Ultimo Aggiornamento : 4-08-2003 : Last Release
Nei segni che confondono la borghesia, la nobilità e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione! - KARL MARX -
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RIVISITIAMO I PAESI DELL’EST...
...FACENDO UN SALTO ANCHE DA MARX
(*)

 

Pubblichiamo qui la traduzione della prefazione all'edizione slovacca di Eclissi e riemergenza del movimento comunista di Gilles Dàuve.Buona lettura.

A parte la Corea del Nord e Cuba, non c’è più nessun paese che si definisca socialista. E dunque perché preoccuparsi dei vecchi dibattiti sulla natura dell’URSS? Dal momento che il capitalismo domina il mondo, cos’altro c’è da sapere?

Un bel po’. E’ cruciale comprendere perché la Russia era capitalista nel 1980, nel 1930 o nel 1920,  se desideriamo comprendere cos’è il capitalismo realmente, e cosa possiamo e dobbiamo rivoluzionare, nel XXI secolo, in Russia così come in Gran Bretagna.

Il capitalismo non è solo un sistema di dominio in cui una minoranza di burocrati o borghesi costringono le masse a lavorare e, attraverso ciò, si procurano ricchezze. Nel 1950, a Praga come a Chicago, il danaro acquistava lavoro, che era messo all’opera per valorizzare somme di danaro accumulate in poli di valore chiamati società o corporations. Queste aziende non sopravvivevano se non accumulavano valore a un tasso socialmente accettabile. Questo tasso non era certamente lo stesso a Praga e a Chicago. Le aziende cecoslovacche funzionavano come unità separate, ma (a differenza dell’aziende con sede a Chicago) non avevano proprietari privati che potevano venderle o gestirle a proprio piacimento. Detto questo, un’azienda cecoslovacca non produceva solo scarpe in quanto beni che soddisfano una funzione: doveva fare un uso più profittevole possibile di tutti i soldi che erano stati investiti per produrle. La “formazione del valore” era importante tanto a Praga quanto a Chicago. Queste scarpe non venivano distribuite gratuitamente ai passanti di Chicago o di Praga che poi le avrebbero provate, calzate e se ne sarebbero andati. No, in entrambe le città i passanti pagavano scarpe, o andavano scalzi. 

Certamente lo Stato cecoslovacco avrebbe potuto sovvenzionare le scarpe e venderle a basso prezzo, e cioè al di sotto dei costi di produzione. Ma in ogni paese alla fine il valore deve essere realizzato sul mercato. I pianificatori cecoslovacchi continuavano a piegare le regole del profitto, ma non potevano giocare a quel gioco per sempre. Le regole alla fine si impongono, tramite la bassa qualità, la scarsità, il mercato nero, ecc. Lo Stato proteggeva le aziende praghesi dalla bancarotta. Ma era qualcosa di artificiale. Una concorrenza limitata aiutava a mantenere la coesione sociale: ma la sovralimitazione della concorrenza soffoca la produttività. Nessuno può menare per il naso all’infinito la logica della valorizzazione. Un’azienda, dieci aziende o mille possono essere salvate dalla chiusura, fino al giorno in cui l’intera società finisce in bancarotta. Se lo Stato belga o francese avesse salvato dal dissesto ogni azienda infruttuosa sin dai primi giorni dell’industrializzazione, il capitalismo sarebbe ora defunto sia in Francia che in Belgio. In breve, “la legge del valore” nel capitalismo “burocratico” operava molto diversamente dal capitalismo di “mercato”, ma operava in entrambi i sistemi. Nessuno nega la natura capitalista del Bahrein o del Togo, benché queste forme capitaliste siano ben diverse da quelle del capitalismo britannico o italiano.

Proprio come nelle sue versioni occidentali, l’ascesa e la caduta del capitalismo di Stato dipendeva dalle opposizioni di classe e dai compromessi, al centro dei quali c’era la necessità di rendere la manodopera redditizia. In URSS e nei paesi dell’Europa Orientale dopo il 1945, questo assunse la forma particolare di costante repressione politica accompagnata da posti di lavoro protetti (sia nelle fabbriche che nelle aziende agricole collettive), che determinava accumulazione di valore a dispetto della bassa produttività. Dopotutto, il capitalismo burocratico russo ha funzionato per oltre sessant’anni.

L’intero sistema si collassò non perché era troppo repressivo e la gente ne aveva avuto abbastanza, ma perché il compromesso di classe cessò di essere socialmente produttivo – specialmente quando non poté reggere alle pressioni di un mercato mondiale dominato da un Occidente molto più dinamico.

Con il 1989 certamente si aprì una nuova era storica, ma non il sorgere di un rinnovato movimento comunista (= nel senso marxiano, non di uno Stalin o di un Dubcek). La caduta del muro di Berlino aprì la via a un rimescolamento economico, a una militanza operaia e a una pressione democratica, ma lasciò poco spazio a una critica del capitalismo in quanto tale. Dal 1989, in molti paesi dell’ex-Comecon, la lotta di classe si è realmente sviluppata ma non ha condotto né a un riformismo di tipo occidentale (che i capitalismi orientali sono incapaci di soddisfare) né allo sviluppo di significative minoranze radicali. L’evoluzione della Polonia o quella della Serbia rappresenta un esempio lampante del modo in cui la militanza della classe operaia avvizzì o fu incanalata in una prospettiva nazionale (e in qualche caso nazionalista). Spesso gli operai si trovano a dover combattere non per più alti salari, ma semplicemente perché il salario gli venga pagato: ciò è vero in Cecoslovacchia come in Kazachstan.

Noi non stiamo suggerendo l’idea che i proletari “orientali” siano più arretrati degli altri. In Europa Occidentale, in Nord America e anche in Giappone, l’ “anticapitalismo” sollecita per lo più maggiore giustizia sociale, e solo una piccola frazione di esso è rivoluzionaria. In realtà c’è un importante punto che ci piacerebbe affrontare, benché non lo possiamo fare qui per mancanza di spazio: dovunque, la riforma è ancora all’ordine del giorno.

La rivisitazione del capitalismo di Stato non è dibattito accademico. Alla base c’è la questione della natura del capitalismo e del comunismo. Se il Politburo e il KGB non poterono piegare la logica della produttività e della profittabilità, i fautori della Destra e della Sinistra, allo stesso modo, non un riusciranno a porvi un freno. L’attuale stagnazione economica (e spesso declino) di quasi tutti i paesi ex-Comecon non è il frutto della rapacità dei burocrati che si sono trasformati in borghesi (non più di quanto la disoccupazione e i bassi salari in Occidente siano dovuti all’ingordigia dei padroni e degli azionisti). Non c’è semplicemente abbastanza spazio per gran parte delle aziende ceche o russe sul mercato mondiale. Il capitale è incontrollabile: dirige i suoi dirigenti. L’analisi del capitalismo burocratico ci dice ciò che il capitalismo realmente è: non solo imposizione di lavoro e di disciplina in fabbrica o in ufficio, ma vendita di una forza-lavoro, di una vita, in cambio di danaro. Il lavoro come attività separata dal resto non può essere libero. I soldi non possono essere parimenti o equamente divisi o ridistribuiti. Fino a quando il danaro esiste, non ce ne sarà mai abbastanza per tutti. Solo la soppressione del lavoro salariato cambierà profondamente le nostre vite.

Tuttavia si pone un problema. La concezione di un Marx che relazione ha con i mostri che si definirono marxisti nel XX secolo? Da questo punto di vista, c’è veramente un legame. Il capitalismo organizzato di Stato è indubitabilmente l’opposto dello spirito dell’azione e delle opere di Marx nell’intero arco della sua vita, ma si può sostenere che il marxismo vi rimase fedele in alcuni suoi aspetti. Facciamo solo un esempio. Il volume primo del Capitale non termina con conclusioni assolutamente comuniste (come giungere a un mondo senza merce, Stato e lavoro) ma con l’espropriazione degli espropriatori per mezzo della socializzazione del capitalismo determinata da necessità storiche. Ora tutto ciò, ovviamente, non autorizzava l’SPD a prendere parte all’amministrazione della Germania dopo il 1918, per non parlare del soffocamento di Kronstadt o del Gulag. Ma [nelle conclusioni del I libro del Capitale] si è certamente lontani da una chiara affermazione del comunismo per come l’abbiamo potuta leggere nei primi testi di Marx e nei suoi numerosi quaderni sul mir e sulle società primitive che egli redasse nei suoi ultimi anni (nessuno dei quali, come sappiamo, rese pubblici).

Alla fine degli anni ’60 e negli anni ’70, non fummo i soli che “tornarono a Marx”; pensavamo che ciò fosse necessario per comprendere meglio quello che stavamo sperimentando. I saggi qui raccolti sono parte di questo sforzo. Ciò significava ritornare a tutto il pensiero e a tutta la storia rivoluzionaria, inclusa l’opposizione di sinistra alla III Internazionale (le sinistre “italiane” e “tedesco-olandesi”, ma anche all’anarchismo pre e post 1914. Eravamo e siamo tuttora convinti (al contrario di quanto affermato da Marx in una delle sue opere più fiacche) che alla metà del XIX secolo era avvenuta un’autentica scissione all’interno del movimento rivoluzionario tra le componenti che si sarebbero rimbecillite come maxismo e anarchismo. Naturalmente in seguito questa divisione si fece persino più marcata.

Il lettore di questo libro comprenderà che noi non stiamo aggiungendo piccole porzioni di Bakunin a grandi fette di Marx (o viceversa). Un tale miscuglio somiglierebbe a un puzzle irrilevante. Stiamo solo cercando di valutare sia Marx che Bakunin, come Marx e Bakunin stessi avevano giudicato, per esempio, Babeuf o Fourier.

E’ difficile negare la dimensione “progressista” di Marx: egli condivise il credo della sua epoca secondo cui oggi “è meglio” di ieri, e domani sicuramente sarà meglio di oggi. Egli ebbe una visione lineare della storia, e costruì una continuità deterministica che partiva dalle comunità primitive e giungeva fino al comunismo. Fondamentalmente egli ricostruisce la storia in questo modo: nel momento in cui gruppi umani diventarono in grado di produrre più del necessario per la sopravvivenza immediata, questo surplus creò le condizioni per lo sfruttamento; da qui la sua necessità storica. Una minoranza costrinse la maggioranza a lavorare e arraffò le ricchezze. Migliaia di anni più tardi, grazie al capitalismo l’enorme espansione della produttività creò le condizioni per la fine dello sfruttamento. Beni di qualunque tipo sono così abbondanti che la minoranza che li monopolizza è diventata assurda. E l’organizzazione della produzione è così socializzata che non ha più senso (ed è anche improduttivo) che venga gestita da un manipolo di dirigenti che amministrano il proprio business privato. La borghesia era storicamente necessaria: in seguito i suoi traguardi (la crescita dell’economia moderna) l’hanno trasformata in parassita. Il capitalismo si rende inutile da solo. La storia, in tal guisa, si muove dalla scarsità in direzione dell’abbondanza.

 

È indubbiamente vero che Marx non formulò mai esplicitamente un siffatto andamento evolutivo, ma è la logica che sottosta a molti dei suoi testi e a gran parte della sua attività politica (il che è ancora più importante). Non fu per caso o per errore che Marx sostenne la borghesia nazionale tedesca o i leaders sindacali e politici chiaramente riformisti: egli li considerava agenti di un cambiamento positivo che avrebbe alla fine condotto al comunismo. All’opposto, guardava dall’alto in basso certi insurrezionalisti come Bakunin, che pensava fossero fuori dal movimento reale della storia.

E’ interessante notare che importanti figure anarchiche come Kropoktin e Elisée Reclus (entrambi celebri geografi di professione) sostennero anch’essi punti di vista deterministici, ma dando più enfasi all’organizzazione sociale piuttosto che alla produzione. Secondo loro la diffusione mondiale dell’industria e del commercio creava le condizioni per un potenziale universo umano e una società aperta dove le differenze etniche, i confini e gli Stati perdevano di significato.

In Marx, come in Kropotkin, la «società» cessava di essere il risultato dei rapporti tra esseri umani e classi, e si presumeva che la rivoluzione sarebbe necessariamente avvenuta grazie a una spinta verso un’umanità unificata. Questa era più una spiegazione tecnologica che sociale della storia.

Il Marx determinista, comunque, non era il solo Marx, che infatti mostrò un interesse profondamente radicato verso ciò che non corrispondeva alla lineare successione delle fasi storiche. Egli scrisse estesamente a proposito dell’autorganizzazione delle comuni contadine con proprietà collettiva della terra, e predisse chiaramente la possibilità di saltare la fase del capitalismo in Russia. Qualunque cosa Kropotkin pensasse di Marx, parecchie delle idee dell’anarchico russo trovano riscontro in quelle del famoso esiliato a Londra.

Ma sappiamo che queste intuizioni furono più tardi abbandonate sia dai marxisti rivoluzionari che da quelli riformisti. Il marxismo divenne l’ideologia dello sviluppo economico. Secondo questa ideologia nel momento in cui il capitalismo diventa sempre più socializzato, la rivoluzione non è poi così necessaria: in ultima analisi le masse organizzate porranno fine (per lo più pacificamente) all’anarchia borghese. Per riassumere, il socialismo non rompe con il capitalismo ma lo porta a compimento. I radicali si distinguono dai riformisti solo perché includono la necessità della violenza in questo processo. Lenin attribuì grande importanza al fatto che i grossi konzern e cartelli tedeschi fossero già stati organizzati e centralizzati dall’alto: se i managers borghesi fossero stati sostituiti da dirigenti operai, e se tale pianificazione razionale fosse stata estesa da ogni singolo trust privato all’intera industria, il generale tessuto sociale ne sarebbe stato alterato. Ciò non era una rottura con la merce e l’economia.

Il nostro “ritorno a Marx” intorno al 1970 probabilmente non riuscì a comprendere quanto il marxismo fosse in debito con Marx.

Qualsiasi definizione economica del comunismo resta all’interno della sfera dell’economia, e cioè della separazione dei momenti di produzione dal resto della vita. Il comunismo non è quella società in cui si sfamano adeguatamente gli affamati, si assistono i malati, si dà casa ai senzatetto, ecc. Non si può basare sul soddisfacimento dei bisogni per come si rappresentano oggi o per come li possiamo immaginare per il futuro. Il comunismo non è produzione sufficiente e sua distribuzione equa tra tutti. E’ un mondo in cui la gente entra in rapporti ed azioni che (tra le altre cose) ha come conseguenza la capacità di sfamare, curare, alloggiare… se stessa. Il comunismo non è un’organizzazione sociale. E’ un’attività. E’ una comunità umana.

 

Gilles Dauvé, giugno 2002


(*) Prefazione alla edizione slovacca di Eclissi e riemergenza del movimento comunista, pubblicata da Solidarita (ORA-S) organizzazione anarchica slovacca.

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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