A introduzione
2 gennaio 1916
Le pagine che seguono sono
state scritte nell'aprile dello scorso anno. Circostanze esterne ne hanno allora
impedito la pubblicazione.
La loro comparsa attuale è da
attribuirsi alla necessità che la classe lavoratrice, quanto più a lungo
imperversa la guerra mondiale, tanto meglio conosca le forze che sostengono il
conflitto.
Lo scritto esce senza la
minima modifica, onde permettere al lettore di verificare con quale sicurezza
il metodo storico-materialistico sappia padroneggiare lo sviluppo degli
avvenimenti.
Dissolvendo criticamente la leggenda della
guerra difensiva da parte germanica e svelando nella dominazione tedesca della
Turchia l'obiettivo specifico d'una guerra d'aggressione imperialistica, lo
scritto non faceva che anticipare quanto da allora si è andato giorno per
giorno confermando ed è a tutti palese oggi, che la guerra mondiale ha trovato
il proprio centro di gravità in Oriente.
VII.
Ma nonostante tutto questo,
se non abbiamo potuto impedire lo scoppio della guerra, se questa è ormai un
dato di fatto, se il paese è minacciato da un'invasione nemica, come indura ora
a disarmare il nostro paese, a consegnarlo al nemico se tedeschi ai russi, se
francesi e belgi ai tedeschi, se serbi agli austriaci? Il principio
socialdemocratico dell'autodeterminazione delle nazioni non esprime il diritto
e il dovere di ogni popolo a difendere la propria libertà e indipendenza? Se la
casa brucia, non ci si deve preoccupare in primo luogo di spegnere l'incendio,
anziché ricercare il colpevole che lo ha attizzato? Questo argomento della
“casa in fiamme” ha svolto un grande ruolo, da una parte e dall'altra, nel
comportamento socialista, sia in Germania sia in Francia. Anche in paesi
neutrali ha fatto scuola: tradotto in olandese: se la nave fa acqua, perché non
cominciare col chiudere le falle?
Certo, abbietto il popolo che
capitola di fronte al nemico esterno, come abbietto il partito, che capitola
davanti al nemico interno. Solo una circostanza i pompieri della “casa in
fiamme” hanno scordato: che su labbra socialiste la difesa della patria ha
tutt'altro significato che non il diventare carne da cannone al comando della
borghesia imperialistica.
Anzitutto, per quanto
riguarda l' “invasione”, è corrispondente alla realtà quel quadro di terrore,
davanti al quale ogni lotta di classe all'interno del paese si è vanificata come
colta da possente magia? Secondo la teoria poliziesca del patriottismo borghese
e dello stato di assedio ogni lotta di classe costituisce un crimine contro gli
interessi della difesa del paese, perché pregiudicherebbe e indebolirebbe le
capacità difensive della nazione. Di fronte a questa intimidazione la
socialdemocrazia ufficiale non ha saputo reagire. Eppure la storia moderna
della società borghese sta dovunque a dimostrare che l'invasione straniera non
rappresenta affatto per essa quell'orrore degli orrori, che oggi vuole dare ad
intendere, quanto piuttosto un metodo prediletto impiegato e sperimentato
contro il “nemico interno”. I Borboni e gli aristocratici francesi non la
invocarono contro i giacobini? La controrivoluzione austriaca e papalina non
invocò nel 1849 l'invasione francese a Roma e quella russa a Budapest? Nel 1850
in Francia per addomesticare l'Assemblea nazionale il “partito dell'ordine” non
minacciò apertamente l'intervento dei cosacchi? E col famoso accordo del 18
maggio 1871 tra Jules Favre, Thiers e Co., e Bismarck non furono decise la
liberazione dei prigionieri dell'armata bonapartista e l'appoggio diretto delle
truppe prussiane contro la Comune di Parigi? A Karl Marx fu sufficiente
l'esperienza storica per smascherare già quarantacinque anni or sono la, frode
delle “guerre nazionali” dei moderni stati borghesi. Nel celebre indirizzo del
Consiglio generale dell'Internazionale in occasione della caduta della Comune
di Parigi egli afferma: “L'alleanza, dopo la più violenta guerra contemporanea,
dell'armata vittoriosa e di quella, sconfitta per una comune opera di strage
nei confronti del proletariato, un avvenimento talmente inaudito non
significa, come crede Bismarck, il conculcamento definitivo della nuova società
in ascesa, ma piuttosto la completa bancarotta della vecchia società borghese.
Il supremo sussulto d'eroismo, di cui la vecchia società fosse ancora
capace, era la guerra nazionale, e anche questa si mostra ora sotto l'aspetto
di semplice sotterfugio di governo, la cui unica funzione non è più altro
che di allontanare lo spettro della lotta di classe, e che viene accantonato non
appena questa divampi in guerra civile. Il dominio di classe non è più in
condizioni di dissimularsi sotto uniforme nazionale; i governi nazionali sono
uniti di fronte al proletariato!”
Invasione e lotta di classe
non sono dunque nella Storia borghese dei contrari, come vuole la mitologia
ufficiale, ma fanno tutt'uno, strumento ed estrinsecazione l'una dell'altra. E
se per le classi dominanti l'invasione rappresenta un mezzo ormai collaudato
contro la lotta di classe, per le classi progressive la più aspra lotta di
classe si è ancora sempre confermata l'arma migliore contro l'invasione. Sulle
soglie dell'era moderna la storia tempestosa, agitata da infiniti sconvolgimenti
e da esterne inimicizie, delle città (soprattutto italiane: la storia di
Firenze, di Milano con la loro secolare lotta contro gli Hohenstaufen) sta già
a dimostrare non soltanto che la violenza e l'asprezza delle lotte di classe
interne non indebolisce le capacità difensive della comunità verso l'esterno, ma
al contrario che soltanto nella fucina di queste lotte viene forgiata la forza
necessaria per far fronte ad ogni assalto esterno. Ma a questo proposito il più
classico esempio di tutti i tempi è rappresentato dalla grande rivoluzione
francese. Come non mai, per la Francia dell'anno 1793, per il cuore della
Francia, Parigi, era giustificato il grido d'allarme: i nemici sono alle porte!
Se Parigi e la Francia non soggiacquero allora alla marea dell'Europa
coalizzata, all'invasione concentrica, ma al contrario nel corso d'una, lotta
senza precedenti, con l'intensificarsi del pericolo e dell'aggressione
avversaria, ingigantirono vieppiù la loro resistenza, sconfissero ogni nuova
coalizione nemica rinnovando ogni volta il miracolo di un coraggio
inesauribile, fu grazie all'illimitata liberazione delle forze interne della
società che ebbe luogo nel grande movimento di risistemazione delle classi
Oggi, con la prospettiva di un secolo, risulta evidente.che solo la più acuta
espressione di quella crisi, solo la dittatura del popolo parigino e' il suo
spregiudicato radicalismo hanno saputo spremere dalla nazione mezzi e forze
sufficienti per difendere e sostenere la giovanissima società borghese contro
una folla di nemici: contro gli intrighi della dinastia, i complotti e i
tradimenti degli aristocratici, le macchinazioni del clero, l'insurrezione
della Vandea, il tradimento dei generali, la resistenza di sessanta
dipartimenti e capoluoghi di provincia, e contro gli eserciti e le notte
riunite della coalizione dell'Europa monarchica. Come i secoli stanno a
dimostrare, la migliore difesa e la migliore arma d'un paese contro nemici
esterni non è lo stato d'assedio, ma la lotta di classe spregiudicata, che
risveglia la sensibilità, lo spirito di sacrificio e la .forza morale delle
masse popolari.
Allo stesso tragico qui
pro quo non sfugge la socialdemocrazia, quando pretende fondare il proprio
atteggiamento in questa guerra sul diritto di autodeterminazione delle nazioni.
È vero: il socialismo concede ad ogni popolo il diritto all'indipendenza e alla
libertà, all'autonoma disponibilità del proprio destino. Ma innalzare gli
attuali stati “capitalistici a espressione di questo diritto di
autodeterminazione significa prendersi gioco del socialismo. In quale di questi
stati ha sinora la nazione deciso le forme e le condizioni della propria
esistenza nazionale, politica o sociale?”
Che cosa significhi
autodeterminazione del popolo tedesco, che cosa implichi, lo hanno annunziato e
propugnato gli alfieri del proletariato tedesco, Marx Engels, Lassalle, Bebel e
Liebknecht: un’unica grande repubblica tedesca. Per questo ideale i
combattenti di marzo hanno versato a Vienna e Berlino il loro sangue sulle
barricate, per la realizzazione di questo programma Marx ed Engels nel 1848
volevano forzare la Prussia a una guerra con lo zarismo russo. Per l'attuazione
di questo programma nazionale la prima necessità da soddisfare era la
liquidazione del “cumulo di putrefazione organizzata” chiamata monarchia
asburgica, e l'eliminazione della monarchia militare prussiana come pure delle
due dozzine di monarchie nane della Germania.
La sconfitta della
rivoluzione tedesca, il tradimento da parte della borghesia tedesca dei propri
ideali democratici, condussero alla reggenza di Bismarck e alla sua creatura:
l'odierna grande Prussia con
le venti patrie sotto “un elmo chiodato, che ha nome das Deutsche Reich. La
Germania attuale è eretta sulla tomba della rivoluzione di marzo,sui frantumi
del diritto di autodeterminazione nazionale del popolo tedesco. L’attuale
guerra, che accanto alla conservazione della Turchia ha per scopo il
mantenimento della monarchia asburgica e il rafforzamento di quella
militaristica prussiana, rappresenta una reiterazione dell'affossamento dei
caduti del marzo e del programma nazionale tedesco. Ed è veramente un diabolico
scherzo della storia che i socialdemocratici, gli eredi dei patrioti tedeschi
del 1848, innalzino in questa guerra il vessillo del “diritto di
autodeterminazione della nazione”! Oppure è un'espressione dell'
“autodeterminazione” della nazione, francese la Terza Repubblica con i suoi
possedimenti coloniali in quattro continenti e le relative atrocità in due? O lo
è l'Impero Britannico con l'India e il dominio sudafricano di un milione di
bianchi su cinque di popolazione di colore? O lo sono forse la Turchia, l'impero
zarista? Solo per un politico borghese, per i quale le razze: dominanti,
rappresentano l'umanità e le classi i padronali la nazione, può parlarsi di
un'«autodeterminazione nazionale» negli stati coloniali. Nel significato
socialista di questo concetto non si dà libertà in una nazione, la cui
esistenza statale poggi sull'asservimento di altri popoli poi che anche i
popoli coloniali contano come popoli e membri dello stato. Il socialismo
internazionale riconosce il diritto, di costituire nazioni libere, indipendenti,
uguali, ma solo esso è in grado di crearle, solo esso è in grado di realizzare
il diritto di autodecisione dei popoli. Ma questa parola d'ordine del
socialismo, come ogni altra, non e una canonizzazione della realtà esistente,
ma una guida e uno sprone per la politica rivoluzionaria, trasformatrice, attiva
del proletariato. Fino a quando esisteranno stati capitalistici, soprattutto
finché la politica mondiale capitalistica determinerà e informerà la vita
interna ed esterna degli stati, il diritto di autodeterminazione nazionale non
avrà niente in comune conia loro prassi in guerra come in pace.
Più ancora: nell'attuale
milieu imperialistico non possono in generale più darsi guerre nazionali
difensive, e qualunque politica socialista, che astragga da questo milieu
storico determinante, e che in mezzo ai gorghi mondiali si lasci guidare solo
dal punto di vista isolato di un paese è priori costruita sulla sabbia.
Abbiamo già cercato di
mostrare il sottofondo dell'attuale conflitto fra la i Germania, e i suoi
nemici. Era necessario illuminare più dappresso le molle particolari e le
interne relazioni della guerra attuale, perché nelle prese di posizione della
nostra Frazione ai Reichstag, come pure della nostra stampa, la difesa
dell'esistenza, della libertà e della civiltà tedesche gioca un ruolo decisivo.
Di fronte a ciò si ha il dovere di rimanere fedeli alla verità storica che si
tratta di una guerra preventiva, da anni preparata dall'imperialismo tedesco ai
propri fini di politica mondiale e scientemente provocata nell'estate 1914
dalle diplomazie tedesca e austriaca. Questo a parte la questione della difesa e
dell'aggressione, la questione della “colpa” è assolutamente priva d'importanza
per la valutazione complessiva della guerra mondiale e del suo significato per
la politica di classe del proletariato. Se la Germania è ben lontana da una
posizione di legittima difesa, non lo sono meno anche Francia e Inghilterra,
poiché ciò che esse “difendono” non è la loro posizione nazionale, ma quella
internazionale, i loro vecchi possedimenti imperialistici minacciati dai
progetti del parvenu tedesco. Se le spedizioni punitive in Oriente effettuate
dagli imperialismi tedesco e austriaco sono senza dubbio state le cause
immediate dell'incendio mondiale, pezzo per pezzo la materia combustibile vi
era stata portata ed accumulata dall'imperialismo francese con l'inghiottimento
del Marocco, da quello inglese coi suoi preparativi per la rapina della
Mesopotamia e dell'Arabia, come con tutte le misure adottate per assicurare la
propria tirannia sull'India; da quello russo con la sua politica balcanica in
direzione di Costantinopoli. Se gli armamenti hanno giocato un ruolo essenziale
come impulso allo scatenamento della catastrofe, si è trattato di una specie di
gara fra tutti gli stati. E se la Germania con la politica bismarckiana del 1870
aveva dato l'avvio alla corsa ai preparativi militari, quella politica fu
favorita in un primo tempo da quella del Secondo Impero e poi promossa dalla
politica d'avventure militari coloniali della Terza Repubblica, dalla sua
espansione in Asia orientale e in Africa.
I socialisti francesi vennero
indotti a illudersi sulla questione della “difesa nazionale” soprattutto perché
nel luglio 1914 in Francia ne governo ne popolo nutrivano la benché minima
intenzione bellicosa: «In Francia sono oggi tutti sinceramente e onestamente,
senza esitazioni ne riserve, per la pace», affermò Jaurès nell'ultimo discorso
della sua vita, tenuto la vigilia della guerra, alla Casa del Popolo di
Bruxelles. La circostanza è assolutamente esatta, e può rendere psicologicamente
comprensibile l'indignazione che si impadronì dei socialisti francesi nel
momento che fu imposta al loro paese la criminale guerra. Ma questo non è
sufficiente per un giudizio storico sulla guerra mondiale e per una correlativa
impostazione politica proletaria. La storia, dalla quale è nata la guerra
mondiale, non è cominciata soltanto nel luglio 1914 ma rimonta a decenni
addietro, riallacciandosi filo a filo con la necessità d'una legge di natura,
fino a che la fitta rete della politica internazionale imperialista ha avvolto
i cinque continenti - un potente complesso storico di fenomeni, le cui radici
affondano nelle profondità plutoniche del divenire economico, le cui propaggini
accennano all'indistinto albeggiare di un nuovo mondo —fenomeni, appetto alla
cui grandezza i concetti di colpa ed espiazione, di difesa ed aggressione
sbiadiscono nel nulla.
La politica imperialistica
non è l'opera di uno o più, stati, è il prodotto di un determinato grado di
maturità dello sviluppo mondiale del capitale, un fenomeno naturalmente
internazionale, una totalità indivisibile, che è intelligibile solo
nell'insieme dei suoi nessi e alla quale nessuno stato può singolarmente
sottrarsi.
Soltanto partendo da una
posizione del genere la questione della “difesa nazionale” nella guerra attuale
può essere correttamente valutata. Stato nazionale, unità e indipendenza
nazionali, questa l'insegna ideologica sotto cui nel secolo scorso si sono
andati costituendo i grandi stati borghesi dell’Europa centrale. Il capitalismo
non è conciliabile con una struttura a piccoli stati, con la frantumazione
economica e politica; per svilupparsi ha bisogno di un'area territoriale
quanto più possibile estesa e concentrata, e di una cultura, senza la quale ne i
bisogni sociali vengono sollevati al livello corrispondente alla produzione
capitalistica, ne il meccanismo del moderno dominio di classe borghese può
funzionare. Prima che gli fosse dato di dilatarsi a economia mondiale estesa su
tutta la terra, il capitalismo cercò di crearsi un regno chiuso entro i confini
nazionali degli stati. Questo programma — sulla scacchiera politica e nazionale
ereditata dal medioevo feudale perseguibile solo per via rivoluzionaria - è
stato portato a compimento soltanto in Francia con la grande rivoluzione. Nel
resto dell'Europa esso è rimasto, come tutta la rivoluzione borghese in
generale, un'opera incompiuta, troncata a mezza strada. Il Deutsches Reich e
l'Italia attuale, la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria e della Turchia,
l'impero russo e il Commonwealth britannico ne sono le dimostrazioni viventi.
Il programma nazionalista come espressione ideologica della borghesia in ascesa
e aspirante al potere dello stato ha svolto un ruolo storico solo fino al
momento in cui il dominio di classe borghese si è bene o male sistemato nei
grandi stati della Mitteleuropea, si è creato in loro i necessari strumenti e
condizioni.
Da allora l'imperialismo ha
completamente sepolto il vecchio programma democratico-borghese, innalzando a
programma della borghesia di tutti i paesi l'espansione fuori
dei confini nazionali,
senza alcun riguardo per le strutture nazionali. La fraseologia nazionalista è
certo sopravvissuta. Ma.il suo contenuto reale, la sua funzione si è convertita
nel proprio contrario,essa funge ancora soltanto da indispensabile foglia di
fico per le aspirazioni imperialistiche e da slogan di rivalità imperialistiche;
essa è l'unica e ultima arma ideologica, con la quale le masse popolari.potranno
essere arruolate come carne da cannone nelle guerre imperialistiche.
La tendenza generale
dell'attuale, politica capitalistica domina come una cieca, legge superiore la
politica dei singoli stati, come le leggi della concorrenza economica
determinano irresistibilmente le condizioni, di produzione del singolo
imprenditore.
Ammettiamo pure per un
momento - tanto per concedere una prova di appello al fantasma della “guerra
nazionale”, che domina l'attuale politica socialdemocratica - che in uno di
questi stati la guerra sia effettivamente cominciata come guerra difensiva
nazionale; ma la prima conseguenza del successo militare è l'occupazione di
territori stranieri. Per la presenza di gruppi capitalistici estremamente
influenti, che sono interessati ad acquisti imperialistici, si risvegliano nel
corso della guerra stessa appetiti espansionistici, la tendenza imperialistica,
che all'inizio della guerra era presente solo in nuce o se ne stava
assopita, nel proseguimento stesso del conflitto troverà l'equivalente d'un
ambiente di serra per fiorire rigogliosa, e determinare carattere, obiettivi e
risultati della guerra. Inoltre il sistema di alleanza tra stati militari, che
da decenni domina le relazioni politiche, induce ognuna delle parti belligeranti
a cercarsi, anche per pura precauzione difensiva, degli alleati. In questo modo
sempre altri paesi vengono trascinati in guerra, coinvolgendovi inevitabilmente
i circoli imperialistici e sviluppandone dei nuovi. Cosi da una parte
l'Inghilterra ha trascinato nel conflitto il Giappone, estendendo le ostilità
dall'Europa all'Estremo Oriente e mettendo in ballo l'avvenire della Cina, e ha
attizzato le rivalità tra Giappone e Stati Uniti, tra Inghilterra e Giappone,
cioè preparando nuova materia per futuri conflitti. Dall'altra parte la Germania
ha coinvolto nella guerra la Turchia, ponendo cosi in fase di immediata
liquidazione la questione di Costantinopoli, di tutti i Balcani e dell'Asia
Anteriore; chi non ha capito che la guerra mondiale era già nelle sue cause
originarie e ai suoi punti di partenza di natura puramente imperialistica, ha
ora sempre modo di accorgersi dai risultati suddetti che nelle attuali
condizioni attraverso un procedimento assolutamente meccanico la guerra doveva
inevitabilmente degenerare in un processo di spartizione del mondo. Anzi, questo
è quanto è avvenuto fin quasi dal primo momento. L'equilibrio continuamente
oscillante delle forze dei belligeranti costringe ognuna delle parti, sia pure
per motivi strettamente militari di rafforzamento delle proprie posizioni o di
prevenzione del pericolo di nuove inimicizie, a tenere imbrigliati anche i
neutrali con baratti intensivi di popoli e di paesi. Vedi da un lato le
«offerte» austro-tedesche, dall'altro anglo-russe all'Italia, alla Rumenia,
alla Grecia e alla Bulgaria. La sedicente «guerra di difesa nazionale» ha cosi
il sorprendente «netto di ingenerare proprio in stati non belligeranti una
generale modificazione di ordine territoriale e di rapporti di forza, e in senso
espressamente espansionistico. Infine, il fatto stesso che oggi tutti gli stati
capitalistici dispongano di possedimenti coloniale e che, tentando ogni stato
belligerante l'occupazione o almeno la sollevazione delle colonie
dell'avversario, questi possedimenti coloniali vengano trascinati, anche solo
per motivi di natura militare, in una guerra, sia pure cominciata all'insegna
della difesa nazionale (vedi l'occupazione delle colonie tedesche da parte
dell'Inghilterra e i tentativi di suscitare la «guerra santa» nelle colonie
inglesi e francesi), questo fatto muta per ciò stesso automaticamente una
qualunque guerra contemporanea in una conflagrazione mondiale imperialistica.
Cosi il concetto stesso di
una guerra difensiva, modesta, nobile, patriottica, quale oggi la vaneggiano i
nostri parlamentari e redattori, è pura fantasia, estranea ad ogni
intelligenza storica della totalità e dei suoi nessi mondiali. Sul carattere
della guerra non hanno peso le dichiarazioni solenni e neppure le più oneste
intenzioni dei cosiddetti capi politici, ma la struttura storicamente, data
della società e della sua organizzazione militare.
Lo schema della pura guerra
di difesa nazionale potrebbe a prima vista convenire forse a un paese quale la
Svizzera. Ma la Svizzera non può essere giudicata uno stato nazionale e perciò
non costituisce regola per gli stati contemporanei. La sua stessa neutralità e
il lusso che si concede di una milizia sono solo il frutto negativo del latente
stato di guerra delle grandi potenze, militari che la circondano, e dureranno
fin tanto che compatibili con una situazione del genere. Il destino del Belgio è
illuminante sulla fine che in una guerra mondiale attende sotto lo stivalaccio
imperialistico una tale neutralità. Mettiamo, qui il dito sulla situazione
specifica dei piccoli stati. La Serbia costituisce oggi un classico esempio di
“guerra nazionale”. Se v'è uno stato che secondo ogni apparenza abbia dalla sua
la giustificazione della difesa nazionale, questo è la Serbia. Privata
dell'unità nazionale dalle annessioni austriache, dall'Austria minacciata
nella sua esistenza nazionale, dall'Austria costretta alla guerra, secondo ogni
umana misura la Serbia sta combattendo la pura guerra difensiva per
l'esistenza, la libertà, la civiltà nazionali. Se la Frazione socialdemocratica
tedesca ha ragione con la sua presa di posizione, i socialdemocratici serbi,
che al Parlamento di Belgrado hanno protestato contro la guerra e hanno
rifiutato i crediti relativi, sono veramente dei traditori degli interessi
vitali del loro paese. In realtà i serbi Lapschewitsch e Kazierowitsch non
soltanto hanno inciso in lettere d'oro i loro nomi nella storia del socialismo
internazionale, ma hanno contemporaneamente dimostrato di possedere un'acuta
sensibilità storica per il reale senso della guerra, e hanno così reso il
migliore servizio al loro paese, per l'educazione del loro popolo. Senza dubbio
formalmente la Serbia è impegnata in una guerra di difesa nazionale. Ma le
tendenze della sua monarchia e delle sue classi dirigenti, come le aspirazioni,
delle classi dirigenti di tutti gli stati contemporanei, sono indirizzate all'espansione,
senza preoccupazione di confini nazionali, e assumono cosi carattere aggressivo.
La Serbia aspira ad esempio alla costa adriatica, dove a spese degli albanesi ha
impegnato con l'Italia una contesa di stretto carattere imperialistico, la cui
soluzione sta al di fuori della Serbia nelle mani delle grandi potenze. Ma la
questione fondamentale è questa: dietro il nazionalismo serbo sta l'imperialismo
russo. Di per sé la Serbia è solo una pedina nel grande gioco della politica
mondiale, e un giudizio sulla guerra in Serbia, che prescinda da queste più
ampie connessioni, dal contesto politico generale, non può non restare nelle
nuvole. Le stesse cose possono esattamente essere ripetute a proposito delle
recenti guerre balcaniche. Isolatamente e formalmente i giovani stati balcanici
erano nel loro buon diritto storico, e non facevano che realizzare il vecchio
programma democratico dello stato nazionale. Tuttavia, nella, situazione
storica concreta che ha fatto dei Balcani il centro focale e il barometro della
politica internazionale imperialistica, anche le guerre balcaniche diventavano
obiettivamente un semplice frammento della contesa generale, un anello di quella
fatale catena di avvenimenti, che hanno condotto per via di necessità
all'attuale guerra mondiale. A Basilea la socialdemocrazia internazionale ha
dedicato un'entusiastica ovazione ai socialisti balcanici per il loro deciso
rifiuto ad una qualunque connivenza morale e politica con le guerre balcaniche
e per lo smascheramento della loro autentica fisionomia, e con essa anticipava
il proprio giudizio sul comportamento dei socialisti tedeschi e francesi in
questa guerra.
Nella stessa posizione degli
stati balcanici, si trovano oggi tutti i piccoli stati, l'Olanda per esempio.
“Se la nave fa acqua, deve per prima cosa pensare a turarne le falle”. Di che
altro si potrebbe trattare in realtà, per la piccola Olanda, se non di una pura
difesa nazionale, della difesa dell'esistenza e dell'indipendenza del paese?
Qualora ci si limiti a prendere in considerazione le intenzioni del
popolo olandese e perfino delle sue classi dirigenti, non può essere
evidentemente questione che di una pura difesa nazionale. Ma la politica
proletaria, che riposa su una coscienza storica non può basarsi sulle intenzioni
soggettive di un singolo paese, essa deve orientarsi internazionalmente in base
al complesso della situazione politica mondiale. Lo voglia o no, anche l'Olanda
è una piccola rotella nel grande ingranaggio della politica internazionale e
della diplomazia contemporanea. Il che si dimostrerebbe immediatamente, qualora
l'Olanda fosse materialmente trascinata nei gorghi della guerra mondiale.
Anzitutto i suoi avversari cercherebbero di colpire anche le sue colonie. La
condotta bellica dell'Olanda sarebbe spontaneamente diretta al mantenimento dei
suoi attuali possedimenti, e la difesa dell'indipendenza nazionale del popolo
fiammingo sulle coste del Mare del Nord si allargherebbe concretamente a difesa
del diritto di proprietà e di sfruttamento dei malesi dell'arcipelago
indo-orientale. Ma non basta: abbandonato a se stesso, il militarismo olandese
rimarrebbe schiacciato come un guscio di noce nei vortici della guerra: volente
o nolente, anche l’Olanda diverrebbe subito membro di una delle consorterie di
grandi stati belligeranti, dunque anche sotto questo aspetto, veicolo e
strumento di pure tendenze imperialistiche.
In questo modo è ancor sempre
il milieu storico dell'imperialismo contemporaneo a determinare il
carattere delle guerre nei singoli paesi, e questo milieu fa si che in
generale oggigiorno non siano, più possibili guerre di difesa nazionale.
Così scriveva soltanto alcuni
anni fa Kautsky nella sua brochure Patriottismo e socialdemocrazia,
Leipzig 1907:
“Se il patriottismo della
borghesia e del proletariato rappresentano due fenomeni del tutto diversi, per
non dire contrari, si trovano pure situazioni, nelle quali entrambe le specie di
patriottismo possono confluire in un'azione comune perfino in guerra. Borghesia
e proletariato di una nazione hanno l'identico interesse alla loro indipendenza
ed autonomia, alla rimozione e allontanamento di ogni sorta di oppressione e
sfruttamento da parte di una nazione straniera... Nelle lotte nazionali,
scaturite da aspirazioni di questo genere, il patriottismo proletario ha
costantemente fatto causa comune con quello borghese... Tuttavia, da quando il
proletariato si è trasformato in un costante pericolo per le classi dirigenti
sensibili ad ogni scossa dell'organizzazione statale, da quando al termine di
ogni guerra la rivoluzione si fa minacciosa, come stanno a dimostrare la Comune
di Parigi e il terrorismo russo dopo la guerra russo-turca, da allora la
borghesia anche di nazioni che non sono autonome e unificate, o lo sono in
misura insufficiente, ha di fatto rinunciato alle proprie mete nazionali,
qualora condizionate all'abbattimento di un governo, poiché odia e teme le
rivoluzioni, più di quanto non ami l'indipendenza e la grandezza nazionali.
Donde la rinunzia all'indipendenza polacca, la conservazione di organizzazioni
statali antidiluviane quali l'Austria e la Turchia, che già una generazione fa
apparivano votate al tramonto. Cosi nelle regioni civilizzate dell'Europa le
lotte nazionali hanno cessato di essere cause di rivoluzioni o di guerre. Quei
problemi nazionali, che pure ancor oggi sarebbero risolubili solo per via di
guerra o di rivoluzioni, dovranno ormai attendere la vittoria del proletariato.
Ma allora, grazie alla solidarietà internazionale, assumeranno un tutt'altro
aspetto da quello attualmente rivestito in questa società di sfruttamento e di
oppressione. Non questi ma altri sono negli stati capitalistici i compiti delle
odierne lotte pratiche a cui il proletariato ha da dedicare tutte le proprie
forze» (pp. 12-14). “Frattanto sempre più diminuisce la possibilità che
patriottismo proletario e patriottismo borghese si incontrino ancora in difesa
della libertà del loro proprio popolo”. La borghesia francese si è messa
d'accordo con lo zarismo. La Russia non è più un pericolo per la libertà
dell'Europa occidentale, perché indebolita dalla rivoluzione. «In queste
circostanze una guerra di difesa nazionale nella quale si incontrino
patriottismo borghese e proletario, è quanto di più inattendibile” (p. 16).
“Abbiamo già visto come sono venute meno le contraddizioni che, ancora nel XIX
secolo, potevano forzare parecchi popoli liberi a muovere guerra ai loro vicini;
abbiamo visto che il militarismo contemporaneo non è neppure più rivolto alla
difesa di importanti interessi popolari, ma soltanto alla difesa del
profitto non è rivolto
alla garanzia dell'indipendenza e intangibilità nazionali, che nessuno
minaccia, ma sola al consolidamento ed allargamento delle conquiste d'oltremare,
che servono esclusivamente a promuovere il profitto capitalistico. Gli
attuali contrasti fra stati non possono più portare a una guerra, a cui il
patriottismo proletario non abbia da opporsi con la massima decisione” (p.
23).
Quale insegnamento se ne
ricava per l'atteggiamento pratico della socialdemocrazia nella guerra attuale?
Doveva forse dichiarare: poiché questa guerra è imperialistica, poiché questo
stato non corrisponde al principio di autodeterminazione socialista, ne allo
stato ideale nazionale, esso ci è indifferente, e lo abbandoniamo in balia del
nemico? Il passivo lasciar fare e lasciar passare non può mai essere la norma di
comportamento di un partito rivoluzionario quale la socialdemocrazia. Il suo
ruolo, come avanguardia del proletariato militante, non è di porsi agli ordini
delle classi dirigenti in difesa dello stato classista odierno, ne di tirarsi
silenziosamente da parte ad attendere che la tempesta passi oltre, ma di seguire
quell’ autonoma politica di classe, che in ogni grande crisi della
società borghese frusta avanti le classi dirigenti, sospinge la crisi al
di là di se stessa. Invece dunque di mascherare la guerra imperialistica col
manto della difesa nazionale, bisognava prendere sul serio il diritto di
autodeterminazione dei popoli e la difesa nazionale, rivolgerle come leve
rivoluzionarie contro la guerra imperialistica. La più elementare
esigenza della difesa nazionale è che la nazione assuma nelle proprie mani la
difesa. Il primo suo passo: la milizia, vale a dire: non solo armamento
immediato di tutta la popolazione maschile, ma soprattutto attribuzione al
popolo del diritto di pace e di guerra, il che equivale alla
eliminazione immediata di ogni discriminazione politica, poiché a fondamento
della difesa popolare è necessaria la maggiore libertà politica. Proclamare
queste efficaci misure di difesa nazionale, esigerne la realizzazione, questo
doveva essere il primo compito della socialdemocrazia. Per quarant'anni siamo
andati dimostrando sia alle classi dirigenti sia alle masse popolari che solo
alla milizia era data la possibilità di difendere efficacemente la patria, di
renderla
invincibile.
E ora, alla prima prova, in tutta naturalezza, abbiamo consegnato la difesa del
paese all'esercito permanente, nelle mani della carne da cannone inquadrata nel
regime disciplinare delle classi dirigenti. I nostri parlamentari non si sono
evidentemente accorti, che accompagnando la partenza di questa carne da cannone
«con caldi auguri», come si trattasse di un effettivo strumento di difesa
patriottica, consentendo senza riserve che l'esercito monarchico-prussiano
fosse nell'ora «dell'estremo bisogno l’effettivo salvatore del paese, non
facevano che dar via pulito, pulito la pietra angolare del nostro programma
politico: la milizia e annullavano ogni pratico significato di quarant'anni di
agitazione sulla milizia, facendone una grulleria utopistico dottrinaria che
nessuno potrà più prendere sul serio.
Altro hanno inteso per difesa
della patria i maestri del proletariato internazionale. Quando nella Parigi del
1871, occupata dai prussiani, il proletariato assunse le redini del potere,
della sua azione Marx ebbe entusiasticamente a scrivere:
“Parigi, il centro e la sede
del vecchio potere governativo e contemporaneamente il centro di gravita
sociale della classe operaia francese, Parigi si era sollevata in armi contro il
tentativo del signor Thiers e dei suoi agrari di ristabilire e perpetuare il
vecchio potere loro trasmesso dall'impero. Parigi poté opporre resistenza solo
perché in seguito all'occupazione, l'esercito si era sciolto e al suo posto era
subentrata una guardia nazionale fondamentalmente costituita da lavoratori. Si
trattava ora di mutare in istituzione stabile lo stato di fatto. Il primo
decreto della Comune fu quindi la soppressione dell'esercito permanente e la
sua sostituzione col popolo armato. Se per conseguenza la Comune era la
vera rappresentante di tutti gli elementi sani della società francese, e perciò
l'autentico governo nazionale, contemporaneamente, in quanto governo
operaio, audace propugnatore della liberazione del lavoro, era
internazionale,nel pieno senso della parola. Sotto gli occhi dell'armata
prussiana, che aveva annesso alla Germania due province francesi, la Comune
seppe annettere alla Francia i lavoratori di tutto il mondo” (Indirizzo del
Consiglio generale dell'Internazionale)
E cosa pensavano i nostri
vecchi maestri del ruolo della socialdemocrazia in una guerra quale l'attuale?
Sulle fondamentali linee politiche che al partito del proletariato spetta
seguire nell’evenienza di una grande guerra, Friedrich Engels ha scritto nel
1892 quanto segue:
“Una guerra, in cui russi e
francesi invadessero la Germania, rappresenterebbe per questa una lotta per la
vita e la morte, in cui essa potrebbe salvare la propria esistenza
nazionale solo attraverso l'applicazione di misure rivoluzionarie. Il
presente governo, a meno non vi sia forzato, non scatenerà, sicuramente la
rivoluzione. Ma noi abbiamo un forte partito che può costringer velo o in
caso di necessità, sostituirlo: il partito socialdemocratico.
E non abbiamo dimenticato il
grandioso esempio offertoci dalla Francia nel 1793. Il suo centenario si sta
avvicinando. Se la brama di conquista dello zar e l'impazienza sciovinista
della borghesia francese dovessero impedire la vittoriosa ma pacifica marcia dei
socialisti tedeschi, questi “Krautjunker”: è la traduzione di Engels del
marxiano «Rurais». Ruraux furono chiamati, secondo l'espressione di Crémieux, i
membri dell'Assemblea nazionale reazionaria, che si riunì a Bordeaux nel
febbraio 1871,
sono pronti -
contateci - a dimostrare al mondo che i proletari tedeschi di oggi non sono
indegni dei sanculotti francesi, e che il 1893 può ben figurare accanto al
1793. E se mai i soldati del signor Constans avessero a porre piede sul
territorio tedesco, li saluterebbero le parole della Marsigliese:
Quoi, ces cohortes étrangères
Feraient la loi dans nos foyers?
Come, queste coorti straniere detterebbero legge
nei nostri focolari!?
In breve: la pace assicura la
vittoria del partito socialdemocratico tedesco entro una decina d'anni. La
guerra gli porterebbe la vittoria entro due o tre anni, o la completa rovina per
almeno quindici-vent'anni.”
Quando scriveva in questi termini Engels aveva
presente una situazione ben diversa dall'attuale. Aveva davanti agli occhi
ancora il vecchio impero zarista, mentre dopo di allora noi abbiamo avuto la
grande i rivoluzione russa. Inoltre egli pensava a una vera guerra nazionale di
difesa della Germania aggredita da due attacchi contemporanei dall'Est e
dall'Ovest. Infine egli sopravvalutava la maturità della situazione tedesca e
le prospettive di rivoluzione sociale, come sogliono sopravvalutare il ritmo
degli avvenimenti dei combattenti autentici. Ciò che però sopra tutto emerge con
assoluta chiarezza dalle suddette affermazioni, è che Engels per difesa
nazionale nel senso di politica socialdemocratica intendeva non l'appoggio al
governo militare junker prussiano e allo stato maggiore, bensì un'azione
rivoluzionaria secondo il modello dei giacobini francesi.
Si, i socialdemocratici hanno
il dovere di difendere il loro paese nell'evenienza di una grande crisi storica.
E proprio in questo sta una grave colpa della frazione socialdemocratica al
Reichstag, che nel mentre proclamava solennemente nella propria dichiarazione
del 4 agosto 1914: “Non pianteremo in asso la patria nell'ora del pericolo”, al
tempo stesso non faceva che rinnegare queste sue parole. La frazione
socialdemocratica ha piantato in asso la patria nell’ora del maggiore pericolo.
Perché in quell'ora il primo dovere di fronte alla patria sarebbe stato:
mostrarle l'autentico retroscena di questa guerra imperialistica; lacerare il
tessuto di menzogne patriottiche e diplomatiche di cui era intessuta questa
trama ai danni della patria; dire chiaro e tondo che in questa guerra al popolo
tedesco sono ugualmente fatali vittoria e sconfitta; opporsi sino all'estremo
all'imbavagliamento della patria attraverso lo stato d'assedio; proclamare la
necessità di un immediato armamento del popolo e di una delega adesso del
potere di pace e di guerra; esigere con tutte le energie che la rappresentanza
popolare sedesse in permanenza per la durata della guerra, onde assicurare un
vigile controllo del governo attraverso la rappresentanza popolare, e di
quest'ultima mediante il popolo; pretendere la immediata abolizione di tutte le
discriminazioni politiche, perché solo un popolo libero può difendere
efficacemente il proprio paese; finalmente contrapporre, al programma di guerra
imperialistico diretto al mantenimento dell'Austria e della Turchia, cioè della
reazione in Europea e in Germania, il vecchio programma autenticamente nazionale
dei patrioti e dei democratici del 1848, il programma di Marx, Engels e
Lassalle: la parola d'ordine dell'unica grande repubblica tedesca. Questa la
bandiera che si sarebbe dovuta proporre al paese, che sarebbe stata veramente
nazionale, veramente libertaria e in accordo con le migliori tradizioni della
Germania come con la politica internazionale di classe del proletariato.
La grande ora storica della
guerra mondiale richiedeva evidentemente una direzione politica, risoluta, una
posizione di larghe prospettive, un'orientazione meditata del paese, a dare le
quali solo la socialdemocrazia poteva essere chiamata. Invece la risposta della
rappresentanza parlamentare della classe operaia, a cui in quel momento
spettava la parola è suonata un atto di rinunzia miserevole e senza precedenti.
La socialdemocrazia, grazie ai suoi capi, ha svolto non una politica sbagliata,
ma semplicemente nessuna politica, si è pienamente disgregata come specifico
partito di classe con una propria Weltanschauung, ha abbandonato il paese senza
una guida critica allo spaventoso destino della guerra imperialistica
all'esterno e della dittatura militare all'interno, e si è assunta per di più
la responsabilità della guerra. La dichiarazione della frazione al Reichstag
dice che essa avrebbe votati i fondi per la difesa del paese, ma rifiutava per
contro la responsabilità della guerra. La verità è proprio l'opposto. La
socialdemocrazia non aveva affatto bisogno di votare i mezzi per questa
“difesa”, cioè per il massacro imperialistico ad opera degli eserciti della
monarchia militare, perché la loro disponibilità non dipendeva affatto
dall'approvazione socialdemocratica: di fronte alla minoranza che essa
rappresentava stava la compatta maggioranza borghese di tre quarti del
Reichstag. Con la sua volontaria approvazione la frazione socialdemocratica ha
ottenuto solo un risultato: di dimostrare l'unità di tutto il popolo in
guerra, di effettuare la proclamazione della pace civile, cioè la sospensione
della lotta di classe, di interrompere per la durata della guerra la politica
di opposizione, vale a dire di assumersi la corresponsabilità morale della
guerra. Con la sua volontaria votazione dei fondi ha impresso essa stessa a
questa condotta di guerra il marchio della difesa democratica della patria,
ha appoggiato e suggellato l’irretimento delle masse a proposito delle vere
condizioni e dei veri compiti della difesa della patria,
Così l’atroce dilemma tra
interessi patriottici solidarietà internazionale del proletariato, il tragico
conflitto, che fece pendere solo “con cuore greve” i nostri parlamentari dalla
parte della guerra imperialistica, è pura fantasia, finzione
nazionalistico-borghese. Tra gli interessi del paese e gli interessi di classe
dell'Internazionale proletaria, esiste una completa armonia tanto in pace come
in guerra; e entrambe esigono il più energico sviluppo della lotta, di classe e
la più rigorosa difesa del programma socialdemocratico.
Ma che cosa avrebbe dovuto
fare il nostro partito per dare espressione alla sua opposizione alla guerra e
a quelle esigenze? Avrebbe dovuto proclamare lo sciopero di massa? O invitare i
soldati a rifiutarsi di servire? In questi termini viene abitualmente posta la
questione. Una risposta affermativa a interrogativi del genere sarebbe tanto
ridicola quanto se il partito decidesse pressappoco così: “Se scoppia la
guerra, facciamo la rivoluzione”. Le rivoluzioni non vengono “fatte”, e grandi
movimenti popolari non vengono inscenati con ricette tecniche tratte pronte
dalle istanze di partito. Piccoli circoli di congiurati possono “preparare” per
un determinato giorno e ora un putsch, possono dare al momento buono alle loro
due dozzine di aderenti il segnale della “zuffa”. Movimenti di massa attivi in
grandi momenti storici non possono essere guidati con questi stessi metodi
primitivi. Lo sciopero di massa “meglio preparato” in certe circostanze può
miserevolmente fallire proprio nel momento in cui una direzione di partito gli
da “il segnale di via”, o afflosciarsi dopo un primo slancio. L'effettivo
svolgimento di grandi manifestazioni popolari e azioni di massa in questa o in
quella forma, è deciso da tutta una serie di fattori economici, politici e
psicologici, dal livello di tensione del contrasto di classe, dal grado di
educazione, dal punto di maturazione raggiunto dalla combattività delle masse,
elementi tutti imponderabili e che nessun partito può artificialmente
manipolare. Ecco la differenza tra le grandi crisi storiche e le piccole azioni
di parata che un partito ben disciplinato può in tempi di pace pulitamente
eseguire con un colpo di bacchetta delle “istanze”. Ogni ora storica esige
forme adeguate di movimento popolare: essa stessa se ne crea delle nuove,
improvvisa mezzi di lotta in precedenza sconosciuti, vaglia e arricchisce
l'arsenale popolare, incurante di qualsivoglia prescrizione di partito.
Ciò che i dirigenti della
socialdemocrazia in quanto avanguardia del proletariato cosciente avevano da
dare, non erano dunque ridicole prescrizioni e ricette di natura tecnica, ma
la parola d'ordine politica, la chiarificazione sui compiti e gli interessi
politici del proletariato in guerra. Ad ogni movimento di massa si confanno
le parole, che gli scioperi di massa della rivoluzione russa dettarono:
Se la direzione degli
scioperi di massa, nel senso del comando d'avvio e nel senso del calcolo e
della copertura dei loro costi, è faccenda che riguarda il periodo
rivoluzionario stesso, intesa in un tutt'altro senso essa spetta effettivamente
alla socialdemocrazia e ai suoi organi dirigenti. Invece che a rompersi la testa
col lato tecnico, col meccanismo del movimento di massa, la socialdemocrazia è
chiamata ad assumere la direziono politica anche in mezzo alla crisi
storica. Dare alla lotta la parola d'ordine, l'indirizzo, disporre la
tattica della lotta politica in modo di realizzare in ciascuna sua fase e
in ogni suo momento l'intera somma di potenza a disposizione del proletariato e
già liberata, dispiegata; e di esprimere nell'impostazione di lotta del partito
che la tattica della socialdemocrazia per decisione e rigore non sta mai
sotto il livello del rapporto di forze reale, ma piuttosto lo precorre,
questo l'importante compito di “direzione” nella grande crisi storica. E
suddetto genere di direzione si muta in certa misura da se stessa in direzione
tecnica. Una tattica socialdemocratica conseguente, decisa, progressiva, suscita
nelle masse un sentimento di sicurezza, di confidenza e di ardore combattivo;
una tattica oscillante, debole, basata sulla sottovalutazione del proletariato
ha un effetto paralizzante e disgregatore. Nel primo caso azioni di massa
scoppiano spontanee e sempre “tempestive”, nel secondo appelli espliciti della
direzione restano talvolta senza successo.
Che non si tratti di tecnica
esterna d'azione, ma del suo contenuto politico, lo dimostra per esempio
il fatto che proprio la tribuna parlamentare, in questo caso quale oasi
di libertà, di larga ricezione e internazionalmente in vista, poteva diventare
un potente strumento di agitazione del popolo, se la rappresentanza
socialdemocratica l'avesse sfruttata per esprimere alto e chiaro gli interessi,
i compiti e le rivendicazioni della classe lavoratrice in questa crisi.
A questa parola d'ordine
della socialdemocrazia le masse avrebbero dato rilevanza col loro comportamento?
Nessuno può dirlo sui due piedi. Ma non è questa la questione decisiva. I
nostri parlamentari hanno pure lasciato andare in guerra “pieni di fiducia” i
generali dell'esercito tedesco-prussiano, senza esigere da loro, magari prima
dell'approvazione dei crediti, la singolare assicurazione anticipata di una
serie incondizionata di vittorie, di esclusione di ogni sconfitta. Ciò che è
valido per le armate militari lo è pure per le armate rivoluzionarie: esse
accettano la lotta dove essa si presenta, senza rivendicare in anticipo la
certezza della riuscita. Nel caso peggiore la voce del partito sarebbe rimasta
senza visibili effetti iniziali. Sì, grandi persecuzioni sarebbero state
verosimilmente la ricompensa di un comportamento virile da parte del nostro
partito, come nel 1870 erano state la ricompensa di Bebel e di Liebknecht.
“Ma che significa? - ha
schiettamente affermato Ignaz Auer nel suo discorso in occasione della
celebrazione di Sedan nel 1895. Un partito, che vuole conquistare il mondo,
deve tener alti i suoi principi, senza riguardo ai pericoli che ne derivano:
se agisse altrimenti sarebbe perso!”
Contro corrente non è mai,
facile nuotare - ha scritto il vecchio. Liebknecht se la corrente scorre con la
rapidità e la forza impetuosa di un Niagara, allora non si tratta certo di cosa
da nulla.
Nei più vecchi compagni è
ancora viva la memoria della fobia antisocialista scatenatasi nell'anno della
più profonda ignominia nazionale: quello della legge antisocialista del 1878.
Milioni di persone videro allora in ogni socialista un assassino e un
delinquente comune, come nel 1870 un traditore della patria e un nemico
mortale. Esplosioni del genere dell' "anima popolare" hanno nella loro
mostruosa forza elementare qualcosa di sconcertante, di inibitorio, di
opprimente. Ci si sente impotenti, di fronte a una più alta potenza - a una
force majeure giusta, al di là di ogni dubbio. Non si hanno di fronte
avversari concreti. È come una epidemia - negli uomini, nell'aria, dappertutto.
L'esplosione del 1878 fu però
di gran lunga incommensurabile con la forza e la brutalità di quella del 1870.
Non solo il suddetto uragano di umana passionalità, che piega, abbatte, spezza
tutto ciò che afferra - in più la spaventosa macchina del militarismo nel più
spaventoso e perfetto funzionamento, e noi nell'ingranaggio, delle ferree ruote,
il cui contatto; voleva, dire la morte, e tra ferree braccia, che ci frullavano
intorno e ad ogni istante avrebbero potuto afferrarci. Accanto alla forza
elementare degli spiriti scatenati il più perfetto meccanismo dell'arte
dell'assassinio, che il mondo abbia mai visto. E tutto nella più frenetica
attività tutte le caldaie sotto pressione fino a scoppiare. Cosa rimane alla
forza, alla volontà individuali? Soprattutto quando si sa di essere in
trascurabile minoranza e non si ha neppure nel popolo un sicuro punto
d'appoggio.
Il nostro partito era appena
in divenire. Eravamo posti alla più difficile prova concepibile, prima di avere
l'organizzazione idonea. Quando incominciò la caccia ai socialisti, nell'anno
della vergogna per i nostri nemici e della gloria per la socialdemocrazia,
avevamo già un'organizzazione cosi salda e diffusamente ramificata, che tutti
erano, (forti della coscienza dell'esistenza di un potente sostegno e nessun
individuo ragionevole avrebbe potuto credere che il partito si avviasse a
soccombere.
Dunque non è stato cosa da
nulla nuotare allora contro corrente. Ma che c'era da fare? Ciò che doveva
essere doveva essere. In quel caso significava: stringere i denti e lasciar
capitare ciò che volesse. Non c'era tempo per la paura — Ebbene, Bebel e io non
sprecammo un minuto in cautele. Non potevamo cedere il campo, dovevamo rimanere
sul posto, qualunque cosa potesse accadere».
Essi rimasero al loro posto e
la socialdemocrazia tedesca ha vissuto quarant'anni della forza morale, che essa
aveva dimostrato in quella circostanza contro tutto un mondo di nemici.
Cosi sarebbe andato anche
questa volta. In un primo momento non si sarebbe forse ottenuto altro che di
salvare l'onore del proletariato tedesco, di non lasciare morire in un opaco
smarrimento spirituale migliaia e migliaia di proletari, che oggi periscono
dentro le trincee, nel buio e nella nebbia, ma con almeno questa scintilla di
luce nel cervello: che la cosa a loro più cara nella vita, la socialdemocrazia
internazionale, liberatrice dei popoli, non fosse una vana illusione. Ma poi
la voce coraggiosa del nostro partito avrebbe già agito come una doccia fredda
sull'ubriacatura sciovinistica e sul disorientamento delle folle, avrebbe
salvaguardato dal delirio gli strati popolari più progrediti, avrebbe aggravato
agli imperialisti il compito di avvelenamento e di istupidimento del popolo.
Proprio la crociata contro la socialdemocrazia avrebbe servito a disincantare
il più rapidamente possibile le masse popolari. Nell’ulteriore corso della
guerra, nella misura in cui in ogni paese fosse aumentato l'abbattimento per lo
spaventoso continuo massacro dei popoli, quanto più distintamente il piede
forcuto imperialista del conflitto avesse fatto capolino, quanto più sfacciato,
si fosse fatto il mercanteggiare della sanguinaria speculazione, tutto ciò che è
vivo, onesto, umano, progressivo si sarebbe poi schierato intorno alla bandiera
della socialdemocrazia. E poi soprattutto: nella confusione, nella rovina e
nella catastrofe generali la socialdemocrazia tedesca sarebbe restata, come
roccia tra i marosi, l'alto faro dell'Internazionale, verso il quale tutti gli
altri partiti operai si sarebbero presto orientati. L'enorme autorità morale, di
cui sino al 4 agosto 1914 godeva in tutto il mondo proletario la
socialdemocrazia tedesca avrebbe senza dubbio in breve lasso di tempo
portato un mutamento anche nelle attuali condizioni di smarrimento generale. In
tutti i paesi l'inclinazione pacifista e la pressione delle masse popolari per
la pace si sarebbero accentuate, la conclusione del massacro accelerata, il
numero delle vittime diminuito. Il proletariato tedesco sarebbe rimasto il
guardiano del socialismo e della liberazione dell'umanità - e si sarebbe
trattato veramente di un’ opera patriottica non indegna dei figli di Marx,
Engels e Lassalle.
Nonostante dittatura militare
e censura sulla stampa, nonostante ogni abdicazione da parte socialdemocratica,
nonostante la guerra fratricida, riemergono con forza elementare dalla «pace
civile» la lotta di classe e dai vapori di sangue dei campi di battaglia la
solidarietà internazionale dei lavoratori. Non nei deboli tentativi di
galvanizzare artificialmente la vecchia Internazionale, non nei voti or qua or
là rinnovati di rimettersi assieme subito passata la guerra. No, ora in guerra,
dalla guerra risorge con tutta una nuova forza e peso la realtà dell'unico e
identico interesse dei proletari di tutti i paesi. La guerra mondiale confuta
l'illusione da lei stessa ingenerata.
Vittoria o sconfitta? Così
suona la parola d'ordine del militarismo dominante in ognuno dei paesi
belligeranti, e tale se la sono accollata, come un'eco, i dirigenti
socialdemocratici. Di vittoria o sconfitta sul campo di battaglia soltanto si
dovrebbe ora trattare, come per le classi dirigenti, anche per i proletari di
Germania, come per quelli di Francia, di Inghilterra, di Russia. Non appena
tuonino i cannoni, ogni proletariato dovrebbe essere interessato alla vittoria
del proprio paese, dunque alla sconfitta di quelli altrui. Esaminiamo dunque che
cosa possa attendersi il proletariato da una
vittoria.
Secondo la versione
ufficiale, acriticamente assunta dai dirigenti socialdemocratici per la
Germania, la vittoria significherebbe la prospettiva di una fioritura economica
senza ostacoli e senza limiti, la sconfitta invece una catastrofe economica.
Questa concezione si appoggia pressoché integralmente sullo schema della guerra
del 1870. Ma la fioritura capitalistica che in Germania fece seguito alla
guerra del 1870, non fu conseguenza della guerra, bensì dell'unificazione
politica, sia pure nella forma storpiata del Deutsches Reich creato da Bismarck.
Il progresso economico risultò in questo caso dall'unificazione nonostante
la guerra e i molteplici impedimenti reazionari al suo seguito. Ciò che la
guerra vittoriosa ha portato di proprio, è stato il consolidamento della
monarchia militare in Germania e del regime prussiano degli Junker, mentre la
sconfitta ha procurato alla Francia la liquidazione dell'impero e la repubblica.
Ma nei vari paesi interessati oggi le cose stanno del tutto diversamente. Oggi
la guerra non funziona come metodo dinamico per procurare al giovane
capitalismo in via di sviluppo degli imprescindibili presupposti politici della
sua espansione « nazionale». Al massimo questo carattere la guerra lo ha in
Serbia, e ancora solo come frammento isolatamente considerato. Ridotta al suo
significato storico obiettivo, la guerra attuale è, nel suo insieme, una lotta
di concorrenza interna, di un capitalismo già pervenuto a piena fioritura; per
il dominio del mondo, per lo sfruttamento delle ultime zone della terra ancora
non capitalistiche. Ne risulta una completa trasformazione del carattere della
guerra stessa e dei suoi effetti. In questa occasione l'alto grado di sviluppo
economico della produzione capitalistica si esprime tanto nella straordinaria
perfezione tecnica, in termini di potenza di distruzione dei. mezzi bellici,
come nell'approssimativo equilibrio di livello tecnologico tra tutti i paesi
belligeranti. L'organizzazione internazionale delle industrie belliche si
riflette ora nell'equilibrio militare che attraverso parziali decisioni e
oscillazioni dei piatti della bilancia di continuo si ristabilisce e di continuo
rimanda una decisione generale. L'incertezza dei risultati generali della guerra
porta a sua volta a trascinare al fuoco sempre nuove riserve tanto di masse
popolari di stati già belligeranti quanto di i paesi prima neutrali. In
appetiti e contrasti imperialistici la guerra non scarseggia da nessuna parte di
materia infiammabile, la crea essa stessa e si allarga come un incendio nella
steppa. Ma quanto più larghe le masse e quanto più numerosi i paesi che vengono
coinvolti nella guerra mondiale da tutte le parti in causa, tanto più a lungo
proporzionalmente verrà protratta la guerra stessa. Come primo effetto del
conflitto tutto questo si risolve, prima ancora che in qualsivoglia decisione
militare, in un fenomeno sconosciuto in precedenti eventi bellici dell'evo
moderno, la rovina economica di tutti i paesi belligeranti e in misura sempre
più elevata anche di quelli formalmente non partecipanti al conflitto. Ogni
mese di guerra che passa non fa che consolidare e accentuare questo risultato e
dissipare cosi anticipatamente gli attesi frutti decennali della vittoria
militare. Questo risultato, in ultima analisi, non può essere oggetto di
modifica ne per vittoria ne per sconfitta: esso stesso, viceversa rende in
generale dubbia una decisione puramente militare e sempre più verisimile una
conclusione definitiva della guerra per comune estremo esaurimento delle parti.
In queste circostanze, tuttavia, anche una Germania vittoriosa — perfino se ai
suoi bellicisti imperialisti dovesse riuscire di perseguire il massacro sino al
completo abbattimento di tutti gli avversari e questi arditi sogni dovessero
mai; andare a compimento non farebbe che riportare una vittoria di Pirro. I suoi
trofei sarebbero alcune annessioni di territori ridotti alla fame e spopolati,
una ghignante miseria sotto il proprio tetto che farebbe bella mostra di sé non
appena accantonati gli schermi dell'amministrazione finanziaria a base di
prestiti di guerra, i villaggi alla Potemkin dell'inalterabile benessere del
popolo» mantenuto in essere dalle
requisizioni belliche. È chiaro anche al più superficiale osservatore che
persino lo stato più vittorioso non può oggi pensare ad alcun risarcimento di
guerra che sia lontanamente in grado di sanare; le ferite di questa guerra. Un
compenso e un'integrazione della “vittoria” dovrebbero essere offerti dalla
rovina economica forse ancora un poco maggiore della parte vinta: Francia e
Inghilterra, cioè di quei paesi coi quali la Germania è più strettamente legata
da relazioni economiche, dal benessere dei quali soprattutto dipende, il proprio
rifiorire. Questo il quadro, nel quale dopo la guerra - beninteso vittoriosa -
si tratterebbe per il popolo tedesco di concretamente coprire a posteriori le
spese di guerra “votate” in anticipo dalla patriottica rappresentanza popolare,
vale a dire di assumersi sulle spalle un incommensurabile onere di tasse,
insieme con la rafforzata reazione militare, quale unico frutto residuo e
palpabile della “vittoria”.
Qualora poi ci si sforzi di
rappresentare le peggiori conseguenze di una disfatta -eccettuate le annessioni
imperialistiche - esse risultano punto per punto analoghe al quadro precedente
che dalla vittoria procedeva come sua inevitabile conseguenza: gli effetti,
della, guerra sono in se stessi oggi di natura cosi profonda e di cosi larga
portata, che il risultato militare none in grado di apportarvi se non scarse
modifiche.
Supponiamo pure per un attimo
che lo stato vincitore intenda tuttavia stornare da sé la maggiore rovina ed
addossarla all'avversario vinto, strozzandone lo sviluppo economico con
impedimenti di ogni genere. La classe operaia tedesca potrebbe dopo la guerra
avanzare con successo nella sua lotta sindacale, se l'azione sindacale dei
lavoratori francesi, inglesi, belgi, italiani fosse imbrigliata da unì regresso
economico? Ancora sino al 1870 il movimento operaio progrediva in ciascun paese
separatamente, anzi le sue decisioni cadevano in singole città. Era sul
lastricato di Parigi, che venivano combattute e decise le battaglie del
proletariato. L'odierno movimento operaio, la sua faticosa lotta economica
quotidiana, la sua organizzazione di massa sono basate sul concorso di tutti i
paesi a produzione capitalistica. II concetto che solo sul terreno di una vita;
economica sana ed energicamente pulsante possa prosperare la causa dei
lavoratori, se valido, non lo è solo per la Germania, ma anche per la Francia,
l'Inghilterra, il Belgio, la Russia, l'Italia. E se il movimento operaio
stagnasse in tutti i paesi capitalistici d'Europa, se in essi regnassero bassi
salari, deboli sindacati, infima forza di resistenza degli sfruttati, neppure in
Germania il movimento sindacale potrebbe fiorire. Da questo punto di vista, il
fatto che il capitalismo tedesco si rafforzi a spese di quello francese, o
quello inglese a spese di quello tedesco, è, in ultima analisi, di ugual danno
per la posizione dei lavoratori nella loro lotta economica.
Ma passiamo ai risultati
politici della guerra. Qui una distinzione potrebbe risultare più facile che su
terreno economico. Da sempre le simpatie e il sostegno dei socialisti sono
andati a quel belligerante che difendeva il progresso storico contro la
reazione. Nell'attuale guerra mondiale quale parte rappresenta il progresso e
quale la reazione? È chiaro che la questione non può essere risolta in base a
caratteristiche esteriori degli stati belligeranti, come “democrazia” o
“assolutismo”, ma unicamente in base alle tendenze obiettive della posizione
politico-mondiale rappresentata da ciascuna delle parti. Prima di giudicare che
cosa possa rendere al proletariato tedesco una vittoria tedesca, dobbiamo
prendere in considerazione i suoi effetti sulla configurazione generale delle
relazioni politiche europee. Una decisa vittoria tedesca avrebbe quale
conseguenza immediata l'annessione del Belgio e, non è da escludere, di alcuni
altri territori ad Oriente e ad Occidente, nonché di una parte delle colonie
francesi; contemporaneamente il mantenimento della monarchia asburgica e il suo
ingrandimento territoriale; ed infine la conservazione di una fittizia
“integrità” turca sotto protettorato tedesco, cioè la simultanea trasformazione
di fatto, sotto una forma o l'altra, dell'Asia Minore e della Mesopotamia in
province tedesche. Ne conseguirebbe l'effettiva egemonia militare ed economica
della Germania in Europa. Tutti questi risultati di una radicale vittoria
militare tedesca non sono affatto da attendersi in quanto corrispondenti alle
mire degli strilloni imperialistici di questa guerra, ma in quanto appaiono le
conseguenze assolutamente inevitabili della posizione politico-mondiale
occupata dalla Germania, dei contrasti con Inghilterra, Francia e Russia, nei
quali è incorsa e che nel corso stesso della guerra si sono ulteriormente ed
enormemente accresciuti al di là delle proporzioni iniziali. Basta però tener
presente l'eventualità di risultati del genere per rendersi ragione che in
nessuna circostanza potrebbe scaturirne un equilibrio politico-mondiale in
qualche misura stabile. Per quanto pure: il conflitto possa significare una
rovina per ognuno dei belligeranti e forse ancor più per i vinti, i preparativi
di una nuova guerra mondiale sotto la direzione dell'Inghilterra e diretta a
scuotere il giogo militarista tedesco-prussiano che pesasse su Europa ed Asia
Anteriore, prenderebbero inizio il giorno dopo la conclusione della pace. Una
vittoria tedesca sarebbe cosi soltanto un prologo a un secondo conflitto
mondiale immediatamente susseguente, e di conseguenza soltanto un segnale per
nuovi e febbrili preparativi, militari come per lo scatenamento della reazione
più nera in tutti i paesi, ma in prima linea nella stessa Germania. Dall'altro
lato la vittoria inglese e francese significa con estrema verosimiglianza la
perdita per la Germania di almeno una parte delle colonie,
come dell'Alsazia-Lorena, e con tutta certezza
la bancarotta della posizione politico-mondiale dell' imperialismo tedesco. Ma
questo vorrebbe dire anche smembramento dell'Austria-Ungheria e totale
liquidazione della Turchia. Per organismi arcireazionari che siano questi due
stati e per quanto in se stessa la loro rovina corrisponda alle esigenze di un
processo progressivo, nel concreto milieu politico-mondiale di oggi la
caduta della monarchia asburgica non meno di quella della Turchia non potrebbe
condurre ad altroché a un mercanteggiamento dei loro paesi e popoli tra Russia,
Inghilterra, Francia e Italia. Ma a questa grandiosa ripartizione del mondo e a
questa modifica dei rapporti di forza nei Balcani e nel Mediterraneo se ne
aggiungerebbero irresistibilmente altre in Asia: la liquidazione della Persia e
un nuovo smembramento della Cina. Sul proscenio della politica mondiale si
farebbero avanti allora i contrasti tanto anglo-russi che anglo-giapponesi, ciò
che forse già in immediata coincidenza con ,la liquidazione della guerra
mondiale attuale, trascinerebbe dietro di sé un nuovo conflitto generale magari
per Costantinopoli, e in ogni caso ne farebbe per il futuro una prospettiva
inevitabile. Anche da questo lato dunque la vittoria porterebbe; a nuovi
febbrili armamenti in tutti, gli stati — naturalmente con alla testa; la-vinta
Germania — è conseguentemente a un'era di dominio assoluto, del militarismo e
della reazione; in tutta Europa e a una nuova guerra mondiale quale meta
finale.
In questo modo la politica proletaria, qualora
avesse da prendere partito nell'attuale guerra per l'una o l'altra, parte dal
punto di vista del progresso e della democrazia considerando nel loro assieme,
la politica mondiale e le sue prospettive a venire, si troverebbe stretta fra
Scilla e Cariddi, e l'alternativa: vittoria o sconfitta, risulterebbe in queste
circostanze per la classe operaia europea, sia sotto il profilo politico sia
sotto quello economico, una scelta senza speranza tra due scariche di legnate.
Non è perciò che infausta illusione quella dei socialisti francesi, che per
mezzo della disfatta militare tedesca presumono di sconfiggere il militarismo, e
magari l'imperialismo, e di aprire la strada nel mondo alla pacifica democrazia.
L'imperialismo, e il militarismo al suo servizio, ad ogni vittoria e ad ogni
sconfitta di questa guerra rientrano piuttosto pienamente, nei loro conti,
salvo che si desse un unico caso: qualora il proletariato internazionale,
intervenendo rivoluzionariamente, tirasse un grosso frego su quegli stessi
conti.
L'insegnamento più importante che per la
politica proletaria si può trarre dall'attuale guerra, e perciò il fermo dato
di fatto che né in Germania o in Francia né in Inghilterra o in Russia e lecito
fare acriticamente eco alla parola d’ordine: vittoria o sconfitta, a una
parola d'ordine, che ha reale contenuto unicamente dal punto di vista
dell'imperialismo e che per ogni grande stato, corrisponde, al dilemma:
acquisto o perdita di una posizione di potenza politico-mondiale, di
annessioni, di colonie e di egemonia militare. Dal punto di vista del
proletariato europeo nel suo complesso, vittoria e sconfitta di uno qualunque
dei campi belligeranti risultano oggi ugualmente nefaste. È la guerra
come tale, e quale ne sia l'esito militare, a significare la maggiore sconfitta
concepibile per il proletariato europeo; farla finita con la guerra e forzare
al più presto la pace con l'azione combattiva del proletariato, ecco ciò che può
rappresentare l'unica vittoria per la causa proletaria. È soltanto una vittoria
di questo genere può contemporaneamente procurare la salvezza effettiva del
Belgio, e della democrazia, europea.
Nella guerra attuale il proletariato cosciente
non può identificare la propria causa con alcuno.dei campi militari. Ne segue
forse da parte della politica proletaria la richiesta di mantenere lo status
quo di non aver altro programma d'azione, che quello contenuto nell'augurio:
tutto rimanga come stava, come era prima della guerra? Ma la situazione
esistente non è mai stata il nostro ideale, non è mai stata l'espressione
dell'autodeterminazione dei popoli. Per di più: la situazione precedente non è
davvero preservabile, non esisterebbe più, neppure se i confini degli stati
rimanessero immutati. Già prima della sua formale liquidazione la guerra ha
portato a un grande mutamento nei rapporti di forza, nella loro reciproca
valutazione nelle alleanze e nei contrasti, ha sottoposto le relazioni tra gli
stati e quelle tra le classi all'interno della società a una cosi aspra
revisione ha distrutto tante vecchie illusioni e potenze, ha generato tanti
nuovi stimoli e nuovi compiti, che è completamente escluso il ritorno alla
vecchia Europa di prima del 4 agosto 1914, non meno di quanto non lo sia il
ritorno a rapporti prerivoluzionari anche dopo una rivoluzione sconfitta. La
politica proletaria poi non conosce mai un “indietro”: essa può solo tendere in
avanti, essa deve sempre procedere oltre la realtà costituita e quella stessa di
nuova creazione. In questo senso soltanto essa è in condizione di contrapporre
una propria politica ai due campi della guerra mondiale imperialistica.
Ma questa politica non può
consistere in una gara di elaborazione di progetti da parte dei partiti
socialdemocratici, ciascheduno per conto suo o tutti assieme riuniti in
conferenze internazionali, o nell'escogitare ricette ad uso e consumo della
diplomazia borghese, sul come questa abbia da conchiudere pace, onde aprire la
strada a un'ulteriore evoluzione pacifica e democratica. Fintante che il
dominio di classe capitalistico continua ad avere il coltello per il manico,
rivendicazioni che mirino a un; «disarmo» completo o parziale, all'abolizione
della diplomazia segreta, allo smembramento di tutti i grandi stati in piccoli
stati nazionali e via discorrendo, rimangono tutte senza eccezione nell'ambito
dell'utopia. Meno che mai è atto a favorire una rinunzia al militarismo odierno,
alla diplomazia segreta, ai grandi stati centralizzati plurinazionali, l'attuale
corso politico imperialistico, tanto che a dire il vero con maggiore
conseguenza le postulazioni relative convergerebbero tutte nella
«rivendicazione» pura e semplice: abolizione dello stato di classe capitalista.
Non con consigli utopistici ne con progetti su come riforme parziali potrebbero
addolcire, frenare e attenuare l'imperialismo nel quadro dello stato borghese
può la politica proletaria riconquistarsi il posto che le spetta. Il problema
specifico imposto dalla guerra mondiale ai partiti socialisti, e dalla cui
soluzione dipendono i futuri destini del movimento operaio, è la capacità
d'azione delle masse proletarie nella lotta contro l'imperialismo. Non di
rivendicazioni, di programmi, di parole d'ordine soffre carenza il proletariato
internazionale, ma di fatti, di capacità di resistenza attiva, di qualificazione
a cogliere il momento decisivo per l'assalto all'imperialismo precisamente
nella guerra,e a tradurre in pratica la vecchia parola d'ordine “guerra alla
guerra”. Qui il Rhodus, dove è d'uopo saltare, qui il punto cruciale della
politica proletaria e del suo avvenire più lontano.
L'imperialismo, con tutta la
sua brutale politica di forza e la catena di incessanti catastrofi sociali che
provoca, è certo una necessità Storica per le classi dirigenti del mondo
capitalistico contemporaneo. Nulla sarebbe più nefasto che se il proletariato
preservasse dall'attuale guerra mondiale una pur minima illusione e speranza
sulle possibilità di una continuazione idillica e pacifica del capitalismo. Ma
dalla storica necessità dell'imperialismo non consegue per la politica
proletaria di dover capitolare di fronte ad esso e nutrirsi d'ora in poi alla
sua ombra dell'osso di elemosina delle sue vittorie.
La dialettica storica si
muove appunto per contraddizioni e genera per ogni necessità anche la sua
controparte. Il dominio di classe borghese è senza dubbio una necessità
storica, ma non lo è meno l'insurrezione della classe operaia contro di esso;
il capitale è una necessità storica, ma lo è anche il suo becchino, il
proletariato socialista. L’egemonia mondiale dell'imperialismo è una necessità
storica, ma lo è anche il suo abbattimento da parte del proletariato
internazionale. Ad ogni livello si danno due necessità, storiche che entrano
tra loro in contrasto, e la nostra, la necessità, del socialismo, ha il fiato
più lungo. La nostra necessità acquista il suo buon diritto nel momento in cui
l'altra, il dominio di classe borghese, cessa di essere portatrice del progresso
storico, nel momento in cui diventa una palla al piede, un pericolo per
l'ulteriore sviluppo della società. È precisamente quanto è emerso dalla guerra
mondiale attuale nei riguardi dell'ordinamento sociale capitalistico.
La spinta espansiva
imperialistica del capitalismo, in quanto espressione della sua estrema
maturità, del suo ultimo scorcio di vita, ha come tendenza economica di
trasformare tutto il mondo in un cantiere di produzione capitalistico, di
spazzar via tutte le vecchie forme di produzione e sodali precapitalistiche, di
ridurre a capitale tutte le ricchezze della terra e tutti i mezzi di
produzione, e'a schiavi salariati la popolazione lavoratrice di tutte le zone
della terra. In Africa e in Asia, dalle spiagge dell'estremo Nord alla punta
meridionale dell'America e ai mari del Sud gli avanzi di vecchie organizzazioni
sociali a comunismo primitivo, di rapporti di potere feudali, di patriarcali,
economie contadine, di secolari produzioni artigiane, vengono distrutti,
schiacciati dal capitale, interi popoli sterminati, antichissime, civiltà
annientate, perché cedano il posto alla corsa al profitto nella sua forma più
moderna. Questa brutale marcia trionfale del capitale attraverso il mondo,
spianata e accompagnata da ogni specie di violenza, di rapina e di infamia, ha
un suo lato di luce. Essa ha creato i presupposti del suo definitivo tramonto,
ha instaurato quel dominio mondiale capitalistico, a cui sola può seguire la
rivoluzione mondiale socialista. Questo l'unico aspetto civilizzatore e
progressivo della sua cosiddetta grande opera di civiltà nei paesi primitivi.
Per gli economisti e i politici borghesi-liberali le ferrovie, i fiammiferi
svedesi, la canalizzazione stradale, e i bazar sono “progresso” e “civiltà”. Di
per sé quelle opere innestate su condizioni primitive non rappresentano né
civiltà né progresso perché vengono pagate da una subitanea rovina economica e
culturale, dei popoli, che hanno a godere in una volta, sola tutte le calamità e
gli orrori di due epoche: dei rapporti di dominazione tradizionali su base di
economia naturale e del più moderno e raffinato sfruttamento capitalistico.
Solo come presupposti materiali del superamento del dominio del capitale,
dell'abolizione della società classista in generale le opere che segnano la
vittoriosa marcia capitalistica per il mondo portano l'impronta del progresso in
più esteso senso storico. In questo senso l'imperialismo ha in ultima analisi
lavorato per noi.
L'attuale guerra mondiale rappresenta una svolta
nella sua carriera. Per la prima volta oggi le bestie feroci, liberate
dall'Europa capitalista contro tutte le altre parti del mondo, hanno fatto di
un sol balzo irruzione nel bei mezzo dell'Europa. Un grido di raccapriccio è
risuonato per il mondo, quando il Belgio, la piccola e graziosa gemma della
civiltà europea, quando i più venerandi monumenti culturali della Francia
settentrionale sono caduti fragorosamente in pezzi sotto il cozzo di una ciccai
forza di distruzione. Il “mondo civile” - il quale imperturbabile aveva
tollerato che questo stesso imperialismo; votasse alla più spaventosa fine
decine di migliaia di Herero e riempisse il deserto del Kalaharicon il grido
delirante degli assetati e con il rantolo dei morenti; che a Putumayo una banda
di cavalieri d'industria europei per dieci anni martoriasse a morte
quarantamila esseri umani, e i resti di un popolo fossero ridotti
all'invalidità, che in Cina un'antichissima civiltà, tra incendi e assassini
fosse data in preda dalla soldatesca europea a tutti gli orrori della
distruzione e dell'anarchia; che la Persia soffocasse impotente nel cappio
sempre più stretto del dispotismo straniero; che a Tripoli gli arabi fossero
piegati a ferro, e fuoco sotto il giogo del capitale,e la loro civiltà, i loro
abitati rasi al suolo questo “mondo civile” soltanto oggi s'è accorto che il
morso della bestia imperialistica è apportatore di morte, che il suo fiato è
nefando. Esso se ne è reso conto soltanto nel momento in cui la bestia ha
piantato le proprie zanne feroci nel grembo materno, nella civiltà borghese
europea, e anche questo riconoscimento si svolge nella forma contratta
dell'ipocrisia borghese, per la quale ogni popolo riconosce l'infamia,
unicamente sotto l'uniforme nazionale altrui»
“I barbari tedeschi!”, come se ogni popolo non si trasformasse in un'orda di
barbari nell'istante medesimo in cui è tratto all'omicidio organizzato. “Le
mostruosità dei cosacchi!”, come se la guerra in sé non fosse l'orrore degli
orrori, come se l'esaltazione sotto la specie di eroismo della carneficina umana
in un foglio giovanile socialista non fosse una forma di cosacchismo spirituale
allo stato puro!
Ma l'odierno imperversare
della bestialità imperialista per le pianure europee ha ancora un effetto, per
il quale il “mondo civile” non ha occhio inorridito ne cuore -agghiacciato:
vale a dire la distruzione in massa del proletariato europeo. Mai una
guerra ha sterminato in questa misura interi strati di popolazione, mai da un
secolo a questa parte aveva coinvolto in tale misura interi paesi europei di
grande e antica civiltà. Milioni di vite umane sono annientate sui Vosgi, nelle
Ardenne, in Belgio, in Polonia, sui Carpazi, sulla Sava, milioni di uomini
vengono ridotti all'invalidità. Ma di questi milioni i nove decimi sono
rappresentati dalla popolazione lavoratrice delle città e della campagna. È la
nostra forza, la nostra speranza, che viene colà quotidianamente falcidiata come
erba sotto la falce. Sono le forze migliori, più intelligenti, meglio educate
del socialismo internazionale, i rappresentanti delle più sacre tradizioni e
del più ardito eroismo del moderno movimento operaio, le avanguardie di tutto il
proletariato mondiale, i lavoratori inglesi, francesi, belgi, tedeschi, russi,
ad essere ora.ridotti al silenzio, ad essere massacrati in massa. Questi
lavoratori dei paesi capitalistici egemonici d'Europa sono gli stessi, sui
quali pesa la missione storica di portare a termine il rivolgimento socialista.
Soltanto dall'Europa, soltanto dai più vecchi paesi capitalistici può partire,
quando l'iì&rafsia matura, il segnale
della rivoluzione sociale liberatrice dell'umanità. Solo i lavoratori inglesi,
francesi, belgi, tedeschi, russi, italiani in comunione possono condurre avanti
l'armata degli sfruttati e degli schiavizzati delle cinque parti del mondo. Solo
essi, giunto il tempo, potranno chieder conto risarcire per i secolari delitti
commessi dal capitalismo sulla pelle di tutti i popoli primitivi, per la sua
opera di distruzione sulla superficie della terra. Ma perché il socialismo
avanzi e vinca, ci vuole un proletariato forte, combattivo, istruito, ci
vogliono masse, la cui forza riposi nel numero non meno che nel proprio livello
spirituale. E queste masse dalla guerra mondiale vengono addirittura decimate.
Il fiore dell'età virile e il vigore giovanile di centinaia di migliaia, la cui
educazione socialista in Inghilterra e in Francia, in. Belgio, in Germania e in
Russia, era stato il prodotto di un lavoro di propaganda e di agitazione durato
decenni, altre centinaia di migliaia, che domani potevano essere guadagnati per
il socialismo, cadono e imputridiscono miseramente sui campi di battaglia. Il
frutto di sacrifici decennali e di fatiche di generazioni va distrutto in poche
settimane, il nerbo del .proletariato internazionale è colpito alla radice.
Il salasso dei massacri di
giugno aveva paralizzato il movimento operaio francese per una quindicina di
anni. Il salasso dei macelli dei comunardi l’ha ributtato ancora una volta per
oltre un decennio. Ciò che ora accadere un massacro in massa quale mai si è
visto, che sempre più riduce la popolazione lavoratrice adulta di tutti i
principali paesi civili a donne, vecchi e invalidi: un salasso, per il quale il
movimento operaio europeo minaccia di morire dissanguato. Ancora una guerra
mondiale del genere, e le prospettive socialiste saranno seppellite sotto le
macerie accumulate dalla barbarie imperialistica. Il che è ancor più che
l'infame distruzione di Lovanio e della cattedrale di Reims. È un attentato non
alla civiltà borghese del passato, ma a quella socialista dell'avvenire, un
colpo mortale a quella forza che porta nel proprio grembo l'avvenire
dell'umanità e che sola può portare in salvo, in una società migliore, i
preziosi tesori del passato. In questo il capitalismo rivela il proprio volto
di morte, in questo tradisce che il suo diritto storico all'esistenza è
esaurito, il suo dominio non ulteriormente compatibile con il progresso
dell'umanità.
Qui tuttavia l'attuale guerra
mondiale si manifesta anche non soltanto come un omicidio in grande, ma anche
come suicidio della classe lavoratrice europea. Sono precisamente i soldati del
socialismo, i proletari inglesi, francesi, tedeschi, russi, belgi, a
massacrarsi da mesi vicendevolmente agli ordini del capitalismo, a piantarsi
reciprocamente in cuore il ferro omicida, precipitare assieme nella fossa in un
abbraccio mortale.
“Deutschland,
Deutschland uberalles! Viva la democrazia!
Viva lo zar e lo slavismo!
Decine di migliaia di teli da tenda garantite d'ordinanza! Centinaia di migliaia
di chili di lardo, di surrogato di caffè pronta consegna” i dividendi salgono, e
i proletari cadono. E con ognuno di loro scende nella tomba un combattente
dell'avvenire, un soldato della rivoluzione, un salvatore dell'umanità dal
giogo del capitalismo.
Il delirio cesserà e lo
spettro infernale sparirà solo a condizione che i lavoratori di Germania e di
Francia, di Inghilterra e di Russia sappiano finalmente riscuotersi dalla loro
ubriacatura, stringersi fraternamente per mano e sovrastare
il coro bestiale della canea
imperialistica cosi come le roche strida delle iene capitalistiche, col vecchio
e possente grido di guerra del lavoro: Proletari di tutti i paesi, unitevi!
Appendice
Tesi sui compiti della socialdemocrazia
internazionale
Un certo numero di compagni
di tutte le parti della Germania ha adottato le seguenti tesi, che
rappresentano un’applicazione del programma di Erfurt ai problemi
attuali del socialismo internazionale.
1. La guerra mondiale ha
annientato i risultati di quarant'anni di lavoro del socialismo europeo, avendo
distrutto l'importanza, come fattore di potenza politica, della classe operaia
rivoluzionaria e il prestigio morale del socialismo, mandata in pezzi
l'internazionale proletaria, condotte le sue sezioni al reciproco fratricidio e
incatenato alla barca dell'imperialismo desideri e speranze delle masse popolari
dei più importanti paesi del sistema capitalistico.
2. Con l'approvazione dei
crediti di guerra e la proclamazione della pace civile i capi ufficiali dei
partiti socialisti di Germania, Francia e Inghilterra (con l'eccezione del
Partito operaio indipendente) hanno assicurato le spalle all'imperialismo,
indotto le masse popolari alla paziente sopportazione della miseria e degli
orrori della guerra e così contribuito allo scatenamento sfrenato del delirio
imperialista, al prolungamento della carneficina e alla moltiplicazione delle
sue vittime condivisa la responsabilità della guerra e delle sue conseguenze.
3. Codesta tattica delle
istanze ufficiali di partito dei paesi belligeranti, in primissima linea in
Germania, il paese fino ad oggi guida dell'Internazionale, rappresenta un
tradimento ai principi più elementari del socialismo internazionale, agli
interessi vitali della classe operaia a tutti gli interessi democratici dei
popoli. In questa maniera la politica socialista è stata condannata
all'impotenza anche in quei paesi, dove i dirigenti sono rimasti fedeli ai loro
doveri in Russia, Serbia, Italia e - con un'eccezione - in Bulgaria.
4. Sacrificando la lotta di
classe in tempo di guerra e procrastinandola al dopoguerra, la socialdemocrazia
ufficiale delle grandi potenze ha dato tempo alle classi dominanti di
rafforzarsi enormemente a spese del proletariato sul piano economico, politico
e morale.
5. La guerra mondiale
non serve ne alla difesa nazionale ne agli interessi economia e politici di
alcun popolo: è esclusivamente un parto delle rivalità imperialistiche tra le
classi capitalistiche di vari paesi per il predominio mondiale e il monopolio
dello sfruttamento e dell'oppressione dei territori non ancora dominati dal
capitale. Nell'era dell'imperialismo scatenato non c'è più posto per guerre
nazionali. Gli interessi nazionali servono solo di pretesto per porre le masse
lavoratrici al servizio del loro mortale nemico, l'imperialismo.
6. Dalla politica degli stati
imperialistici e dalla guerra imperialistica non possono sorgere libertà e
indipendenza per alcuna nazione oppressa. Le piccole nazioni, le cui classi
dirigenti sono appendici e conniventi dei loro compagni di classe dei grandi
stati costituiscono soltanto delle pedine nel gioco imperialistico delle grandi
potenze, e, non meno delle masse lavoratrici di queste, durante la guerra ne
fungono da strumento per essere sacrificate in seguito agli interessi
capitalistici.
7. In queste circostanze
l'attuale guerra mondiale rappresenta, a parte chi vinca o perda, una,
sconfitta del socialismo e della democrazia. Qualunque suo esito - che non sia
l'intervento del proletariato internazionale - non evita il rafforzamento del
militarismo, dei contrasti internazionali, delle rivalità economiche. Essa
accentua lo sfruttamento capitalistico e la reazione in politica interna,
indebolisce il controllo pubblico e abbassa i parlamenti a strumenti sempre più
passivi del militarismo. L'attuale guerra mondiale sviluppa così nello stesso
tempo tutti i presupposti di nuove guerre.
8. La pace mondiale non può
essere assicurata da piani utopici o fondamentalmente reazionari come
l'arbitrato di tribunali internazionali di diplomatici capitalisti, accordi
diplomatici su “disarmo”, “libertà dei mari”, “abolizione del diritto di preda
marittima”, “Confederazione di stati europei “, “Unioni doganali
centro-europee”, stati nazionali cuscinetto e simili. Imperialismo, militarismo
e guerre non sono eliminabili o limitabili, finché le classi capitalistiche
esercitino incontrastate il loro dominio di classe. L'unico mezzo di offrire
loro una resistenza vittoriosa, e l'unica garanzia della pace mondiale, sono la
capacità di azione politica e la volontà rivoluzionaria del proletariato
internazionale di far pesare sulla bilancia la propria forza.
9. L'imperialismo, come
ultima fase ed estremo sviluppo dell’egemonia politica mondiale del capitale, è
il comune nemico mortale del proletariato di tutti i paesi. Ma esso condivide
anche, con le precedenti fasi del capitalismo, il destino di rafforzare le forze
del proprio mortale nemico in proporzione al proprio sviluppo. Esso accelera la
concentrazione del capitale, la putrefazione del ceto medio, la moltiplicazione
del proletariato, desta la resistenza crescente delle masse e porta cosi
all'acutizzazione intensiva delle contraddizioni di classe. La lotta di classe
proletaria sia in pace che in guerra deve essere concentrata in prima linea
contro l'imperialismo. La lotta contro di esso rappresenta nello stesso tempo
per il proletariato internazionale la lotta per il potere politico nello stato,
il conflitto decisivo tra socialismo e capitalismo fine socialista sarà
realizzato dal proletariato internazionale solo facendo fronte su tutta la
linea all'imperialismo e innalzando, con tutte le proprie forze e il massimo
spirito di sacrificio, a norma della propria politica pratica la parola
d'ordine: “Guerra alla guerra”. A questo scopo il compito fondamentale del
socialismo è oggi di raccogliere il proletariato di tutti i paesi in una viva
forza rivoluzionaria, di farne quel decisivo fattore della vita politica a cui è
chiamato dalla storia, mediante una forte organizzazione internazionale, che
possieda una comprensione unitaria dei suoi interessi e compiti, una tattica
unitaria ed una capacità d'azione politica sia in pace che in guerra. La II
Internazionale è saltata con la guerra. La sua insufficienza è stata dimostrata
dall'incapacità di erigere una diga efficace allo sbriciolamento nazionalistico
della guerra e di perseguire una tattica e una prassi proletarie comuni in tutti
i paesi. In considerazione del tradimento delle mete e degli interessi della
classe operaia da parte delle rappresentanze ufficiali dei partiti socialisti
dei paesi-guida, in considerazione del loro passaggio dal terreno
dell'Internazionale proletaria, a quello della politica
imperialistico-borghese, e necessità vitale per il socialismo creare una nuova
Internazionale operaia,che in tutti i paesi assuma la direzione e raccolga file
della lotta di classe rivoluzionaria contro l’imperialismo. Per adempiere ai
propri compiti storici essa deve poggiate sui seguenti principi:
1. La lotta di classe contro
le classi dirigenti all'interno degustati borghesi e la solidarietà
internazionale dei proletari di tutti i paesi sono due norme vitali inscindibili
della classe operaia nella sua lotta di liberazione storico-mondiale. Non c'è
socialismo al di fuori della solidarietà internazionale del proletariato, e non
c'è socialismo al di fuori della lotta di classe. Il proletariato socialista
non può rinunciare né in pace né in guerra alla lotta di classe e alla
solidarietà internazionale senza andare incontro al suicidio.
2. L'azione di classe del
proletariato di tutti i paesi in pace come in guerra deve essere diretta
fondamentalmente alla lotta contro l'imperialismo e all'impedimento delle
guerre. L'azione parlamentare, l'azione sindacale, come pure tutta l'attività
del movimento operaio devono essere subordinate allo scopo di contrapporre al
massimo in ogni paese proletariato e borghesia nazionale, di sottolinearne passo
passo l'antitesi politica e spirituale, cosi come contemporaneamente di far
risaltare e di realizzare la comunione internazionale dei proletari di tutti i
paesi.
3. Nell'Internazionale sta il
centro di gravita dell'organizzazione di classe del proletariato.
L'Internazionale decide in pace sulla tattica delle sezioni nazionali in
questioni di militarismo, politica coloniale/commerciale, primo maggio, ed
inoltre su tutta la tattica da seguirsi in guerra.
4. Il dovere di eseguire le
deliberazioni dell'Internazionale passa avanti ad ogni altro dovere di
organizzazione. Le sezioni nazionali, che contravvengono alle sue
deliberazioni, si pongono al di fuori dell'Internazionale.
5. Nelle lotte contro
l'imperialismo e la guerra la forza decisiva può solo scaturire dalle masse
compatte del proletariato di tutti i paesi. L’obiettivo fondamentale della
tattica delle sezioni nazionali deve perciò essere diretto all'educazione delle
grandi masse alla capacità di azione politica e a un deciso spirito
d'iniziativa, ad assicurare il collegamento internazionale dell'azione di
massa, ad edificare le organizzazioni politiche e sindacali in maniera di
garantire con la loro mediazione, in ogni tempo, la rapida ed efficace
collaborazione di tutte le sezioni, e di realizzare la volontà
dell'Internazionale nella prassi delle più vaste masse popolari di tutti i
paesi.
6. Il compito più immediato
del socialismo è la liberazione spirituale del proletariato dalla tutela della
borghesia, quale si esprime nell'influenza dell'ideologia nazionalistica. Le
sezioni nazionali devono indirizzare la loro agitazione sia parlamentare che
pubblicistica nel senso di denunciare la tradizionale fraseologia nazionalista
come strumento borghese di egemonia. L’unico mezzo di resa di tutte le
autentiche libertà nazionali è attualmente la lotta di classe rivoluzionaria
contro l'imperialismo. La patria, alla cui difesa tutto va subordinato, è per i
proletari l'Internazionale socialista.
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