Il testo che segue è il prodotto del lavoro di un gruppo
«informale» di compagni che sono tutti passati attraverso l’ultrasinistra e che
in seguito hanno messo in discussione le concezioni fondamentali di questa
corrente. Era stato redatto per la riunione organizzata nel giugno 1969 da ICO
(il bollettino «Informations Correspondance Ouvrière» riunisce dal 1958 un
gruppo di operai e di militanti ultrasinistri). Noi speravamo allora di
impegnare una discussione di fondo con dei militanti ultrasinistri, «consiliaristi»,
ma l’ideologia ultrasinistra che volevamo affrontare ci è apparsa in stato di
avanzata decomposizione. Se, come talvolta si dice, la nostra epoca è quella
della morte di tutte le ideologie, non sembra che l’ideologia ultrasinistra sia
stata risparmiata. Ora noi possiamo solo accelerare un processo dà largamente
iniziato. L’importante è di andare avanti facendo progredire il nostro lavoro
teorico: ne abbiamo dunque approfittato per sviluppare la parte del testo
consacrata alla dinamica del capitalismo e alla legge del valore. Il problema
della liquidazione dell’ideologia ultrasinistra è in via di risoluzione, non dal
nostro testo, ma dal movimento stesso della società: ora quel che importa è
porre i problemi della rivoluzione.
«Una mistificazione esisteva non soltanto nelle sue
risposte, ma nelle stesse domande».
K. Marx, L’ideologia tedesca
Non v’è alcun dubbio che uno degli scopi principali della
riunione organizzata da ICO sarà di «coordinare» l’attività di diversi gruppi
ultrasinistri esistenti in Francia e nel mondo. Ma subito una domanda s’impone:
quale attività? Si possono coordinare solo lavori che vanno nello stesso senso,
che ruotano intorno alle stesse preoccupazioni, il che beninteso non implica un
accordo teorico totale, ma presuppone in ogni caso una discussione; e questa
discussione può poggiare solo sul fondo. È per questo che noi proponiamo, in
preparazione di questa riunione, un contributo teorico che verta su due punti
essenziali e strettamente legati (e che in realtà ne formano uno solo): il
problema detto dell’«organizzazione» e il problema del contenuto del socialismo.
Insomma, il mezzo e il fine del movimento rivoluzionario. La corrente
ultrasinistra (indicheremo cosa intendiamo con ciò) si è pronunciata e definita
su questi due punti. Vorremmo riflettere qui sulle soluzioni da essa proposte.
Lungi dall’allontanarci dal lavoro concreto il nostro modo
di procedere secondo noi è il solo che possa permettere un reale «coordinamento»
del lavoro dei diversi gruppi ultrasinistri presenti alla riunione nazionale e a
quella internazionale. Tutti gli ultrasinistri, per i quali l’attività
rivoluzionaria è realmente un problema pratico, non possono che porsi il
problema teorico dell’orientamento del loro lavoro.
È chiaro che la nostra critica dovrà essere, tra l’altro,
storica; non vogliamo innanzitutto contrapporre idee ad altre idee, ma collocare
storicamente le concezioni che esaminiamo. Questo è tanto più giustificato in
quanto le concezioni in questione si definiscono attraverso un riferimento
costante a un passato ben preciso e a teorie uscite da un certo periodo della
storia del movimento operaio.
1. LA CORRENTE ULTRASINISTRA
Cos’è di fatto la corrente ultrasinistra? Il prodotto e uno
degli aspetti del movimento rivoluzionario che seguì la Prima Guerra mondiale e
sconvolse l’Europa capitalistica senza distruggerla dal 1917 al 1921-’23. Le
idee ultrasinistre affondano le loro radici in questa corrente degli anni Venti,
essa stessa espressione della lotta di decine di migliaia di operai
rivoluzionari in Europa. Si tratta innanzitutto di un movimento minoritario che
si opponeva all’orientamento generale del movimento rivoluzionario mondiale. Il
termine stesso è significativo: c’è la destra (i socialpatrioti Ebert, Longuet
ecc.), il centro (Kautsky, la maggioranza del PCF), la sinistra (Lenin e
l’Internazionale Comunista) e gli ultrasinistri. La corrente ultrasinistra si
definisce subito come opposizione: all’interno del KPD e dell’Internazionale
Comunista. Questo movimento minoritario si afferma opponendosi alla maggioranza
dell’Internazionale Comunista, alle tesi che trionfano nel movimento comunista
internazionale: cioè al leninismo. La corrente ultrasinistra trae la sua forza
innanzitutto dal movimento rivoluzionario in Germania e nei Paesi Bassi; i suoi
appoggi in Francia e in Gran Bretagna sono scarsi.
(Mettiamo deliberatamente da parte la Sinistra italiana, il «bordighismo», che
non includiamo nell’ultrasinistra e che esamineremo un po’ più avanti. Prendiamo
in qualche modo come «criterio» dell’ultrasinistra l’opposizione comunista di
sinistra al leninismo nel suo insieme, come teoria e come pratica).
Uno studio del movimento ultrasinistro mostra che esso è
lungi dall’essere monolitico (vedi l’opuscolo di ICO sul movimento dei Consigli
in Germania). Peraltro le sue diverse tendenze si evolsero secondo gli anni e le
circostanze: per esempio, la Risposta a Lenin di Gorter sviluppa una concezione
che l’essenziale della corrente del «socialismo dei consigli» non adotta. Sui
due punti fondamentali (l’«organizzazione» e il contenuto del socialismo),
studiamo dunque solo le idee conservate nell’ulteriore sviluppo di questa
corrente, quindi dagli attuali gruppi ultrasinistri di cui ICO offre senza
dubbio uno dei migliori esempi.
Le concezioni ultrasinistre in materia di organizzazione
sono contemporaneamente il prodotto di un’esperienza pratica (le lotte operaie
in Germania, soprattutto) e di una critica teorica (la critica del leninismo).
Si sa che, per Lenin, il movimento operaio non può essere rivoluzionario di per
sé: gli occorre un partito che gli apporti la «coscienza di classe», la
«coscienza socialista». Il problema rivoluzionario centrale consiste nel
forgiare una «direzione» capace di condurre gli operai alla vittoria.
Sforzandosi di teorizzare l’esperienza delle organizzazioni di fabbrica in
Germania, gli ultrasinistri opposero alla teoria leninista la concezione secondo
la quale la classe operaia non ha alcun bisogno di essere diretta da un partito
per essere rivoluzionaria. La rivoluzione sarebbe l’opera delle masse
organizzate in Consigli operai e non di un proletariato guidato e controllato da
rivoluzionari professionali. Il KAPD
di cui Gorter teorizza
l’attività nella sua Risposta a Lenin
, concepiva ancora il suo ruolo
come quello di un’avanguardia organizzata al di fuori delle masse, che ha la
funzione di illuminarle e non di dirigerle come secondo la teoria leninista. Ma
questa stessa concezione era superata da alcuni ultrasinistri contrari al
dualismo partito-organizzazione di fabbrica: i rivoluzionari non devono cercare
di raggrupparsi in organizzazioni speciali distinte dalle masse. Questa tesi
condusse nel 1920 alla creazione dell’AAUD-E
che rimproverava all’AAUD di essere «l’organizzazione di massa» del KAPD. Il
comunismo dei consigli, e in primo luogo il suo più brillante teorico Anton
Pannekoek
, avrebbe fatto proprie le idee
dell’AAUD-E; egualmente è su questa concezione che si fonda il lavoro di ICO:
ogni raggruppamento di rivoluzionari che esista al di fuori degli organi creati
dagli operai stessi e che tenti di darsi una linea e di formulare una teoria
coerente e globale, alla fin fine può solo porsi come direzione degli operai. I
rivoluzionari dunque fanno solo circolare delle informazioni e stabiliscono
contatti, ma non cercano mai, in quanto gruppo, di elaborare una teoria e un
orientamento d’insieme.
Il contenuto del socialismo fu anch’esso concepito a
partire dall’esperienza proletaria dell’epoca e dalla critica del leninismo. Gli
ultrasinistri vedevano in Germania e in Russia il prodigioso sviluppo dei
consigli di fabbrica e dei Consigli operai. In Germania, i consigli rimasero
sotto il dominio politico dei riformisti. In Russia, i compiti che essi
potettero adempiere furono limitati al controllo operaio (1917 e inizio del
1918) e in seguito il movimento fu liquidato. I bolscevichi, diceva Lenin,
devono amministrare la Russia. Così un apparato burocratico si formò a poco a
poco per gestire l’economia russa. Gli ultrasinistri denunciarono questa
caricatura del socialismo e posero quella che doveva rimanere la loro tesi
fondamentale al riguardo: il socialismo è la gestione della società non da parte
di una minoranza di «amministratori» ma da parte delle masse operaie organizzate
in Consigli. Il socialismo è la gestione operaia. Questa concezione è rimasta al
centro delle idee ultrasinistre. La critica del partito si collega alla critica
del «socialismo» russo. Al partito, strumento di presa del potere e di gestione
della società socialista, gli ultrasinistri sostituirono i Consigli operai.
Su questi due punti la corrente ultrasinistra si è fondata
negli anni Venti a partire da una critica del leninismo. Ci si può domandare se
questa critica non sia stata, così come ciò contro cui era volta, il prodotto di
un’epoca; e se non porti il segno dei limiti di quel periodo. La corrente
ultrasinistra ha analizzato il leninismo in profondità? O piuttosto non l’ha
contraddetto senza colpirne davvero le radici?
2. IL PROBLEMA DELL’«ORGANIZZAZIONE»
Il punto di partenza metodologico della teoria leninista
del partito è una distinzione che si trova in tutti i grandi teorici socialisti
dell’epoca e anche in Engels sul finire della sua vita
:
secondo questa distinzione il «movimento operaio» e il «socialismo» (cioè le
idee, la dottrina, il marxismo, il socialismo scientifico ecc. – si può
chiamarlo in diversi modi) sono due cose radicalmente diverse e separate. Vi
sono gli operai e le loro lotte quotidiane; vi sono il socialismo e i
rivoluzionari. Bisogna – dice Lenin, rifacendosi a Kautsky
– «introdurre» le idee rivoluzionarie tra gli operai. Movimento operaio e
movimento rivoluzionario sono separati l’uno dall’altro. Bisogna unirli e
assicurare la direzione degli operai da parte dei rivoluzionari professionali. A
questo fine, i rivoluzionari si raggruppano separatamente e intervengono
dall’esterno nel movimento operaio. L’analisi di Lenin che pone i rivoluzionari
al di fuori del movimento operaio si fonda su una constatazione apparentemente
evidente: i rivoluzionari sembrano essere in un mondo completamente diverso da
quello in cui si svolge la vita quotidiana degli operai. Lenin non fa che
appoggiarsi su quest’apparenza senza andare al fondo alle cose: il movimento
rivoluzionario, la dinamica che porta verso il comunismo, sono prodotti dalla
società capitalistica. È a partire da questo fatto che Marx aveva elaborato la
sua concezione del partito. Il termine partito torna spesso sotto la penna di
Marx: bisogna distinguere tra i princìpi che egli pone e le analisi
congiunturali sull’evoluzione del movimento operaio della sua epoca. Non c’è
alcun dubbio che alcune di queste analisi erano false (per esempio quelle sui
sindacati). D’altra parte non vi è un testo in cui Marx affermi: ecco ciò che
penso sul partito, ma un grande numero di osservazioni disperse in tutta la sua
opera. Gli esegeti possono dunque sbizzarrirsi, tuttavia ci sembra che un punto
di vista globale si delinei chiaramente da tutti questi testi. La società
capitalista produce da sé un partito comunista, che è solo l’organizzazione del
movimento oggettivo (cioè indipendente dalla «coscienza» nel senso di Kautsky e
di Lenin) che spinge questa società verso il comunismo (più oltre vedremo quel
che è, e, comunque, quel che non è il comunismo). In un periodo di pace sociale,
l’equilibrio della società rimane stabile, gli elementi del sistema si
sostengono e nessuna rottura è possibile. In tali condizioni il movimento
rivoluzionario è ridotto ad alcuni aspetti limitati e a prima vista anche
derisori: alcune lotte operaie che si spingono abbastanza lontano da rimettere
in causa certi fondamenti dell’ordine stabilito (per esempio, oggi, la rimessa
in discussione dei sindacati); rivolte brutali che spesso non provengono dagli
operai ma da alcuni strati del contadiname o degli studenti, benché esse
svolgano solo il ruolo assegnato loro dalla situazione generale della società in
quel momento; infine piccoli gruppi e persino individui isolati, quelli che si
chiamano i «rivoluzionari». Questa è la nostra attuale situazione. Ma non vi
sono da un lato gli «operai» e dall’altro i «rivoluzionari»: o, piuttosto, se i
rivoluzionari sembrano separati dal proletariato ciò dipende precisamente dal
fatto che il «proletariato» non può affermarsi ed erigersi come classe
dominante. Lenin vede il proletariato riformista e si chiede come potrà
diventare rivoluzionario. La sua risposta è semplice: il proletariato farà la
rivoluzione solo se gli viene apportata la coscienza di classe. Lenin scava tra
riforma e rivoluzione un fossato tale che gli operai non possono superarlo da
soli. La definizione rivoluzionaria del proletariato, quale si libera e s’impone
a Marx, verso la metà del XIX secolo, dopo vari decenni di lotte operaie, è al
contrario basata sulla costrizione storica. Quando la situazione non permette di
distruggere i rapporti di produzione capitalisti, il proletariato è costretto a
vendere la prpria forza-lavoro: domandando aumenti salariali, con ciò stesso
tenta, lo voglia o no, di modificare i rapporti di distribuzione. Quando si
presenta una situazione rivoluzionaria, il proletariato se la prende con i
rapporti di produzione. Esso non scompare mai dalla scena della storia: la lotta
di classe riveste forme diverse a seconda della fase, e lo obbliga a essere
riformista o rivoluzionario. È per questo che il rivoluzionario s’interessa
innanzitutto non a ciò che questo o quel proletario, o anche l’intero
proletariato, si rappresenta come scopo, ma a ciò che il proletariato sarà
storicamente costretto a fare. Si tratta di comprendere un processo storico e
non di irrigidirlo isolandone uno degli elementi (vedi quanto scriviamo più
avanti sulla dinamica del capitalismo)
.
Di fatto ogni movimento rivoluzionario corrisponde alla
società da cui è uscito e a quella che si avvia a instaurare: il movimento
comunista, il partito nel senso marxiano, riflette in particolare la divisione
lavoro manuale-lavoro intellettuale. Questa divisione esso non la «sceglie»; la
base sulla quale si sviluppa gliela impone. In un periodo di pace sociale vi
sono degli operai rivoluzionari isolati nelle loro fabbriche e che fanno ciò che
possono sul piano delle lotte quotidiane, della critica del capitalismo e delle
istituzioni che lo sostengono tra gli operai (sindacati e partiti «operai»
riformisti). In genere vi riescono abbastanza male, il che è del tutto normale.
E, d’altra parte, vi sono dei rivoluzionari (operai e non) che leggono, scrivono
e fanno il possibile per diffondere il loro lavoro teorico: in genere vi
riescono egualmente abbastanza male, il che è altrettanto normale. Lenin
vorrebbe che i «teorici» dirigessero gli «operai»; ICO lo nega energicamente e
ne conclude che bisogna evitare ogni lavoro teorico collettivo. Ma il problema è
altrove: rivoluzionari «operai» e rivoluzionari «teorici» sono solo due aspetti
dello stesso processo. Credendo di vedervi una frattura profonda, Lenin non
faceva che prendere l’apparenza per realtà. Ma ICO si limita a rovesciare
l’errore di Lenin, senza vedere che questa pretesa separazione è solo illusoria,
com’è d’altronde dimostrato dall’avvento di un periodo un po’ rivoluzionario.
Cosa si è visto nel Maggio-Giugno 1968? Un certo numero di comunisti
«ultrasinistri» – la cui attività rivoluzionaria, sia prima sia dopo quegli
eventi, era ed è consacrata per l’essenziale a una critica teorica della società
capitalistica – hanno lavorato con una minoranza operaia rivoluzionaria. Non si
sono né legati né uniti ai lavoratori. E prima non erano separati dagli operai
più di quanto ogni operaio non sia separato dagli altri nella situazione di
atomizzazione della classe operaia che caratterizza ogni periodo non
rivoluzionario (com’è stato spesso dimostrato, i sindacati non diminuiscono
bensì rafforzano quest’atomizzazione). Marx non era maggiormente separato dagli
operai scrivendo Il Capitale piuttosto che agendo nella Lega dei Comunisti e
nell’Internazionale: lavorando in questi gruppi non aveva né il bisogno
imperioso (come Lenin) né il timore (come ICO) di costituirsi quale direzione
della classe operaia.
La concezione marxista del partito come prodotto storico
della società capitalistica, che riveste diverse forme secondo le fasi
attraversate da questa società, permette di superare il dilemma necessità del
partito-timore del partito. Il partito per Marx è solo l’organizzazione
spontanea (cioè totalmente determinata dall’evoluzione sociale) del movimento
rivoluzionario generato dal capitalismo. Il partito sorge spontaneamente dal
suolo storico della società moderna. La volontà e il timore di «creare» il
partito sono entrambi altrettanto illusori. Il partito non ha né da essere
creato né da non esserlo: è un puro prodotto storico. Il rivoluzionario non ha
bisogno né di costruire il partito né di temere di costruirlo. Tra poco vedremo
le conseguenze pratiche di questo punto di vista. Esaminiamo prima un argomento
spesso impiegato dagli ultrasinistri.
Bisogna guardarsi – dicono – dal costituirsi in partito:
vedete quel che è successo in Russia dopo il 1917. Per l’appunto vediamo! La
rivoluzione del 1917 è stata effettuata dal partito nel senso marxiano; quanto
al partito che Lenin aveva voluto costruire a partire dal Che fare?, svolse
costantemente un ruolo di freno tra febbraio e ottobre. Lo stesso Lenin fu
rivoluzionario nel 1917 solo perché respinse nella sua prassi il Che fare?. In
seguito la debolezza del proletariato russo e l’assenza di rivoluzione in Europa
costrinsero la rivoluzione russa ad assolvere esclusivamente i compiti della
rivoluzione borghese impossibile. Il partito bolscevico assicurò la direzione
del Paese e la teoria leninista del partito separato dalle masse, «avanguardia
cosciente», che possiede il sapere e la... coscienza, servì da potente paravento
ideologico alla borghesia di Stato. Gli ultrasinistri hanno preso questa
ideologia per il centro del problema: niente partito – dicono –, altrimenti si
finisce come in Russia. In verità non è il partito leninista ad avere causato la
disfatta nella rivoluzione russa; è solo l’assenza di rivoluzione mondiale che
ha potuto dare al partito di Lenin il fiato perso tra febbraio e ottobre.
Giacché bisogna distinguere tra il partito in senso marxiano e il partito
bolscevico. Si crede che sia stato il partito bolscevico a fare la Rivoluzione
d’ottobre. È falso. Il partito bolscevico – il partito che Lenin aveva tentato
di costruire da oltre quindici anni, la «direzione» delle masse, l’«avanguardia»
– era stato superato dallo slancio delle masse organizzate (alle quali,
dall’inizio, si erano uniti numerosi bolscevichi). Solo la successiva debolezza
della rivoluzione, d’altronde quasi subito dopo l’ottobre ’17, ha ridato al
partito tutto il potere. A quel punto, l’apparato centralizzato del partito
bolscevico ha potuto dirigere le masse e organizzare la vita della società
russa. Gli ultrasinistri non compresero questa distinzione e si è arrivati al
rifiuto puro e semplice di ogni coerente attività collettiva (ICO). Ci si
contenta di adottare una posizione simmetrica a quella leninista. Lenin aveva
voluto costruire un partito; gli ultrasinistri si rifiutavano di farlo. Pro o
contro il partito, l’ultrasinistra si limitava a dare una risposta diversa alla
medesima falsa domanda. Per noi non è sufficiente rovesciare l’ottica di Lenin,
occorre abbandonarla.
Sul piano dell’attività, ICO ha egualmente adottato una
posizione esattamente simmetrica a quella di Lenin. I gruppi leninisti moderni (Lutte
Ouvrière, per esempio) tentano in ogni modo di organizzare gli operai. ICO si
accontenta di fare circolare delle informazioni senza mai prendere posizione
collettivamente su di un problema. Quest’analisi di ICO apparsa nel n. 11 dell’«Internationale
Situationniste» ci pare giusta (il che certo non vuol dire che accettiamo
l’insieme della teoria e della pratica situazioniste):
«Abbiamo molti punti di accordo con loro [i compagni di ICO]
e un’opposizione fondamentale: noi crediamo alla necessità di formulare una
critica teorica precisa dell’attuale società di sfruttamento. Riteniamo che una
tale formulazione teorica possa essere prodotta solo da una collettività
organizzata; e viceversa pensiamo che ogni legame permanente tra i lavoratori
debba tendere a scoprire una base teorica generale della sua azione. Ciò che la
Misère en milieu étudiant chiamava la scelta dell’inesistenza fatta da ICO in
questo campo, non significa che noi pensiamo che i compagni di ICO manchino di
idee o di conoscenze teoriche ma, al contrario, che, mettendo tra parentesi tali
idee, che sono diverse, essi perdano più di quanto non guadagnino in capacità di
unificazione (ciò che in fondo conta praticamente di più)» (p. 63).
Preciseremo oltre a quali compiti rivoluzionari ci
dedichiamo.
3. IL CONTENUTO DEL SOCIALISMO
La rivoluzione russa dovette adempiere il compito di
sviluppare il capitalismo in Russia. Gestire l’economia il meglio possibile
divenne la principale parola d’ordine. Ci si dedicò a formare, a partire dai
quadri del partito bolscevico e dai vecchi «specialisti» borghesi, un corpo di
amministratori efficaci. Gli ultrasinistri arrivarono all’idea che questa
gestione da parte di una minoranza situata al di sopra della classe operaia non
poteva essere il socialismo: alla gestione burocratica essi opposero la gestione
operaia. Si giunse così a una coerente ideologia ultrasinistra con al centro i
Consigli operai: strumenti di lotta, di presa del potere e di amministrazione
della società futura, essi occupano – per esempio nel libro di Pannekoek Les
conseils ouvriers – il posto centrale riservato al partito da Lenin. Di fatto,
questa concezione ci obbliga a riflettere su quel che è veramente la società
capitalistica: perché prima di sapere cos’è il socialismo abbiamo bisogno di
sapere a cosa si contrappone. La teoria della gestione operaia presenta il
capitalismo innanzitutto come un modo di gestione: l’importante è che l’economia
sia diretta da una minoranza di capitalisti e non dalle masse operaie.
Sostituiamo dunque i padroni con gli operai8 bis.
Ma il capitalismo è innanzitutto un modo di gestione? La
critica rivoluzionaria del capitalismo avviata da Marx non pone in primo piano
il problema di sapere chi gestisca il capitale. Al contrario, Marx ci mostra i
capitalisti come semplice funzione del capitale; dice anche che il padrone è
solo il funzionario del capitalismo: «Il capitalista non è che il funzionamento
del capitale e l’operaio quello della forza-lavoro». I pianificatori russi,
lungi dal «dirigere» l’economia, al contrario ne sono diretti, e tutto lo
sviluppo dell’economia russa segue le leggi oggettive dell’accumulazione
capitalistica. In breve, il «gestore» è al servizio di rapporti di produzione
precisi e costrittivi. Il capitalismo non è un MODO DI GESTIONE BENSÌ UN MODO DI
PRODUZIONE BASATO SU DEI RAPPORTI DI PRODUZIONE. Sono questi i rapporti da
distruggere se si vuole abbattere il capitalismo. L’analisi rivoluzionaria del
capitalismo evidenzia il ruolo del capitale di cui i «dirigenti» dell’economia
possono solo rispettare le leggi oggettive, in URSS come negli USA.
4. LA LEGGE DEL VALORE
Il capitalismo è fondato sullo scambio: si presenta prima
di tutto come un’«immensa accumulazione di merci». Ma pur non potendo esistere
senza lo scambio, il capitalismo è diverso dalla semplice produzione di merci:
si costituisce anche lottando contro la produzione mercantile semplice. Il
capitale è basato innanzitutto su di uno scambio del tutto particolare, lo
scambio tra lavoro vivo e lavoro morto. L’originalità di Marx rispetto agli
economisti classici consiste innanzitutto nella definizione del concetto di
forza-lavoro, che permette di svelare il segreto del plusvalore, distinguendo
tra lavoro necessario e pluslavoro.
In che modo le merci vengono commisurate le une alle altre?
Con quale meccanismo si misura che una quantità X di merce A equivale a una
quantità Y di merce B? Marx stabilisce che bisogna cercare la spiegazione del
rapporto XA-YA non nel carattere concreto di A e di B, nella qualità rispettiva
di queste due merci, ma in una relazione quantitativa. A e B possono scambiarsi,
e nella proporzione XA=YB, solo se contengono entrambe una quantità di «qualcosa
di comune», (KARL MARX, Il Capitale, I, 1). Se facciamo astrazione del carattere
concreto, utile, di A e di B, «resta loro solo una qualità, quella di essere
prodotti del lavoro» (ibidem): A e B si scambiano in proporzioni determinate
dalle rispettive quantità di lavoro cristallizzatovi: queste stesse quantità di
lavoro hanno per misura la loro durata temporale. Il tempo di lavoro medio
socialmente necessario al quale l’analisi arriva è un’astrazione: non si può
calcolare ciò che rappresenta un’ora di lavoro medio per una determinata
società. Ma, distinguendo tra lavoro concreto e lavoro astratto, Marx può
comprendere il meccanismo dello scambio e analizzare un tipo di scambio
particolare: il salariato.
«Ciò che vi è di meglio nel mio libro è: l) di aver
dimostrato nel primo capitolo il doppio carattere del lavoro a seconda che esso
si esprima come valore d’uso o come valore di scambio (tutta la comprensione dei
fatti è basata su questa tesi) [...].» (Lettera a Engels, 24 agosto 1867).
L’acquisto e la vendita di ogni merce, compresa la
forza-lavoro, obbediscono a ciò che Marx chiama la legge del valore. Tale legge
si presenta dapprima abbastanza semplicemente: le merci si scambiano al loro
valore determinato dal tempo di lavoro medio necessario alla loro produzione.
Marx afferma nel Libro III del Capitale che «lo scambio di merci ai loro valori
– o approssimativamente ai loro valori – presuppone [...] uno stadio meno
avanzato che non lo scambio ai prezzi di produzione, che necessita di un elevato
livello dello sviluppo capitalistico».
Di fatto, la legge del valore è concepita come la causa e
al contempo la conseguenza di una lunga evoluzione storica complessa e
contraddittoria.
Lo scambio appare nella società primitiva dacché il grado
della produttività del lavoro permette a una comunità di produrre al di là della
soddisfazione dei propri bisogni. La divisione del lavoro appare, così come la
moneta, l’«equivalente generale» di tutte le altre merci: il valore di scambio
sembra così acquistare una certa autonomia, personificata e individualizzata
dall’usuraio e dal mercante, che vivono della circolazione del denaro e, in fin
dei conti, sono mantenuti dal pluslavoro dei lavoratori produttivi. Chi dice
moneta dice prezzo: il prezzo non è che la forma monetaria del valore, ma non
coincide con il valore. Il gioco dell’offerta e della domanda si esercita su tre
piani: vi è la concorrenza l) tra i venditori, 2) tra i compratori, 3) tra i
venditori e i compratori. Il rapporto tra l’offerta e la domanda fa abbassare o
salire il prezzo al di sopra o al di sotto del valore. Ma quel che, per un
periodo dato e nei limiti di queste oscillazioni, determina il valore di una
merce, non è la concorrenza, ma il costo di produzione di quella merce. Il
valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro medio, il suo prezzo dal
rapporto tra l’offerta e la domanda. La legge del valore si presenta allora come
«la legge che, nei limiti delle oscillazioni dei periodi commerciali, mantiene
necessariamente il prezzo di una merce eguale ai suoi costi di produzione» (KARL
MARX, Lavoro salariato e capitale).
Fin qui siamo nel quadro della produzione mercantile
semplice: il capitalismo sviluppa la legge del valore e complica all’estremo il
rapporto prezzo-valore. L’accumulazione primitiva capitalista poggia
essenzialmente su due punti: la trasformazione della forza-lavoro in merce, il
che presuppone che essa compaia libera sul mercato e sia dunque un elemento
distinto dagli altri nel processo lavorativo; e l’accumulazione d’ingenti
capitali disponibili per l’investimento industriale. Le cospicue somme ammassate
nel sistema mercantilista dal XV al XVII secolo furono impiegate a questo scopo.
In un tutt’altro contesto, uno degli obiettivi della liquidazione dei kulak e
dei Nepmen, a partire dal 1928, in Russia, era di permettere allo Stato di
impadronirsi di una grossa quantità di valori per investirli nell’industria. In
entrambi i casi lo sviluppo del capitale commerciale fu la tappa necessaria
prima di un prodigioso balzo industriale. Prodotto esso stesso della crescita
dello scambio, il capitale lo estende su tutto il pianeta e con ciò modifica non
la legge del valore bensì la sua manifestazione: le forme del valore sono
trasformate al fine di meglio conservare e sviluppare fino in fondo il contenuto
della legge. Così la distinzione prezzo-valore esisteva prima che la
forza-lavoro fosse scambiata; ma il capitale industriale prolunga e modifica il
rapporto prezzo-valore. Si sa che il prezzo ruota intorno al valore secondo le
fluttuazioni della domanda e dell’offerta. Ma nella società capitalistica nasce
tutta una dinamica della relazione prezzo-valore.
«Che cosa succede se il prezzo di una merce sale?
I capitali saranno gettati in massa nell’industria che
prospera e questo afflusso di capitali su di un terreno favorevole durerà finché
i guadagni vi ritorneranno normali, o piuttosto fino al momento in cui la
sovrapproduzione farà cadere i prezzi di questi prodotti al di sotto dei costi
di produzione.» (KARL MARX, Lavoro salariato e capitale.)
Marx riprende questo problema in maniera sistematica nel
Libro III del Capitale:
«In seguito alla differente composizione organica
dei capitali investiti nelle diverse branche della produzione, visto dunque che
diversissime quantità di lavoro sono messe in opera da capitali di eguale
grandezza, secondo la differente percentuale che la parte variabile costituisce
in un capitale totale di volume dato, questi capitali si appropriano di
diversissime quantità di pluslavoro donde producono diversissime masse di
plusvalore. Di conseguenza, i tassi di profitto che predominano nelle diverse
branche della produzione rivelano originariamente delle grandi differenze. Sotto
l’effetto della concorrenza, questi diversi tassi di profitto si uguagliano in
un tasso di profitto generale, che è la media di tutti quei diversi tassi di
profitto. Si designa con profitto medio il profitto che, conformemente a questo
tasso di profitto generale, riviene a un capitale di grandezza data, qualunque
sia la sua composizione organica. Si ottiene il prezzo di produzione di una
merce aggiungendo al suo costo la parte del profitto medio annuale sul capitale
investito (e non soltanto consumato) nella sua produzione, parte calcolata
conformemente alle sue condizioni di rotazione».
Questo processo non è altro che la perequazione del tasso
di profitto: lo sviluppo degli scambi produce un prezzo di mercato che oscilla
insieme alle fluttuazioni della concorrenza nei limiti prima descritti. Il
movimento dei prezzi di mercato (o prezzi correnti) appare come una negazione
della legge del valore. Ma la circolazione del capitale, i suoi incessanti
spostamenti in cerca di branche dove i costi di produzione siano i meno elevati
possibile, tendono a uniformare i tassi di profitto. Il capitalismo tende a
realizzare ciò che Marx chiama il «comunismo del capitale» in cui il plusvalore
viene redistribuito. Si crea così un prezzo di produzione, una sorta di media
delle oscillazioni dei prezzi di mercato per ogni merce.
«Il prezzo così livellato, che ripartisce ugualmente il
plusvalore sociale tra le masse di capitali in proporzione alla loro grandezza,
è il prezzo di produzione delle merci, il centro intorno al quale le merci
oscillano.» (KARL MARX, Il Capitale, Libro III).
Proprio negando il prezzo di mercato, il prezzo di
produzione appare come una nuova negazione della legge del valore, poiché il
prezzo delle merci si compone del costo di produzione più il profitto medio.
«Può dunque sembrare che la teoria del valore sia qui
incompatibile con il movimento reale e con i movimenti empirici della
produzione.» (Ibidem).
Marx ci invita a ragionare al livello della società
considerata globalmente e a considerare il processo di produzione capitalista
dal punto di vista della totalità.
«Il capitale investito in alcuni settori della produzione
ha una composizione media, cioè esattamente o approssimativamente la
composizione del capitale sociale medio.
In questi settori, il prezzo di produzione delle merci
coincide esattamente o approssimativamente con il loro valore espresso denaro.»
(Ibidem).
Negli altri settori esso non coincide con il valore: si
produce ciò che Marx chiama un fenomeno di «compensazione»:
«Supporre che le merci di diversi settori della produzione
si vendano al loro valore, significa semplicemente che il loro valore è il punto
centrale intorno al quale gravitano i loro prezzi e si equilibrano i loro alti e
bassi. Dunque bisognerà sempre distinguere, oltre al valore individuale delle
merci particolari prodotte dai diversi produttori, un valore di mercato... Per
alcune di queste merci il valore si troverà al di sotto del valore di mercato
(se la loro produzione esige un tempo di lavoro più corto di quello che esprime
il valore del mercato)- per altre esso eccederà il loro valore» (Ibidem).
L’interesse dell’analisi di Marx risiede nel tentativo di
collegare direttamente il rapporto domanda-offerta alla questione del tempo di
lavoro (come l’ha fatto sopra distinguendo valore e prezzo):
«Perché una merce sia venduta al suo valore mercantile,
cioè proporzionalmente al lavoro socialmente necessario che essa contiene, la
quantità totale del lavoro sociale consacrato alla massa totale di questa specie
di merce deve corrispondere all’ampiezza del bisogno che la società ne prova,
beninteso, del bisogno sociale solvibile. La concorrenza, le fluttuazioni dei
prezzi correnti che corrispondono alle fluttuazioni dell’offerta e della
domanda, tendono costantemente a riportare a quel livello la quantità totale del
lavoro consacrato a ogni categoria di merci» (Ibidem).
Non vi è contraddizione tra il valore da una parte e il
costo di produzione più il profitto medio dall’altra. È il funzionamento stesso
del capitalismo, attraverso la trasformazione del plusvalore in profitto, a
distinguere la frazione del valore di una merce che rappresenta il costo di
produzione da quella che rappresenta il profitto medio: il profitto medio, anche
se appare come «esterno» (Marx), è nondimeno il prodotto dell’investimento della
totalità del capitale impegnato dalla società.
«Certamente, se si prende in considerazione il capitale
sociale totale, il valore delle merci che esso ha prodotto (o, in termini di
moneta, il loro prezzo) è uguale al valore del capitale costante, più il valore
del capitale variabile, più il plusvalore.» (Ibidem)
«È chiaro che il profitto medio non può essere diverso
dalla massa totale dei plusvalori ripartiti sulle masse del capitale, alla quota
della loro grandezza, nei diversi settori della produzione.» (Ibidem)
Negando doppiamente la legge del valore con il prezzo di
mercato e con il prezzo di produzione, il capitalismo non fa che rafforzarla ed
estenderla. Il valore acquista ora una forma «modificata», ma la trasformazione
dei valori in prezzi di produzione e la creazione del valore mercantile distinto
dal valore individuale realizzano la legge generalizzandola:
«Le merci – considerate in blocco e su scala sociale – sono
vendute al loro valore» (ibidem).
Marx riassume così il meccanismo della manifestazione della
legge attraverso la sua doppia negazione:
«La concorrenza riesce a stabilire, prima in un settore
determinato, un valore mercantile e un prezzo correnti uniformi a partire dai
differenti valori individuali delle merci. Ma soltanto la concorrenza dei
capitali nei diversi settori genera il prezzo di produzione e questo livella il
profitto tra quei settori. Questo processo richiede uno sviluppo, del modo
capitalistico di produzione superiore a quello dello stadio inferiore. [...]
Esiste sempre una compensazione: per troppo plusvalore in tale merce vi è troppo
poco plusvalore in talaltra merce, cosicché gli scarti tra i valori e i prezzi
di produzione si compensano reciprocamente. Nel sistema capitalistico di
produzione, la legge generale si impone come tendenza dominante solo in maniera
approssimativa e complessa, come un termine medio e inverificabile tra eterne
fluttuazioni» (ibidem).
L’importanza di tutti questi sviluppi risiede
nell’evidenziazione del ciclo storico dello scambio che continua sotto il
capitalismo. Il «marxismo» volgarizzato ha fatto della legge del valore un
semplice meccanismo regolatore, rigettando ciò in cui risiedeva l’interesse del
lavoro di Marx: la ricerca di una dinamica del capitalismo. Uno degli elementi
di tale dinamica è, per il movimento stesso della legge del valore, il tempo di
lavoro:
«Io dimostro che proprio perché il valore della merce è
determinato dal tempo di lavoro, il prezzo medio delle merci non può mai essere
uguale al suo valore» (KARL MARX, Teorie sul plusvalore).
Il tempo di lavoro medio determina infatti tutta
l’organizzazione sociale della produzione e della distribuzione. Regola le
proporzioni in cui le forze produttive sono assegnate a tale o a talaltro posto.
La legge del valore «si afferma fissando le necessarie proporzioni di lavoro
sociale non nel senso generale che si applica a ogni società, ma soltanto nel
senso richiesto dalla società capitalistica; detto diversamente, essa stabilisce
una ripartizione proporzionale dell’insieme del lavoro sociale in funzione dei
bisogni specifici della produzione capitalista» (Paul Mattick, «ISEA», n. 59). È
tra l’altro per questa ragione che i capitali non andranno a investirsi in una
fabbrica in India, anche se la produzione di questa fabbrica è necessaria alla
sopravvivenza della popolazione: il capitale si dirige sempre là dove si
moltiplica più velocemente. La regolazione mediante il tempo di lavoro medio
impone di sviluppare una determinata produzione solo laddove il tempo di lavoro
necessario per ottenerla è maggiormente vicino al tempo di lavoro medio.
«In un regime sociale dove l’interdipendenza del lavoro
sociale esiste sotto la forma dello scambio privato dei prodotti individuali del
lavoro, la forma sotto la quale si manifesta la ripartizione proporzionale del
lavoro è precisamente il valore di scambio di questi prodotti.» (KARL MARX,
Lettera a Kugelmann, 11 luglio 1868)
Tale è la razionalità del capitale: il valore di scambio
attraverso il tempo di lavoro medio. L’interesse dell’analisi di Marx consiste
nella dimostrazione che questo stesso movimento produce l’irrazionalità del
sistema capitalistico. Qui consideriamo solo uno degli aspetti di questa
contraddizione, a partire dalle indicazioni di Marx circa la definizione del
tempo di lavoro.
5. LA CONTRADDIZIONE DEL TEMPO DI LAVORO
Abbiamo ricordato il ruolo – centrale – del pluslavoro
nell’analisi della produzione del plusvalore. Marx insiste sull’origine, sulla
funzione storica e sul limite storico del pluslavoro:
«Il grado di produttività già raggiunto ci indica se una
parte del tempo di produzione basta alla produzione immediata e se una parte in
continuo aumento può essere impiegata a creare dei mezzi di produzione. Questo
suppone che la società sia in condizione di aspettare e che possa prelevare,
tanto sul consumo immediato, quanto sulla produzione che le è consacrata, una
crescente parte della ricchezza già creata per impiegarla in un lavoro che non è
immediatamente produttivo (in seno al processo materiale di produzione).
Tutto questo esige dunque che si sia già raggiunto un certo
livello di produttività e un eccedente relativo, e si può dire più esattamente,
che questo livello si misura direttamente dal grado in cui il capitale
circolante si trasforma in capitale fisso» (KARL MARX, Grundrisse).
Così il salariato permette di sviluppare le forze
produttive a un livello fino ad allora inimmaginabile:
«La vera economia (risparmio) verte sul tempo di lavoro
(minimo e riduzione a un minimo dei costi di produzione)- ma, capita che questa
economia corrisponde allo sviluppo della forza produttiva» (ibidem).
Il salariato permette la produzione di plusvalore mediante
l’appropriazione del pluslavoro da parte del capitale. In questo senso, la
miseria alla quale esso condanna l’operaio è una necessità storica. Bisogna
costringere il lavoratore a fornire del pluslavoro. Ma così le forze produttive
si sviluppano e aumentano la parte relativa del pluslavoro nella giornata
lavorativa dell’operaio: «Il capitale crea una grande quantità di tempo
disponibile [...], detto diversamente, un margine di spazio per lo sviluppo di
tutte le forze produttive di ogni individuo e dunque anche della società. [...]
Esso stesso tende sempre a creare del tempo di lavoro disponibile da un lato,
per trasformarlo in plusvalore dall’altro» (ibidem).
L’«esistenza contraddittoria» del pluslavoro appare dunque
nettamente:
– crea la ricchezza sociale,
– apporta la miseria al lavoratore che lo fornisce.
Questa contraddizione ha una base oggettiva: la necessità
del progresso delle forze produttive. Ma, a partire dal momento in cui tale
crescita raggiunge un grado fantastico, il pluslavoro diventa talmente
importante, rispetto al lavoro necessario, che è possibile trasformare il
rapporto lavoro necessario/pluslavoro e distruggere la «base contraddittoria del
pluslavoro». Il capitale «è così, suo malgrado, lo strumento che crea i mezzi
del tempo sociale disponibile, che senza posa riduce a un minimo il tempo di
lavoro per tutta la società e libera dunque il tempo di tutti in vista dello
sviluppo proprio a ciascuno» (KARL MARX, Grundrisse).
Nel socialismo, il lavoro eccedente rispetto a quello
necessario perderà il carattere di pluslavoro impostogli dai limiti storici
delle forze produttive sotto il capitalismo: il tempo disponibile non sarà più
fondato sulla povertà del lavoro. Non si avrà più bisogno della miseria per
creare la ricchezza. Quando il rapporto tra il lavoro necessario e il pluslavoro
sarà sconvolto dallo sviluppo delle forze produttive, l’eccedenza di tempo al di
là del lavoro necessario all’esistenza materiale perderà la sua forma
transitoria di pluslavoro.
«Il tempo libero – per il piacere e per le attività
superiori – trasformerà, nel più naturale dei modi, colui che ne gode in un
risultato diverso ed è quest’uomo trasformato che poi si presenterà al processo
immediato di produzione.» (Ibidem).
L’economia di tempo di lavoro è una necessità assoluta per
lo sviluppo dell’umanità: fonda la possibilità del capitalismo e, a uno stadio
più sviluppato, quella del comunismo. È lo stesso movimento che sviluppa il
capitalismo e renderà il comunismo al contempo possibile e necessario.
Contemporaneamente, la legge del valore e la misura
mediante il tempo di lavoro medio si trovano impegnate nello stesso processo. La
legge del valore esprime il limite del capitalismo e svolge un ruolo necessario.
Fintanto che le forze produttive sono ancora poco sviluppate e che il lavoro
immediato costituisce il fattore essenziale della produzione, la misura
attraverso il tempo di lavoro si impone come una necessità assoluta. Ma con lo
sviluppo del capitale, in particolare del capitale fisso, «la creazione di
ricchezza dipende sempre meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro
utilizzato e sempre di più dalla potenza degli agenti meccanici che sono messi
in movimento nel corso della durata del lavoro» (ibidem).
La miseria del proletariato ha permesso così di sviluppare
in modo prodigioso il capitale fisso, in cui per l’appunto si trovano fissate
tutte le conoscenze scientifiche e tecniche dell’umanità: l’automazione, di cui
oggi cominciamo a vedere le prime applicazioni, è solo una delle tappe di questo
sviluppo. Il capitale continua a regolare la produzione attraverso
l’intermediario della misura mediante il tempo di lavoro medio:
«Il capitale è una contraddizione in processo, da una parte
esso spinge alla riduzione del tempo di lavoro a un minimo e, d’altra parte,
esso pone il tempo di lavoro come la sola fonte e la sola misura della
ricchezza. Esso diminuisce dunque il tempo di lavoro sotto la sua forma
necessaria per accrescerla sotto a sua forma di pluslavoro» (ibidem).
Quanto abbiamo scritto circa l’«esistenza contraddittoria»
del pluslavoro dev’essere collegato alla questione del tempo di lavoro. La
famosa contraddizione forze produttive/rapporti di produzione può essere
compresa solo se si vedono bene le seguenti opposizioni e gli stretti legami che
le uniscono:
– contraddizione tra il ruolo del tempo di lavoro medio
come regolatore delle forze produttive «in via di sviluppo» e la loro crescita
che tende a distruggere la ragione d’essere di questa funzione;
– contraddizione tra la necessità di sviluppare al massimo
il pluslavoro dell’operaio al fine di produrre il più possibile e la crescita
stessa del pluslavoro che rende possibile la sua soppressione.
La relazione contraddittoria tra i rapporti di produzione e
le forze produttive può essere compresa solo come un concetto da costruire, come
sintesi di numerose questioni a vari livelli (problemi del credito, della
rendita ecc., cfr. Il Capitale, Libro III): la contraddizione del tempo di
lavoro e la dinamica di queste contraddizioni sono una delle manifestazioni
dell’opposizione tra la crescita delle capacità produttive e i rapporti sociali
nella società capitalistica.
Marx ha tentato di sintetizzare queste due questioni:
«Da quando il lavoro, sotto la sua forma immediata, ha
cessato di essere la fonte principale della ricchezza, il tempo di lavoro cessa
e deve cessare di essere la sua misura e il valore di scambio anche cessa di
essere la misura del valore di uso. Il pluslavoro delle grandi masse ha cessato
di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, proprio come i
non-lavoro di alcuni ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle
forze generali del cervello umano» (ibidem).
La «liberazione dell’uomo» tanto annunciata da tutti gli
utopisti (antichi e moderni) è da quel momento possibile:
«La produzione basata sul valore di scambio crolla con
questo fatto. [...] Allora vi è il libero sviluppo delle individualità. Da quel
momento in poi non si tratta più di ridurre il tempo di lavoro necessario in
vista di sviluppare il pluslavoro, ma in generale di ridurre il lavoro
necessario della società al minimo. Ora questa riduzione suppone che gli
individui ricevano una formazione artistica, scientifica, ecc., grazie al tempo
libero e ai mezzi creati a beneficio di tutti» (ibidem).
Quella che si potrebbe chiamare la dialettica del tempo di
lavoro riguarda pure la società comunista e la necessaria transizione che vi
conduce. Ponendo il problema del tempo di lavoro e della misura, come abbiamo
tentato di fare, è possibile comprendere le affermazioni di Marx che, a prima
vista, potrebbero sembrare paradossali e persino contraddittorie.
«Ogni bambino sa che ogni nazione perirebbe se
interrompesse il lavoro, anche solo per una settimana9 bis. Ugualmente egli sa
che la creazione di prodotti corrispondenti a bisogni diversi richiede diverse
quantità determinate di lavoro sociale collettivo... Ora è molto evidente che
una forma data di produzione sociale non può assolutamente eliminare questa
necessità di una ripartizione, nelle proporzioni definite, del lavoro sociale;
si possono solo trasformare le sue manifestazioni. Non si possono eliminare le
leggi della natura. In condizioni storiche diverse si può solo trasformare la
forma sotto la quale queste leggi si manifestano.» (KARL MARX, Lettera a
Kugelmann, 11 luglio 1868)
Abbiamo visto che, sotto il capitalismo, la legge del
valore organizza ciò che Bucharin chiama «le proporzioni socialmente
indispensabili tra le diverse branche della produzione», creando così ciò che
egli definisce «lo stato d’equilibrio» della società: il regolatore fondamentale
essendo il tempo di lavoro medio
È anche curioso leggere dalla penna di Marx che «in realtà
nessun tipo di società può impedire che la produzione sia regolata, d’una
maniera o d’un’altra, dal tempo di lavoro disponibile di una società. Ma,
fintanto che questa fissazione della durata del lavoro non si effettua sotto il
controllo cosciente della società, il che può essere fatto soltanto sotto il
regime della proprietà comune, ma con il movimento dei prezzi delle merci, la
tua tesi esposta con tanta precisione negli Annali Francotedeschi resta
interamente valida». (Lettera a Engels, 8 gennaio 1868)
.
In realtà non vi è incoerenza nel pensiero di Marx a questo
livello. Questa lettera in particolare fu interpretata in tutti i modi possibili
nel dibattito che oppose fondamentalmente Bucharin a Preobrazeÿnskij, senza che
mai, a nostra conoscenza, l’autentica analisi di Marx fosse messa in luce. Marx
opponeva la regolazione mediante il tempo socialmente necessario alla
regolazione mediante il tempo disponibile. Evidentemente non si tratta di due
metodi da applicare, ma di due processi storici oggettivi che mettono in gioco
l’insieme dei rapporti sociali. Si conoscono le pagine della Critica al progetto
di programma di Gotha in cui Marx spiega che «nella società cooperatrice,
fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non
scambiano i loro prodotti; egualmente il lavoro impiegato nei prodotti appare
ancor meno come valore di quei prodotti, come una loro qualità reale, perché
ormai, al contrario di quanto succede nella società capitalista, i lavori
dell’individuo diventano parte integrante del lavoro della comunità direttamente
e non più attraverso un lungo giro».
Questo passaggio del Libro II del Capitale viene citato
meno:
«In luogo di una società capitalistica supponiamo una
società comunista. Innanzi tutto il capitale-denaro disparirebbe completamente e
con lui tutte le transazioni travestite che implica. La questione si riduce
semplicemente al fatto che la società è obbligata a calcolare in anticipo la
quantità di lavoro, di mezzi di produzione e di sussistenza che, senza il minimo
inconveniente, essa può impiegare a delle imprese che, come per esempio la
costruzione di ferrovie, durante un periodo abbastanza lungo, un anno o anche di
più, non forniscono né mezzi di produzione, né alcun prodotto di utilità
immediata, ma, al contrario, sottraggono dei mezzi di produzione e di
sussistenza alla produzione annuale totale del lavoro. Mentre nella società
capitalistica, dove l’intelligenza sociale si manifesta solo a cose fatte, è
inevitabile che, senza posa, si producano delle grandi perturbazioni.»
Marx pone dunque un fatto: nella società comunista esisterà
un altissimo livello di sviluppo delle forze produttive. Questo livello
permetterà di non misurare più in termini di tempo di lavoro medio. Ma bisognerà
valutare bene l’importanza relativa che verrà data a questa o a quell’altra
branca e dunque scegliere e calcolare. Soltanto che la «misura» non si farà più
in funzione del costo sociale del prodotto, ma relativamente alla comparazione
tra i diversi bisogni. «A ciascuno secondo i suoi bisogni», nell’ottica di Marx,
non significa che «tutto» esisterà «in abbondanza», la nozione di «abbondanza»
assoluta è essa stessa una nozione ideologica e non un concetto scientifico. La
formula «A ciascuno secondo i suoi bisogni» implica effettivamente un calcolo e
una scelta, non più sulla base del valore di scambio ma in funzione del valore
d’uso, dell’utilità sociale del prodotto considerato
.
D’altronde Marx espone questo punto nella Miseria della filosofia:
«In una società futura, in cui l’antagonismo delle classi
fosse cessato, l’uso non sarebbe più determinato dal minimo del tempo di
produzione; ma il tempo di produzione che si consacrerebbe a un oggetto sarebbe
determinato dal suo grado di utilità.»
Così, si chiarisce la nota frase sul passaggio dal regno
della «necessità» al regno della «libertà»: quest’ultima è concepita come un
rapporto in cui gli uomini, padroneggiando il processo di produzione della vita
materiale, possono infine adattare le loro aspirazioni al livello raggiunto
dallo sviluppo delle forze produttive
. La crescita della ricchezza
sociale e il fiorire dell’individualità coincidono.
«La vera ricchezza significa, in effetti, lo sviluppo della
forza produttiva di tutti gli individui. Da allora in poi non sarà più il tempo
di lavoro, ma il tempo disponibile a misurare la ricchezza.» (Marx, Grundrisse)
In questo senso, Maximilien Rubel ha ragione a parlare del
«tempo, terreno della liberazione umana»
.
È chiaro che la dinamica analizzata da Marx esclude ogni
ipotesi d’un passaggio graduale al comunismo attraverso la scomparsa progressiva
della legge del valore. Al contrario, la legge del valore non cessa di
manifestarsi con forza fino alla distruzione del capitalismo: la legge del
valore non cessa mai di autodistruggersi... ma per ricomparire sempre a un
livello superiore. Abbiamo mostrato come il movimento che ha dato origine alla
legge del valore tenda a distruggerne la ragion d’essere, ma ciò nonostante essa
continua a esistere e a regolare il funzionamento del sistema. Perciò la
rivoluzione è necessaria, ma nello stesso tempo si comprende come sia possibile.
Il motore della lotta rivoluzionaria non è né la «coscienza» né la «spontaneità»
pura degli operai, bensì la crescita delle forze produttive, di cui il
proletariato stesso è, secondo Marx, una delle componenti essenziali.
In definitiva, la natura contraddittoria del tempo di
lavoro pone il problema del duplice carattere del lavoro stesso, fonte della
dialettica valore d’uso-valore di scambio. L’analisi marxiana, in tutti i
manoscritti, tenta di dare una definizione del capitale e del ruolo che esso
svolge nella storia dello scambio. In queste pagine, non abbiamo fatto altro che
presentare un aspetto del lavoro di Marx. D’altronde la sua analisi, per quanto
completa, non potrebbe bastarci: in ogni caso bisogna prima conoscerla bene. È
per questa ragione che ci concentriamo su Marx. Qui abbiamo solo posto una
questione, ora dobbiamo stare attenti a non imitare quel pensatore di cui Marx
diceva che riusciva a risolvere i problemi solo semplificandoli.
6. LA GESTIONE OPERAIA
La teoria della gestione operaia della società mediante i
Consigli operai ignora completamente il movimento del capitalismo; ne conserva
tutte le categorie e le caratteristiche: salario, scambio, legge del valore,
limitazione aziendale ecc. Il socialismo da essa propostoci è solo un
capitalismo... gestito democraticamente dagli operai. Delle due l’una:
– o i Consigli operai vorranno funzionare diversamente
dalle imprese capitaliste, cosa impossibile stante il permanere dei rapporti di
produzione capitalisti, e saranno perciò spazzati via dalla reazione (che avrà
la sua fonte principale nella sopravvivenza di tali rapporti). Giacché i
rapporti di produzione non sono rapporti interumani – vedi la definizione di «Socialisme
ou Barbarie»
: i rapporti di produzione
capitalisti esistono laddove vi sono dirigenti ed esecutori –, ma il modo in cui
si rapportano tra loro i diversi fattori del processo lavorativo: il fattore
soggettivo (la forza-lavoro umana) e il fattore oggettivo (i mezzi di
produzione, le materie prime ecc.). Ciò che costituisce l’essenza dei rapporti
capitalisti è l’ergersi dei fattori oggettivi come potenza estranea rispetto al
lavoratore, potenza che lo domina in quanto capitale. Il rapporto «umano»
dirigente-esecutore è solo una manifestazione del rapporto fondamentale
capitale-salariato;
– oppure i Consigli operai accetteranno di funzionare come
delle imprese capitaliste. Ma allora il sistema dei Consigli sopravviverà solo
come un’illusione destinata a mascherare lo sfruttamento, e i dirigenti «eletti»
non tarderanno a diventare in tutto identici ai capitalisti tradizionali: la
funzione del capitalista, secondo Marx, tende irresistibilmente a separarsi da
quella dell’operaio: «Del resto la legge vuole che lo sviluppo economico
attribuisca queste funzioni a persone diverse; [...] tal è la tendenza della
società ove domina il modo di produzione capitalista». La gestione operaia
sboccherà nel capitalismo, o piuttosto il capitalismo non avrà mai cessato di
esistere, con tutti i suoi corollari: concorrenza, salariato...
La burocrazia sovietica aveva preso il controllo
dell’economia: gli ultrasinistri vogliono che siano le masse a farlo. Ancora una
volta l’ultrasinistra rimane sul terreno del leninismo, accontentandosi di dare
una risposta diversa alla stessa questione. Nondimeno, così facendo, avanza un
principio giusto (al contrario di Lenin): l’impossessamento dell’economia da
parte degli operai è necessario. Ma non è un fine in sé: è una condizione
necessaria, ma non sufficiente, della distruzione del capitalismo. Il socialismo
non è la gestione, seppure «democratica» e «operaia», del capitale, ma la sua
distruzione.
7. IL LIMITE STORICO DELL’ULTRASINISTRA
Esaminando questi due punti, non abbiamo fatto altro che
ricordare la tesi fondamentale di Marx, secondo cui nella società dominata dal
capitalismo esiste un movimento verso la rivoluzione. Il nostro compito è
innanzitutto l’affermazione di questo movimento. I problemi di «organizzazione»
e di contenuto del socialismo si chiariscono. Prodotto dalla società
capitalistica, il movimento rivoluzionario ne porta il marchio: la divisione
manuale/intellettuale. Ma non bisogna teorizzare questo aspetto né nel senso di
Lenin né in quello d’ICO, bisogna invece riconoscerlo come una fase inevitabile
che scomparirà solo con il pieno successo della rivoluzione. Non esiste dunque,
contrariamente a quanto affermato da Lenin, un «problema dell’organizzazione».
Vi sono solo delle forme rivestite dal movimento spontaneo verso il comunismo
prodotto dalla società. L’apporto teorico di Marx è proprio l’evidenziazione
della dinamica interna che conduce dal capitalismo al comunismo. Con ciò il
socialismo non appare più come la semplice gestione della società da parte del
proletariato, ma come il compimento del ciclo storico del capitale ad opera del
proletariato. Il proletariato non può accontentarsi d’impadronirsi del mondo,
conduce a termine il movimento del capitalismo. Questo è quanto separa Marx da
tutti i pensatori utopisti e riformisti: il socialismo è il prodotto di una
dinamica oggettiva, della stessa dinamica che generò il capitalismo e lo propagò
su tutta la terra. Marx insiste innanzitutto sul contenuto di questo movimento.
Lenin e la corrente ultrasinistra hanno insistito innanzitutto sulla sua forma:
forma organizzativa, forma di gestione della società socialista, dimenticando il
contenuto del movimento rivoluzionario. Questa «dimenticanza» era essa stessa un
prodotto storico. La situazione della loro epoca, e in primis lo sviluppo
limitato delle forze produttive, non permetteva alle lotte rivoluzionarie di
avere un contenuto comunista (nel senso che abbiamo definito). Essa impose ai
rivoluzionari delle forme che non potevano essere radicali e comuniste. Queste,
a loro volta, segnarono e accrebbero i limiti dell’epoca
.
Le idee ultrasinistre si sono formate e sviluppate in
un’epoca in cui le condizioni di maturazione della rivoluzione non erano ancora
compiute. Il capitalismo non era ancora abbastanza sviluppato e il proletariato
non abbastanza forte perché la rivoluzione comunista fosse possibile. Il
leninismo non faceva altro che esprimere l’impossibilità della rivoluzione in
quell’epoca. Le idee di Marx sul partito erano state accantonate da parte da
lungo tempo, lo stesso Engels le aveva abbandonate sul finire della sua vita. È
l’epoca delle grandi organizzazioni riformiste, poi dei partiti di stile
bolscevico (che di fatto ricadono velocemente nel riformismo). Il movimento
rivoluzionario non si era ancora affermato a sufficienza, stretto tra la
socialdemocrazia e il leninismo, non arrivava a manifestarsi come tale. Ovunque,
in Germania, in Italia, in Gran Bretagna, l’inizio degli anni Venti è
contrassegnato dall’inquadramento e dall’irregimentazione della classe operaia.
Per reazione a questa situazione, gli ultrasinistri arrivarono a temere di
coartare i lavoratori. Invece di comprendere i partiti leninisti come prodotto
della sconfitta operaia, rifiutavano qualunque partito e lasciavano, al pari di
Lenin, la concezione marxista del partito nei ripostigli della storia. Quanto al
contenuto del socialismo, basta vedere che, dal 1917 al 1936, dalla rivoluzione
russa alla rivoluzione spagnola, passando per le insurrezioni in Germania, in
Cina e altrove, nessun movimento sociale significativo mette in discussione il
fondamento del capitalismo. Allorché un movimento rivoluzionario trionfa, può
solo tentare di gestire il capitalismo ma non di rovesciarlo. In queste
condizioni gli ultrasinistri non potevano fare una reale critica del leninismo,
potevano solo contraddirlo sistematicamente, senza andare al fondo delle cose,
senza cogliere il contenuto del movimento rivoluzionario, semplicemente perché
tale movimento non appariva chiaramente. È per questo che, nel mentre
affermavano posizioni giustissime su certi punti (critica dei sindacati e dei
partiti «operai» soprattutto), alle forme preconizzate dal leninismo potevano
opporre solo altre forme, senza mai enucleare il contenuto del movimento
rivoluzionario. Sostituirono così il feticismo leninista del partito con quello
dei Consigli operai. Si può dunque dire che la corrente ultrasinistra non ha
veramente superato il leninismo. Le sue concezioni erano necessarie a quel tempo
ed ebbero un ruolo estremamente positivo: si trattava di una tappa necessaria,
inevitabile. Ma oggi, allorché il leninismo comincia ad aver fatto il suo tempo,
perché la controrivoluzione di cui era il prodotto sta per finire, le idee
ultrasinistre, che sono solo il pendant del leninismo, devono e possono essere
superate. Questa critica è possibile solo perché lo sviluppo del capitalismo su
scala planetaria permette d’intravvedere il contenuto reale del movimento
rivoluzionario ch’esso sviluppa. Arroccandoci, costi quel che costi. sulle idee
ultrasinistre qui esposte (timore del partito e gestione operaia), le
trasformeremmo in pura ideologia, nel senso in cui Marx parla d’«ideologia
tedesca». Viviamo di un’eredità importante, prodotto di una fase della storia
del movimento rivoluzionario che è alle nostre spalle: se non riusciremo a
superare il nostro passato – il che non implica assolutamente un rigetto brutale
ma, al contrario, un’assimilazione profonda –, finiremo col recitare Pannekoek
come altri recitano I princìpi del leninismo, incapaci di svolgere un ruolo
quando il contenuto della rivoluzione sarà portato avanti da quel «partito
proletario» che non avremo saputo riconoscere.
La Sinistra italiana (il «bordighismo») offre un altro
esempio di corrente interessante prodotta dallo stesso periodo e che non è
riuscita a comprendere e a superare le sue origini
.
Accetta le idee di Lenin fino al fronte unito: verità fino al 1921, errore dopo.
Si è poi sviluppata mantenendo l’idea di un programma rivoluzionario che
attacchi i fondamenti stessi del capitalismo. Rifiutando la teoria della
gestione operaia, la Sinistra italiana ha compiuto una delle analisi più
profonde dell’economia russa, mettendo in primo piano non la burocrazia, come i
trockisti e «Socialisme ou Barbarie», ma i rapporti di produzione in quanto
tali. La rivoluzione non può essere altro che la distruzione dello scambio e
della legge del valore. In compenso, la Sinistra italiana, nonostante concepisca
il partito come prodotto della società, resta attaccata alle tesi del Che fare?,
donde una grande confusione teorica, benché i testi bordighisti siano spesso
interessanti. Anche la Sinistra italiana è rimasta prigioniera dell’epoca che
l’ha generata. Al riguardo, si veda la rivista «Invariance», in particolare, i
nn. 1 (sul partito), 2 (sul valore), 3 (critica dell’autogestione), 4 (sul
Maggio ’68, p. 66), 5 (Perspectives), 7 (La révolution communiste.
Thèses de travail) della I serie, e il n. 1 (Le KAPD et le
mouvement prolétarien) della II serie
.
Il nostro testo mira a un solo scopo: riconoscere la nostra
ideologia per superarla. Potremo così intraprendere il lavoro teorico
necessario: studio del programma rivoluzionario, della questione del valore in
Marx e in altri teorici, dell’analisi del capitalismo (il problema
dell’imperialismo, per esempio), così come lavori storici per meglio assimilare
il nostro passato (il leninismo, la Terza Internazionale ecc.). Nello stesso
tempo possiamo e dobbiamo far conoscere i vecchi testi ultrasinistri per meglio
evidenziare sia il loro ruolo sia il loro limite
.
Quando il proletariato si costituisce in classe, il
rivoluzionario lo raggiunge, senza che alcuna barriera teorica o sociologica
impedisca al movimento rivoluzionario di unificarsi. La coerenza teorica, come
dicono i situazionisti nell’estratto del n. 11 dell’«Internationale
Situationniste» sopraccitato, è un obiettivo permanente dei rivoluzionari, nella
misura in cui facilita sempre il coordinamento pratico delle energie
rivoluzionarie. I rivoluzionari non esitano mai a intervenire in modo
organizzato per far conoscere la loro critica della società.
Non si tratta per loro di dettare la «giusta linea» agli
operai rivoluzionari; ma non si tratta nemmeno di astenersi da ogni intervento
rivoluzionario coerente con il pretesto che «gli operai devono decidere da
soli»; poiché da una parte gli operai prendono solo le decisioni imposte loro
dalla situazione generale della società; dall’altra il movimento rivoluzionario
è una totalità organica di cui la teoria è un elemento inseparabile. I comunisti
rappresentano e difendono sempre gli interessi generali del movimento. In ogni
situazione in cui si trovano, non rinunciano a esprimere tutto il senso di
quanto accade e a fare delle proposte di azione conseguenti; se la situazione è
rivoluzionaria, se l’espressione del movimento e le proposte di azione sono
giuste, s’integrano necessariamente nella lotta del proletariato e
contribuiscono alla formazione del partito della rivoluzione comunista.
Questo testo non è da prendere o da lasciare. Non è una
piattaforma ma solo un contributo a un lavoro teorico. Benché le sue ipotesi
fondamentali siano il prodotto di una riflessione abbastanza lunga, il testo
nella sua esposizione può apparire rapido e poco elaborato. Ciò significa che
intendiamo proseguire il lavoro.
J.Barrot Luglio 1969 –
rivisto nell’aprile 1970.
Cfr. l’opera in via di
pubblicazione di Denis Authier sul movimento comunista in Germania dal 1914
al 1921.
Vedi Il
movimento dei consigli in Germania pubblicato da ICO e i documenti contenuti
nel n. 7 di «Invariance» [soprattutto il KAPD al terzo congresso mondiale
(1921), pp. 81-94, e sul KAI, pp. 94-102]. Il KAPD – Partito Comunista
Operaio Tedesco – fu il risultato dell’esclusione di 60.000 «sinistri» dal
Partito Comunista Tedesco (KPD) (100.000 membri in tutto). Si opponeva
risolutamente alla direzione leninista-luxemburghista del KPD propugnando 1)
il sistematico astensionismo elettorale nella nuova fase del capitalismo in
cui il parlamentarismo non ha più un ruolo e deperisce più o meno
velocemente; 2) la distruzione dei sindacati, organi del «parlamentarismo
economico». Tuttavia essi erano favorevoli alla creazione della Terza
Internazionale, mentre la destra del KPD la giudicava prematura.
L’evoluzione dell’URSS li condusse fin dal 1921 a fare la critica della
società e dello Stato russi (capitalismo gestito da una burocrazia) e dunque
la critica della Terza Internazionale divenuta uno degli strumenti della
politica estera della Russia. Insieme a gruppi di altri Paesi il KAPD
costituì un’effimera Internazionale Comunista Operaia (KAI). Cfr. al
riguardo la dichiarazione di Trockij contro questa Quarta Internazionale nel
n. 11 dell’«Internationale Situationniste».
Rieditato in
francese nel 1969, in vendita alla Librairie La Vieille Taupe, 1, rue
Fossés-Saint-Jacques, Paris 5e, pubblicato in italiano da Samonà & Savelli,
Roma, 1972.
L’AAUD –
Unione Generale Operaia di Germania – riuniva gli operai rivoluzionari delle
organizzazioni di fabbrica. L’AAUD-E – Unione Operaia Generale di
Germania-Organizzazione Unitaria – era frutto di una scissione dell’AAUD.
L’aggettivo Unitaria esprimeva il rigetto della distinzione tra
organizzazione politica (partito) e organizzazione economica (sindacati,
Consigli) del proletariato.
Compagno di
Hermann Gorter, Anton Pannekoek ha scritto Worker’s Councils che in qualche
modo sintetizza le idee «consiliari»; importanti estratti ne sono stati
pubblicati nei «Cahiers du socialisme des conseils». Pannekoek ha anche
scritto Lenin filosofo (in francese nei «Cahiers de Spartacus») dove mostra
che il materialismo di Lenin si colloca sul terreno del materialismo
borghese. Un’antologia dei testi di Pannekoek, è in corso di pubblicazione
presso le ed. EDI, Paris, a cura di Serge Bricianer (pubblicata poi in
italiano da Musolini, Torino, 1974).
Vedi la sua
prefazione alla Guerra dei contadini in Germania, scritta nel 1874. Lenin la
cita lungamente nel Che fare?.
Vedi KARL KAUTSKY Les trois sources du Marxisme, Spartacus, Paris, 1974, e i
commentari di Pierre Guillaume e di Jean Barrot. Sulle origini del
movimento operaio russo e la nascita del leninismo, vedi la prefazione di
Denis Authier a LÉON TROTSKY, Rapport de la délégation sibérienne, Spartacus,
1970 (trad. it. La Vecchia Talpa, Napoli, 1974).
Cfr. KARL MARX, Révélations sur le procès des communistes, in Maximilien
Rubel Pages choisies pour une éthique socialiste, Rivière, Paris, p. 205.
Marx
distingue il capitale variabile, investito in salari, dal capitale costante,
investito in mezzi di produzione.
Marx fa qui
allusione all’articolo di Engels, Abbozzo di una critica dell’economia
politica. Successivamente lo stesso Engels commentò il proprio lavoro nel
suo Antidühring (3a parte): «Sin dal 1844 io dissi [...] che questa
valutazione dell’effetto utile e del consumo del lavoro è tutto ciò che in
una società comunista potrebbe rimanere del concetto di valore dell’economia
politica. Ma stabilire scientificamente questa tesi, come si vede, è
divenuto possibile solo grazie al Capitale di Marx».
11 Proprio
con questo, il problema dei Paesi arretrati e del loro sviluppo a tutti i
livelli si pone sotto una nuova luce (cfr. l’India).
«Il
busillis della società borghese è precisamente di non permettere a priori
un’organizzazione sociale della produzione che sia cosciente: il razionale e
il necessario non si affermano che in quanto media e la loro azione è
cieca.» (Marx, Lettera a Kugelmann, 11 luglio 1868).
MAXIMILIEN RUBEL, Pages choisies de Karl Marx, cit., p. 307.
Cfr. la nostra "Présentation" a "Notes pour une analyse de
la révolution russe": «[...] Senza trattare qui l’insieme
dell’evoluzione di questa rivista né il suo posto nel movimento
rivoluzionario, è necessario tornare sull’articolo Les rapports de
production en Russie, che servì da riferimento a tutta una corrente di cui è
importante fare il bilancio.
Les rapports de production en Russie fu dapprima
pubblicato sul n. 2 della rivista (maggio-giugno 1949). La dimostrazione del
carattere capitalista della società russa, effettuata mediante una critica
del trockijsmo («Socialisme ou Barbarie» proveniva da una scissione della
sezione francese della Quarta Internazionale), fu allora un importante
contributo teorico, uno strumento di chiarificazione utilissimo. Ma non
basta più sapere che l’URSS è capitalista, bisogna sapere perché. La
questione si è dislocata: non è più tanto la natura sociale della Russia che
importa, ma quella del capitale.
L’autore dell’articolo, Pierre Chaulieu, si basa
dapprima sull’analisi di Marx: "se la produzione, nel senso stretto della
parola, è il centro del processo economico, non bisogna dimenticare che,
nella produzione capitalista, la scambio è parte integrante del processo
produttivo, da una parte perché tale rapporto è innanzitutto acquisto e
vendita della forza-lavoro, e implica l’acquisto da parte del capitalista
dei mezzi di produzione necessari, dall’altra perché le leggi della
produzione capitalista si affermano come leggi coercitive attraverso il
mercato, la concorrenza, la circolazione, in una parola lo scambio" (p. 4).
Sostenuto da numerosi rimandi a Marx, il testo mostra
che "la forma empirica immediata" del "rapporto tra padrone e operaio [...]
è lo scambio della forza-lavoro dell’operaio contro il salario" (p. 11). Nel
corso dell’analisi, questa definizione lascia il posto a un’altra, del tutto
differente. Il capitale come modo di produzione è ora presentato come un
modo di gestione. La questione dei rapporti di produzione, considerata
all’inizio come il problema della dinamica attraverso la quale i mezzi di
produzione e la forza-lavoro entrano in contatto nel processo lavorativo
(cioè, nel capitalismo, mediante lo scambio della forza-lavoro contro il
salario, scambio tra il lavoro vivo e il lavoro morto che gli fornisce i
mezzi di sussistenza), diventa in seguito la questione del semplice
controllo dei mezzi di produzione (detenuti dagli operai – ed è il
socialismo – o dai padroni, borghesia classica o burocrazia). Il capitalismo
è l’accaparramento delle ricchezze da parte di una minoranza che le gestisce
a suo profitto. Lo scivolamento è qui: si passa dalla concezione della
struttura oggettiva della società, alla concezione di due gruppi umani
(minoranza/maggioranza, dirigenti/esecutori), senza vedere che tali gruppi
non fanno altro che personificare determinati rapporti sociali.
P. Chaulieu scrive:
"Ciò che fa dei capitalisti la classe dominante della
società moderna, è il fatto che, disponendo delle condizioni della
produzione, essi organizzano e gestiscono la produzione e appaiono come gli
agenti personali e coscienti della ripartizione del prodotto sociale.
[...] I rapporti di produzione, in generale, sono
definiti:
a) dal modo di gestione della produzione;
b) dal modo di ripartizione del prodotto sociale
(intimamente legato alla gestione sotto molteplici aspetti)" (p. 26).
Chaulieu menziona ancora la questione della vendita
della forza-lavoro (pp. 29 e 31), ma senza darle un’importanza decisiva
nell’analisi del meccanismo capitalista. Vi vede solo la separazione dei
lavoratori dai mezzi di produzione a disposizione di una minoranza. Ma ciò
non basta a caratterizzare il capitalismo. Lo scambio e il valore sono
infatti completamente tralasciati. Il capitalismo (e innanzitutto il
capitalismo russo) è definito da Chaulieu come l’opposizione tra gli
esecutori e coloro "che prendono le decisioni fondamentali" (p. 30).
Decidere, gestire, organizzare: non si tratta più di economia politica,
ancor meno della sua critica, ma di politica economica. La questione del
valore è così poco compresa da Chaulieu, che egli ne concepisce il
funzionamento anche nel socialismo, seppure in una forma modificata: lo
scambio non si applicherebbe più alla forza-lavoro ma al valore "aggiunto al
prodotto" dal lavoro. È ciò che chiama "la negazione assoluta della legge
del valore-lavoro" (pp. 36-7). Di fatto l’origine dell’errore è semplice:
Chaulieu riprende la critica marxiana al programma di Gotha, laddove Marx
ipotizza il mantenimento dello scambio, in una forma modificata, ma solo
transitoriamente e certo non nel comunismo sviluppato. Chaulieu ignora
questa distinzione; per lui lo scambio sussiste dunque in una società
socialista.
Al termine dell’analisi, non si sa per quale ragione
l’URSS sia davvero capitalista. Chaulieu ha visto nell’economia sovietica un
sistema di sfruttamento, nel quale la giornata lavorativa è divisa in lavoro
necessario (alla riproduzione della forza-lavoro) e in pluslavoro (che
fornisce il plusprodotto accaparrato dalla classe dominante, in questo caso
la burocrazia). Ma giacché ignora la natura profonda del capitale, al
contempo estrazione di pluslavoro e processo di valorizzazione, e senza
dubbio perché nel 1949 la legge del valore non si manifestava in Russia così
nettamente come ora, non ha compreso cosa sono i rapporti di produzione in
Russia. Quel che dimostra, demolendo su questo punto le stupidaggini
trockijste, è l’esistenza di una struttura di sfruttamento. Ma non coglie la
specificità dello sfruttamento capitalista. È per questa stessa ragione che
non può analizzare le contraddizioni sociali oggettive intrinseche a questi
rapporti di produzione. Non si affrontano mai le contraddizioni economiche
fondamentali. Si sa solo che gli sfruttati si scontrano con gli sfruttatori,
gli esecutori con i dirigenti. Non si vedono le contraddizioni del capitale
– e dunque del capitale in Russia – che lo conducono alla rovina obbligando
gli sfruttati a diventare i suoi becchini. Perché non vi sono solo dei
gruppi di uomini in lotta contro degli altri, in ogni sistema sociale
esistono contraddizioni che costringono i gruppi e le classi a scontrarsi.
La storia di «Socialisme ou Barbarie» è stata un lungo sforzo, attraverso
varie scissioni, per enucleare delle prospettive rivoluzionarie senza avere
compreso la dinamica del capitalismo, attraverso quale meccanismo sociale il
capitalismo crea le condizioni di un altro mondo e obbliga una parte della
società a metterle in pratica.
La conseguenza logica del modo di procedere di Chaulieu
consiste nel ricercare i rapporti di produzione dentro l’impresa, e nel
volerli cambiare grazie all’attività interna degli operai.
"Solo se la rivoluzione conduce a una trasformazione
radicale dei rapporti di produzione nella fabbrica (cioè se può realizzare
la gestione operaia), può conferire un contenuto socialista alla proprietà e
al contempo creare una base economica oggettiva e soggettiva per un potere
proletario." (p. 17)
Vedi il lavoro assai interessante e documentato di
Kommunistik Program, Postbox 61, 2880 Bagsvært, Danimarca. Testi disponibili
in francese: La question syndicale et la gauche allemande dans la IIIe
Internationale, e La perspective communiste.
Vedi le
riviste «Bilan» (pubblicata tra le due guerre mondiali), «Programme
Communiste» (che appare da una decina di anni) e «Fil du temps», così come
l’opuscolo La question parlementaire dans l’Internationale Communiste.
Un’importantissima documentazione esiste in italiano.
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