno dei pochi paesi che ha subito
meno riduzione di classe operaia industriale.
Giappone
(x1000) occupazione
1965 1980 1983
popolazione civile 47300 55360 57330
occupata
di
cui nell’industria 15330 19560 19930
Fermo restando che rimane vera la tendenza alla diminuzione
progressiva del lavoro socialmente necessario alla produzione delle
singole merci, dobbiamo vedere quali controtendenze agiscono alla
sostituzione dell’operaio col robot.
-
La
robotizzazione non annulla la forza lavoro impiegata, ma solamente la
diminuisce. Cioè continua a essere necessaria un’ampia presenza umana,
senza la quale tutto il lavoro si blocca;
-
Il “robot
costa” quindi il capitalista non lo fa costruire, non sviluppa la
ricerca per la sostituzione di “ogni lavoro operaio” ma solo laddove
ciò gli permette delle economie per supporto alla quantità di lavoro
vivo che sostituisce;
-
In alcuni
settori il robot non ha fatto alcuna comparsa, per esempio
nell’edilizia;
-
In altri
settori si presentano difficoltà tecniche dovute alla complessità dei
lavori;
-
In altri
settori ancora, in rapido sviluppo, il cambiamento rende impossibile
l’investimento massiccio in macchine che rischierebbero di essere
superate.
Tutto ciò spiega, che, nonostante la rivoluzione tecnologica dei
processi produttivi cominciata dalla fine degli anni ’70, la classe
operaia industriale non è scomparsa.
Conclusioni
Perciò contrariamente a quanto affermano i postindustrialisti:
-
La classe
operaia “storica”, quella produttrice di beni materiali, si allarga su
scala mondiale.
-
Le
condizioni oggettive e soggettive del proletariato che scambia
forza-lavoro con capitale commerciale, finanziario o con reddito si
assimilano sempre di più alle condizioni operaie.
-
Lo
sviluppo ineguale del capitalismo, provoca la formazione nello stesso
tempo di nuclei sempre più estesi di proletariato supersfruttato
all’interno del rapporto di produzione capitalistico e di aree sempre
più vaste di esercito industriale di riserva mondiale.
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