Ultimo Aggiornamento : 10-09-2003 : Last Release
Nei segni che confondono la borghesia, la nobiltà e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione! - KARL MARX -
 
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Norman G. Finkelstein

L'industria dell'Olocausto

Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei

 

 

Premessa: Nel pubblicare in versione elettronica questo libro sottoposto a copyright Rizzoli non pensiamo di fare opera di pirataggio alcuno. La Rizzoli dopo aver pubblicato questo volume nel 2002 ha deciso di ritiraralo dal mercato senza spiegazione alcuna. I motivi ce li immaginiamo. Rendendo disponibile questo volume NON A SCOPO di lucro facciamo ciò che dovrebbe essere un dovereche nei confronti di un'opinione pubblica sempre più intorpidita culturalmente e scarsamente reattiva intellettualmente. Il libro è vieppiù interessante nella misura in cui alcuni commentatori come il signor A. Sofri, tendenziosamente sosetngono che l'antisionismo altro non sarebbe una variante dell'antisemitismo (La Repubblica 28 novembre 2003). In realtà fu proprio il movimento sionista a negoziare con i nazisti, focolare ebraico e a vedere nello sterimnio degli ebrei in Europa un gigantesco spot da sfruttare in vista della costituzione del proprio Stato in Palestina. I comunisti rivoluzionari - e cioè coloro che mai si macchiarono dei crimini stalinisti anche contro gli ebrei - non possono essere antisemiti perchè non credano che esista razza alcuna e sono per la fratellanza tra tutti gli uomini al di là dei loro credi religiosi, delle loro culture o delle loro preferenze sessuali. All'inizio del secolo furono migliaia i comunisti e gli anarchici di origine ebraica.

Finkinstein non è nè un autore negazionista  nè revisionista. Appartiene invece a quella che viene definita la sinistra liberal americana. Tuttavia nel capitalsimo la libertà di espressione finisce laddove cominciano giganteschi interessi economici e politici. Così nessuno si è mai sognato di chiedere conto alla Turchia delle condanne alla detenzione di alcuni attivisti e intellettuali che avevano cercato di pubblciizzare il genocidio degli armeni all'inizio del secolo scorso.

Infine per chiarezza non condividiamo neppure il revisionismo e il negazionismo "di sinistra" sviluppatosi in Francia e che non ha mai attecchito in Italia malgrado gli sforzi dell'Editrice Graphos. Costoro non sono più dei rivoluzionari ma solo degli avventurieri. Non si capisce come si darebbe maggiore impulso alla denuncia dei crimini angloamericani negando l'esistenza dei campi di sterminio.

Il libro di Finkelstein va in tutt'altra direzione.

Siamo sempre disponibili a togliere il libro dal nostro sito nel momento in cui la Rizzoli S.p.A. rimetterà in commercio il libro. Non ci piacciono i roghi dei libri e le censure preventive. Assomigliano troppo a quello che si è visto nella Germania nazista e nella Russia stalinista. O nell'America del Maccartismo.

    

(2002)

Rizzoli

Proprietà letteraria riservata C 2000 Norman G. Finkelstein 0 2002 RCS Libri Sp-4.,

Milano

ISBN 88-17-86827-2

Titolo originale dell'opera: The Holocaust Industry

Prima edizione. settembre 2002

Traduzione di Daria Restani

Traduzione dal tedesco e dall'inglese delle Appendici di Roberta Zuppet

Realizzazione editoriale. Abracadabra s.n.c., Milano

 

«A me sembra che l'Olocausto venga venduto, più che insegnato.»

RABBi ARNOLD JACOB WOLF Hillel Director, Yale University (1)

 

Ringraziamenti

Colin Robinson, della Verso, ha avuto l'idea di questo libro. Roane Carey ha dato veste

narrativa alle mie riflessioni. A ogni stadio della produzione del libro, Noam Chomsky e

Shifta Stern hanno offerto il loro contributo. Jennifer Loewenstein ed Eva Schweitzer

hanno riveduto criticamente diverse stesure. Rudolph Baldeo mi ha dato il suo sostegno e

incoraggiamento personale. Sono in debito con tutti loro. Con queste pagine tento di dare

voce al lascito dei miei genitori. Il libro è quindi dedicato ai miei due fratelli, Richard ed

Henry, e a mio nipote David.

 

Introduzione

Questo libro si propone di essere un'anatomia dell'Industria dell'Olocausto e un atto

d'accusa nei suoi confronti. Nelle pagine che seguono, dimostrerò che «l'Olocausto» è

una rappresentazione ideologica dell'Olocausto nazista (2). Come la maggior parte delle

ideologie, mantiene un legame, per quanto labile, con la realtà. L'Olocausto non è un

concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui

dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe. Per meglio dire,

l'Olocausto ha dimostrato di essere un'arma ideologica indispensabile grazie alla quale

una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a

rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di «vittima», e lo stesso ha fatto il gruppo

etnico [10] di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima

derivano dividendi considerevoli, in particolare l'immunità alle critiche, per quanto

fondate esse siano. Aggiungerei che coloro che godono di questa immunità non sono

sfuggiti alla corruttela morale che di norma l'accompagna. Da questo punto di vista, il

ruolo di Elie Wiesel come interprete ufficiale dell'Olocausto non è un caso. Per dirla

francamente, non è arrivato alla posizione che occupa grazie al suo impegno civile o al

suo talento letterario (3): Wiesel ha questo ruolo di punta perché si limita a ripetere

instancabilmente i dogmi dell'Olocausto, difendendo di conseguenza gli interessi che lo

sostengono.

Lo stimolo iniziale per questo libro è stato uno studio fondamentale di Peter Novick, The

Holocaust in American Life [L'Olocausto nella vita americana], che ho recensito per una

rivista letteraria inglese. (4) Le pagine che seguono sono pervase del dialogo critico che

ho avviato con Novick e ciò spiega la messe di riferimenti al suo studio. Più un insieme

di intuizioni provocatorie che un saggio critico strutturato, The Holocaust in American

Life si colloca nel solco della venerabile tradizione americana della denuncia di scandali.

Ma, come la maggior parte dei cacciatori di scandali, Novick si concentra solamente sugli

abusi più clamorosi. Per quanto pungente e piacevole in molti punti, The Holocaust in

American Life non è una critica radicale. Gli assunti di base non vengono messi in

discussione. Pur rimanendo all'interno dell'orizzonte delle opinioni tradizionali, il libro,

né scontato né eretico, si colloca agli estremi margini di questo stesso orizzonte, su

posizioni controverse e, come prevedibile, ha avuto una vasta eco, suscitando commenti

sia positivi sia negativi sui media americani.

La categoria analitica centrale di Novick è la «memoria». Attualmente di gran moda tra

gli intellettuali, il concetto di «mernoria» è senza dubbio il più impoverito fra quelli

prodotti negli ultimi anni dal mondo accademico. Con l'allusione d'obbligo a Maurice

Halbwachs, Novick mira a dimostrare come la «memoria dell'Olocausto» sia stata

forgiata da «preoccupazioni di oggi». C'era un tempo in cui gli intellettuali

dell'opposizione mettevano in campo robuste categorie politiche come «potere»,

«interessi» da una parte e «ideologia» dall'altra. Tutto quello che resta oggi è il fiacco,

spoliticizzato linguaggio di «preoccupazioni» e «memoria». Eppure, data la

documentazione che Novick adduce, la memoria dell'Olocausto è una costruzione

ideologica elaborata sulla base di precisi interessi. Secondo Novick, per quanto scelta, la

memoria dell'Olocausto è «il più delle volte» arbitraria; questa scelta, cioè, non verrebbe

tanto condotta in base a un «calcolo di vantaggi e svantaggi», quanto piuttosto «senza

dare troppo peso... alle conseguenze». (5) Al di là di queste sue parole, però, la

documentazione che lui stesso raccoglie suggerisce la conclusione opposta.

Il mio interesse nei confronti dell'Olocausto nazista prese le mosse da vicende personali.

Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di

concentramento. Tranne loro, tutti gli altri membri dei due rami della mia famiglia furono

sterminati dai nazisti. Il mio primo ricordo, per così dire, dell'Olocausto nazista è

l'immagine di mia madre incollata davanti al televisore a seguire il processo ad Adolf

Eichmann (1961) quando io rientravo a casa da scuola. Anche se erano stati liberati dai

campi solamente sedici anni prima del processo, nella mia mente un abisso incolmabile

separò sempre i genitori che conoscevo da quella cosa. A una parete del soggiorno erano

appese fotografie di parenti di mia madre. (Nessuna foto della famiglia di mio padre

sopravvisse alla guerra.) In pratica non riuscii mai a mettere in relazione me stesso con

quelle facce, men che mai a immaginare quello che era successo. Erano le sorelle, il

fratello e i genitori di mia madre, non le mie zie, mio zio e i miei nonni. Ricordo di avere

letto da bambino The Wall [Il muro di Varsavia, di John Hersey, e Mila 18, di Leon Uris,

due romanzi ambientati nel ghetto di Varsavia. (Mi torna alla mente mia madre che si

lamentava perché, immersa nella lettura di The Wall aveva sbagliato fermata andando al

lavoro.) Per quanto mi sforzassi, non riuscii [13] mai, nemmeno per un istante, a fare quel

salto d'immaginazione che saldava i miei genitori, con tutta la loro normalità, a quel

passato. Francamente, non ci riesco neanche ora.

Ma il punto più importante è un altro: se si esclude questa presenza spettrale, non ricordo

intrusioni dell'Olocausto nazista nella mia infanzia e la ragione principa

le sta nel fatto che a nessuno, fuori della mia famiglia, sembrava interessare quello che

era accaduto. I miei amici di gioventù leggevano di tutto e discutevano

appassionatamente degli avvenimenti contemporanei, eppure, in tutta onestà, non ricordo

un solo amico (o un suo genitore) che abbia fàtto una sola domanda su quello che mia

madre e mio padre avevano passato. Non era un silenzio dettato dal rispetto, era semplice

indifferenza. Sotto questa luce, non si possono che accogliere con scetticismo le

manifestazioni di dolore dei decenni seguenti, quando era ormai consolidata.

A volte penso che la «scoperta» dell'Olocausto nazista da parte dell'ebraismo americano

sia stata peggiore del suo oblio. I miei genitori continuavano a ripensarci nel loro Privato

e la sofferenza che patirono non ricevette pubblici riconosciment

i. Ma non fu forse meglio dell'attuale, volgare sfruttamento del martirio degli ebrei?

Prima che l'Olocausto nazista divenisse l'Olocausto, sull'argomento furono pubblicati

solo pochi [14] studi scientifici, come The Destruction ofThe European jews [La

distruzione degli ebrei d'Europa], di Raul Hilberg, e testimonianze come Man's Search

for Meaning [Alla ricerca di un significato della vita], di Viktor Frankl, e Prisoners of

Fear [Prigionieri della paura], di Ella Lingens-Reiner. (6) Eppure questa piccola raccolta

di gemme è migliore degli scaffali di cianfrusaglie che ora affollano biblioteche e librerie.

I miei genitori, pur rivivendo giorno dopo giorno il passato fino alla fine della loro vita,

negli ultimi anni persero interesse per l'Olocausto come pubblico spettacolo. Uno degli

amici di più lunga data di mio padre era stato con lui ad Auschwitz ed era, o almeno

sembrava, un incorruttibile idealista di sinistra che per principio rifiutò dopo la guerra il

risarcimento tedesco. In seguito divenne un dirigente del museo israeliano dell'Olocausto,

lo Yad Vashem. Con riluttanza e sinceramente deluso, mio padre dovette ammettere che

perfino un uomo come quello era stato corrotto dall'industria dell'Olocausto, adattando le

proprie idee al potere e al profitto. Dal momento che l'interpretazione dell'Olocausto

assumeva forme sempre più assurde, a mia madre piaceva citare, non senza ironia, Henry

Ford: «La storia è una sciocchezza». I racconti dei «sopravvissuti all'Olocausto» (tutti

prigionieri dei campi di concentramento, tutti eroi della resistenza) a casa mia erano una

fonte particolare di amaro divertimento. D'altronde già molto tempo fa John Stuart

Mill aveva compreso che «le verità se non sottoposte a continua revisione, cessano di

essere verità. E, attraverso le esagerazioni, diventano falsità».

Mio padre e mia madre si chiesero spesso perché m'indignassi di fronte alla falsificazione

e allo sfruttamento del genocidio perpetrato dai nazisti. La risposta più ovvia è che è stato

usato per giustificare la politica criminale dello Stato d'Israele e il sostegno americano a

tale politica. Ma c'è anche un motivo personale. Ho infatti a cuore che si conservi la

memoria della persecuzione della mia famiglia. L'attuale campagna dell'industria

dell'Olocausto per estorcere denaro all'Europa in nome delle «vittime bisognose

dell'Olocausto» ha ridotto la statura morale del loro martirio a quella di un casinò di

Montecarlo. Ma anche tralasciando queste preoccupazioni, resto convinto che sia

importante preservare l'integrità della ricostruzione storica e lottare per difenderla. Alla

fine di questo libro sostengo che nello studio dell'Olocausto nazista possiamo imparare

molto non solamente riguardo ai «tedeschi» o ai «gentili», ma a noi tutti. Eppure penso

che per fare questo, cioè per imparare sinceramente dall'Olocausto nazista, occorra

ridurre la sua dimensione fisica ed enfatizzarne quella morale. Troppe risorse pubbliche e

private sono state investite nella commemorazione del genocidio e gran parte di questa

produzione è indegna, un tributo [16] non alla sofferenza degli ebrei, ma

all'accrescimento del loro prestigio. È da tempo che dobbiamo aprire il nostro cuore alle

altre sofferenze dell'umanità: questa è la lezione più importante impartitami da mia

madre. Non l'ho mai sentita dire: «Non fare paragoni». Lei li fece sempre. Certo si

devono fare distinzioni storiche, ma porre distinzioni morali tra la «nostra» sofferenza e

la «loro» è a sua volta un travisamento morale. «Non potete mettere a confronto due

sventurati» osservò Platone «e dire quale dei due sia più felice.» Di fronte alle sofferenze

degli afroamericani, dei vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre:

siamo tutti vittime dell'Olocausto.

 

Norman G. Finkelstein Aprile 2000 New York

 

 

CAPITOLO I

IL PROFITTO DELL'OLOCAUSTO

 

In una memorabile controversia di qualche anno fa, Gore Vidal accusò di

antiamericanismo Norman Podhoretz, all'epoca direttore di «Commentary», la

pubblicazione dell'American Jewish Committee. (7 )La prova consisteva nel fatto che

Podhoretz attribuiva minore importanza alla Guerra Civile («l'unico, grande evento

tragico che continua a dare risonanza alla nostra repubblica») che alle questioni ebraiche.

Ma Podhoretz era probabilmente più americano del suo accusatore, perché a quell'epoca

era la «guerra contro gli ebrei» combattuta dal nazismo e non la «guerra tra gli Stati» ad

apparire centrale nella vita culturale americana. La maggior parte dei professori di

college può testimoniare che, in confronto alla Guerra Civile, molti più studenti sono in

grado di collocare l'Olocausto nazista nel secolo giusto e in linea di massima di indicare il

numero di vittime esatto. In effetti, questo è quasi l'unico riferimento storico che oggi

risuoni in un'aula universitaria. I sondaggi mostrano che sono molti di più gli americani

che sanno identificare l'Olocausto piuttosto che Pearl Harbor o le bombe atomiche sul

Giappone.

Eppure, fino a tempi abbastanza recenti, l'Olocausto nazista era quasi assente dalla vita

americana. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e quella degli anni Sessanta, solo

un esiguo numero di libri e di film toccò l'argomento e in tutti gli Stati Uniti si teneva un

unico corso universitario espressamente dedicato a esso. (8) Quando, nel 1963, Hannah

Arendt pubblicò Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil [La banalità

del male. Eichmann a Gerusalemme], poté attingere solamente a due studi in lingua

inglese: The Final Solution [La soluzione finale. Il tentativo di sterminio degli ebrei

d'Europa, 1939-1945], di Gerald Reitlinger, e The Destruction of the European jews, di

Raul Hilberg. (9) Lo stesso capolavoro di Hilberg dovette faticare per vedere la luce. Il

suo relatore alla Columbia University, l'ebreo tedesco Franz Neumann, studioso di teoria

sociale, cercò di dissuadere energicamente Hilberg dallo scrivere sull'argomento («È il

tuo funerale») e nessuna università o editore tradizionale volle toccare il manoscritto.

Quando fu finalmente pubblicato, The Destruction of the European Jews ricevette poche

recensioni, per lo più critiche (10).

Non soltanto gli americani in generale, ma anche gli ebrei americani, intellettuali

compresi, prestarono poca attenzione all'Olocausto nazista. In un'autorevole indagine del

1957, il sociologo Nathan Glazer riportò che la Soluzione Finale nazista (così come la

nascita di Israele) «aveva avuto ben poche ripercussioni sulla vita interiore della

comunità ebraica americana». In un convegno organizzato nel 1961 da «Commentary»

sul tema «L'ebraismo e i giovani intellettuali», soltanto due dei trentuno partecipanti

misero in rilievo il suo impatto. Allo stesso modo, in una tavola rotonda organizzata nel

medesimo anno dal periodico «Judaism» sul tema «La mia affermazione di ebraismo»,

alla quale parteciparono ventuno ebrei americani osservanti, l'argomento venne pressoché

ignorato. (11) Né monumenti né tributi ricordarono l'Olocausto nazista negli Stati Uniti;

anzi, le principali organizzazioni ebraiche si opposero a questa commemorazione. La

domanda è: perché?

La spiegazione più comune è che gli ebrei furono traumatizzati dal genocidio e di

conseguenza ne rimossero la memoria, ma è una teoria senza prove. Certamente, alcuni

sopravvissuti non vollero, proprio per quel motivo allora o negli anni successivi,

ricordare quello che era successo. Molti altri, però, avevano una gran voglia di parlare e,

una volta che si presentò l'occasione, non smisero più (12). Il problema era che gli

americani non avevano voglia di ascoltare.

Le vere ragioni del silenzio pubblico sull'Olocausto [24] nazista erano la politica

conformista della leadership della comunità ebraica americana e il clima politico

dell'America postbellica. Sia nella politica interna sia in quella estera le élite ebraiche

americane (13) si uniformarono alle posizioni ufficiali degli Stati Uniti. Questo

atteggiamento in effetti facilitò gli obiettivi tradizionali di assimilazione e accesso al

potere. Con l'inizio della Guerra Fredda, le organizzazioni ebraiche tradizionali assunsero

un atteggiamento ancora più risoluto. Le élite ebraiche americane «dimenticarono»

l'Olocausto nazista perché la Germania (cioè la Germania Federale, dal 1949) divenne nel

dopoguerra un alleato fondamentale degli Stati Uniti nel confronto con l'Unione

Sovietica. Rivangare il passato, oltre a essere inutile, complicava le cose.

Con minime riserve (subito peraltro superate), le maggiori organizzazioni ebraiche

americane si adeguarono velocemente alla linea del governo degli Stati Uniti, che

sosteneva una Germania riarmata e quasi per nulla denazificata. L'American Jewish

Committee (AJC), nel timore che «ogni opposizione organizzata degli ebrei americani

contro la nuova politica estera e la sua strategia potesse isolarli agli occhi della

maggioranza non ebraica e compromettere i risultati ottenuti sulla scena politica

nazionale dopo la guerra», fu il primo a elogiare le virtù del riallineamento. Il filosionista

Congresso Mondiale Ebraico (CME) e la sua sezione [25] americana rinunciarono a

opporsi dopo avere siglato accordi di compensazione con la Germania nei primi anni

Cinquanta, mentre l'Anti-Defamation League (ADL) fu la prima importante

organizzazione ebraica a inviare una delegazione ufficiale in Germania, nel 1954.

Insieme, queste organizzazioni collaborarono con il governo di Bonn per contenere

l'«onda antitedesca» del sentimento popolare ebraico (14).

La Soluzione Finale era un argomento-tabù per le élite ebraiche americane anche per un

altro motivo. Gli ebrei di sinistra, che durante la Guerra Fredda erano contrari a schierarsi

con la Germania contro l'Unione Sovietica, continuavano a battere su quel tasto. Il

semplice ricordare l'Olocausto nazista fu etichettato come un atteggiamento comunista.

Legate allo stereotipo che associava ebrei e sinistra (in effetti, gli ebrei incisero per circa

un terzo sul voto al candidato progressista Henry Wallace alle elezioni presidenziali del

1948), le élite ebraiche americane non si fecero problemi a sacrificare i compagni ebrei

sull'altare dell'anticomunismo. Mettendo a disposizione delle agenzie governative i loro

elenchi di ebrei in odore di sovversione, l'AJC e l'ADL, collaborarono attivamente alla

caccia alle streghe dell'era McCarthy. L'AJC si pronunciò a favore della condanna a

morte dei Rosenberg mentre «Commentary», la rivista mensile del comitato, sosteneva in

un editoriale che i due non erano veramente ebrei.

[26] Temendo di essere associate alla sinistra tanto all'estero quanto in patria, le

organizzazioni ebraiche tradizionali si rifiutarono di collaborare con le forze

socialdemocratiche e antinaziste tedesche, così come si opposero ai boicottaggi di

prodotti tedeschi e alle manifestazioni contro gli ex nazisti in territorio americano. D'altro

canto, dissidenti tedeschi di primo piano in visita negli Stati Uniti, come il pastore

protestante Martin Niemöller, che aveva passato otto anni nei campi di concentramento

nazisti e ora era schierato contro la crociata anticomunista, dovettero sopportare gli

insulti dei leader della comunità ebraica americana. Ansiosi di arricchire le loro

credenziali anticomuniste, le élite ebraiche diedero il proprio appoggio e sostennero

finanziariamente perfino organizzazioni dell'estrema destra come la All-American

Conference to Combat Communism e chiusero un occhio quando veterani delle SS

misero piede in America (15).

Ansiose anche d'ingraziarsi le élite dominanti americane e di dissociarsi dalla sinistra

ebraica, le organizzazioni ebraiche americane evocarono l'Olocausto nazista in un

contesto tutto particolare: per denunciare l'Unione Sovietica. «La politica [antisemita]

sovietica offre opportunità che non devono essere trascurate» annota compiaciuto un

memorandum interno dell'AJC citato da Novick «per rafforzare determinati aspetti del

programma nazionale dell'AJC.» Come era [27] ovvio, questo significava equiparare la

Soluzione Finale nazista all'antisemitismo russo. «Stalin riuscirà là dove Hider ha fallito»

preannunciava cupamente «Commentary». «Annienterà gli ebrei dell'Europa centrale e

orientale []. Il parallelo con la politica di sterminio dei nazisti è quasi completo.» Le

principali organizzazioni ebraiche americane arrivarono a denunciare l'invasione

sovietica dell'Ungheria nel 1956 come «solamente il primo passo verso una Auschwitz

russa» (16).

Con la guerra arabo-israeliana del giugno 1967 tutto cambiò. È opinione comune che

solamente in seguito a questo conflitto l'Olocausto divenne un punto fermo nella vita

degli ebrei americani (17). La spiegazione più diffusa di questa svolta fu che il totale

isolamento e la vulnerabilità di Israele nel corso della guerra dei Sei Giorni fecero

rivivere la memoria dello sterminio nazista. In effetti, questa interpretazione distorce

tanto la realtà dei rapporti di forza nel Medio Oriente a quell'epoca quanto l'evoluzione

delle relazioni tra le élite ebraiche americane e Israele.

Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale le principali organizzazioni ebraiche

avevano minimizzato l'importanza dell'Olocausto nazista per conformarsi alle priorità

della Guerra Fredda dettate dal governo americano; allo stesso modo, anche ora il loro

atteggiamento nei confronti di Israele fu rapido a confor[28]marsi. Da subito, le élite

ebraiche guardarono con profonda apprensione alla nascita di uno Stato ebraico: il loro

principale timore era che la sua esistenza avrebbe portato a un'accusa nei loro confronti di

«doppia fedeltà» e, quando la Guerra Fredda s'intensificò, queste paure si moltiplicarono.

Ancora prima della fondazione d'Israele, i leader ebrei americani espressero la

preoccupazione che la sua dirigenza, in gran parte proveniente dall'Est europeo,

tradizionalmente progressista, avrebbe scelto il campo sovietico. Nonostante alla fine

avessero abbracciato la campagna sionista a favore della creazione di uno Stato, le

organizzazioni ebraiche americane si rivelarono caute e si tennero sulla lunghezza d'onda

dei segnali provenienti da Washington. In realtà, l'appoggio dell'AJC alla fondazione

d'Israele fu motivato soprattutto dal timore di una reazione interna contro gli ebrei, che si

sarebbe potuta scatenare nel caso non si fosse giunti a una rapida soluzione del problema

degli esuli ebrei in Europa (18). Nonostante Israele, immediatamente dopo la sua

fondazione, si fosse schierato con l'Occidente, molti israeliani dentro e fuori

l'amministrazione conservarono un forte legame con l'Unione Sovietica e, come era

prevedibile, i leader della comunità ebraica americana tennero Israele a distanza.

Dal 1948, anno della sua fondazione, fino alla guerra del giugno 1967, Israele non fu una

pedina centrale [29] sullo scacchiere americano. Quando la dirigenza degli ebrei di

Palestina si accinse a istituire il nuovo Stato, il presidente Truman temporeggiò,

soppesando considerazioni di politica interna (il voto ebraico) e i segnali d'allarme del

Dipartimento di Stato (il sostegno a uno Stato ebraico avrebbe alienato il mondo arabo).

Per salvaguardare gli interessi americani in Medio Oriente, l'amministrazione Eisenhower

alternò l'appoggio a Israele con quello alle nazioni arabe, favorendo comunque queste

ultime.

Gli intermittenti scontri politici tra Stati Uniti e Israele culminarono nella crisi di Suez del

1956, quando gli israeliani si accordarono con Gran Bretagna e Francia per attaccare il

leader nazionalista egiziano Gamal Abdel Nasser. Benché la fulminea vittoria israeliana e

la conquista della penisola dei Sinai ne avessero rivelato il potenziale strategico al

mondo, gli Stati Uniti continuarono a considerarlo come una delle tante pedine dell'area.

Così, il presidente Eisenhower costrinse Israele a ritirarsi dal Sinai pressoché

incondizionatamente. Durante la crisi, i leader ebrei americani spalleggiarono per breve

tempo gli sforzi israeliani di strappare concessioni agli americani, ma in ultima analisi,

come ricorda Arthur Hertzberg, «preferirono consigliare a Israele di dare retta [a

Eisenhower] piuttosto che opporsi alla volontà del leader statunitense» (19).

[30] Tranne che come occasionale destinatario delle loro donazioni, dopo la fondazione

fu come se Israele si eclissasse alla vista degli ebrei americani: per loro non era

importante. Nella sua indagine del 1957, Nathan Glazer osservò che Israele «aveva ben

poche ripercussioni sulla vita interiore della comunità ebraica americana» (20). I membri

della Zionist Organization of America, da centinaia di migliaia che erano nel 1948, si

ridussero a decine di migliaia negli anni Sessanta. Prima del giugno 1967, solamente un

ebreo americano su venti si dichiarava interessato a visitare Israele. Nel 1956, la

comunità ebraica diede un importante contributo alla rielezione di Eisenhower, che aveva

appena costretto Israele all'umiliante ritiro dal Sinai. All'inizio degli anni Sessanta, Israele

dovette anche affrontare una forte reprimenda da parte di settori dell'élite ebraica per il

rapimento di Eichmann: fra i critici si distinsero Joseph Proskauer, ex presidente

dell'AJC, Oscar Handlin, docente di Storia ad Harvard, e il «Washington Post», di

proprietà ebraica. «Il rapimento di Eichmann» sostenne Erich Fromm «è un atto di

un'illegalità dello stesso identico genere di quello di cui si sono macchiati [...] i

nazisti. (21)

Indipendentemente dall'appartenenza politica, gli intellettuali ebrei americani si

mostrarono indifferenti al destino d'Israele. Studi approfonditi del mondo intellettuale

della sinistra progressista ebraica risalenti [31] agli anni Sessanta fanno a malapena il

nome d'Israele (22). Appena prima della guerra dei Sei Giorni, l'AJC promosse un

convegno sul tema «L'identità ebraica qui e ora»: solamente tre delle trentuno «menti più

brillanti della comunità ebraica» fecero riferimento a Israele, e due di loro per liquidarne

la rilevanza (23). Per ironia della sorte, gli unici due intellettuali ebrei a creare un legame

con Israele prima del 1967 furono Hannah Arendt e Noam Chomsky (24).

Poi arrivò la guerra dei Sei Giorni. Colpiti dall'impressionante spiegamento di forze

israeliano, gli Stati Uniti si mossero per farne una loro risorsa strategica. (Già prima del

conflitto, l'America aveva con cautela cominciato a pendere verso Israele di fronte alle

politiche sempre più indipendenti imboccate dai regimi di Egitto e di Siria alla metà degli

anni Sessanta.) Il sostegno militare ed economico cominciò ad affluire quando Israele si

trasformò in un procuratore del potere americano in Medio Oriente.

Per le élite ebraiche americane la subordinazione israeliana al potere statunitense fu una

fortuna inaspettata. Il sionismo era nato dal presupposto che l'assimilazione fosse una

chimera e che gli ebrei sarebbero semprestati percepiti come un corpo estraneo

potenzialmente pronto a tradire.

Per sciogliere il nodo gordiano, i sionisti pensarono di creare una patria per gli ebrei, ma

in realtà la fondazione d'Israele rese più acuto il proble[32]ma, se non altro per gli ebrei

della diaspora, in quanto dava espressione istituzionale all'accusa di doppia fedeltà.

Paradossalmente, dopo il giugno 1967, Israele facilitò l'assimilazione negli Stati Uniti: gli

ebrei ora erano in prima linea a difendere l'America (o meglio l'«Occidente civilizzato»)

contro le orde barbariche degli arabi. Se prima del 1967 Israele incarnava lo spauracchio

della doppia fedeltà, ora era il simbolo della superfedeltà: dopo tutto erano israeliani, e

non americani, quelli che combattevano e morivano per proteggere gli interessi

statunitensi e, diversamente dai soldati americani in Vietnam, i militari israeliani non si

fàcevano umiliare da una banda di ultimi arrivati del Terzo Mondo (25).

E così, le élite ebraiche americane all'improvviso scoprirono Israele. Dopo la guerra del

1967, l'impeto del suo esercito poté essere celebrato perché i suoi cannoni erano puntati

nella giusta direzione, cioè contro i nemici dell'America. Il suo valore militare poteva

persino rendere più agevole l'accesso alla stanza dei bottoni dei potere americano. Se in

precedenza le élite ebraiche potevano offrire solamente scarni elenchi di ebrei sovversivi,

ora erano in grado di porsi come gli interlocutori naturali della più recente risorsa

strategica americana e da pedine guadagnarsi un ruolo di primo piano nel gran teatro

della Guerra Fredda. Israele divenne una risorsa non solo per l'America ma per lo stesso

ebraismo americano.

[33] In un libro di memorie pubblicato appena prima della guerra dei Sei Giorni, Norman

Podhoretz ricordò con un certo senso di vertigine di avere partecipato a una cena di Stato

alla Casa Bianca dove «non c'era una sola persona che non fosse visibilmente e

assolutamente fuori di sé dalla gioia di essere lì». (26) Benché fosse già direttore di

«Commentary», il più importante periodico della comunità ebraica amerìcana, questo suo

libro contiene un'unica, fugace allusione a Israele. D'altro canto, che cosa aveva da offrire

quest'ultimo a un ambizioso ebreo americano? In un saggio successivo, Podhoretz

sottolineò come, dopo la guerra del giugno 1967, Israele fosse divenuto «la religione

degli ebrei americani» (27). Diventato sostenitore di spicco dello Stato ebraico,

Podhoretz poteva vantarsi non semplicemente di avere partecipato a una cena alla Casa

Bianca, ma di avere incontrato il presidente in un tête-à-tête per discutere di questioni di

interesse nazionale.

Dopo la guerra dei Sei Giorni, le principali organizzazioni ebraiche americane lavorarono

a pieno ritmo per rendere più salda l'alleanza tra America e Israele. Nel caso dell'ADL,

questo comportò un'ampia operazione di sorveglianza interna svolta di concerto con i

servizi segreti israeliani e sudafricani (28). Dopo il giugno 1967, sul «New York Times»

lo spazio dedicato a Israele crebbe in maniera esponenziale. Sul suo indice del 1955 e su

quello del 1965, i rimandi alla voce «Israele» occupava[34]no ciascuno meno di un

quarto dello spazio che il «New York Times Index» dedicò loro nel 1975. «Quando ho

voglia di tirarmi un po' su» osservava Elie Wiesel nel 1973 «guardo le notizie su Israele

sul "New York Times".» (29) Come Podhoretz, molti intellettuali della tradizione

ebraico-americana dopo la guerra dei Sei Giorni scoprirono altrettanto improvvisamente

la «religione» Israele. Novick racconta che Lucy Dawidowicz, la decana della letteratura

sull'Olocausto, un tempo era stata «aspramente critica nei confronti d'Israele». Nel 1953,

aveva dichiarato senza mezzi termini che gli israeliani non avevano il diritto di chiedere

risarcimenti alla Germania finché eludevano le responsabilità nei confronti dei profughi

palestinesi: «Non esistono due pesi e due misure». Eppure, subito dopo il conflitto,

Dawidowicz diventò una «fervida sostenitrice d'Israele», salutandolo come «incarnazione

del paradigma dell'immagine ideale dell'ebreo nel mondo moderno». (30)

I sionisti, rinati dopo la guerra del 1967, contrapponevano tacitamente l'esplicito sostegno

dato a un Israele sotto assedio alla vigliaccheria mostrata dagli ebrei americani di fronte

all'Olocausto nazista. In realtà, stavano facendo esattamente quello che le élite ebraiche

d'America avevano sempre fatto: andare di pari passo con il potere statunitense. Le classi

colte si rivelarono particolarmente esperte nell'assumere atteggiamenti eroici. Si consideri

il caso di Irving Howe, il noto stu[35]dioso appartenente alla sinistra progressista. Nel

1956, «Dissent», la rivista che Howe dirigeva, condannò «l'attacco combinato contro

l'Egitto» come «immorale». Nonostante si trovasse effettivamente solo, Israele fu anche

tacciato di «sciovinismo culturale», di avere un «senso paramessianico del destino

manifesto» (31) e di «tendenza latente all'espansionismo». (32) Dopo la guerra

dell'ottobre 1973, quando il sostegno americano a Israele raggiunse il suo apice, Howe

pubblicò un proprio appello «traboccante di ansia intensissima» a favore dell'isolato

Israele. Il mondo non ebraico, si lamentava in una parodia alla Woody Allen, affogava

nell'antisemitismo e persino nell'Upper Manhattan Israele «non è più chic»: tutti, tranne

lui, erano alla mercé di Mao, di Frantz Fanon e di Che Guevara. (33)

In quanto pedina strategica degli Stati Uniti, Israele non era esente da critiche. Oltre alla

sempre più pressante censura della comunità internazionale rivolta al suo rifiuto di

negoziare un accordo con gli arabi secondo le risoluzioni delle Nazioni Unite e al suo

smaccato sostegno alle ambizioni del governo statunitense, che perseguiva una politica di

controllo su base planetaria, (34) Israele dovette anche vedersela con il dissenso interno

americano. Nei circoli dominanti statunitensi, i fautori di una politica filoaraba

sostenevano che puntare tutto su questo Stato e ignorare le élite arabe minava gli interessi

nazionali americani.

[36] C'era chi argomentava che la sottomissione d'Israele al potere americano e

l'occupazione dei vicini Stati arabi non solo erano sbagliate in linea di principio, ma

anche dannose per gli stessi interessi israeliani, in quanto Israele sarebbe stato sempre più

militarizzato e isolato dal mondo arabo. Comunque, per gli ebrei americani, nuovi

sostenitori d'Israele, discorsi di questo genere sfioravano l'eresia: un Israele indipendente

e in pace con i propri vicini era privo di valore, un Israele sulla stessa lunghezza d'onda

del mondo arabo, alla ricerca dell'indipendenza dagli Stati Uniti rappresentava un

disastro. Israele poteva esistere soltanto come una specie di Sparta legata al potere

americano, perché solamente in quel caso i leader della comunità ebraica statunitense

potevano presentarsi come i portavoce delle ambizioni imperialistiche americane. Noam

Chomsky ha suggerito che questi «sostenitori d'Israele» dovrebbero essere più

propriamente chiamati «sostenitori della degenerazione morale e della distruzione

definitiva d'Israele». (35)

Per proteggere la loro posizione strategica, le élite ebraiche americane «ricordarono»

l'Olocausto. (36) La spiegazione convenzionale è che lo fecero perché, all'epoca della

guerra dei Sei Giorni, pensavano che Israele stesse correndo un pericolo mortale ed erano

quindi in preda alla paura di un «secondo Olocausto». Questa versione, però, non regge

all'analisi.

[37] Si prenda in considerazione la prima guerra arabo-israeliana. Alla vigilia

dell'independenza del 1948, la minaccia contro gli ebrei di Palestina appariva di gran

lunga più preoccupante. David Ben-Gurion dichiarò che «settecentomila ebrei» erano

«contrapposti a ventisette milioni di arabi: uno contro quaranta». Gli Stati Uniti

parteciparono all'embargo di armi decretato dalle Nazioni Unite per l'intera area,

congelando una situazione di chiara superiorità negli armamenti da parte degli eserciti

arabi. La paura di un'altra Soluzione Finale attanagliò la comunità ebraica americana.

Deplorando il fatto che gli Stati arabi stavano ora «armando il tirapiedi di Hitler, il Mufti

[di Gerusalemme], mentre gli Stati Uniti imponevano l'embargo», l'AJC predisse «un

suicidio di massa e un olocausto definitivo in Palestina». Persino George Marshall, il

segretario di Stato, e la CIA previdero, in caso di guerra, la sicura sconfina degli

ebrei. (37) Anche se «alla fine vinse il più forte» (secondo lo storico Benny Morris), per

Israele non fu comunque una passeggiata. Nel corso dei primi mesi di guerra, agli inizi

del 1948, e specialmente quando, in maggio, ci fu la dichiarazione d'indipendenza, le

speranze di sopravvivenza del nuovo Stato erano date alla pari da Yigael Yadin, capo

delle operazioni dell'Haganah. Senza un accordo segreto con la Cecoslovacchia per la

fornitura di armi, Israele probabilmente non sarebbe sopravvissuto. (38) Dopo un [38]

anno di combattimenti, contava seimila caduti, l'uno per cento della sua popolazione. Ma

allora perché l'Olocausto non divenne oggetto dell'attenzione degli ebrei d'America dopo

la guerra del 1948?

Nel 1967 Israele dimostrò prontamente di essere assai meno vulnerabile che nella lotta

per l'indipendenza. I leader israeliani e quelli americani sapevano in anticipo che Israele

avrebbe avuto facilmente la meglio in una guerra contro gli Stati arabi, realtà che divenne

chiara ed evidente quando Israele sconfisse i vicini arabi nell'arco di pochi giorni. Come

annota Novick, «nella mobilitazione degli ebrei americani a favore d'Israele prima della

guerra, è sorprendente quanto pochi siano i riferimenti espliciti all'Olocausto». (39)

L'industria dell'Olocausto fece la propria apparizione solamente dopo la dimostrazione

schiacciante del predominio militare e fiorì in mezzo al più totale trionfalismo

israeliano. (40) Come conciliare tali anomalie con l'interpretazione standard?

Gli scioccanti rovesci iniziali e le pesanti perdite subite durante la guerra arabo-israeliana

dell'ottobre 1973, e il crescente isolamento internazionale che ne seguì, non fecero che

aumentare, secondo le interpretazioni tradizionali, i timori degli ebrei americani per la

vulnerabilità d'Israele. Di conseguenza, la memoria dell'Olocausto finì sulla ribalta.

Novick registra da par suo: «Tra gli ebrei americani [ ... ] la presunta situazio[39]ne di un

Israele vulnerabile e isolato cominciò a essere percepita come terribilmente simile a

quella degli ebrei d'Europa trent'anni prima [ ... ] Il riferimento all'Olocausto negli Stati

Uniti non soltanto prese piede, ma divenne una pratica sempre più istituzionalizzata».41

Eppure Israele era stato sull'orlo del baratro e, in termini sia relativi sia assoluti, aveva

avuto molte più perdite nella guerra del 1948 che in quella del 1973.

È vero che, se si eccettua l'alleanza con gli Stati Uniti, dopo la guerra dell'ottobre 1973

Israele si ritrovò in disgrazia all'interno della comunità internazionale. Tuttavia, proviamo

a fare il confronto con la guerra di Suez del 1956. Israele e la comunità ebraica americana

asserirono che, alla vigilia dell'invasione del Sinai, l'Egitto aveva minacciato l'esistenza

stessa di Israele, e che un totale ritiro israeliano dal Sinai avrebbe fatalmente minato

«l'interesse fondamentale d'Israele: la sua sopravvivenza come Stato». (42) Ciò

nonostante, la comunità internazionale restò saldamente sulle proprie posizioni.

Rievocando il suo brillante intervento all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, Abba

Eban ricordò con dispiacere che «dopo aver applaudito calorosamente il discorso

[l'Assemblea] votò contro di noi a larga maggioranza». (43) Gli Stati Uniti ebbero un

ruolo di primo piano in questo consenso generale. Non soltanto Eisenhower costrinse

Israele al ritiro, ma il sostegno pubblico americano a Israele subì uno [40] «spaventoso

tracollo» commenta lo storico Peter Grose. (44) Per contro, subito dopo la guerra del

1973, gli Stati Uniti fornirono a Israele una massiccia assistenza militare, in proporzioni

maggiori di quella dei quattro anni precedenti messi insieme, mentre l'opinione pubblica

americana sosteneva lo Stato ebraico a spada tratta. (45) Fu questo il frangente in cui «il

riferimento all'Olocausto [ ...] prese piede in America»: un momento in cui Israele era

meno isolato di quanto fosse stato nel 1956.

In effetti, il motivo per cui venne alla ribalta non va ricercato nel fatto che le inaspettate

battute d'arresto d'Israele nel corso della guerra dell'ottobre 1973 e il successivo

isolamento politico evocarono il ricordo della Soluzione Finale. Piuttosto. fu la

spettacolare dimostrazione militare di Sadat nella guerra del Kippur a convincere le élite

politiche americane e israeliane che non si poteva più prescindere da un accordo

diplomatico con l'Egitto e dalla restituzione dei territori sottrattigli nel giugno 1967. Per

incrementare il potere negoziale israeliano, aumentò la produzione. Il punto è che, dopo

la guerra del 1973, Israele non era isolato dagli Stati Uniti: questi sviluppi occorsero nel

quadro dell'alleanza tra i due Paesi, che rimase pienamente attiva. (46) L'analisi storica

suggerisce con forza che, se Israele si fosse trovato davvero solo dopo la guerra del 1973,

[41] le élite ebraiche americane non avrebbero ricordato l'Olocausto nazista più di quanto

fecero dopo le guerre del 1948 o del 1956.

Novick fornisce alcune spiegazioni accessorie che risultano ancora meno convincenti.

Citando gli studiosi ebrei di formazione religiosa, per esempio, suggerisce che «la guerra

dei Sei Giorni permise di elaborare una teologia popolare di "Olocausto e Redenzione"».

La «luce» della vittoria del giugno 1967 riscattava le «tenebre» del genocidio: «Aveva

dato a Dio una seconda possibilità». L'Olocausto poté affiorare nella vita americana

solamente dopo il giugno 1967 perché «l'Olocausto degli ebrei d'Europa ebbe un esito, se

non felice, tale almeno da lasciare spazi alla vita». Eppure, nella vulgata della cultura

ebraica, non fu la guerra del 1967 ma la fondazione di Israele a segnare la redenzione.

Perché l'Olocausto dovette attendere una seconda redenzione? Novick sostiene che

l'«immagine degli ebrei come eroi guerrieri» nella guerra dei Sei Giorni «ebbe l'effetto di

obliterare lo stereotipo della vittima debole e passiva che [ ... ] in precedenza aveva

impedito agli ebrei la discussione dell'Olocausto». (47) Eppure, quanto a coraggio allo

stato puro, la guerra del 1948 fu per Israele l'ora più bella. E, nel 1956, la «temeraria» e

«brillante» campagna di cento ore nel Sinai di Moshe Dayan prefigurò la vittoria a mani

basse dei giugno 1967. Perché, allora, la comunità ebraica americana ebbe bisogno

della guerra dei Sei Giorni per «obliterare lo stereotipo»?

La spiegazione di Novick di come le élite ebraiche americane giunsero a strumentalizzare

l'Olocausto nazista non è convincente. Si considerino questi passi significativi:

Quando i leader ebrei americani cercarono di capire le ragioni dell'isolamento e

della vulnerabilità israeliani (ragioni che potessero suggerire un rimedio), la

spiegazione che raccolse il più ampio consenso fu che l'affievolirsi del ricordo dei

crimini nazisti contro gli ebrei, e l'ingresso in scena di una generazione che

ignorava l'Olocausto, avevano fatto perdere a Israele il sostegno di cui aveva

goduto un tempo.

Mentre le organizzazioni ebraiche americane non erano in grado di modificare il

passato prossimo nel Medio Oriente, e potevano fare ben poco per influenzarne il

futuro, potevano fare in modo di far rivivere il ricordo dell'Olocausto. Così, la

spiegazione del «ricordo che si affievolisce» costituì un punto all'ordine del

giorno per l'azione. (48)

Perché la tesi del «ricordo che si affievolisce» per la situazione israeliana post-1967

«raccolse il più ampio consenso»? Era senza dubbio una spiegazione impro[43]babile.

Come Novick stesso documenta doviziosamente, il sostegno che Israele si guadagnò

all'inizio ha poco a che vedere con «il ricordo dei crimini nazisti» (49) e, in ogni caso,

questo ricordo era svanito molto tempo prima che Israele perdesse il sostegno

internazionale. Perché le élite ebraiche potevano «fare ben poco per influenzare» il futuro

d'Israele? È un fatto che controllavano una formidabile rete di organizzazioni. E perché

«far rivivere il ricordo dell'Olocausto» divenne l'unico punto all'ordine dei giorno?

Perché non appoggiare l'accordo internazionale che chiedeva il ritiro israeliano dai

territori occupati nella guerra del 1967 così come una «pace giusta e durevole» tra Israele

e i suoi vicini arabi (risoluzione Onu numero 242)?

Una spiegazione più coerente, anche se meno generosa, è che le élite ebraiche americane

ricordarono l'Olocausto nazista prima del giugno 1967 solamente quando fu

politicamente conveniente. Israele, loro nuovo protettore, aveva fatto buon uso

dell'Olocausto nazista durante il processo a Eichmann. (50) Accertatane l'efficacia, la

comunità ebraica americana sfruttò l'Olocausto nazista dopo la guerra dei Sei Giorni. Una

volta rimodellato ideologicamente, l'Olocausto (nel senso di industria) divenne l'arma

perfetta per deviare le critiche nei confronti d'Israele, come ora dimostrerò. Ciò che

merita di essere sottolineato, in ogni caso, è il fatto che per le élite ebraiche americane

l'Olocausto svolse la [44] stessa funzione che per Israele: un'altra fiche dal valore

incalcolabile in una partita a poker dove si gioca forte. Il dichiarato interesse per la

memoria dell'Olocausto fu qualcosa di studiato a tavolino, così come quello per il destino

d'Israele. (51) Di conseguenza, la comunità ebraica americana perdonò e dimenticò

velocemente la folle dichiarazione di Reagan al cimitero di Bitburg, nel 1985: secondo

l'allora presidente, i soldati tedeschi lì sepolti (compresi gli appartenenti alle SS) erano

«vittime dei nazisti proprio come le vittime dei campi di concentramento». Nel 1988,

Reagan venne insignito del premio Humanitarian of the Year dal Centro Simon

Wiesenthal, una delle istituzioni di maggior spicco tra quelle che si occupano

dell'Olocausto, per il suo «leale sostegno a Israele» e, nel 1994, del premio Torch of

Liberty dalla filoisraeliana ADL. (52)

Resta il fatto che il precoce sfogo, nel 1979, del reverendo Jesse Jackson che disse di

«non [poterne] più di sentir parlare dell'Olocausto» non fu perdonato né dimenticato

altrettanto rapidamente. In effetti, gli attacchi a Jackson da parte delle élite ebraiche

americane non cessarono mai, anche se non a causa delle sue «dichiarazioni antisemite»,

quanto piuttosto per l'avere sposato «le posizioni palestinesi» (Seymour Martin Lipset ed

Earl Raab). (53) Nel caso di Jackson, giocava pure un altro fattore: il reverendo

rappresentava un elettorato con cui la comunità ebraica americana era entrata in urto sin

da[45]gli ultimi anni Sessanta. Anche in questi conflitti, l'Olocausto si dimostrò un'arma

ideologica potente.

Le élite ebraiche furono indotte a potenziare dopo la guerra dei Sei Giorni non dalla tanto

sbandierata debolezza d'Israele e dal suo isolamento, che facevano temere un «secondo

Olocausto», quanto piuttosto dalla forza dimostrata dallo Stato ebraico e dalla sua

alleanza strategica con gli Stati Uniti. È lo stesso Novick a fornire, anche se

involontariamente, la prova migliore a sostegno di questa conclusione. Per dimostrare che

furono considerazioni di potere, e non la Soluzione Finale dei nazisti, a determinare la

politica americana nei confronti d'Israele, scrive: «Fu quando l'Olocausto era più vivido

nella mente dei leader americani, nel primo venticinquennio dopo la fine della guerra, che

gli Stati Uniti sostennero meno Israele [ ... ] Non fu quando Israele era percepito come

debole e vulnerabile, ma dopo che ebbe dimostrato la propria forza, nella guerra dei Sei

Giorni, che l'aiuto americano si trasformò da un rivolo a un flusso continuo» (il corsivo è

nell'originale). (54) Questa osservazione vale altrettanto per le élite ebraiche americane.

Esistono anche ragioni interne per la nascita dell'industria dell'Olocausto. Gli studiosi

sottolineano la recente apparizione della «politica dell'identità» da un lato e della «cultura

della vittimizzazione» dall'altro. In realtà, [46] ogni identità si fonda su una specifica

storia di oppressione e, di conseguenza, gli ebrei cercarono la loro nell'Olocausto.

Eppure, tra i gruppi che protestano la loro vittimizzazione, ivi compresi i neri, i latini, i

nativi americani, le donne, i gay e le lesbiche, solamente gli ebrei, nella società

americana, non sono svantaggiati. In realtà, la politica dell'identità e l'Olocausto hanno

fatto presa tra gli ebrei americani non in virtù del loro status di vittime ma proprio perché

essi non sono vittime.

Nel momento in cui, dopo la Seconda guerra mondiale. le barriere antisemitiche si

sgretolarono rapidamente, gli ebrei conobbero un'ascesa sociale negli Stati Uniti.

Secondo Lipset e Raab, il reddito pro capite degli ebrei è circa il doppio di quello dei non

ebrei; sedici dei quaranta americani più ricchi sono ebrei; il quaranta per cento dei

vincitori americani del premio Nobel in ambito scientifico ed economico è ebreo, così

come il venti per cento dei professori nelle università più importanti e il quaranta per

cento dei soci dei maggiori studi legali di New York e Washington. L'elenco

prosegue. (55) Lungi dal costituire un ostacolo al successo, l'identità ebraica ne è

divenuta l'emblema. Proprio come molti ebrei presero le distanze da Israele quando

rappresentava uno svantaggio e si riscoprirono sionisti quando divenne una risorsa, essi si

tennero alla larga dalla loro identità ebraica finché questa costi[47]tuì uno svantaggio e si

riscoprirono ebrei quando esserlo divenne un vantaggio.

In verità, il successo sociale dell'ebraismo americano convalidò un convincimento di

fondo (forse l'unico) degli ebrei circa la propria identità appena ritrovata. Chi avrebbe più

potuto mettere in discussione il fatto che gli ebrei erano il «popolo eletto»? Charles

Silberman, anche lui un ebreo «ritrovato», in A Certain People. American jews and Their

Lives Today [Un certo tipo di persone: gli ebrei americani e la loro vita oggi], si

entusiasma: «Se avessero evitato completamente qualunque idea di superiorità, gli ebrei

non sarebbero stati umani» e aggiunge che «per gli ebrei americani è terribilmente

difficile cancellare completamente il senso di superiorità, per quanto si sforzino di farlo».

Secondo il romanziere Philip Roth, quello che un bambino ebreo americano si trova come

eredità è «nessuna legge, nessun insegnamento, nessuna lingua e, in definitiva, nessun

Dio [...] ma un atteggiamento mentale che può essere tradotto in quattro parole: "Gli ebrei

sono meglio"». (56) Come vedremo, l'Olocausto costituì l'immagine ribaltata del tanto

decantato successo degli ebrei nel mondo: servì a ratificare la loro identità di popolo

eletto.

Negli anni Settanta l'antisemitismo non era più un fenomeno di rilievo nella vita

americana. Ciò nondimeno, i leader ebrei cominciarono a suonare il campa[48]nello

d'allarme: l'ebraismo americano era minacciato da un'ondata violenta di «nuovo

antisemitismo». (57) Tra le prove principali addotte da un importante studio dell'ADL,

(«per coloro che sono morti perché erano ebrei») comparivano il musical di Broadway

Jesus Christ Superstar e un tabloid alternativo che «ritraeva Kissinger come un servile

leccapiedi, vigliacco, borioso, adulatore, tiranno, arrampicatore sociale, manipolatore del

male, snob insicuro, interessato a null'altro che al potere e privo di scrupoli»: di fatto, si

trattava ancora di un giudizio alquanto moderato. (58)

Per le organizzazioni ebraiche americane, questo isterismo indotto circa un nuovo

antisemitismo serviva a diversi scopi. Accreditò ancora l'idea che Israele fosse il luogo

dell'estremo rifugio, se e quando agli ebrei americani ne fosse servito uno; per di più, gli

appelli per la raccolta di fondi da parte delle organizzazioni ebraiche in nome della lotta

all'antisemitismo trovarono portafogli più disponibili. «L'antisemitismo si trova

nell'infelice posizione» osservò una volta Sartre «di avere bisogno per sopravvivere dello

stesso nemico di cui vuole la distruzione.» (59) Per queste organizzazioni ebraiche,

l'affermazione contraria è ugualmente vera. Quando negli ultimi anni l'antisemitismo ha

cominciato a declinare, si è scatenata una spietata rivalità tra le maggiori organizzazioni

«di difesa» degli ebrei, in particolare tra l'ADL e il Centro Simon Wiesenthal. (60) Nella

que[49]stione della raccolta di fondi, tra l'altro, le presunte minacce nei confronti

d'Israele servirono a uno scopo analogo. Di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, lo

stimato giornalista israeliano Danny Rubinstein ebbe a osservare: «Secondo la maggior

parte delle persone che fanno parte dell'establishment ebraico, la cosa importante è dare

continuamente enfasi ai pericoli che incombono su Israele [ ... ] All'establishment ebraico

americano Israele serve solamente come vittima dei crudele attacco degli arabi. Per un

Israele in queste condizioni si possono ottenere sostegno, donazioni, denaro [ ... ] Tutti

conoscono le cifre ufficiali dei contributi raccolti dallo United Jewish Appeal in America,

in cui viene usato il nome d'Israele: qualcosa come la metà dei soldi non va a Israele ma

alle istituzioni ebraiche in America. Esiste un cinismo maggiore?». Come vedremo, lo

sfruttamento da parte dell'industria dell'Olocausto delle «vittirne bisognose

dell'Olocausto» è l'ultima e probabilmente la più turpe manifestazione di questo

cinismo. (61)

Comunque, il motivo principale e più segreto per suonare il campanello d'allarme

dell'antisemitismo sta altrove. Più crebbe il loro successo sociale, più gli ebrei americani

si spostarono politicamente a destra. Benché restassero su posizioni progressiste su

questioni culturali come la moralità sessuale e l'aborto, divennero sempre più

conservatori in materia di politica e di econo[50]mia. (62) Questa svolta a destra fu

accompagnata da un'involuzione: gli ebrei, dimentichi degli antichi alleati che contavano

tra i non abbienti, destinarono sempre più le loro risorse esclusivamente a questioni

ebraiche. Questa virata dell'ebraismo americano (63) si manifestò con chiarezza nelle

tensioni crescenti con i neri. Tradizionalmente sulle stesse posizioni della comunità nera

contro le discriminazioni di casta negli Stati Uniti, molti ebrei ruppero l'alleanza con il

movimento per i diritti civili alla fine degli anni Sessanta, quando, come scrive Jonathan

Kaufman, «i suoi obiettivi passarono dalla richiesta di uguaglianza politica e legale a

quella di uguaglianza economica». «Quando il movimento per i diritti civili si spostò a

Nord, avvicinandosi a questi ebrei progressisti» sottolinea in modo analogo Cheryl

Greenberg «la questione dell'integrazione prese una piega diversa. Con una

preoccupazione le cui motivazioni si annidavano più in questioni di classe che razziali,

gli ebrei fuggirono nelle zone residenziali periferiche quasi alla stessa velocità dei bianchi

cristiani, per evitare quello che percepivano come un deterioramento delle loro scuole e

dei loro quartieri.» Il memorabile acme fu il lungo sciopero degli insegnanti a New York

nel 1968, che contrappose un sindacato di professionisti in gran parte ebrei agli attivisti

della comunità nera in lotta per il controllo delle scuole in stato di abbandono. I resoconti

dello sciopero riferiscono spesso di manifestazioni [51] collaterali di antisemitismo, ma

l'esplosione di un razzismo di marca ebraica (che prima dello sciopero rimaneva nascosto

appena sotto la superficie) non viene ricordata altrettanto spesso. Più di recente, esperti di

diritto pubblico ebrei e organizzazioni ebraiche sono stati in prima linea nello sforzo per

smantellare i programmi dell'affirmative action (integrazione delle minoranze). In testichiave

della Corte Suprema (De Funis, del 1974, e Bakke, del 1978), l'AJC, l'ADL, e il

congresso dell'AJ, hanno tutti prodotto pareri scritti nei quali si opponevano ai

programmi dell'affirmative action (64).

Attivatesi con piglio aggressivo per difendere i loro interessi di corporazione e di classe,

le élite ebraiche tacciarono di antisemitismo tutti coloro che si opponevano al loro nuovo

corso conservatore. Perciò Nathan Perlmutter, capo dell'ADL, sostenne che «il vero

antisemitismo» in America stava nelle iniziative politiche «che danneggiano gli interessi

ebraici», come i programmi antidiscriminazione, i tagli alla spesa per la difesa e il

neoisolazionismo, come pure l'opposizione al nucleare e persino la riforma dei collegi

elettorali (65).

In questa offensiva ideologica, l'Olocausto ebbe un ruolo cruciale. Molto semplicemente,

rievocare le persecuzioni del passato serviva a respingere le critiche sul presente. Gli

ebrei giunsero addirittura a esprimere simpatia per il sistema delle ammissioni riservate e

limitate delle minoranze nell'università e nella pubblica [52] amministrazione: ne erano

stati danneggiati in passato, ma ora potevano servirsene per opporsi all'integrazione di

altre minoranze attraverso programmi di affirmative action. Oltre a ciò, comunque, lo

schema mentale dell'Olocausto rappresentava l'antisemitismo come il frutto di un odio

puramente irrazionale dei «gentili» verso gli ebrei, escludendo la possibilità che quella

disposizione nei loro confronti potesse fondarsi su un reale conflitto di interessi

(argomento che riprenderò nelle pagine successive). Di conseguenza, evocare l'Olocausto

era uno stratagemma per delegittimare ogni genere di critica nei confronti degli ebrei:

critiche di quel genere potevano nascere solamente da un odio patologico.

Proprio come l'ebraismo americano si mise a ricordare l'Olocausto quando la forza

d'Israele raggiunse il suo culmine, così Israele fece lo stesso quando si affermò il potere

degli ebrei americani. Il pretesto fu comunque che, in Israele come negli Stati Uniti,

l'ebraismo rischiava un imminente «secondo Olocausto». Le élite ebraiche americane

poterono così assumere pose eroiche nello stesso momento in cui indulgevano in

comportamenti vigliaccamente prepotenti. Per esempio, Norman Podhoretz sottolinea

che, dopo la guerra dei Sei Giorni, gli ebrei erano ormai decisi a «resistere a chiunque in

ogni modo, a qualunque livello e per qualunque ragione cerchi di recarci un qualsiasi

danno [53]. D'ora in poi resisteremo». (66) E cosi, come gli israeliani, armati fino ai denti

degli Stati Uniti, misero coraggiosamente al loro posto i ribelli palestinesi, altrettanto

coraggiosamente gli ebrei americani misero al loro posto i ribelli neri.

Tiranneggiare chi è meno in grado di difendersi: questa è la realtà del tanto sbandierato

coraggio delle organizzazioni ebraiche americane.

 

 

Note

1.Cit. in Michael Berenbaum, After Tragedy and Triumph, Cambridge 1990, 45.

2. Nel testo, con l'espressione «Olocausto nazista» si fa riferimento all'evento storico, con

il termine «Olocausto» alla sua rappresentazione ideologica.

3. Per l'impressionante elenco di giustificazioni del comportamento di Israele firmate da

Wiesel, si veda Norman Finkelstein e Ruth Bettina Birn, A Nation on Trial. The

Goldhagen Thesis and Historical Truth, New York 1998, 91 n83, 96 n90. Altrove il suo

comportamento non è migliore. In un nuovo libro di memorie, And the Sea Is Never Full,

New York 1999, Wiesel offre questa sbalorditiva spiegazione circa il suo silenzio sul

dramma palestinese: «Malgrado l'enorme pressione, ho rifiutato di prendere

pubblicamente posizione sul conflitto arabo-israeliano» (125). Nella sua dettagliatissima

indagine sulla letteratura sull'Olocausto, il critico letterario Irving Howe (Writing and

Holocaust, in «New Republic», 27 ottobre 1986) liquida il vasto corpus delle opere di

Wiesel in un solo paragrafo con il vago elogio che «il primo libro di Elie Wiesel, La Nuit,

[è] scritto con semplicità e senza indulgere nella retorica». «Dopo La Nuit non c'è più

nulla che valga la pena d'essere letto» concorda il critico letterario Alfred Kazin. «Ora

Elie è esclusivamente un attore: rivolgendosi a me, si è definito un "conferenziere [18]

sull'angoscia"» (A Lifetime Burning in Every Moment, New York, 1996, 179).

4. New York, 1999. Norman FinkeIstein, Uses of the Holocaust, in «London Review of

Books», 6 gennaio 2000.

5. Novick, The Holocaust, 3-6.s

6. Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, New York, 1961; Viktor Frankl,

Man's Search for Meaning, New York 1959; Ella Lingens-Reiner, Prisoners of Fear,

London, 1948.

7. Gore Vidal, The Empire Lovers Strike Back, in «Nation», 22 marzo 1986.

8. Rochelle G. Saidel, Never Too Late to Remember, New York 1996, 32.

9. Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, edizione

rivista e ampliata, New York 1965, 282. La situazione in Germania non era molto

diversa. Per esempio, la giustamente ammirata biografia di Hitler, di Joachim Fest,

pubblicata in Germania nel 1973, dedica solamente quattro delle 750 pagine del volume

23

allo sterminio degli ebrei e un unico paragrafo ad Auschwitz e agli altri campi di

sterminio. Joachim C. Fest, Hitler, New York 1975, 679-82.

10. Raul Hilberg, The Politics of Memory, Chicago 1996, 66, 105-37. Come per gli studi

scientifici, la qualità dei pochi film sull'Olocausto era comunque decisamente notevole.

Sorprendentemente, Vincitori e vinti (1961) di Stanley Kramer fa esplicito riferimento

alla decisione (1927) dei giudice della Corte Suprema Oliver Wendell Holmes di

consentire la sterilizzazione dei «mentalmente inabili» come precorritrice dei programmi

eugenetici nazisti; cita gli elogi rivolti da Winston Churchill a Hitler fino al 1938; il

riarmo di Hitler reso possibile da industriali americani profittatori e l'opportunistico

proscioglimento, dopo la guerra, degli industriali tedeschi da parte del tribunale militare

americano.

11. Nathan Glazer, American Judaism, Chicago 1957, 114; Stephen J. Whitfield, The

Holocaust and the American jewish Intellectuals in «Judaism», autunno 1979.

12. Per una lucida descrizione di questi due tipi antitetici di sopravvissuto, si veda Primo

Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1963.

13. Nel testo, il termine «élite ebraiche» designa personalità di spicco nel mondo delle

organizzazioni e nella vita culturale della comunità ebraica tradizionale.

14. Shlomo Shafir, Ambiguous Relations. The American jewish Community and Germany

Since 1945, Detroit 1999, 88, 98, 100-1, 111, 113, 114, 177, 192, 215, 231, 251.

15. Ivi, 98, 106n 123-37, 205, 215-16, 249. Robert Warshaw, The «Idealism» of Julius

and Ethel Rosenberg, in «Commentary», novembre 1953. Fu una pura coincidenza che

allo stesso tempo le organizzazioni ebraiche tradizionali misero in croce Hannah Arendt,

colpevole di avere sottolineato il collaborazionismo delle élite ebraiche durante l'era

nazista? Nel ricordare il ruolo odioso delle forze di polizia ebraica, Yitzhak Zuckerman,

un leader della rivolta del ghetto di Varsavia, osservò: «Non c'erano poliziotti «onesti»,

perché gli uomini onesti si toglievano l'uniforme e tornavano a essere semplici ebrei» (A

Surplus of Memory, Oxford 1993, 244).

16. Novick, The Holocaust, 98-100. Oltre alla Guerra Fredda, altri fattori ebbero un ruolo

sussidiario nella decisione della comunità ebraica americana di mettere la sordina, nel

dopoguerra, all'Olocausto nazista: per esempio, la paura dell'antisemitismo e la tendenza,

nell'America degli anni Cinquanta, all'ottimismo e all'assimilazione. Novick prende in

esame questi aspetti nei capitoli 4-7 di The Holocaust.

17. A quanto sembra, il solo a negare questo legame è Elie Wiesel, il quale sostiene che

l'Olocausto affiorò nella vita americana soprattutto per opera sua (Saidel, Never Too Late,

33-34).

18. Menahem Kaufman, An Ambiguous Partnership, Jerusalem 1991, 218, 276-77.

19. Arthur Hertzberg, Jewish Polemics, New York 1992, 33; per quanto ingannevolmente

apologetico, cfr. Isaac Alteras, Eisenhower, American Jewry and Israel in «American

Jewish Archives», novembre 1985, e Michael Reiner, The Reaction of US-Jewish

Organizations to the Sinai Campaign and Its Aftermath, in «Forum», inverno 1980-81.

20. Nathan Glazer, American judaism, Chicago 1957, 114. Glazer prosegue: «Israele non

significa quasi nulla per l'ebraismo americano [...] L'idea che Israele [...] possa

seriamente influenzare l'ebraismo americano [...] è percepita come un'illusione» (115).

21. Shafir, Ambiguous Relations, 222.

22. Si veda, per esempio, Alexander Bloom, Prodigal Sons, New York 1986.

23. Lucy Dawidowicz e Milton Himmelfarb (a cura di), Conference on Jewish Identity

Here and Now, American Jewish Committee 1967.

24. Dopo essere emigrata dalla Germania nel 1933, Hannah Arendt divenne un'attivista

del movimento sionista francese; durante la Seconda guerra mondiale e fino alla

fondazione d'Israele, scrisse diffusamente sul sionismo. Noam Chomsky, figlio di un

ebraista americano di fama, fu allevato in una famiglia sionista e, poco dopo

l'indipendenza d'Israele, trascorse dei tempo in un kibbutz. Entrambe le campagne

denigratorie, contro Arendt all'inizio degli anni Sessanta e contro Chomsky negli anni

Settanta, furono condotte dall'ADL. Si vedano Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt,

New Haven 1982, 105-8, 138-39, 143-44, 182-84, 223-33, 348; Robert E Barsky, Noam

Chomsky, Cambridge 1997, 9-93; David Barsamian (a cura di), Chronicles of Dissent,

Monroe (ME) 1992, 38.

25. Per una precoce anticipazione di questo mio ragionamento, si veda Hannah Arendt,

Zionism Reconsidered (1944-45), in Ron Feldman (a cura di), The Jew as Pariah, New

York 1978,159.

26. Making It, NewYork, 1967,336.

27. Breaking Ranks, New York, 1979,335.

28. Robert I. Friedman, The Anti-Defamation League Is Spying on You, in «Village

Voice», 11 maggio 1993; Abdeen Jara, The Anti-Defamation League: Civil Rights and

Wrongs, in «Covert Action», estate 1993; Matt Isaacs, Spy vs Spite, in «SF Weekly», 2-8

febbraio 2000.

29. Elie Wiesel, Against Silence, raccolta di scritti scelti e curati da Irving Abrahamson,

New York 1984, 1, 283.

30. Novick, The Holocaust, 147; Lucy S. Dawidowicz, The Jewish Presence, New York

1977, 26.

31. La «dottrina del destino manifesto» nacque nei primi decenni dell'Ottocento negli

Stati Uniti per promuovere l'espansione territoriale. John O'Sullivan parlò infatti del

«nostro destino manifesto: diffonderci nel continente assegnato dalla Provvidenza al

libero sviluppo dei nostri milioni di abitanti, che si moltiplicano di anno in anno». (NAT)

32. Eruption in the Middle East, in «Dissent», inverno 1957.

33. Israel: Thinking the Unthinkable, in «New York», 24 dicembre 1973.

34. Norman G. FinkeIstein, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, New York

1995, capitoli 5-6.

35. Noam Chomsky, The Fateful Triangle, Boston 1983, 4.

36. La carriera di Elie Wiesel è illuminante per cogliere il legame tra l'Olocausto e la

guerra dei Sei Giorni: benché avesse già pubblicato le sue memorie su Auschwitz, salì

agli onori della cronaca solamente dopo avere scritto due volumi che celebravano la

vittoria israeliana (Wiesel, And the Sea, 16).

37. Kaufman, Ambiguous Partnership, 287,306-7; Steven L. Spiegel, The OtherArab-

IsraeIi Conflict, Chicago 1985, 17, 32.

38. Benny Morris, 1948 And After, Oxford 1990, 14-15; Uri Bialet, Between East and

West, Cambridge 1990, 180-8 l.

39. Novick, The Holocaust, 148.

40. Si veda, a titolo d'esempio, Amnon Kapeliouk, Israel: la fin des Mythes, Parigi 1975.

41. Novick, The Holocaust, 152.

42. Letter from Israel in «Commentary», febbraio 1975. Per tutta la durata della crisi di

Suez, «Commentary» non smise di ripetere che era in gioco «l'esistenza stessa» d'Israele.

43. Abba Eban, Personal Witness, New York 1992, 272.

44. Peter Grose, Israel in the Mind of America, New York 1983, 304.

45. A.E.K. Organski, The $36 Billion Bargain, New York 1990, 48,163.

46. Finkelstein, Image and Reality, capitolo 6.

47. Novick, The Holocaust, 149-50. L'autore cita in quest'occasione il noto studioso

ebreo Jacob Neusner.

48. Ivi, 153,155.

49. Ivi, 69-77.

50. Tom Segev, The Seventh Million, New York 1993, IV parte.

51. Ugualmente progettato a tavolino fu l'interesse nei confronti dei sopravvissuti

all'Olocausto nazista: prima del 1967 furono zittiti in quanto la loro testimonianza era

ritenuta sconveniente; dopo la guerra, divenuti utili pedine, vennero santificati.

52. «Response», dicembre 1988. I principali mercanti dell'Olocausto e sostenitori

d'Israele come il direttore nazionale dell'ADL, Abraham Foxman, l'ex presidente dell'AJC

Morris Abram e il presidente della Conferenza dei presidenti delle maggiori

organizzazioni ebraiche americane Kenneth Bialkin, per non parlare di Henry Kissinger,

tutti quanti insorsero in difesa di Reagan. In occasione della visita a Bitburg, mentre

l'AJC quella stessa settimana riceveva come ospite d'onore al proprio meeting annuale il

ministro degli Esteri tedesco, un fedelissimo dei cancelliere Helmut Kohl. Con spirito

analogo, Michael Berenbaum del Washington Holocaust Memorial Museum giustificò in

seguito la visita a Bitburg e le dichiarazioni di Reagan attribuendole all'«ottimismo naive

degli americani». Shafir, Ambiguous Relations, 302-4; Berenbaum, After Tragedy, 14.

53. Seymour Martin Lipset ed Earl Raab, Jews and the New American Scene, Cambridge

1995,159.

54. Novick, The Holocaust, 166.

55. Lipset e Raab, Jews, 26-27.

56. Charles Silberman, A Certain People. American jews and Their Lives Today, New

York 1985. 78, 80, 81 (Roth).

57. Novick, The Holocaust, 170-72.

58. Arnold Forster e Benjamin R. Epstein, The New Anti-Semitism, New York 1974, 107.

59. Jean-Paul Sartre, Anti-Semite and Jew, New York 1965, 28.

60. Saidel, Never Too Late, 222. Seth Mnookin, Will NYPD Look to Los Angeles For

Latest «Sensivity» Training?, in «Forward», 7 gennaio 2000. L'articolo riporta che l'ADI,

e il Centro Simon Viesenthal sono in competizione per l'esclusiva sui programmi che

insegnano la «tolleranza».

61. Noam Chomsky, Pirates and Emperors, New York 1986, 29-30 (Rubinstein).

62. Per un'indagine sui recenti dati elettorali che confermano questa tendenza, si veda

Murray Friedman, Are American Jews Moving to the Right?, in «Commentary», aprile

2000. Per esempio, nella sfida elettorale del 1997 per eleggere il sindaco di New York,

che vide contrapposti Ruth Messinger, democratica tradizionale, e Rudolph Giuliani, un

repubblicano sostenitore della linea «legge e ordine», un buon settantacinque per cento

del voto ebraico andò a Giuliani. È significativo che, per votare a favore di Giuliani, gli

ebrei dovettero abbandonare il loro partito tradizionale così come la loro fedeltà etnica

(Messinger è ebrea).

63. Questo cambiamento sembra in parte dovuto all'ascesa al potere di ebrei arrivisti e

sciovinisti dello shtetl provenienti dall'Europa orientale, come il sindaco di New York

Edward Koch e il direttore del «New York Times» A.M. Rosenthal, che presero il posto

della leadership centro-europea e cosmopolita. A questo riguardo, giova notare che gli

storici ebrei che dissentono dalle posizioni dogmatiche sull'Olocausto (per esempio,

Hannah Arendt, Henry Friedlander, Raul Hilberg e Arno Mayer) provengono dall'Europa

centrale.

64. Si veda per esempio Jack Salzman e Cornel West (a cura di), Struggles in the

Promised Land, New York 1997, specialmente i capitoli 6, 8, 9, 14 e 15 (Kaufman 111,

Greenberg 166). In realtà, una forte voce minoritaria all'interno del mondo ebraico

espresse il proprio dissenso da questa svolta a destra.

65. Nathan PerImutter e Ruth Ann PerImutter, The Real AntiSemitism in America, New

York 1982.

66. Novick, The Holocaust, 173 (Podhoretz).

 

CAPITOLO 2

TRUFFATORI, VENDITORI E STORIA

«L'informazione sull'Olocausto» osserva Boas Evron, rispettato scrittore israeliano, è in

realtà «un'operazione d'indottrinamento e di propaganda, un ribollio di slogan e una falsa

visione del mondo il cui vero intendimento non è affatto la comprensione del passato, ma

la manipolazione del presente.» Di per sé, l'Olocausto nazista non è al servizio di un

particolare ordine del giorno politico: può altrettanto facilmente motivare il dissenso o il

sostegno alla politica israeliana. Filtrata dalla lente dell'ideologia, però, «la memoria

dello sterminio nazista» fini col diventare, secondo Evron, «un potente strumento nelle

mani della dirigenza israeliana e degli ebrei della diaspora». (1) L'Olocausto nazista

divenne «l'Olocausto» per antonomasia.

Due assiomi centrali stanno a sostegno dell'impalcatura ideologica dell'Olocausto: il

primo è che esso costituisce un evento storico unico e senza paragoni; il se[66]condo è

che segna l'apice dell'eterno odio irrazionale dei gentili nei confronti degli ebrei. Nessuna

delle due affermazioni appare in interventi pubblici prima della guerra del giugno 1967,

né, per quanto esse siano diventate la pietra angolare della letteratura sull'Olocausto,

figurano negli studi critici sull'Olocausto nazista (2). D'altro canto, i due assiomi

attingono a componenti importanti dell'ebraismo e del sionismo.

Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l'Olocausto nazista non era considerato un

evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L'ebraismo americano, in

particolare, si diede cura d'inserirlo in un contesto di tipo universalista. Ma dopo la guerra

dei Sei Giorni la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. «La prima e più

importante convinzione che emerse dal conflitto del 1967 e che divenne l'emblema

dell'ebraismo americano» fu, come ricorda Jacob Neusner, che «l'Olocausto [...] era

qualcosa di unico, senza paragoni nella storia umana» (3). In un saggio illuminante, lo

storico David Stannard mette in ridicolo la «piccola industria degli agiografi

dell'Olocausto che sostengono l'unicità dell'esperienza ebraica con tutta l'energia e

l'ingenuità di zeloti della teologia». (4) Il dogma della sua unicità, dopo tutto, non ha

senso.

Al livello più elementare, qualunque evento storico è unico, se non altro in virtù del

tempo e del luogo in cui accade, e presenta tanto caratteristiche sue proprie [67] quanto

tratti comuni ad altri eventi storici. L'anomalia dell'Olocausto consiste nel fatto che la sua

unicità è ritenuta assolutamente decisiva. Quale altro evento storico, si potrebbe chiedere,

è definito in larga parte dalla sua categorica unicità? Come è evidente, i tratti distintivi

dell'Olocausto vengono isolati allo scopo di porre l'evento in una categoria

completamente separata. Non si capisce perché, in ogni modo, i molti tratti comuni

debbano essere considerati insignificanti a confronto di questa specificità.

Tutti coloro che hanno scritto dell'Olocausto concordano sul fatto che sia unico, ma ben

pochi concordano sul perché. Ogni volta che un argomento a sostegno della sua unicità

viene confutato, ne viene addotto uno nuovo in sostituzione. Il risultato, secondo Jean-

Michel Chaumont, è una massa di argomenti contraddittori che si elidono a vicenda: «La

conoscenza in proposito non procede per accumulazione. Anzi: per superare quello

precedente, ogni nuovo argomento parte da zero». (5) Detto in altri termini, l'unicità

dell'Olocausto è un assioma: provarla è il compito assegnato, confutarla equivale a negare

l'Olocausto stesso. Forse il problema sta nella premessa e non nella dimostrazione. Anche

se l'Olocausto fosse unico, che differenza farebbe? Come potrebbe cambiare la nostra

comprensione se non fosse il primo, ma il quarto o il quinto di una serie di catastrofi

comparabili?

[68] L'ultimo a fare il proprio ingresso nella lotteria sull'unicità dell'Olocausto è stato

Steven Katz, con la sua opera The Holocaust in Historical Context [L'Olocausto in un

contesto storico], progettata in tre volumi. Nel primo di essi, citando circa cinquemila

titoli, Katz prende in esame l'intero orizzonte della storia umana per dimostrare che

«l'Olocausto è fenomenologicamente unico in virtù del fàtto che mai in precedenza uno

Stato si era proposto, come una questione di principio e di programma politico,

l'annientamento fisico di ogni uomo, donna e bambino appartenente a un determinato

popolo». Per chiarire la propria tesi, Katz spiega: « [La qualità] C è attribuita

esclusivamente a f . Può condividere A, B, D... X con ® ma non C. E ancora, può

condividere A, B, D... X con tutti i ® ma non C. Ogni dato essenziale s'incentra, per così

dire, sul fatto che f è l'unico a essere una qualità di C [...] Mancando di C, p non è f [...]

Per definizione, non sono ammesse eccezioni a questa regola. Condividendo A, B, D... X

con f , ® può essere come f sotto vari aspetti [...] ma per quanto concerne la nostra

definizione di unicità qualunque ® mancante di C non è f [...] Naturalmente, preso nella

sua totalità f è più di C, ma non c'è mai f senza C». Traduzione: un evento storico che

contenga un tratto distintivo è un evento storico distinto. Per evitare ogni confusione,

Katz spiega ulteriormente che utilizza il termine fenomenologicamente «in un senso nonhusserliano,

non-schutzea[69]no, non-scheleriano, non-heideggeriano, non-merleaupontiano». Traduzione: il tentativo di Katz è un nonsenso fenomenico. (6) Anche

se la dimostrazione sostenesse la tesi portante di Katz, e non lo fà, proverebbe soltanto

che l'Olocausto presenta un tratto distintivo. Sarebbe strano se non fosse così. Chaumont

ne deduce che lo studio di Katz è in realtà «ideologia» travestita da «scienza», questione

che verrà approfondita tra breve. (7)

Solo un capello separa l'affermazione di unicità dell'Olocausto da quella che questo

evento non può essere compreso razionalmente. Se l'Olocausto non ha precedenti nella

storia, deve starne al di sopra e quindi non può essere oggetto di una spiegazione storica.

E infatti l'Olocausto è unico in quanto inesplicabile e inesplicabile in quanto unico.

Etichettata da Novick come «sacralizzazione dell'Olocausto», questa mistificazione ha il

suo campione più esperto in Elie Wiesel, per il quale, osserva giustamente Novick,

l'Olocausto è una vera e propria religione «misterica». Perciò Wiesel salmodia che

l'Olocausto «conduce nelle tenebre», «nega tutte le risposte», «sta al di fuori, anzi al di là,

della storia», «resiste tanto alla comprensione quanto alla descrizione», «non può essere

né spiegato né visualizzato», è incomprensibile e intramandabile», segna il punto di

«distruzione della storia» e di una «mutazione su scala cosmica». Solamente il

sopravvissuto-sacerdote (vale a dire solamente Wie[70]sel) è qualificato per divinarne il

mistero. Eppure il mistero dell'Olocausto - Wiesel lo dichiara apertamente - è

«incomunicabile»: «Non possiamo nemmeno parlarne». Così, per il suo normale onorario

di venticinquemila dollari (più limousine con autista), Wiesel ci tiene conferenze sul fatto

che il «segreto» della «verità» di Auschwitz «giace nel silenzio». (8)

Secondo questa prospettiva, comprendere razionalmente l'Olocausto equivale a negarlo,

perché la ragione nega l'unicità e il mistero dell'Olocausto; metterlo poi a confronto con

le sofferenze di altri costituisce, secondo Wiesel, «un completo tradimento della storia

ebraica». (9) Qualche anno fa, nella parodia di un tabloïd newyorkese apparve il titolo

«Michael Jackson e altri sessanta milioni di persone muoiono in un olocausto nucleare»,

che suscitò un'irata protesta di Wiesel sulla pagina delle lettere al direttore: «Come osano

riferirsi a ciò che è accaduto ieri come a un Olocausto? C'è stato un solo Olocausto [...]».

Nel suo nuovo libro di memorie, a riprova del fatto che la vita può anche imitare la

parodia, Wiesel bacchetta Shimon Peres per aver parlato «senza esitazione dei "due

olocausti del ventesimo secolo: Auschwitz e Hiroshima. Non avrebbe dovuto». (10) Uno

dei pistolotti finali favoriti di Wiesel è che «l'universalità dell'Olocausto sta nella sua

unicità». (11) Ma se è incomparabilmente e incomprensibilmente unico, come è possibile

che l'Olocausto abbia una dimensione universale?

[71] Il dibattito sull'unicità dell'Olocausto è sterile e in realtà l'insistenza sulla sua unicità

ha finito col costituire una forma di «terrorismo intellettuale» (Chaumont). Coloro che

mettono in pratica le normali procedure comparative della ricerca scientifica devono

prima chiedere mille e una sospensiva per cautelarsi dall'accusa di «banalizzare

l'Olocausto». (12)

Un corollario del dogma sull'unicità dell'Olocausto è che esso è il male nella sua unicità:

per quanto terribile, la sofferenza di un altro popolo non si può neppure paragonare a

esso. I sostenitori dell'unicità dell'Olocausto si rifiutano ovviamente di ammettere questa

implicita conseguenza, ma si tratta di una posizione in malafede. (13)

Queste dichiarazioni di unicità dell'Olocausto sono sterili dal punto di vista intellettuale e

indegne da quello morale, eppure persistono. Il punto è capire perché. In primo luogo,

una sofferenza unica conferisce diritti unici. Il male unico dell'Olocausto, secondo Jacob

Neusner, non soltanto pone gli ebrei su un piano diverso rispetto agli altri, ma concede

loro anche una «rivendicazione nei confronti di questi altri». Per Edward Alexander,

l'unicità dell'Olocausto è un «capitale morale» e gli ebrei devono «rivendicare la

sovranità» su questo «patrimonio prezioso». (14)

In effetti, l'unicità dell'Olocausto (questa «rivendicazione» nei confronti dì altri, questo

«capitale morale») [72] serve a Israele come alibi. «La singolarità della sofferenza degli

ebrei» sostiene lo storico Peter Baldwin «aumenta le rivendicazioni morali ed emotive

che Israele può avanzare [...] nei confronti di altre nazioni.» (15) Di conseguenza,

secondo Nathan Glazer, l'Olocausto, che ha messo in evidenza il «tratto distintivo

peculiare degli ebrei» ha dato loro «il diritto di considerarsi particolarmente minacciati e

particolarmente meritevoli di ogni sforzo possibile per la loro salvezza» (16) (il corsivo è

nell'originale). Per fare un esempio classico, qualunque articolo o libro dedicato alla

decisione israeliana di mettere a punto armi nucleari evoca lo spettro dell'Olocausto. (17)

Quasi che, se l'Olocausto non fosse avvenuto, Israele non sarebbe diventata una potenza

nucleare.

C'è in gioco un altro fattore. La rivendicazione dell'unicità dell'Olocausto è una

rivendicazione dell'unicità degli ebrei. Non la sofferenza degli ebrei, ma il fatto che gli

ebrei hanno sofferto è quello che ha reso unico l'Olocausto. Oppure: l'Olocausto è

speciale perché gli ebrei sono speciali. Perciò Ismar Schorsch, segretario del Jewish

Theological Seminary, ridicolizza l'affermazìone di unicità dell'Olocausto come «una

versione secolare e di cattivo gusto dell'ideologia del popolo eletto». (18) Veemente

nell'affermare l'unìcìtà dell'Olocausto, Elie Wiesel lo è altrettanto nel rivendicare quella

degli ebrei. «Tutto quello che ci riguarda è diverso.» Gli ebrei sono «ontologicamente»

eccezionali. (19) Segnando l'apice di un odio millenario dei gentili nei confronti degli

ebrei, l'Olocausto ha testimoniato non soltanto l'unicità della sofferenza degli ebrei, ma

l'unicità degli ebrei stessi.

Durante e immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, dice Novick, «quasi

nessuno all'interno dell'amministrazione [americana] - e quasi nessuno al di fuori di essa,

ebreo o non ebreo - avrebbe capito l'espressione "abbandono degli ebrei"». Dopo il

giugno 1967 si verificò un capovolgimento di prospettiva. «Il silenzio del mondo»,

«l'indifferenza del mondo», «l'abbandono degli ebrei»: queste espressioni divennero

l'ingrediente di base del discorso sull'Olocausto. (20)

Facendo proprio un principio sionista, la rappresentazione dell'Olocausto giunse a

considerare la Soluzione Finale di Hider come l'apice dell'odio millenario dei gentili nei

confronti degli ebrei: gli ebrei erano morti perché i gentili, che fossero esecutori materiali

o collaboratori passivi, li volevano morti. «Il mondo libero e "civile"», secondo Wiesel,

consegnò gli ebrei «nelle mani dei loro carnefici. Ci furono gli assassini - i killer - e ci

furono quelli che rimasero in silenzio». (21) È inutile cercare qualche prova storica di tale

impulso omicida dei gentili. Lo sforzo titanico di Daniel Goldhagen di dimostrare una

variante di questa affermazione in Hitler's Willing Executioners [I volonterosi carnefici di

Hitler] sfiora il ridicolo. (22) Comunque, la sua utilità politi[74]ca è considerevole. Si

potrebbe incidentalmente notare che la teoria dell'«antisemitismo eterno» finisce col

sostenere l'antisemitismo. Come dice Hannah Arendt in The Origins of Totalitarism [Le

origini del totalitarismo]: «Non meraviglia che la storiografia antisemita abbia

professionalmente adottato tale teoria; essa fornisce infatti il miglior alibi possibile per

ogni orrore: se è vero che l'umanità non ha mai smesso di ammazzare ebrei, vuol dire che

l'uccisione di ebrei è una normale occupazione umana e l'odio per essi una reazione che

non occorre neppure giustificare. Quel che sorprende e confonde è che questa ipotesi sia

stata accettata da parte di moltissimi storici non prevenuti e di quasi tutti gli storici

ebrei». (23)

Il dogma dell'odio eterno dei gentili è stato utile tanto per giustificare la necessità di uno

Stato ebraico quanto per rendere conto dell'ostilità rivolta contro Israele. Lo Stato ebraico

è l'unico baluardo contro la prossima, e inevitabile, esplosione di antisemitismo omicida;

viceversa, l'antisemitismo omicida sta dietro ogni attacco o anche ogni manovra difensiva

contro lo Stato ebraico. Per rendere conto delle critiche nei confronti d'Israele, la

scrittrice Cynthia Ozick ha la risposta pronta: «Il mondo vuole cancellare gli ebrei [...] il

mondo ha sempre voluto cancellare gli ebrei». (24) Se il mondo vuole vedere morti gli

ebrei, c'è davvero da stupirsi del fatto che essi siano vivi e che, diversamente[75] dalla

maggior parte dell'umanità, non stiano proprio morendo di fame.

Questo dogma ha anche dato carta bianca a Israele: vista la ferrea determinazione dei

gentili nell'uccidere gli ebrei, questi hanno tutti i diritti di proteggersi come meglio

credono. Qualunque espediente a cui possano ricorrere gli ebrei, perfino l'aggressione e la

tortura, costituisce una legittima difesa. Nel deplorare il dogma dell'odio eterno dei

gentili, Boas Evron osserva che «equivale davvero a un'educazione alla paranoia [...]

Questa mentalità [...] giustifica in anticipo qualsiasi trattamento inumano dei non ebrei,

perché la mitologia prevalente è che «tutti collaborarono con i nazisti nella distruzione

degli ebrei, e dunque agli ebrei è permessa qualsiasi cosa nei confronti degli altri

popoli». (25)

Nella rappresentazione dell'Olocausto, l'antisemitismo dei gentili non è solo inestirpabile,

ma anche e sempre irrazionale. Superando di molto le posizioni classiche del sionismo,

per non parlare di quelle del mondo accademico, Goldhagen spiega l'antisemitismo come

«svincolato dagli ebrei in quanto tali», «sostanzialmente non una reazione a una

valutazione oggettiva delle azioni degli ebrei» e «indipendente dalla natura e dal

comportamento degli ebrei». Patologia mentale dei gentili, ha il suo «dominio» nella

«mente». Guidati da «argomenti irrazionali», secondo Wiesel, gli antisemiti «detestano il

[76] semplice fatto che gli ebrei esistono». (26) «Non solo le azioni e le omissioni degli

ebrei non hanno nulla a che fare con l'antisemitismo» osserva criticamente il sociologo

John Murray Cuddihy «ma qualunque tentativo di spiegarlo facendo riferimento al ruolo

degli ebrei è di per sé un'affermazione di antisemitismo!» (il corsivo è

nell'originale) (27). II punto centrale, naturalmente, non è che l'antisemitismo sia

giustificabile, né che gli ebrei siano responsabili dei crimini commessi contro di loro, ma

che l'antisemitismo si sviluppa in un contesto storico preciso, con il suo intreccio di

interessi connessi. «Una minoranza dotata, ben organizzata e di successo può ispirare

conflitti che derivano da oggettive tensioni tra gruppi» sottolinea Ismar Schorsch, per

quanto tali conflitti siano «spesso confezionati in stereotipi antisemiti.» (28)

L'essenza irrazionale dell'antisemitismo dei gentili viene inferita dall'essenza irrazionale

dell'Olocausto. Vale a dire che la Soluzione Finale di Hitler rivelava un' assenza del tutto

unica di razionalità: era «male per il gusto del male», omicidio di massa «privo di

scopo»; la Soluzione Finale segnò il culmine dell'antisemitismo dei gentili, dunque

l'antisemitismo dei gentili è sostanzialmente irrazionale. Prese separatamente o insieme,

queste affermazioni non reggono neanche a un esame superficiale. Ma da un punto di

vista politico, si tratta di un'argomentazione molto utile. (29)

Nel concedere una totale innocenza agli ebrei, il [77] dogma dell'Olocausto conferisce a

Israele e alla comunità ebraica americana l'immunità da ogni legittima censura. L'ostilità

degli arabi e quella degli afroamericani? «In sostanza non sono una reazione a una

valutazione oggettiva delle azioni degli ebrei». (Goldhagen) (30) Si consideri Wiesel

sulle persecuzioni degli ebrei: «Per duemila anni [...] siamo sempre stati minacciati [...]

Perché? Non c'è una ragione». Sull'ostilità degli arabi nei confronti d'Israele: «A causa di

ciò che siamo, di quello che la nostra patria, Israele, rappresenta (il centro della nostra

vita, il sogno dei nostri sogni), quando i nostri nemici cercano di distruggerci, lo fanno

cercando di distruggere Israele». Sull'ostilitá dei neri nei confronti degli ebrei americani:

«Il popolo che ha tratto ispirazione da noi non ci ringrazia ma ci si rivolta contro. Ci

troviamo in una situazione molto pericolosa. Ancora una volta siamo il capro espiatorio

per tutti [...] Abbiamo aiutato i neri, li abbiamo sempre aiutati. Provo dispiacere per loro.

C'è una cosa che dovrebbero imparare da noi ed è la gratitudine. Nessun popolo al mondo

conosce la gratitudine meglio di noi; noi siamo eternamente grati». (31) Sempre puniti,

sempre innocenti: è il fardello dell'essere ebreo. (32)

Il dogma dell'odio eterno dei gentili convalida inoltre il dogma complementare

dell'unicità. Se l'Olocausto ha segnato l'apice dell'odio millenario dei gentili nei confronti

degli ebrei, la persecuzione di non ebrei [78] nel corso dell'Olocausto fu puramente

accidentale, così come furono soltanto episodiche le persecuzioni di non ebrei nel corso

della storia. Quindi, da qualunque punto la si osservi, la sofferenza degli ebrei

nell'Olocausto fu unica.

In ultima analisi, la loro sofferenza fu unica perché loro stessi sono unici. L'Olocausto fu

unico in quanto non razionale e il suo impeto fu la più irrazionale, anche se umanissima,

delle passioni. I gentili odiavano gli ebrei per una questione d'invidia, di gelosia:

ressentiment. Secondo Nathan e Ruth Ann Perlmutter, l'antisemitismo nacque dalla

«gelosia e [dal] risentimento dei gentili dovuti al fatto che negli affari gli ebrei erano

migliori dei cristiani [...] Un piccolo numero di ebrei di successo irritava un gran numero

di gentili di scarso successo». (33) Per quanto in negativo, l'Olocausto conferma quindi

che gli ebrei erano gli eletti: dal momento che sono migliori, o hanno più successo, vanno

incontro all'ira dei gentili, che per questo li hanno uccisi.

In una breve digressione, Novick si interroga su «come sarebbe stato il discorso

sull'Olocausto in America» se Elie Wiesel non ne fosse stato il suo «interprete

principale». (34) La risposta è abbastanza semplice: prima del giugno 1967, tra gli ebrei

americani risuonava il messaggio universalista del sopravvissuto ai campi di sterminio

Bruno Bettelheim. Dopo la guerra dei Sei Giorni, Bettelheim fu messo da parte a favore

di Wiesel, la [79] cui posizione di primo piano deriva dalla sua utilità ideologica. Unicità

della sofferenza degli ebrei/unicità degli ebrei; eterna colpevolezza dei gentili/eterna

innocenza degli ebrei; difesa incondizionata d'Israele/difesa incondizionata degli interessi

degli ebrei: Elie Wiesel è l'Olocausto.

Nel declinare i dogmi chiave dell'Olocausto, gran parte della letteratura sulla Soluzione

Finale di Hitler perde ogni valore scientifico; non per niente, quel campo di studi è zeppo

di assurdità, se non di vere e proprie frodi. Il milieu culturale che alimenta questa

letteratura è particolarmente illuminante.

La prima grande truffa sull'Olocausto fu The Painted Bird [L'uccello dipinto],

dell'emigrato polacco Jerzy Kosinski. (35) L'autore spiega che il libro fu «scritto in

inglese» in modo che «io potessi esprimermi spassionatamente, libero dalla connotazione

emotiva che è insita nella lingua d'origine». In realtà, tutte le parti davvero di suo pugno

(quali fossero precisamente è questione irrisolta) vennero stese in polacco. Il libro venne

spacciato come il racconto autobiografico delle solitarie peregrinazioni di Kosinski

bambino attraverso la campagna polacca durante la Seconda guerra mondiale, ma in

realtà per tutto il conflitto lui visse con i genitori. Il leitmotiv del volume sono le sadiche

torture sessuali inflitte dai contadini polacchi. Chi lesse il testo prima [80] della

pubblicazione lo derise come «pornografia della violenza» e «il prodotto di una mente

con ossessioni per la violenza sadomasochistica». In effetti, Kosinski s'inventò quasi tutti

gli episodi di violenza patologica che narra e il libro dipinge i contadini polacchi con i

quali viveva come violentemente antisemiti. «Dagli al giudeo» scherzano beffardi

«dagliele a quei bastardi.» In realtà, i contadini polacchi diedero ospitalità alla famiglia

Kosinski, pur essendo perfettamente consapevoli del fatto che i Kosinski erano ebrei e

delle terribili conseguenze che avrebbero dovuto affrontare se fossero stati scoperti.

Sulla «New York Times Book Review», Elie Wiesel salutò The Painted Bird come «uno

dei migliori» atti d'accusa dell'era nazista, «scritto con sincerità e sensibilità profonde».

Più tardi Cynthia Ozick disse di avere «immediatamente» riconosciuto l'autenticità di

Kosinski come «ebreo sopravvissuto e testimone dell'Olocausto». Quando già da tempo

Kosinski era stato smascherato come abile truffatore letterario, Wiesel continuò a tessere

elogi della sua «opera meritevole». (36)

The Painted Bird divenne un testo di riferimento per l'Olocausto: vendette moltissimo,

vinse premi, venne tradotto in molte lingue e fu adottato come libro di lettura nelle scuole

superiori e nei college. Nel compiere i suoi giri di conferenze sull'Olocausto, Kosinski si

autodefinì un «Elie Wiesel a tariffe scontate». (Quelli che [81] non potevano permettersi

l'onorario di una conferenza di Wiesel - il «silenzio» non è a buon mercato - si

rivolgevano a lui.) Pur smascherato alla fine dall'inchiesta di un settimanale, fu ancora

fermamente difeso dal «New York Times», che sostenne che Kosinski era vittima di un

complotto comunista. (37)

Un libro-truffa più recente, Fragments [Frantumi: un infanzia 1939-1948], di Binjamin

Wilkomirski , (38) adotta indiscriminatamente il kitsch di The Painted Bird. Come

Kosinski, Wilkomirski ritrae se stesso nei panni di un bambino solo, sopravvissuto

all'Olocausto, che diventa muto, finisce in un orfanotrofio e solo alla fine scopre di essere

ebreo. Come in The Painted Bird, l'idea-guida narrativa è la voce sommessa di un

bambino, a cui si consente anche di lasciare nel vago i riferimenti temporali e i nomi di

luogo. Come in The Painted Bird, ogni capitolo di Fragments culmina in un'orgia di

violenza. Kosinski spiegava The Painted Bird come «il lento scongelamento della

mente», Wilkomirski definisce Fragments come «memoria ritrovata». (39)

Per quanto sia una mistificazione in piena regola, Fragments rappresenta l'archetipo dei

libri di memorie sull'Olocausto, in primo luogo perché è ambientato nei campi di

concentramento, dove ogni guardia è un mostro di follia e sadismo che gode nel

fracassare il cranio ai neonati ebrei. Eppure, la tradizione memorialistica dei campi di

concentramento concorda con le afferma[82]zioni della dottoressa Ella Lingens-Reiner,

reduce di Auschwitz: «Di sadici ce n'erano pochi: non più del cinque o dieci per

cento». (40) Tuttavia, l'onnipresente sadismo dei tedeschi appare soprattutto nella

letteratura dell'Olocausto rendendo un duplice servizio: «documenta» l'irrazionalità unica

dell'Olocausto come pure l'antisemitismo fanatico di coloro che lo perpetrarono.

La particolarità di Fragments sta nella sua descrizione della vita non durante ma dopo

l'Olocausto. Adottato da una famiglia svizzera, il piccolo Binjamin deve patire nuovi

supplizi, perché è intrappolato in un mondo di persone che negano l'Olocausto.

«Dimenticalo: è un brutto sogno» strilla la madre. «È stato solo un brutto sogno [...] non

devi pensarci più.» «In questo Paese» si arrabbia «tutti non fanno che dirmi che devo

dimenticare, che non è mai successo, che l'ho soltanto sognato. Ma loro sanno tutto!»

Anche a scuola «i ragazzi mi indicano, mi mostrano i pugni e gridano: "È matto, quello

che dice non esiste. Bugiardo! È un pazzo furioso, un demente"». (Detto tra noi: avevano

ragione.) Nel prenderlo a pugni, nel canzonarlo urlandogli filastrocche antisemite, tutti i

piccoli gentili si schierano contro il povero Binjamin, mentre gli adulti lo rimproverano

aspramente: «Stai dicendo bugie!»

Trascinato alla disperazione più nera, Binjamin ha un'epifania dell'Olocausto . «II campo

è ancora là, solo [83] che è nascosto e ben mimetizzato. Hanno gettato le uniformi e si

sono messi vestiti eleganti in modo da non essere riconosciuti [...] Ma fate anche solo

intuire loro che forse, chissà, siete ebrei e vedrete: è la stessa gente, ne sono sicuro.

Possono ancora uccidere, anche senza uniforme.» Più che un omaggio al dogma

dell'Olocausto, Fragments è la prova inconfutabile che perfino in Svizzera, nella Svizzera

neutrale, tutti i gentili vogliono uccidere gli ebrei.

Fragments fu da molti salutato come un classico della letteratura dell'Olocausto: fu

tradotto in una dozzina di lingue e vinse il Jewish National Book Award, il premio di

«Jewish Quarterly» e il Prix de la Mémoire de la Shoah. Star dei documentari televisivi,

presenza dominante a conferenze e seminari sull'Olocausto, personaggio pubblico

impegnato nella raccolta di fondi per lo United States Holocaust Memorial Museum,

Wilkomirski divenne in breve tempo un uomo-immagine dell'Olocausto.

Daniel Goldhagen, nell'acclamare Fragments come un «piccolo capolavoro», fu il

principale sostenitore di Wilkomirski in ambito accademico. Comunque, storici di fama

come Raul Hilberg ci misero poco a giudicare il libro un imbroglio. Fu Hilberg a porre le

domande giuste dopo la scoperta della truffa: «Come è possibile che questo volume abbia

circolato come libro di memorie in molte case editrici? Come può essere [84] valso al

signor Wilkomirski inviti presso lo United States Holocaust Museum e presso università

di fama? Come è possibile che non abbiamo un controllo della qualità degno di questo

nome quando bisogna decidere della pubblicazione di testi sull'Olocausto?». (41)

Metà matto e metà saltimbanco, Wilkomirski, si scoprì, aveva trascorso in Svizzera tutto

il periodo della guerra e non era nemmeno ebreo. Ma restano interessanti le parole

pronunciate post factum da parte dell'industria dell'Olocausto: (42)

Arthur Samuelson (editore): «Fragments è un libro davvero riuscito [...] ed è un

imbroglio solo se lo considerate non-fiction. In una collana di fiction lo

ripubblicherei. E se quello che scrive non è vero, significa che è un bravo

scrittore!»

Ma c'è di più. Israel Gutman è un dirigente dello Yad Vashem e tiene conferenze

sull'Olocausto alla Hebrew University. È anche stato internato ad Auschwitz. Secondo

lui, che Fragments sia un imbroglio «non è così importante». «Wilkomirski ha scritto una

storia che ha sentito nel profondo, questo è certo [...] Non è un impostore, è uno che ha

vissuto questa storia fin dentro l'anima. Il dolore è autentico.» Quindi non importa se

abbia passato la guerra in un campo di concentramento o in uno chalet svizzero:

Wilkomirski non è un [85] impostore se il suo dolore «è autentico». Così parla un

sopravvissuto ad Auschwitz diventato un esperto di Olocausto. Gli altri meritano

disprezzo, Gutman solamente pietà.

«The New Yorker» titolò il suo servizio sulla truffa di Wilkomirski Stealing the

Holocaust [Rubare l'Olocausto]. Ieri Wilkomirski veniva acclamato per le sue storie sulla

malvagità dei gentili, oggi viene messo in croce come un gentile malvagio. In ogni caso,

è sempre colpa dei gentili. È certamente vero che Wilkomirski ha costruito il suo passato

di persecuzioni, ma è ancora più vero che l'industria dell'Olocausto, edificata su un

appropriazione indebita della storia a fini ideologici, era pronta per celebrare la

falsificazione di Wilkomirski, un «sopravvissuto» all'Olocausto in attesa di essere

scoperto.

Nell'ottobre 1999, l'editore tedesco di Wilkomirski, ritirando Fragments dalle librerie,

ammise pubblicamente che l'autore non era un orfano ebreo ma uno svizzero di nome

Bruno Doessecker. Informato del fatto che la montatura era stata scoperta, Wilkomirski

tuonò con insolenza: «Binjamin Wilkomirski sono io!». Non più di un mese dopo,

Schocken, l'editore americano, mise Fragments fuori catalogo. (43)

Si consideri ora la letteratura secondaria sull'Olocausto. Un segno rivelatore di questo

genere di pubblicistica è lo spazio accordato al «complotto arabo». Benché, co[86]me

afferma Novick, il Mufti di Gerusalemme non ebbe «alcuna parte significativa

nell'Olocausto», l'Encyclopedia of tbe Holocaust [L'enciclopedia dell'Olocausto],

un'opera in quattro volumi curata da Israel Gutman, gli assegna un «ruolo di primo

piano». Il Mufti ha il suo nome in bella evidenza anche allo Yad Vashem, dove «il

visitatore è portato a concludere» scrive Tom Segev, «che i piani nazisti di sterminio

degli ebrei e l'odio arabo nei confronti d'Israele hanno molto in comune». Commentando

una commemorazione di Auschwitz officiata da rappresentanti del clero di tutte le

religioni, Wiesel. sollevò obiezioni solamente alla presenza di un qadi musulmano:

«Vogliamo dimenticarci [...] del Mufti Hajj Amin el-Husseini di Gerusalemme, l'amico di

Heinrich Himmler?» Tra l'altro, se il Mufti è stato una figura così centrale nella

Soluzione Finale, c'è da chiedersi perché Israele non l'abbia trascinato in tribunale, come

fece con Eichmann: dopo la guerra, il Mufti visse a un passo da Israele, in Libano, e

senza nascondersi. (44)

Fu soprattutto alla vigilia della sfortunata invasione del Libano del 1982, e quando i

proclami della propaganda ufficiale israeliana finirono sotto il pesante attacco dei «nuovi

storici» israeliani, che i difensori cercarono disperatamente di fare un solo fascio di arabi

e nazisti. Il famoso storico Bernard Lewis riuscì a dedicare al nazismo arabo un intero

capitolo della sua breve storia dell'antisemitismo e ben tre pagine della sua «breve [87]

storia degli ultimi duemila anni» del Medio Oriente. All'estremo opposto, quello

progressista, Michael Berenbaum, del Washington Holocaust Memorial Museum,

concesse generosamente che «le pietre lanciate dai giovani palestinesi infuriati dalla

presenza israeliana [...] non stanno sullo stesso piano dell'attacco nazista contro civili

ebrei inermi». (45)

La bizzarria più recente sull'Olocausto è il libro di Daniel Jonah Goldhagen, Hitler's

Willing Executioners. Tutti i più importanti giornali d'opinione pubblicarono una o più

recensioni del volume nelle settimane in cui uscì in libreria. Il «New York Times» gli

concesse ampio spazio e lo acclamò come «uno di quei rari nuovi libri che meritano

l'appellativo di pietra miliare» (Richard Bernstein). Forte del mezzo milione di copie

vendute e delle traduzioni in tredici lingue, HitIer's Wiling Executioners venne salutato

da «Time» come il libro «di cui si parla di più» e il secondo miglior saggio

dell'anno. (46)

Sottolineando il «notevole lavoro di ricerca» e la «profusione di prove [...] sostenuta da

una mole impressionante di documenti e fatti», Elie Wiesel celebrò Hitler's Willing

Executioners come un «contributo determinante per la comprensione e l'insegnamento

dell'Olocausto». Israel Gutman lo elogio per «aver sollevato con chiarezza nuovi

fondamentali problemi» che «la maggior parte degli studi sull'Olocausto» aveva ignorato.

Chiamato a coprire la cattedra di storia dell'Olocausto alla Harvard University (47),

elevato allo stesso rango di Wiesel dai media americani, in breve tempo Goldhagen

divenne omnipresente nel sistema propagandistico dell'Olocausto.

La tesi centrale del libro è il dogma dell'Olocausto nella versione più diffusa: trascinato

da un odio patologico, il popolo tedesco approfittò dell'opportunità offerta da Hitler per

uccidere gli ebrei. Anche Yehuda Bauer, scrittore di punta dell'Olocausto, dirigente dello

Yad Vashem e con un incarico alla Hebrew University, ha abbracciato questo dogma.

Molti anni fa, riflettendo sull'atteggiamento mentale dei tedeschi, scrisse: «Gli ebrei

furono uccisi da persone che per la maggior parte non provavano odio verso di loro [...] I

tedeschi non avevano bisogno di odiare gli ebrei per ammazzarli». Eppure, in una recente

recensione al libro di Goldhagen, Bauer ha sostenuto l'esatto contrario: «Dalla fine degli

anni Trenta in poi, la scena fu dominata dalle forme più radicali di tendenze omicide [...]

A partire dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, la stragrande maggioranza dei

tedeschi si era identificata con il regime e con la sua politica antisemita a un punto tale

che reclutare gli assassini era facile». A chi gli fece notare questa discrepanza, Bauer

rispose: «Non vedo alcuna contraddizione tra queste due affermazioni». (48)

Nonostante sfoggi l'apparato di un saggio accademico, Hitler's Willing Executioners

si riduce a poco più di un campionario di violenza sadica. Non c'è dunque da stupirsi che

Goldhagen abbia difeso Wilkomirski a spada tratta: Hitler's Willing Executioners non è

che Fragments con l'aggiunta delle note a piè di pagina. Zeppo di grossolani errori di

interpretazione delle fonti e di contraddizioni interne, Hitler's Willing Executioners è

privo di valore scientifico. In A Nation on Trial [Una nazione sotto processo], Ruth

Bettina Birn e chi scrive hanno documentato la pochezza dell'opera di Goldhagen. La

successiva controversia ha gettato utilmente luce sul funzionamento dell'industria

dell'Olocausto.

Birn, la maggiore autorità riconosciuta a livello mondiale sugli archivi consultati da

Goldhagen, dapprima pubblicò i suoi rilievi critici sull'«Historical journal» di Cambridge.

Rifiutando l'invito della rivista a confutare le tesi della studiosa, Goldhagen si rivolse

invece a un potentissimo studio legale di Londra perchè citasse «per le molte gravi

calunnie» Birn e la Cambridge University Press. Nell'avanzare una formale richiesta di

scuse, di una ritrattazione e della promessa da parte di Bim che non avrebbe ripetuto le

sue critiche, gli avvocati di Goldhagen minacciarono inoltre che «qualunque forma di

pubblicità che lei darà a questa lettera comporterà un ulteriore aggravio dei danni».

Quando le analoghe critiche del sottoscritto furono pubblicate sulla «New Left: Review»,

Metropolitan, una casa editrice del gruppo Henry Holt, acconsentì a pubblicare i due

saggi riuniti in un volume. In un articolo di prima pagina, il «Forward» avvertiva che

Metropolitan si stava «preparando a pubblicare un libro di Norman Finkelstein, noto

oppositore ideologico dello Stato d'Israele». Il «Forward» riveste il ruolo di guardiano

principale della «correttezza (politica) sull'Olocausto» negli Stati Uniti.

Sostenendo che «gli evidenti pregiudizi e le dichiarazioni temerarie di Finkelstein [...]

sono infettati dalla sua posizione antisionista», Abraham Foxman, capo dell'ADL, invitò

Holt a sospendere la pubblicazione del libro: «La questione [...] non è se la tesi di

Goldhagen sia giusta o sbagliata, ma che cosa sia "critica legittimá" e che cosa sia

inaccettabile». «La questione» fu la risposta di Sara Bershtel, condirettore editoriale di

Metropolitan, «è precisamente se la tesi di Goldhagen sia giusta o sbagliata.»

Leon Wieseltier, responsabile della sezione letteraria del filoisraeliano «New Republic»,

intervenne personalmente presso il presidente del gruppo Holt, Michael Naumann. «Lei

non conosce Finkelstein: è veleno, è uno di quei disgustosi ebrei odiatori di se stessi, un

verme.» Nel definire «una disgrazia» la decisione della Holt, Elan Steinberg, segretario

del Congresso Mondiale Ebraico, commentò: «Se hanno voglia di rovistare nella

spazzatura, che almeno indossino tute protettive».

In seguito Naumann ricordò: «Non avevo mai visto un simile tentativo, da parte di

una fazione interessata, di gettare pubblicamente un'ombra su un libro in fase di

pubblicazione». Tom Segev, noto storico e giornalista israeliano, osservò su «Haaretz»

che quella campagna sfiorava il «terrorismo culturale».

In qualità di storico responsabile della Sezione crimini di guerra e crimini contro

l'umanità del Canadian Department of justice, Birn venne subito attaccata dalle

organizzazioni ebraiche canadesi. Sostenendo che io ero «detestato dalla stragrande

maggioranza degli ebrei di questo continente», il Canadian Jewish Congress denunciò la

collaborazione di Birn al libro. Tentando di utilizzare il datore di lavoro di Birn per

esercitare pressione su di lei, il CJC presentò una protesta al Dipartimento di Giustizia.

Questa azione, accompagnata da un rapporto ispirato dal CJC che definiva Birn «un

membro della razza che ha perpetrato l'Olocausto» (è nata in Germania), le valse

un'indagine ufficiale.

Persino dopo la pubblicazione del libro, gli attacchi personali non cessarono. Goldhagen

sostenne che Birn, che ha fatto della caccia ai criminali di guerra nazisti la ragione della

sua vita, era una sostenitrice dell'antisemitismo e che io ero dell'opinione che le vittime

del nazismo, compresa tutta la mia famiglia, meritavano di morire. (49) Stanley

Hoffmann e Charles Maier, colleghi di Goldhagen all'Harvard Center for Euro[92]pean

Studies, presero pubblicamente posizione schierandosi al suo fianco. (50)

Definendo una «fandonia» le accuse di censura, «New Republic» replicò che «tra

censurare e mantenere standard di decenza storiografica c'è differenza». A Nation on

Trial ha ricevuto apprezzamenti da storici di chiara fama dell'Olocausto nazista, tra i

quali Raul Hilberg, Christopher Browning e Ian Kershaw. Questi stessi studiosi non

hanno apprezzato il libro di Goldhagen (Hilberg l'ha definito «di nessun valore»). Questo

per rispondere a «New Republic» e ai suoi standard.

Si consideri infine questo schema: Wiesel e Gutman hanno sostenuto Goldhagen; Wiesel

ha sostenuto Kosinski; Gutman e Goldhagen hanno sostenuto Wilkomirski. Mettete

insieme i giocatori: questa è la letteratura dell'Olocausto.

Nonostante tutto il sensazionalismo, non c'è prova che coloro che negano l'esistenza

dell'Olocausto esercitino negli Stati Uniti più influenza di chi sostiene che la Terra è

piatta. Se si considera il profluvio di sciocchezze prodotto quotidianamente

dall'industria dell'Olocausto, c'è da stupirsi che gli scettici siano così pochi. Il motivo

che sta dietro alla denuncia del presunto diffondersi del negazionismo dell'Olocausto è

facilmente comprensibile: in una società saturata dall'Olocausto, come meglio giustificare

l'ennesimo museo, libro, film e programma se non agitando lo spauracchio della

negazione? Per questo motivo l'acclamato libro di Deborah Lipstadt, Denying the

Holocaust [Negare l'Olocausto], (51) insieme ai risultati di un'indagine mal formulata

dell'AJC che sosteneva il diffondersi della negazione, (52) furono pubblicati proprio

mentre il Washington Holocaust Memorial Muscum apriva i battenti.

Denying the Holocaust riesce se non altro ad aggiornarci su quali siano i libelli del

«nuovo antisemitismo». Per documentare la diffusione del negazionismo, Lipstadt cita

infatti un piccolo numero di pubblicazioni strambe. Il suo pezzo forte è Arthur Butz, un

emerito sconosciuto che insegna ingegneria elettrica alla Northwestern University e che

ha pubblicato il suo lìbro, The Hoax of the Twentieth Century [La truffa del ventesimo

secolo], presso un'oscura casa editrice. Lipstadt intitola il capitolo che lo riguarda

«Dentro la tradizione». Non fosse per studiosi come Lipstadt, non avremmo mai sentito

parlare di Arthur Butz.

In verità, l'unico, vero negatore tradizionale dell'Olocausto è Bernard Lewis. Un tribunale

francese lo ha persino riconosciuto colpevole di avere negato il genocidio. Solo che

Lewis ha negato il genocidio degli armeni perpetrato dai turchi durante la Prima guerra

mondiale, non quello degli ebrei; inoltre Lewis è filoisraeliano. (53) Di conseguenza,

questa negazione di un olocausto non ha indignato nessuno negli Stati Uniti. A

peggiorare le cose, la Turchia è un alleato d'Israele; di conseguenza, fare menzione

di un genocidio degli armeni è tabù. Elie Wiesel e il rabbino Arthur Hertzberg, come pure

l'AJC e lo Yad Vashem, si ritirarono da un convegno internazionale sul genocidio a Tel

Aviv perché i suoi organizzatori, resistendo alle insistenze del governo israeliano,

avevano incluso alcune sessioni dedicate al caso armeno. Wiesel tentò anche,

unilateralmente, di fare fallire la conferenza e, secondo Yehuda Bauer, fece

personalmente pressione su altri perché non partecipassero. (54) Agendo su ordine

d'Israele, lo US Holocaust Council eliminò in pratica ogni riferimento agli armeni nel

Washington Holocaust Memorial Museum e i lobbisti ebrei del Congresso impedirono

l'istituzione dì una giornata di ricordo del genocidio armeno. (55)

Mettere in discussione la testimonianza di un sopravvissuto, denunciare il ruolo degli

ebrei collaborazionisti, far presente che i tedeschi soffrirono sotto il bombardamento di

Dresda o che nel corso della Seconda guerra mondiale altri Stati oltre la Germania

commisero crimini: tutto ciò, secondo Lipstadt, equivale a negare l'Olocausto. (56) Allo

stesso modo, asserire che Wiesel ha tratto profitto dall'industria dell'Olocausto, o anche

soltanto mettere in discussione le sue parole, equivale a negare l'Olocausto. (57)

Le forme più «insidiose» di negazione dell'Olocausto, suggerisce Lipstadt, sono i

«paragoni immorali», [95] vale a dire le negazioni dell'unicità dell'Olocausto. (58) Questo

argomento ha conseguenze interessanti. Daniel Goldhagen sostiene che le azioni serbe in

Kosovo «sono, nella loro sostanza, diverse solamente nelle proporzioni da quelle dei

nazisti». (59) La qual cosa farebbe «in sostanza» di Goldhagen un negatore

dell'Olocausto. In verità, i commentatori israeliani indipendentemente dall'appartenenza

politica paragonarono le azioni della Serbia in Kosovo a quelle degli israeliani contro i

palestinesi nel 1948. (60)

Dunque, secondo il ragionamento di Goldhagen, Israele perpetrò un olocausto. Nemmeno

i palestinesi lo sostenevano più.

Non tutta la letteratura revisionista, per quanto volgari possano essere la politica o le

motivazioni di chi la pratica, è inutile. Lipstadt bolla David Irving come «uno dei più

pericolosi portavoce della negazione dell'Olocausto» (Irving ha perso qualche tempo fa a

Londra una causa per diffamazione innescata da questa e altre affermazioni). Ma Irving,

notorio ammiratore di Hìtler e simpatizzante del nazionalsocialismo tedesco, ha

nondimeno - sottolinea Gordon Craig - dato un contributo «fondamentale» alla nostra

conoscenza della Seconda guerra mondiale. Arno Mayer, nel suo importante studio

sull'Olocausto nazista, e Raul Hilberg fanno riferimento a pubblicazioni che negano

l'Olocausto. «Se queste persone vogliono dire qualcosa, lasciatele fare» dice Hilberg.

«Fanno in modo che quelli di noi che [96] fanno ricerca riprendano in esame ciò che

avrebbero potuto considerare ovvio. E per noi è utile.» (61)

I giorni della Memoria dell'Olocausto sono un evento nazionale: tutti e cinquanta gli Stati

americani organizzano commemorazioni, che spesso si tengono nelle aule dei parlamenti.

L'Association of Holocaust Organizations conta oltre cento istituzioni legate

all'Olocausto negli Stati Uniti, sul cui territorio esistono sette grandi musei

dell'Olocausto. Il nucleo centrale è lo United States Holocaust Memorial Museum di

Washington.

La prima domanda è perché dobbiamo avere nella capitale un museo dell'Olocausto

finanziato e diretto dall'autorità federale. La sua presenza sul Washington Mall risulta

particolarmente incoerente, vista l'assenza di un museo che commemori i crimini

perpetrati durante la storia americana. Immaginate quali lamenti e accuse d'ipocrisia si

leverebbero in America se in Germania decidessero di costruire un museo nazionale a

Berlino per commemorare non l'Olocausto nazista, ma lo schiavismo americano oppure il

genocidio dei nativi americani. (62)

Il museo «cerca meticolosamente di astenersi da ogni tentativo di indottrinamento» ha

scritto il suo ideatore «e da ogni manipolazione delle emozioni e dei sentimenti». Eppure,

dal progetto fino alla sua realizzazione, la storia del museo è una storia politica. (63)

Con una campagna per la rielezione all'orizzonte, Jimmy Carter diede il via al progetto

per placare finanziatori e sostenitori ebrei, irritati dal riconoscimento da parte del

presidente dei «legittimi diritti» dei palestinesi. Il presidente della Conferenza dei

presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane, il rabbino Alexander

SchindIer, deplorò il riconoscimento da parte di Carter dei diritti umani dei palestinesi

come un'iniziativa «scandalosa». Carter annunciò il progetto del museo mentre il Primo

ministro Menachem Begin si trovava in visita a Washington e il Congresso era nel pieno

di una dura battaglia circa la proposta da parte del governo di vendere armi all'Arabia

Saudita. Ma una visita al museo evidenzia altre questioni politiche: l'allestimento mette la

sordina all'origine cristiana dell'antisemitismo europeo in modo da non offendere una

consistente forza elettorale, minimizza la discriminazione delle quote d'immigrazione

americane prima della guerra, esagera il ruolo statunitense nella liberazione dei campi di

concentramento e passa sotto silenzio il massiccio reclutamento, da parte degli americani,

di criminali di guerra nazisti alla fine del conflitto. Il messaggio dominante, nel museo, è

che «noi» non potremmo neppure concepire, tanto meno commettere, simili malvagità.

L'Olocausto «è in aperta contraddizione con lo spirito americano» osserva Michael

Beren[98]baum nella guida al museo. «Nella [sua] perpetrazione vediamo la violazione di

ogni valore fondamentale per l'America.» Alla fine, con le scene degli ebrei sopravvissuti

che cercano di entrare in Palestina, il museo dell'Olocausto esprime la tesi sionista,

secondo cui Israele fu la «risposta appropriata al nazismo». (64)

La politicizzazione ha inizio ben prima che si varchi la soglia del museo. La sua sede è in

Raoul Wallenberg Place. Wallenberg era un diplomatico svedese, onorato perché salvò

migliaia di ebrei e finì i suoi giorni in una prigione sovietica. Un altro svedese, il conte

Folke Bernadotte, non ha ricevuto gli stessi onori perché, pur avendo anche lui salvato

migliaia di ebrei, venne ucciso per ordine dell'ex Primo ministro israeliano Yitzak Shamir

in quanto troppo «filoarabo». (65)

Il punto cruciale della politica del museo dell'Olocausto, comunque, riguarda l'oggetto di

quest'opera di memorializzazione. Gli ebrei furono le sole vittime dell'Olocausto oppure

contano anche gli altri che perirono a causa delle persecuzioni naziste? (66) Durante le

fasi di progettazione del museo, Elie Wiesel (insieme a Yehuda Bauer dello Yad

Vashem) condusse l'offensiva a favore della commemorazione dei soli ebrei. Presentato

come l'«esperto incontestabile dell'epoca dell'Olocausto», Wiesel sostenne tenacemente la

tesi secondo cui gli ebrei furono le vittime preminenti. «Come sempre, hanno cominciato

con gli ebrei» intonò «e come [99] sempre, non si sono fermati agli ebrei.» (67) Eppure,

non gli ebrei ma i comunisti furono le prime vittime politiche e non gli ebrei ma gli

handicappati furono oggetto del primo genocidio da parte dei nazisti. (68)

Giustificare la preminenza data al genocidio degli ebrei rispetto a quello degli zingari é

stata l'impresa più difficile per l'Holocaust Museum. I nazisti uccisero sistematicamente

non meno di mezzo milione di zingari, una cifra, in proporzione, pari a quella del

genocidio degli ebrei. (69) Gli scrittori dell'industria dell'Olocausto come Yehuda Bauer

ritengono che gli zingari non furono vittime della stessa violenza genocida, ma rispettati

storici della Shoah come Henry Friedlander e Raul Hilberg hanno sostenuto il

contrario. (70)

Dietro la scarsa attenzione prestata al genoddio degli zingari da parte del museo si

nascondono svariate ragioni. Innanzitutto, paragonare la perdita della vita di un ebreo e

quella di uno zingaro è semplicemente impossibile. Liquidando come «assurda» la

richiesta di una rappresentanza zingara allo US Holocaust Memorial Council, il rabbino

Seymour Siegel, direttore generale dell'organizzazione, mise in dubbio persino la stessa

«esistenza» degli zingari come gruppo etnico: «Bisognerebbe dare un qualche

riconoscimento al popolo zingaro sempre ammesso che esista». Il rabbino ha peraltro

ammesso che «sotto il nazismo ebbero a soffrire». Edward Linenthal ricorda il «profondo

sospetto» dei [100] rappresentanti zingari nei confronti dell'Holocaust Memorial Council,

«rafforzato dalla piena evidenza che alcuni suoi membri vedevano la partecipazione dei

Rom al museo nello stesso modo in cui una famiglia si trova tra i piedi dei parenti non

invitati e imbarazzanti». (71)

Secondo motivo: riconoscere il genocidio degli zingari avrebbe comportato la perdita

dell'esclusiva degli ebrei sull'Olocausto, con una perdita cospicua di «capitale morale».

Terzo motivo: se i nazisti hanno perseguitato zingari ed ebrei allo stesso modo, allora

l'assioma che l'Olocausto ha segnato il culmine dell'odio millenario dei gentili nei

confronti degli ebrei è evidentemente insostenibile. Parimenti, se l'invidia dei gentili ha

spinto al genocidio, con gli zingari è forse successa la stessa cosa? Nella parte del museo

dedicata alla mostra permanente, i non ebrei vittime del nazismo ricevono un

riconoscimento solamente simbolico. (72)

Infine, l'agenda politica del museo dell'Olocausto ha subito anche l'influenza del conflitto

tra israeliani e palestinesi. Prima di diventare direttore del museo, Walter Reich ha scritto

un peana in onore di From Time Immemorial [Da tempo immemorabile], il fraudolento

libro dove Joan Peters sostiene che la Palestina, prima della colonizzazione sionista, era

completamente vuota. (73) Sotto pressioni del Dipartimento di Stato, Reich è stato

costretto a dare le dimissioni dopo essersi rifiutato di invitare Yasser Arafat, nel

frattempo divenuto alleato compiacente degli Stati Uniti, a visitare il museo. In seguito,

dopo avere accettato una posizione da vicedirettore, il teologo dell'Olocausto John Roth é

stato portato per esasperazione alle dimissioni a causa delle critiche che in passato aveva

rivolto a Israele. Nel ripudiare un libro originariamente sostenuto dal museo con la

spiegazione che comprendeva un capitolo firmato da Benny Morris, un noto storico

israeliano critico nei confronti d'Israele, il presidente del museo, Miles Lerman, ha

dichiarato: «Mettere questo museo sul fronte opposto d'Israele è inconcepibile». (74)

Sulla scia dei terribili attacchi israeliani al Libano nel 1996, culminati nel massacro di

oltre cento civili a Qana, Ari Shavit, editorialista di «Haaretz», osservò che Israele poteva

agire impunemente perché «abbiamo l'Anti-Defamation League e lo Yad Vashem e il

museo dell'Olocausto». (75)

 

capitolo 2

Note

1. Boas Evron, Holocaust. The Uses of Disaster, in «Radical America», luglio-agosto

1983, 15.

2. Sulla distinzione tra letteratura sull'Olocausto e studi sull'Olocausto nazista si veda

Finkelstein e Birn, Nation, parte prima, terza sezione.

3. Jacob Neusner (a cura di), Judaism in Cold War America, 1945-1990, II volume: In the

Aftermath of the Holocaust, New York 1993, VIII.

4. David Stannard, Uniqueness as Denial in Alan Rosenbaum (a cura di), Is the

Holocaust Unique?, Boulder 1996, 193.

5. Jean-Michel Chaumont, La concurrence des victimes, Parigi 1997, 148-49. L'analisi

del dibattito sull'«unicità dell'Olocausto» condotta da Chaumont è un tour de force.

Eppure, la sua tesi portante non è convincente, almeno per quanto riguarda lo scenario

americano. Secondo il autore, il fenomeno dell'Olocausto trae origine dalla tardiva

ricerca, da parte degli ebrei sopravvissuti, di un riconoscimento pubblico per le

sofferenze passate. Ma i sopravvissuti quasi non appaiono nella fase iniziale in cui

l'Olocausto fu spinto sotto i riflettori.

6. Steven T. Katz, The Holocaust Context, Oxford 1994, 28, 58,60.

7. Chaumont, La Concurrence, 137.

8. Novick, The Holocaust, 200-1, 211-12. Wiesel, Against Silence, I volume, 158, 211,

239, 272; II volume, 62, 81, 111, 278, 293, 347, 371; III volume, 153, 243. Elie Wiesel,

All Rivers Run to the Sea, New York 1995, 89. L'informazione sul cachet per una

conferenza di Wiesel è stata fornita da Ruth Wheat, del Bnai Brith Lecture Bureau. «Le

parole» secondo Wiesel. «sono una sorta di approccio orizzontale, mentre il silenzio ve

ne offre uno verticale, in cui tuffarsi.» Wiesel si paracaduta nelle sue conferenze ?

9. Wiesel, Against Silence, III volume, 146.

10. Wiesel, And the Sea, 95. Si confrontino questi due brani tratti da due articoli:

«Ken Livingstone, ex membro del Partito laburista, attualmente in corsa come

indipendente per la carica di sindaco a Londra, ha irritato gli ebrei inglesi dicendo che il

capitalismo globale è costato tante vittime quante la Seconda guerra mondiale. "Ogni

anno il sistema finanziario internazionale uccide più persone di quanto abbia fatto la

Seconda guerra mondiale, ma almeno Hitler era un pazzo, no?» [...] "È un insulto a tutti

quelli che sono stati uccisi e perseguitati da HitIer" ha detto John Butterfill, membro

conservatore del Parlamento. Butterfill ha aggiunto che l'accusa di Livingstone nei

confronti del sistema finanziario globale sconfinava decisamente nell'antisemitismo.»

(Livingstone's Words Anger Jews, in «International Herald Tribune», 13 aprile 2000).

«Il presidente cubano Fidel Castro ha accusato il sistema capitalistico di essere

regolarmente la causa di morti in numero paragonabile alle vittime della Seconda guerra

mondiale perché ignora i bisogni dei poveri. 'Ie immagini che vediamo di madri e

bambini che soffrono la sete e altri flagelli nelle regioni africane richiamano alla mente

quelle dei campi di concentramento della Germania nazista." Riferendosi ai processi per i

crimini di guerra dopo la Seconda guerra mondiale, il leader cubano ha affermato: "Ci

manca una Norimberga che giudichi l'ordine economico impostoci, grazie al quale ogni

tre anni muoiono di fame e di malattie più uomini, donne e bambini di quanti ne sono

morti nella Seconda guerra mondiale». [...]

A New York, Abraham Foxman, direttore nazionale dell'Anti-Defamation League, ha

commentato [...]: "La povertà è una questione grave, dolorosa e forse mortale, ma non

c'entra con l'Olocausto e i campi di c concentramento".» (John Rice, Castro Viciously

Attacks Capitalism, in «Associated Press», 13 aprile 2000. )

11. Wiesel, Against Silence, III volume, 156, 160, 163, 177.

12. Chaumont, La concurrence, 156. L'autore sottolinea efficacemente anche il fatto che

sostenere la malvagità incomprensibile dell'Olocausto non può conciliarsi con

l'affermazione per la quale i suoi esecutori erano del tutto normali (310).

13. Katz, The Holocaust, 19, 22. «Pretendere che l'affermazione di unicità dell'Olocausto

non sia una forma di odioso paragone produce sistematicamente delle acrobazie verbali»,

osserva Novick. «C'è qualcuno [...] che crede che l'affermazione di unicità sia qualcosa di

diverso da un'affermazione di primato?» (In corsivo nell'originale.) Ma lo stesso Novick

indulge deplorevolmente in questo odioso paragone. Così, sostiene che, pur costituendo

un modo per sfuggire alle responsabilità morali degli americani, «l'affermazione reiterata

che qualunque cosa gli Stati Uniti possano avere fatto ai neri, ai nativi americani, ai

vietnamiti o ad altri scompare in confronto all'Olocausto è vera». (The Holocaust, 197,

15).

14. Jacob Neusner, A «Holocaust» Primer, 178. Edward Alexander, Stealing the

Holocaust, 15-16, in Neusner, Aftermath.

15. Peter Baldwin (a cura di), Reworking the Past, Boston 1990, 21.

16. Nathan Glazer, American Judaism, Chicago 1973 (seconda edizione), 171.

17. Seymour M. Hersh, The Samson Option, New York 1991, 22. Avner Cohen, Israel

and the Bomb, New York 1998, 10, 122, 342.

18. Ismar Schorsch, The Holocaust and jewish Survival in «Midstream», gennaio 1981,

39. Chaumont dimostra in modo assolutamente convincente che l'affermazione di unicità

dell'Olocausto trae la propria origine (e acquista un senso coerente solamente all'interno

di quel contesto) dal dogma religioso degli ebrei come popolo eletto.

19. Wiesel, Against Silence, I volume, 153. Wiesel, And the Sea, 133.

20. Novick, The Holocaust, 59, 158-59.

21. Wiesel, And the Sea, 68.

22. Daniel Jonah Goldhagen, Hitler's Willing Executioners, New York 1996. Per una

critica, si veda FinkeIstein e Birn, Nation.

23. Hannah Arendt, The Origins of Totalitarism, 7.

24. Cynthia Ozick, All the World Wants the Jews Dead, in «Esquire», novembre 1974.

25. Boas Evron, Jewish State or Israeli Nation, Bloomington 1995, 226-27.

26. Goldhagen, Hitler's Willing Executioners, 34-35, 39, 42. Wiesel, And the Sea, 48.

27. John Murray Cuddihy, The Elephant and the Angels: The Incivil Irritatingness of

jewish Theodicy, in Robert N. Bellah e Frederick E. Greenspahn (a cura di), Uncivil

Religion, New York 1987, 24. Oltre a questo articolo, si veda il suo The Holocaust. The

Latent Issue in the Uniqueness Debate, in P.E Gallagher (a cura di), Christians, Jews,

and Other World, HighIand Lakes (NJ) 1987.

28. Schorsch, The Holocaust, 39. Incidentalmente, anche l'asserzione che gli ebrei

costituiscano una minoranza «dotata» è, a mio modo di vedere, una «versione secolare e

di cattivo gusto dell'ideologia del popolo eletto».

29. Dal momento che un'esposizione completa di questo punto non rientra negli obiettivi

di questo saggio, si consideri solamente la prima proposizione. La guerra mossa da Hitler

contro gli ebrei, anche se irrazionale (e già questa è di per sé una questione complessa),

certo non potrebbe costituire un caso storico unico. Si ricordi, per esempio, la tesi

portante del trattato di Joseph Schumpeter sull'imperialismo: «La propensione nonrazionale

e irrazionale, puramente istintiva verso la guerra e la conquista gioca un ruolo

di primo piano nella storia dell'umanità [[...] Un numero incalcolabile di guerre, forse la

maggior parte di esse, è stato mosso senza che in gioco ci fossero [...] interessi

ragionevoli e ragionati». Joseph Schumpeter, The Sociology of Imperialism, in Paul

Sweezy (a cura di), Imperialism and Social Classes, New York 1951, 83.

30. Per Goldhagen, si veda la nota 26. Evitando esplicitamente la rappresentazione

dell'Olocausto, il recente saggio di Albert S. Lindemann sull'antisemitisimo prende le

mosse dalla premessa che «per quanto grande sia il potere dei mito, non tutta l'ostilità nei

confronti degli ebrei - quella individuale come quella collettiva - si è fondata su una

percezione fantastica o chimerica o su proiezioni sganciate da una realtà esperibile. In

quanto esseri umani, gli ebrei sono stati capaci come qualunque altro gruppo di suscitare

ostilità nella vita di tutti i giorni». (Esau's Tears, Cambridge 1997, XVII).

31. Wiesel, Against Silence, I volume, 255, 384.

32. Chaumont sottolinea con efficacia il fatto che il dogma dell'Olocausto sortisce

l'effetto di rendere più accettabili gli altri crimini. L'insistenza sulla completa innocenza

degli ebrei (per esempio, l'assenza di un qualunque motivo razionale a sostegno della loro

persecuzione, per non parlare dei loro sterminio) «presuppone che, in altre circostanze,

persecuzioni e sterminio possano essere qualcosa di "normale" e crea una divisione di

fatto tra crimini incondizionatamente intollerabili e crimini con i quali si deve (e di

conseguenza si può) convivere» (La concurrence, 176).

33. Perlmutter, Anti-Semitism, 36, 40.

34. Novick, The Holocaust, 351 n.19.

35. New York 1965. Per il contesto, faccio riferimento a James Park Sloan, Jerzy

Kosinski, New York 1996.

36. Elie Wiesel, Everybody's Victim, in «New York Times Book Review», 31 ottobre

1965. La citazione di Ozick è tratta da Sloan, 304-5. L'ammirazione di Wiesel per

Kosinski non sorprende. Questi voleva analizzare il «nuovo linguaggio», Wiesel

«forgiare il nuovo linguaggio» dell'Olocausto. Per Kosinski «ciò che sta tra due momenti

è al tempo stesso un commento su quel momento e qualcosa che viene commentato da

quel momento». Per Wiesel «lo spazio tra due parole qualsiasi è più vasto della distanza

tra la terra e il cielo». C'è un detto polacco che esprime questo concetto: «Dal vacuo al

vuoto». Sia Kosinski sia Wiesel disseminarono generosamente le loro riflessioni di

citazioni da Albert Camus, il che rivela sempre un ciarlatano. Ricordando che Camus una

volta gli disse: «La invidio per Auschwitz», Wiesel glossa: «Camus non riusciva a

perdonarsi di non conoscere quell'evento maestoso, quel mistero dei misteri». Wiesel, All

Rivers, 321; Wiesel, Against Silence, II volume, 133. )

37. Geoffrey Stokes ed Eliot Fremont-Smith, Jerzy Kosinski's Tainted Words, in «Village

Voice», 22 giugno 1982. John Corry, A Case History: 17 Years of Ideological Attack on a

Cultural Target, in «New York Times», 7 novembre 1982. A suo credito, va detto che

Kosinski procedette a una sorta di conversione sul letto di morte. Nei pochi anni che

trascorsero dal suo smascheramento al suicidio, deplorò che l'industria dell'Olocausto

avesse escluso le vittime non ebree. «Molti ebrei nordamericani tendono a percepire la

Shoah come una tragedia esclusivamente ebraica [...] Ma del genocidio furono vittime

anche almeno la metà del popolo Rom (ingiustamente chiamati zingari), circa due milioni

e mezzo di cattolici polacchi, milioni di cittadini sovietici e di altre nazionalità [...]»

Kosinski riconobbe inoltre il «coraggio dei polacchi» che gli «diedero asilo durante

l'Olocausto» nonostante il suo cosiddetto «aspetto semitico». Jerzy Kosinski, Passing By,

New York 1992, 165-66, 178-79). A una conferenza sull'Olocausto, a chi gli domandava

con rabbia che cosa avessero fatto i polacchi per salvare gli ebrei rispose seccamente:

«Che cosa hanno fatto gli ebrei per salvare i polacchi?».

38. New York 1996. Per il contesto della truffa Wilkomirski, si veda soprattutto Elena

Lappin, The Man With Two Heads, in «Granta», n. 66, e Philip Gourevitch, Stealing the

Holocaust, in «New Yorker», 14 giugno 1999.

39. Un'altra importante influenza «letteraria» su Wilkomirski fu quella di Wiesel. Si

confrontino i brani seguenti:

Wilkomirski: «Vidi i suoi occhi spalancati e all'improvviso capii: quegli occhi sapevano

tutto, avevano visto tutto ciò che avevano visto i miei e sapevano infinitamente più di

chiunque altro in questo Paese. E io occhi così li conoscevo: li avevo visti migliaia di

volte, al campo e dopo. Erano gli occhi di Mila. Noi bambini ci dicevamo sempre tutto

con quegli occhi, e lei sapeva anche questo. Mi guardava dritto negli occhi e nel cuore»

(Fragments).

Wiesel: «Gli occhi, devo parlare dei loro occhi. Devo cominciare da lì, perché i loro

occhi vengono prima di tutto il resto, e ogni cosa sta dentro quegli occhi. Il resto può

aspettare. Mi limiterò a confermare quello che già sai. Ma i loro occhi, il fuoco dei loro

occhi, che hanno dentro una specie di verità irriducibile che brucia e non si consuma.

Ridotto al silenzio di fronte a loro, puoi solamente chinare il capo e accettare il giudizio.

Ora il tuo solo desiderio è di vedere il mondo come lo vedono loro. Sei un uomo fatto,

saggio ed esperto, eppure improvvisamente ti ritrovi impotente e spaventosamente

debole. Quegli occhi ti ricordano la tua fanciullezza, il tuo essere orfano, ti fanno perdere

tutta la fiducia nel potere del linguaggio. Quegli occhi negano il valore delle parole,

eliminano la necessità di ogni discorso». (The Jews of silence, New York 1966, 1)

Wiesel. continua a cantare «gli occhi» per un'altra pagina e mezza. La sua perizia

letteraria è superata dalla sua maestria dialettica. In un punto, ammette: «Diversamente da

molti progressisti, credo nella colpa collettiva». E in un altro: «Tengo a sottolineare che

non credo nella colpa collettiva». (Wiesel, Against Silence, II volume, 134; Wiesel, And

the Sea, 152, 235.)

40. Bernd Nauman, Auschwitz, New York 1966, 91. Per una documentazione esauriente

si veda FinkeIstein e Birn, Nation, 67-8.

41. Lappin, 49. Hilberg ha sempre posto le domande giuste. Da qui la sua condizione di

paria nella comunità che si occupa dell'Olocausto; si veda Hilberg, The Politics of

Memory, passim.

42. Lappin.

43. Publisher Drops Holocaust Book, in «New York Times», 3 novembre 1999. Allan

Hall e Laura Williams, Holocaust Hoaxer? in «New York Post», 4 novembre 1999.

44. Novick, The Holocaust, 158. Segev, Seventh Million, 425. Wiesel, And the Sea, 198.

45. Bernard Lewis, Semites and Anti-Semites, New York 1986, capitolo 6; Bernard

Lewis, The Middle East, New York 1995, 348-50. Berenbaum, After Tragedy, 84.

46. «New York Times», 27 marzo, 2 aprile, 3 aprile 1996. «Time», 23 dicembre 1996.

47. Nota dell'AAARGH: non è vero: fu per un attimo lettore presso l'Università, ma è

stato licenziato da lungo tempo.

48. Yehuda Bauer, Reflections Concerning Holocaust History, in Louis Greenspan e

Graeme Nicholson (a cura di), Fackenheim, Toronto 1993, 164, 169. Yehuda Bauer, On

Perpetrators of the Holocaust and the Public Discourse, in «Jewish Quarterly Review»,

n. 87 (1997), 348-50. Norman G. FinkeIstein e Yehuda Bauer, Goldhagen's «Hitler's

Willing Executioners»: An Exchange of Views, in «jewish Quarterly Review», nn. 1-2

(1998), 126.

49. Per i retroscena e gli sviluppi, si vedano Charles Glass, Hitler's (un)willing

executioners, in «New Statesman», 23 gennaio 1998; Laura Shapiro, A Battle Over the

Holocaust, in «Newsweek», 23 marzo 1998; Tibor Krausz, The Goldhagen Wars, in

«Jerusalem Report», 3 agosto 1998. Per questa e altre questioni, cfr.

www.NormanFinkelstein.com, con un link al sito web di Goldhagen.

50. Daniel Jonah Goldhagen, Daniel Jonah Goldhagen Comments on Birn in «German

Politics and Society», estate 1998, 88, 91 n2. Daniel Jonah Goldhagen, The New

Discourse of Avoidance, n. 25 (www.Goldhagen.com/nda01.html).

51. Hoffmann fu il relatore di Goldhagen per la dissertazione che divenne Hitler's Willing

Executioners. Ciò nonostante, commettendo una grave infrazione del protocollo

accademico, non soltanto scrisse un entusiastica recensione del libro di Goldhagen per

«Foreign Affairs», ma addirittura attaccò A Nation on Trial come «scandaloso» in un

secondo articolo per la medesima rivista («Foreign Affairs», maggio-giugno 1996 e

luglio-agosto 1998). Maier mise in rete un prolisso intervento sul sito tedesco www2.hnet.

msu.edu. In definitiva, gli unici «aspetti di questa situazione» che trovò «davvero

spiacevoli e censurabili» erano le critiche a Goldhagen. Perciò prestò «sostegno a un

ulteriore accertamento delle colpe» nell'azione legale di Goldhagen contro Birn e accusò

la mia argomentazione di essere una «speculazione fantasiosa ed eccessivamente

polemica» (23 novembre 1997).

52. New York 1994. Lipstadt ricoprì la cattedra universitaria di storia dell'Olocausto alla

Emory University ed è stata recentemente chiamata allo United States Holocaust

Memorial Council.

53. Grazie all'escamotage dell'uso di una doppia negazione, in pratica l'indagine

dell'American Jewish Committee favoriva la confusione: «Le sembra possibile o

impossibile che lo sterminio nazista degli ebrei non sia mai accaduto?» li ventidue per

cento degli intervistati rispose: «Possibile». In questionari successivi, che riformulavano

la domanda in termini più chiari, la negazione dell'Olocausto era prossima a zero. Una

recente indagine condotta dall'AJC in undici Paesi ha rivelato che, nonostante le diffuse

asserzioni di segno contrario da parte dell'estrema destra, «poche persone negano

l'Olocausto» (Jennifer Golub e Renae Cohen, What Do Americans Know About the

Holocaust?, The American Jewish Committee 1993; Holocaust Deniers Unconvincing -

Surveys, in «Jerusalem Post», 4 febbraio 2000). Eppure, in un intervento congressuale

dedicato all'«antisemitismo in Europa», David Harris dell'AJC dava risalto alla negazione

dell'Olocausto nella destra europea senza far parola una sola volta dei risultati

dell'indagine dello stesso AJC secondo cui questa negazione non trova praticamente

alcuna eco presso l'opinione pubblica generale. (Audizioni presso il Foreign Relations

Committee, Senato degli Stati Uniti, 5 aprile 2000. )

54. Si vedano France Historian Over Armenian Denial in «Boston Globe», 22 giugno

1995, e Bernard Lewis and the Armenians, in «Counterpunch», 16-31 dicembre 1997.

55. Israel Charny, The Conference Crisis. The Turks, Armenians and Jews, in The Book

of the International Conference on the Holocaust and Genocide. Book One. The

Conference Program and Crisis, Tel Aviv 1982. Israel Amrani, A Little Help for Friends,

in «Haaretz», 20 aprile 1990 (Bauer). Secondo la bizzarra versione di Wiesel, lui si ritirò

dalla presidenza della conferenza «per non offendere i nostri ospiti armeni». Forse cercò

di fare fallire la conferenza e fece pressioni sugli altri per una questione di cortesia nei

confronti degli armeni. Wiesel, And the Sea, 92. )

56. Edward T.Linenthal, Preserving Memory, New York l995, 228 e ss., 263, 312-13.

57. Lipstadt, Denying, 6, 12, 22, 89-90.

58. Wiesel, All Rivers, 333, 336.

59. Lipstadt, Denying, capitolo II.

60. A New Serbia, in «New Republic», 17 maggio 1999.

61. Si vedano, per esempio, Meron Benvenisti, Seeking Tragedy, in «Haaretz», 16 aprile

1999; Zeev Chafets, What Undergraduate Clinton Has Forgotten in «Jerusalem Report»,

10 maggio 1999; Gideon Levi, Kosovo: It Is Here, in «Haaretz», 4 aprile 1999.

(Benvenisti limita il paragone tra le azioni serbe e quelle compiute da Israele dopo il

maggio 1948. )

62. Arno Mayer, Why Did the Heavens Not Darken?, New York 1988. Christopher

Hitchens, Hitler's Ghost, in «Vanity Fair», giugno 1996 (Hilberg). Per un giudizio

equilibrato su Irving, si veda Gordon A. Craig, The Devil in the Details, in «New York

Review of Books», 19 settembre 1996. Pur liquidando com'è giusto le asserzioni di Irving

sull'Olocausto nazista definendole «ottuse e infondate», Craig prosegue affermando che

«egli conosce il nazional-socialismo molto meglio della maggior parte degli studiosi del

suo stesso campo, e coloro che studiano il periodo 1933-1945 devono molto di più di

quello che mai ammetteranno alla sua energia di ricercatore e alla portata e al vigore delle

sue pubblicazioni [...] Il suo volume Hitler's War [...] resta il miglior saggio che abbiamo

sulla Seconda guerra mondiale vista dalla parte tedesca e perciò è indispensabile a tutti

coloro che si occupano di quel conflitto [...] Persone come David Irving hanno quindi un

ruolo fondamentale nella ricerca storica e noi non dobbiamo ignorare il loro punto di

vista».

63. Per i tentativi falliti tra il 1984 e il 1994 di costruire un museo nazionale

afroamericano sul Washington Mall, si veda Fath Davis Ruffins, Culture Wars Won and

Lost, Part II, The National African-American Museum Project, in « Radical History

Review», inverno 1998. Un'iniziativa del Congresso fu alla fine affossata dal senatore

Jesse Helms del North Carolina. Il budget annuale del Washington Holocaust Museum è

di cinquanta milioni di dollari, trenta dei quali provenienti dalle casse federali.

64. Per il contesto, si vedano Linenthal, Preserving Memory, Saidel, Never Too Late,

specialmente i capitoli 7 e 15; Tim Cole, Selling the Holocaust, New York 1999, capitolo

6.

65. Michael Berenbaum, The World Must Know, New York 1993, 2, 214. Omer Bartov,

Murder in Our Midst, Oxford 1996,180.

66. Per i particolari, si veda Kati Marton, A Death in Jerusalem, New York 1994,

capitolo 9. Nelle sue memorie, Wiesel rievoca il «passato leggendario di "terrorista"»

dell'uccisore di Bernadotte, Yehoshua Cohen. Si noti la parola terrorista virgolettata

(Wiesel, And the Sea, 58). Il New York City Holocaust Museum, per quanto non meno

politicizzato (tanto il sindaco Ed Koch quanto il governatore Mario Cuomo

corteggiavano il voto e il denaro ebraico), rientrò sin dall'inizio anche nei giochi di

investitori e finanzieri ebrei newyorkesi. A un certo punto, gli investitori cercarono di

dare il minor risalto possibile al termine «Olocausto» nel nome del museo per paura che

potesse far scendere il valore dell'adiacente complesso di appartamenti di lusso. Wags

suggerì con sarcasmo che avrebbero dovuto chiamare il complesso «Treblinka Towers» e

le strade vicine «Auschwitz Avenue» e «Birkenau Boulevard». Il museo chiese un

contributo a J. Peter Grace (nonostante fossero stati rivelati i suoi legami con un

criminale di guerra nazista) e organizzò una festa di gala nella discoteca The Hot Rod:

«La New York Holocaust Memorial Commission invita la SV a ballare il rock and roll

tutta la notte». (Saidel, Never Too Late, 8, 121, 132, 145, 158, 161, 191, 240).

67. Novick la chiama la controversia dei «sei milioni» contro gli «undici milioni». A

cinque milioni assommano le morti di civili non ebrei, cifra dovuta al famoso «cacciatore

di nazisti» Simon Wiesenthal. Osservando che «non ha senso dal punto di vista storico»,

Novick scrive: «Cinque milioni è un numero sia troppo basso (per tutti i civili non ebrei

uccisi dal Terzo Reich) sia troppo alto (per i gruppi non ebraici che furono, come gli

ebrei, un bersaglio designato)». Si premura tuttavia di aggiungere che il punto

ovviamente non sono i numeri di per sé, ma ciò che noi intendiamo, ciò a cui facciamo

riferimento quando parliamo dell'Olocausto"». Stranamente, dopo questo ammonimento,

Novick si schiera a favore della commemorazione esclusivamente degli ebrei in quanto i

sei milioni «rappresentano qualcosa di specifico e determinato», mentre gli undici milioni

«sono un miscuglio inaccettabile». (Novick, The Holocaust, 214-26. )

68. Wiesel, Against Silence, III volume, 166.

69. Per gli handicappati in quanto oggetto del primo genocidio nazista, si veda soprattutto

Henry Friedlander, The Origins of Nazi Genocide, Chapel Hill, 1995. Secondo Leon

Wieseltier, i non ebrei morti ad Auschwitz «ebbero una morte pensata per gli ebrei [...],

vittime di una "soluzione" progettata per altri» (Leon Wieseltier, At Auschwitz Decency

Dies Again, in «New York Times», 3 settembre 1989). Eppure, come mostra un numero

cospicuo di studi, fu la morte inventata per gli handicappati tedeschi a essere inflitta agli

ebrei; oltre al saggio di FriedIander, si veda, per esempio, Michael Burleigh, Death and

Deliverance, Cambridge 1994.

70. Sybil Milton, autrice di numerose pubblicazioni sulla storia degli zingari ed ex

direttrice della sezione storia dello United States Holocaust Museum, afferma che

«durante l'Olocausto furono uccisi almeno duecentoventimila Rom e zingari di origine

tedesca» e che «tale cifra» va «incrementata, probabilmente a cinquecentomila»

(Statistical Considerations, Sinti Mortality during the Holocaust, Roma, 24 dicembre

1999).

71. Friedlander, Origins: «Insieme agli ebrei, i nazisti uccisero gli zingari d'Europa.

Definiti come una razza «dalla pelle scura, uomini, donne e bambini zingari non poterono

sfuggire al loro destino di vittime del genocidio nazista [...] Il regime nazista uccise con

sistematicità solamente tre gruppi umani: gli handicappati, gli ebrei e gli zingari» (XIIXIII).

Oltre che essere uno storico di prima grandezza, Friedlander è anche un ex

internato ad Auschwitz. Raul Hilberg, The Destruction of European Jews, New York 198

5 (in tre volumi), III volume, 999-1000. Con la sincerità che lo contaddistingue, Wiesel

nella sua autobiografia proclama il suo disappunto per la mancata inclusione

nell'Holocaust Memorial Council, da lui presieduto, di un rappresentante degli zingari.

Come se lui non avesse avuto il potere di nominarne uno. (Wiesel, And the Sea, 211).

72. Linenthal, Preserving Memory, 241-46, 315.

73. Benché l'«indinazione a favore degli ebrei» (Saidel) dell'Holocaust Museum di New

York fosse ancor più pronunciata (ai non ebrei vittime del nazismo fu annunciato sin

dall'inizio che era «solo per gli ebrei»), Yehuda Bauer andò su tutte le furie quando la

commissione accennò timidamende al fàtto che l'Olocausto potesse abbracciare altre

vittime oltre agli ebrei. «A meno che questa posizione non cambi immediatamente e

radicalmente» minacciò in una lettera ai membri della commissione «non perderò

occasione di [...] attaccare questo vergognoso progetto da qualunque palco mi venga

offerto.» (Saidel, Never Too Late, 125-26, 129, 212, 221, 224-25.)

74. ZOA Criticizes Holocaust Museum Hiring of Professor Who Compared Israel to

Nazis, in «Israel Wire», 5 giugno 1998. Neal M. Sher, Sweep the Holocaust Museum

Clean, in «Jewish World Review», 22 giugno 1998. Scoundrel Time, in «PS - The

Intelligent Guide to Jewish Affairs», 21 agosto 1998. Daniel Kurtzman, Holocaust

Museum Taps One of Its Own for Top Spot, in «Jewish Telegraphic Agency», 5 marzo

1999. Ira Stoll, Holocaust Museum Acknowledges a Mistake, in «Forward», 13 agosto

1999.

75. Noam Chomsky, World Orders Old and New, New York 1996, 293-94 (Shavit).

 

CAPITOLO 3

LA DUPLICE ESTORSIONE

In origine, con il termine «sopravvissuto all'Olocausto» si indicava chi aveva patito il

terribile trauma dei ghetti ebraici, dei campi di concentramento e dei campi di lavoro

schiavistico, spesso in questa sequenza. I sopravvissuti alla fine della guerra sono

generalmente stimati nell'ordine delle centomila persone (1); di queste, oggi saranno

ancora in vita non più del venticinque per cento. Dal momento che a coloro che avevano

subito l'esperienza dei campi veniva concessa la palma del martirio, molti ebrei che

trascorsero altrove il periodo della guerra e delle persecuzioni sì presentarono come

sopravvissuti. Dietro questa impostura stava anche un altro valido motivo, di ordine

materiale: il governo della Germania postbellica pagava un risarcimento agli ebrei che

erano stati nei ghetti o nei campi e molti ebrei si costruirono un passato in grado di

soddisfare tali requisiti (2). «Se tutti quelli che pretendono di essere dei sopravvissuti lo

fossero dawero» inveiva mia madre «Hitler chi avrebbe ammazzato?»

[124] In effetti, molti studiosi hanno messo in dubbio l'attendibilità delle testimonianze

dei sopravvissuti. «Un'alta percentuale di errori che ho scoperto nelle mie stesse opere»

ricorda Hilberg «potrebbe essere attribuita ai testimoni.» Anche chi lavora nell'industria

dell'Olocausto, come Deborah Lipstadt per esempio, osserva ironicamente come spesso i

sopravvissuti all'Olocausto sostengano di essere stati esaminati ad Auschwitz da Josef

Mengele in persona. (3)

A parte gli inganni della memoria, qualche testimonianza di sopravvissuti all'Olocausto

può essere considerata sospetta per altre ragioni. Dal momento che oggi i sopravvissuti

sono venerati come santi laici, non si osa metterli in dubbio. Dichiarazioni assurde

passano incontestate. Nel suo acclamato libro di memorie, Elie Wiesel ricorda di avere

letto, appena liberato da Buchenwald, all'età di diciotto anni, «la Critica della ragion

pura», non ridete!, «in yiddish». A parte il fatto che lo stesso Wiesel ammette di essere

stato all'epoca «completamente a digiuno di grammatica yiddish», resta comunque che la

Critica della ragion pura non fu mai tradotta in yiddish.

Narra anche, con dovizia di particolari, di un «misterioso studioso del Talmud» che «in

due settimane, solamente per stupirmi, imparò a fondo l'ungherese». Dichiara a un

settimanale ebraico di «diventare spesso rauco o afono» quando legge mentalmente le

proprie ope[125]re «ad alta voce, interiormente». E a un giornalista del «New York

Times», poi, racconta di quando una volta fu investito da un taxi in Times Square: «Feci

un volo di un intero isolato. Fui investito tra la Quarantacinquesima Strada e Broadway e

l'ambulanza mi raccolse alla Quaranta-quattresima». «La verità che presento è nuda e

cruda» sospira Wiesel. «Non potrei fare altrimenti» (4).

In anni recenti, l'espressione «sopravvissuto all'Olocausto» ha assunto un nuovo, più

ampio significato: designa non soltanto chi ha sofferto nei campi, ma anche chi è riuscito

a sfuggire ai nazisti; così, nella categoria rientrano, per esempio, gli oltre centomila ebrei

polacchi che dopo l'invasione tedesca della Polonia trovarono rifugio in Unione

Sovietica. Eppure, osserva lo storico Leonard Dinnerstein, «quelli che si erano sistemati

in Unione Sovietica non vennero trattati in modo diverso dai cittadini russi» mentre «i

sopravvissuti al campi di concentramento sembravano dei morti viventi» (5). Qualcuno

ha scritto a un sito web sull'Olocausto per sostenere che, nonostante sia vissuto a Tel

Aviv durante la guerra, anche lui è un sopravvissuto all'Olocausto: sua nonna è morta ad

Auschwitz. A sentire Israel Gutman, Wilkomirski è un sopravvissuto all'Olocausto

perché il suo «dolore è autentico». L'ufficio del rex Primo ministro israeliano Netanyahu

ha recentemente calcolato il numero di sopravvissuti all'Olocausto tuttora in vita in circa

un milione. Ancora una volta, il motivo principale di [126] questo gioco al rialzo sul

numero dei superstiti non è difficile da capire: è difficile sostenere nuove e imponenti

richieste di risarcimento quando sono ancora in vita solo pochi sopravvissuti. Infatti, i

principali complici di Wilkomirski erano, in un modo o nell'altro, inseriti nel network dei

risarcimenti per l'Olocausto. La sua amica infanzia ad Auschwitz, la «piccola Laura»,

attinse soldi da un fondo svizzero per l'Olocausto, quando in realtà era di nascita

americana, e per giunta un'adepta di culti satanici. I principali sponsor israeliani di

Wilkomirski erano sovvenzionati da (o attivi in) organizzazioni coinvolte nei risarcimenti

per l'Olocausto (6).

La questione dei risarcimenti risulta particolarmente illuminante per comprendere

l'industria dell'Olocausto. Come abbiamo visto, allineandosi alle posizioni degli Stati

Uniti durante la Guerra Fredda, la Germania venne in gran fretta riabilitata e l'Olocausto

nazista cadde nel dimenticatoio. Ciò nonostante, nei primi anni Cinquanta, la Germania

entrò in trattativa con le istituzioni ebraiche e firmò accordi di risarcimento. Dietro poche

(o nessuna) pressioni esterne, ha pagato finora qualcosa come sessanta miliardi di dollari.

Facciamo un confronto con il caso americano. Le guerre statunitensi in Indocina hanno

mietuto tra i quattro e i cinque milioni di vite tra uomini, donne e bambini. Uno storico

ricorda che, dopo il ritiro americano, il Vietnam aveva disperatamente bisogno di

aiu[127]to. «Nel Sud, novemila dei quindicimila villaggi, oltre dieci milioni di ettari di

suolo coltivabile e quasi cinque milioni di ettari di foresta erano stati distrutti; un milione

e mezzo di animali da allevamento erano stati abbattuti; le stime parlavano di

duecentomila prostitute, ottocentosettantanovemila orfani, centottantunomila disabili e un

milione di vedove. Tutte le sei città industriali del Nord erano state gravemente

danneggiate, così come i centri minori e quattromila delle cinquemilaottocento comuni

agricole.» Rifiutandosi, comunque, di rifondere i danni, il presidente Carter spiegò che

«la distruzione era [stata] reciproca». Nel dichiarare che non vedeva certo la necessità di

«alcun tipo di scuse per la guerra» il segretario alla Difesa del presidente Clinton,

William Cohen, ha svolto considerazioni analoghe: «Entrambi i Paesi ne sono stati

segnati. Loro hanno le loro ferite, noi certamente abbiamo le nostre» (7).

Il governo tedesco cercò di risarcire gli ebrei attraverso tre diversi accordi siglati nel

1952. I singoli che ne avevano fatto richiesta furono risarciti secondo i termini del

Bundesentschädigungsgesetz, la legge d'indennizzo federale: un accordo separato con

Israele prevedeva sussidi per la reintegrazione e la riabilitazione di diverse centinaia di

migliaia di ebrei rifugiati. Contemporaneamente, il governo tedesco negoziò anche un

accordo finanziario con la Conference on Jewish Material Claims Against Germany, che

comprendeva tutte [128] le maggiori organizzazioni ebraiche, tra le quali l'American

Jewish Committee, l'American Jewish Congress, Bnai Brith, il Joint Distribution

Committee e così via. La Claims Conference avrebbe dovuto utilizzare il denaro (dieci

milioni di dollari l'anno per dodici anni, in valuta attuale pari a circa un miliardo di

dollari) in favore degli ebrei vittime delle persecuzioni naziste che per qualche motivo

erano stati poco o per nulla risarciti (8). Mia madre era uno di questi casi. Sopravvissuta

al ghetto di Varsavia, al campo di concentramento di Majdanek e ai campi di lavoro di

Czestochowa e Skarszysko-Kamiena, ricevette dal governo tedesco un indennizzo di soli

tremilacinquecento dollari. Altri ebrei vittime (e molti di loro in realtà non lo erano

affatto) ottennero invece dalla Germania pensioni a vita per un valore complessivo di

centinaia di migliaia di dollari a testa. Il denaro dato alla Claims Conference era stato

stanziato a favore di quegli ebrei vittime dei campi che avevano ricevuto solamente un

risarcimento minimo.

In effetti, il governo tedesco tentò di rendere esplicito nell'accordo che il denaro sarebbe

stato destinato esclusivamente agli ebrei sopravvissuti, in senso stretto, che erano stati

compensati iniquamente o inadeguatamente dai tribunali tedeschi. La Claims Conference

disse di sentirsi offesa del fatto che si dubitasse della sua buona fede. Quando l'intesa fu

raggiunta, fece pubblicare un comunicato stampa nel quale si sottoli[129]neava che il

denaro sarebbe stato usato per «gli ebrei perseguitati dal regime nazista ai quali la

legislazione esistente non poteva fornire una riparazione». raccordo finale impegnava la

Claims Conference a impiegare il denaro «per soccorrere, riabilitare e garantire una

nuova sistemazione alle vittime».

La Claims Conference annullò prontamente l'intesa. In flagrante violazione della lettera e

dello spirito dell'accordo, destinò i soldi non alla riabilitazione delle singole vittime,

quanto piuttosto a quella delle comunità ebraiche. Anzi, un principio-guida della Claims

Conference proibiva l'uso di denaro a «beneficio diretto di singole persone». Fornendo un

classico esempio di attenzione ai propri interessi, comunque, la Claims Conference fece

eccezione per due categorie di vittime: rabbini e «leader ebrei di primo piano» ricevettero

pagamenti individuali. Le organizzazioni che facevano parte della Claims Conference

usarono quella massa di denaro per finanziare i loro vari progetti. Qualunque beneficio

(Sempre che ve ne siano stati) abbiano ricevuto gli ebrei realmente classificabili come

vittime, fu indiretto o casuale (9). Attraverso giri tortuosi, grosse somme furono dirette

alle comunità ebraiche nel mondo arabo e si facilitò l'emigrazione dall'Europa dell'Est

(10). Si finanziarono anche iniziative culturali come musei dell'Olocausto e cattedre

universitarie di studi sull'Olocausto; con un'iniziativa puramente propagandistica, [130]

poi, lo Yad Vashem istituì un riconoscimento a favore dei «gentili giusti».

Più recentemente, la Claims Conference cercò di entrare in possesso delle proprietà

ebraiche denazionalizzate nell'ex Germania Orientale, che valgono centinaia di milioni di

dollari e che appartengono di diritto agli attuali eredi degli ebrei a cui vennero tolte.

Quando la Claims Conference, per questo e per altri abusi, venne attaccata dagli ebrei

defraudati, il rabbino Arthur Hertzberg fiagellò entrambe le parti osservando

sarcasticamente che «non si tratta[va] di giustizia: è una contesa per questioni di

soldi» (11). Quando la Germania o la Svizzera si rifiutano di pagare risarcimenti, si leva

incontenibile la giusta protesta della comunità ebraica americana, ma quando le élite

ebraiche derubano gli ebreì sopravvissuti, non si solleva alcuna questione etica: sì tratta

solo di soldi.

Benché mia madre avesse ricevuto solamente tremilacinquecento dollari a titolo di

risarcimento, altre persone coinvolte nei processi di indennizzo se la sono cavata molto

meglio. Lo stipendio annuale documentato di Saul Kagan, per lungo tempo segretario

generale della Claims Conference, è di centocinquemila dollari. Durante la sua gestione,

fu incriminato per trentatré casi di assegnazione indebita di fondi e crediti, di cui si rese

colpevole, in malafede, mentre era alla guida di una banca newyorkese. (La sentenza di

condanna fu ribalta[131]ta solamente dopo numerosi appelli.) Alfonse D'Amato, l'ex

senatore di New York, fece da mediatore nell'azione legale contro le banche tedesche e

austriache per trecentocinquanta dollari l'ora più le spese; per i primi sei mesi di lavoro

incassò centotremila dollari. Wiesel. si affrettò a ricoprire pubblicamente di lodi D'Amato

per la sua «sensibilità alla sofferenza degli ebrei». Lawrence Eagleburger, segretario di

Stato sotto il presidente Bush senior, percepisce uno stipendio annuale di trecentomila

dollari in quanto presidente della International Commission On Holocaust-Era Insurance

Claims. «Qualunque cifra gli diano» ha sostenuto Elan Steinberg del Congresso Mondiale

Ebraico «è un vero affare.» Kagan incassa in dodici giorni, Eagleburger in quattro e

D'Amato in dieci ore quello che mia madre ha ricevuto per avere patito sei anni di

persecuzioni naziste (12).

Il premio per il più intraprendente venditore dell'Olocausto, comunque, spetta

sicuramente a Kenneth Bialkin. Per decenni uno dei principali leader ebrei americani,

guidò l'ADL, e presiedette la Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni

ebraiche americane. Attualmente, Bialkin rappresenta le Assicurazioni Generali contro la

commissione Eagleburger per, si dice, una «grossa somma di denaro» (13).

Negli ultimi anni, l'industria dell'Olocausto è diventata un vero e proprio racket di

estorsioni. Dando a in[132]tendere di rappresentare tutto il mondo ebraico, i vivi come i

morti, essa sta avanzando pretese in tutta Europa sui beni degli ebrei dell'Olocausto.

Giustamente battezzata «l'ultimo capitolo dell'Olocausto», questa duplice estorsione,

rivolta sia contro i Paesi europei sia contro gli ebrei legittimi beneficiari, ha dapprima

preso di mira la Svizzera.

In primo luogo, esaminerò le dichiarazioni contro questo Paese, poi passerò alle prove,

dimostrando come molti degli addebiti non soltanto si fondino su dichiarazioni

fraudolente, ma si addicano molto meglio a coloro che li hanno mossi che al loro

bersaglio.

Durante le commemorazioni del cinquantesimo anniversario della fine della Seconda

guerra mondiale, nel maggio 1995, il presidente svizzero presentò le scuse formali della

sua nazione per avere negato rifugio agli ebrei durante l'Olocausto nazista (14). Allo

stesso tempo si riaprì la discussione sull'antica questione dei beni degli ebrei in deposito

presso conti svizzeri prima e durante la guerra. In un reportage che ebbe vasta eco, un

giornalista israeliano citò un documento (mal interpretandolo, come risultò in seguito)

che provava che le banche svizzere gestivano ancora conti di ebrei risalenti al periodo

dell'Olocausto, per un valore di diversi miliardi di dollari (15).

Il Congresso Mondiale Ebraico, un'organizzazione moribonda fino alla sua campagna di

denuncia di Kurt Waldheim come criminale di guerra, colse questa nuo[133]va occasione

per mostrare i muscoli. Da subito risultò chiaro che la Svizzera era una facile preda:

pochi si sarebbero schierati a fianco dei ricchi banchieri svizzeri contro le «vittime

bisognose dell'Olocausto», ma, cosa ancora più importante, le banche svizzere erano

altamente vulnerabili alle pressioni economiche provenienti dagli Stati Uniti (16).

Verso la fine dei 1995, Edgar Bronfman, presidente del Congresso Mondiale Ebraico e

figlio di un funzionario della Jewish Claims Conference, e il rabbino Israel Singer,

segretario generale del Congresso Mondiale Ebraico e magnate immobiliare, si

incontrarono con i banchieri svizzeri (17). Bronfman, erede della fortuna dell'azienda di

liquori Seagram (il suo patrimonio personale è stimato in tre miliardi di dollari), avrebbe

poi fatto modestamente sapere alla commissione sulle attività bancarie del Senato che lui

parlava «a nome del popolo ebraico» come pure dei «sei milioni di persone che non

possono parlare per se stesse» (18). Le banche svizzere dichiararono di essere riuscite a

individuare solamente settecentosettantacinque conti inattivi giacenti, per un valore totale

di trentadue milioni di dollari. Offrirono questa cifra come base per i negoziati con il

Congresso Mondiale Ebraico, il quale la rifiutò in quanto inadeguata. Nel dicembre 1995,

Bronfman lavorò in squadra con il senatore D'Amato. Con i sondaggi elettorali che lo

davano in netto svantaggio e una [134] corsa per il Senato all'orizzonte, D'Amato vide

l'occasione di migliorare nettamente la propria immagine agli occhi della comunità

ebraica, con il suo forte peso elettorale e i suoi munifici finanziamenti. Prima di riuscire a

mettere definitivamente in ginocchio la Svizzera, il CME, lavorando con l'intero

ventaglio delle istituzioni che si occupano dell'Olocausto (ivi inclusi lo US Holocaust

Memorial Museum e il Centro Simon Wiesenthal), aveva mobilitato l'intero

establishment politico americano. A partire dal presidente Clinton, che sotterrò l'ascia di

guerra con D'Amato (le udienze del caso Whitewater erano ancora in corso) per fornire il

proprio appoggio, passando per undici agenzie del governo federale, come anche la

Camera e il Senato, fino ai governi dei vari Stati e alle amministrazioni locali in tutto il

Paese, da ogni parte venne montata una campagna di pressioni che spinse una sfilza di

funzionari pubblici a denunciare il comportamento dei perfidi svizzeri.

Usando come trampolino le commissioni sulle attività bancarie di Camera e Senato,

l'industria dell'Olocausto orchestrò una indegna campagna diffamatoria. Grazie all'aiuto

di una stampa credulona e infinitamente compiacente, pronta a concedere titoli a nove

colonne a qualunque storia, per quanto ridicola, avesse una relazione con l'Olocausto, la

campagna denigratoria risultò inarrestabile. Gregg Rickman, primo [135] assistente

lesrale di D'Amato, nella sua ricostruzione si vanta del fatto che i banchieri svizzeri

furono portati a forza «nell'aula dell'opinione pubblica, dove stabilivamo noi l'ordine del

giorno. I banchieri erano nel nostro territorio e noi eravamo, secondo le convenienze, il

giudice, la giuria e il boia». Tom Bower, ricercatore di punta nella campagna

antisvizzera, definisce la richiesta di un'udienza da parte di D'Amato un «eufemismo per

indicare un processo pubblico o un tribunale illegale» (19).

Il «portavoce» della valanga antisvizzera fu il direttore generale del Congresso Mondiale

Ebraico, Elan Steinberg, la cui funzione principale fu quella di dispensare

disinformazione. «Il terrore attraverso lo scandalo» a quanto dice Bower «era l'arma

preferita di Steinberg, perché sparava una serie d'accuse allo scopo di creare disagio e di

scioccare. I rapporti dell'OSS [Office of Strategic Services, un ramo dei servizi segreti

americani durante la Seconda guerra mondiale], che spesso si basavano su dicerie e su

fonti non controllate e guardate per anni con sospetto dagli storici in quanto voci non

comprovate, d'improvviso e senza alcun vaglio critico assumevano credibilità ottenendo

vasta eco.» «L'ultima cosa di cui le banche hanno bisogno è una pubblicità negativa»

spiegò il rabbino Singer. «E noi gliela faremo fino a quando le banche diranno: "Basta.

Scendiamo a patti".» Ansioso di godere a sua [136] volta delle luci della ribalta, il

rabbino Marvin Hier, responsabile del Centro Simon Wiesenthal, fece una dichiarazione

spettacolare: la Svizzera aveva imprigionato i rifugiati ebrei in «campi di lavoro

schiavistico». (Con moglie e figlio sul libro paga, Hier dirige il Centro Simon Wiesenthal

come un'azienda di famiglia: insieme, nel 1992 hanno racimolato uno stipendio di

cinquecentoventimila dollari. Il Centro è rinomato per le sue mostre sull'Olocausto «alla

Disneyland» e per «l'uso vincente di tattiche di terrore sensazionalistico per raccogliere

fondi».) «Vedendo l'infinito miscuglio di verità e supposizioni, di fatti e invenzioni

messo in piedi dai media» conclude Itamar Levin «è facile capire come mai molti svizzeri

credono che il loro Paese sia stato vittima di un qualche complotto internazionale. (20)»

La campagna degenerò rapidamente in una diffamazione del popolo svizzero. In uno

studio sponsorizzato dall'ufficio di D'Amato e dal Centro Simon Wiesenthai, Bower

scrive per esempio che «una nazione i cui abitanti [...] si vantavano con i loro vicini della

propria invidiabile ricchezza trasse coscientemente profitto da denaro sporco di sangue»;

che «i cittadini apparentemente rispettabili del Paese più pacifico del mondo [...]

commisero un furto senza precedenti»; che «la disonestà era un connotato culturale che

gli svizzeri avevano assimilato a fondo per proteggere l'immagine della nazione e la sua

prosperità; che gli svizzeri erano «istinti[137]vamente attratti dal profitto» (solamente gli

svizzeri?); che «gli interessi privati erano l'unico scopo di tutte le banche svizzere»

(Solamente di quelle svizzere?); che «la piccola consorteria di banchieri svizzeri era

diventata la più avìda e la più immorale»; che «la diplomazia svizzera praticava le arti

della dissimulazione e dell'inganno» (solamente la diplomazia svizzera?); che «le scuse e

le dimissioni non erano una pratica diffisa nella tradizione politica svizzera» (e da noi?);

che «la cupidigia svizzera era senza pari»; che «il carattere svizzero» era una

combinazione di «semplicità e doppiezza» e che «dietro la facciata di civiltà c'era uno

strato di ostinazione, che celava una granitica ed egoistica mancanza di comprensione per

le opinioni di chiunque altro»; che gli svizzeri non erano «Semplicemente un popolo

particolarmente privo di fascino che non aveva prodotto artisti, né eroi dall'epoca di

Guglielmo Tell, né statisti, ma erano stati collaboratori disonesti dei nazisti e avevano

tratto profitto dal genocidio» e via dicendo. Rickman sottolinea questa «verità più

profonda» riguardo agli svizzeri: «Giù nel profondo, probabilmente più nel profondo di

quanto loro stessi pensassero, conservavano nel loro temperamento un'arroganza latente

nei confronti degli altri. Pur con tutti i loro sforzi, non riuscivano a nascondere la loro

educazìone» (21). Molti di questi insulti sono terribilmente simili a quelli che gli

antisemiti lanciano contro gli ebrei.

[138] L'accusa principale era che c'era stata, come recita il sottotitolo del libro scritto da

Bower, «una cospirazione elvetico-nazista durata cinquant'anni per sottrarre miliardi agli

ebrei europei e ai sopravvissuti all'Olocausto». Per citare il mantra del racket della

restituzione dei beni dell'Olocausto, questa cospirazione costituì «il più grande ladrocinio

nella storia dell'umanità»; per l'industria dell'Olocausto tutto ciò che riguarda gli ebrei

appartiene a una categoria separata e superlativa: il peggiore, il più grande

Come prima cosa, l'industria dell'Olocausto dichiarò che le banche svizzere avevano

sistematicamente negato agli eredi delle vittime dell'Olocausto l'accesso a conti inattivi su

cui giacevano tra i sette e i venti miliardi di dollari. «Nel corso degli ultimi

cinquant'anni», riportò «Time» in una storia di copertina, un «ordine permanente» delle

banche svizzere «è stato quello di essere evasivi e di fare ostruzionismo quando

sopravvissuti all'Olocausto fanno domande circa i conti correnti dei loro parenti

deceduti.» Ricordando le regole di segretezza attuate dalle banche svizzere nel 1934, in

parte per prevenire un ricatto nazista nei confronti di titolari di conto ebrei, D'Amato

sentenziò di fronte alla commissione sulle attività bancarie della Camera: «Non è

un'ironia il fatto che lo stesso sistema che aveva incoraggiato la gente a venire ad aprire

conti usi poi la segretezza per negare a quelle stesse persone e [139] ai loro credi ciò che

loro spetta di diritto? Era una logica perversa, distorta, alterata».

Bower racconta concitatamente la scoperta di una prova-chiave per dimostrare la perfidia

degli svizzeri nei confronti delle vittime dell'Olocausto: «La fortuna e la scrupolosità ci

fornirono un frammento che confermò la validità delle accuse di Bronfman. Un rapporto

dalla Svizzera dei servizi segreti, datato luglio 1945, affermava che Jacques Salmanovitz,

titolare della Société Générale de Surveillance (una società di procura e fiduciaria con

sede a Ginevra, operante anche sui mercati balcanici), era in possesso di un elenco di

centottantadue clienti ebrei che avevano affidato otto milioni e quattrocentomila franchi

svizzeri e circa novantamila dollari alla società in attesa del loro ritorno dai Balcani. Il

rapporto aggiungeva che gli ebrei non avevano ancora reclamato i loro averi. Rickman e

D'Amato erano al settimo cielo». Anche Rickman, nella sua ricostruzione, brandisce

questa «prova della criminalità della Svizzera», ma nessuno dei due, comunque, fa

menzione in questo contesto specifico del fatto che Salmanovitz fosse ebreo. (L'effettiva

validità di queste accuse verrà discussa più avanti.) (22)

Alla fine del 1996 una teoria di anziane signore ebree e un uomo rilasciarono

commoventi testimonianze di fronte alle commissioni sulle attività bancarie del

Congresso sulle prevaricazioni dei banchieri svizze[140]ri. Ciò nonostante, secondo

Itamar Levin, direttore del maggiore quotidiano economico israeliano, praticamente

nessuno di questi testimoni «era in possesso di prove effettive circa l'esistenza di beni

depositati presso banche svizzere». Per rafforzare l'effetto teatrale di queste deposizioni,

D'Amato portò sul banco dei testimoni Elie Wiesel che, nelle sue dichiarazioni poi

ampiamente riportate, espresse indignazione (indignazione!) nello scoprire che chi aveva

perpetrato l'Olocausto aveva cercato di derubare gli ebrei prima di ammazzarli:

«All'inizio credevamo che la Soluzione Finale avesse come unica motivazione

un'ideologia perversa. Ora veniamo a sapere che non volevano semplicemente uccidere

gli ebrei, per quanto orribile possa suonare, ma volevano anche derubarli. Ogni giorno

impariamo qualcosa di più su questa tragedia. Non esiste un limite alla sofferenza? Un

limite all'oltraggio?». Ovviamente, è difficile definire il saccheggio nazista dei beni degli

ebrei come una novità: gran parte dei saggio di Raul Hilberg, The Destruction of tbe

European Jews, pubblicato nel 1961, è dedicato alle espropriazioni messe in atto dai

nazisti contro gli ebrei (23).

Si è anche affermato che i banchieri svizzeri hanno rubato i depositi delle vittime

dell'Olocausto e distrutto sistematicamente documenti d'importanza vitale per coprire le

loro tracce e che solamente agli ebrei sia toccato un simile abominio. Nel corso di

un'udienza, [141] attaccando violentemente la Svizzera, la senatrice Barbara Boxer

dichiarò: «Questa commissione non tollererà un atteggiamento ipocrita da parte delle

banche svizzere. Non andate a raccontare che cercate le prove, quando le state

distruggendo» (24).

Ahimè, il «valore di propaganda» (Bower) dei vecchi ebrei che chiedevano risarcimenti,

rendendosi testimonì della perfidia degli svizzeri, si esauri velocemente: l'industria

dell'Olocausto dovette allora cercare un altro capo d'accusa. La frenesia dei media si era

fissata sull'acquisto, da parte della Svizzera, dell'oro che i nazisti avevano rapinato dalle

tesorerie centrali dei Paesi europei durante la guerra. Per quanto spacciate come

rivelazioni sensazionali, si trattava in effetti di notizie risapute. Arthur Smith, autore dello

studio di riferimento sulla questione, dichiarò all'udienza alla Camera dei rappresentanti:

«Per tutta la mattina e il pomeriggio ho ascoltato un elenco di fatti che, in gran parte, in

linea generale, erano noti da anni; e mi sorprende che molti di essi vengano presentati

come nuovi e sensazionali». L'obiettivo delle udienze non era comunque quello di

informare ma, secondo quanto disse la giornalista Isabel Vincent, di «inventare storie

sensazionalistiche». Se si fosse gettato fango a sufficienza, era ragionevole pensare che la

Svizzera avrebbe gettato la spugna (25).

L'unica vera nuova accusa era che la Svizzera aveva consapevolmente trafficato con

l'«oro dei campi» e cioè [142] che aveva comprato grossi quantitativi di oro che i nazisti

avevano strappato alle vittime dei campi di concentramento e di sterminio e poi fuso in

lingotti. Bower riferisce che il Congresso Mondiale Ebraico «aveva bisogno di un legame

emotivo per associare la Svizzera all'Olocausto» e questa nuova rivelazione della perfidia

svizzera venne di conseguenza considerata un dono del Cielo. «Poche immagini»

prosegue Bower «suscitavano più emozione delle metodiche operazioni di estrazione dei

denti d'oro dalle bocche dei cadaveri recuperati dalle camere a gas.» «Si tratta di fatti

davvero molto angoscianti» intonò con aria triste D'Amato a un'udienza alla Camera dei

rappresentanti «perché tali sono la sottrazione e il furto di beni dalle case, dalle banche

nazionali, dai campi di sterminio, di orologi d'oro, di braccialetti, di montature di occhiali

e di denti dalle bocche delle persone. (26)»

Oltre che di avere bloccato l'accesso ai conti dell'Olocausto e di avere acquistato oro

rubato. la Svizzera venne anche accusata di avere complottato con la Polonia e l'Ungheria

per defraudare gli ebrei, perché aveva usato come compensazione per le proprietà

elvetiche nazionalizzate da quei governi il denaro depositato presso conti svizzeri inattivi

intestati a cittadini polacchi e ungheresi (in gran parte, ma non tutti, ebrei). Rickman

considera tutto ciò una «rivelazione talmente sensazionale da mandare la Svizzera al

tappeto e da sol[143]levare una tempesta», ma questi fatti erano già ampiamente noti e

riportati sulle riviste americane di giurisprudenza agli inizi degli anni Cinquanta e, con

tutto lo strombazzamento dei mezzi di comunicazione, la cifra complessiva finale non

raggiungeva il milione di dollari in valuta corrente (27).

Già prima dell'udienza inaugurale al Senato sui conti inattivi, nell'aprile 1996, le banche

svizzere si erano accordate per istituire una commissione investigativa e avevano

accettato di attenersi alle indicazioni di questa. Formata da sei membri (tre della World

Jewish Restitution Organization e tre dell'Unione delle banche svizzere) e guidata da Paul

Volcker, ex presidente della US Federal Reserve Bank, la «commissione indipendente di

personalità illustri» venne istituita formalmente con un «Memorandurn d'intesa» del

maggio 1996. Oltre a ciò, il governo svizzero nel dicembre dello stesso anno nominò una

«commissione indipendente di esperti» presieduta dal professor Jean-Frangois Bergier e

della quale faceva parte un famoso studioso dell'Olocausto, l'israeliano Saul Friedlander;

la commissione avrebbe svolto indagini sul commercio di oro tra Svizzera e Germania

durante la Seconda guerra mondiale.

Comunque, ancor prima che questi organismi si mettessero al lavoro, l'industria

dell'Olocausto fece pressioni per trovare un accordo finanziario con la Svizzera, la quale

protestò che qualunque accordo avrebbe [144] dovuto naturalmente attendere le

risultanze della commissione, altrimenti avrebbe costituito «un'estorsione e un ricatto».

Giocando il solito asso nella manica, il Congresso Mondiale Ebraico si mostrò angosciato

dalle condizioni in cui versavano le «vittime bisognose dell'Olocausto». «Il mio problema

è il tempo» disse Bronfman alla commissione sulle attività bancarie della Camera «e ci

sono molti sopravvissuti all'Olocausto per cui sono preoccupato.» Viene da chiedersi

come mai l'angosciato miliardario non potesse personalmente porre temporaneo rimedio

a questa situazione. Rifiutando una proposta di accordo per duecentocinquanta milioni di

dollari da parte della Svizzera, Bronfman singhiozzò: «Non fate favori. Metterò i soldi io

stesso». Non lo fece. La Svizzera, comunque, nel febbraio 1997 si accordò per stabilire

un «Fondo speciale per le vittime bisognose dell'Olocausto» del valore di duecento

milioni di dollari per aiutare a tirare avanti quelle «persone che necessitano in particolar

modo di aiuto o di sostegno» fino a quando le commissioni avessero terminato i lavori. (il

fondo aveva ancora liquidità disponibile quando le commissioni Bergier e Volcker

pubblicarono i loro rapporti.) Le pressioni dell'industria dell'Olocausto per un accordo

finale, comunque, non diminuirono, ma piuttosto si fecero sempre più pressanti. Le

rinnovate richieste della Svizzera che per arrivare a un accordo si sarebbero dovute

attendere le conclu[145]sioni delle commissioni (dopo tutto, era stato il Congresso

Mondiale Ebraico a chiedere in origine questo risarcimento morale) restarono inascoltate.

Di fatto, da queste conclusioni l'industria dell'Olocausto aveva soltanto da perdere: se alla

fine si fossero dimostrate legittime poche richieste di risarcimento, la causa contro le

banche svizzere avrebbe perso credibilità; e se quelli che richiedevano legittimamente un

risarcimento fossero stati identificati, la Svizzera sarebbe stata costretta a pagare solo

loro, anche se numerosi, ma non le organizzazioni ebraiche. Un altro mantra dell'industria

dell'Olocausto era che quel risarcimento «non è questione di soldi, ma di verità e

giustizia». «Non è questione di soldi» fu l'ironica risposta degli svizzeri: «È questione di

più soldi» (28).

Oltre a fomentare l'isteria collettiva, l'industria dell'Olocausto coordinò una strategia a

due livelli per «costringere con il terrore» (l'espressione è di Bower) la Svizzera a cedere:

class actions (29) e boicotaggio economico. La prima class action fu intentata agli inizi

dell'ottobre 1996 da Edward Fagan e Robert Swift per conto di Gizella Weisshaus (prima

che morisse ad Auschwitz, suo padre aveva parlato di un proprio conto in Svizze[146]ra,

ma dopo la guerra le banche respinsero le sue richieste) e «altri che si trovano in

posizione analoga» per venti miliardi di dollari. Poche settimane più tardi, il Centro

Simon Wiesenthal, rivolgendosi agli avvocati Michael Hausfeld e Melvyn Weiss, intentò

una seconda class action e, nel gennaio 1997, il Consiglio mondiale delle comunità

ebraiche ortodosse ne promosse una terza. Tutti e tre i procedimenti furono intentati

presso il giudice Edward Korman, della corte distrettuale di Brooklyn, il quale li unificò.

Almeno una delle parti della causa, l'avvocato di Toronto Sergio Karas, deplorò questa

tattica: «Le class actions non hanno fatto altro che provocare isteria di massa e violenti

attacchi alla Svizzera. Esse non fanno che perpetuare il mito degli avvocati ebrei che

pensano solamente ai soldi». Paul Volcker si espresse contro le class actions sulla base

del fatto che esse «danneggeranno il nostro lavoro, potenzialmente fino al punto di

vanificarlo»: ma per l'industria dell'Olocausto questa era una preoccupazione irrilevante,

se non un ulteriore incentivo (30).

Tuttavia, l'arma principale per spezzare la resistenza svizzera fu il boicottaggio

economico. «Adesso il gioco si farà più sporco» avverti nel gennaio 1997 Abraham Burg,

presidente dell'Agenzia ebraica e uomo di riferimento d'Israele nel caso delle banche

svizzere. «Fino a ora abbiamo tenuto a freno la pressione ebraica internazionale.» Il

Congresso Mondiale Ebraico aveva co[147]minciato a progettare il boicottaggio già nel

gennaio 1996. Bronfman e Singer contattarono il revisore dei conti del comune di New

York, Alan Hevesi (il cui padre era stato un importante funzionario dell'AJC) e quello

dello Stato di New York, Carl Mc Call. Tra tutti e due, gestivano investimenti per

miliardi di dollari in fondi pensione; Hevesi era anche presidente della US Comptrollers

Association, che investiva trentamila miliardi di dollari in fondi pensione. Alla fine di

gennaio, al matrimonio di sua figlia, Singer si incontrò con D'Amato e con Bronfman per

mettere a punto la strategia. «Guardate che razza di uomo sono» scherzò Singer: «Faccio

affari alle nozze di mia figlia» (31).

Nel febbraio 1996, Hevesi e Mc Call scrissero alle banche svizzere minacciando sanzioni.

In ottobre, il governatore Pataki diede pubblicamente il suo appoggio. Nei mesi

successivi, le amministrazioni locali e governative a New York, nel New Jersey, nel

Rhode Island e nell'Illinois stabilirono tutte risoluzioni che minacciavano il boicottaggio

economico a meno che le banche svizzere ammettessero le loro colpe. Nel maggio 1997,

il comune di Los Angeles, con il ritiro di milioni di dollari in fondi pensione da una banca

svizzera, impose le prime sanzioni. Hevesi si affrettò a seguirne l'esempio a New York e,

nell'arco di pochi giorni, anche California, Massachusetts e Illinois presero la stessa

strada.

«Voglio tre miliardi di dollari» proclamò Bronfman [148] nel dicembre 1997 «per farla

finita con tutto: le class actions, il processo Volcker e il resto.» Nel frattempo, D'Amato e

i responsabili delle operazioni bancarie dello Stato di New York cercarono di impedire

alla neonata Unione delle banche svizzere (una fusione dei principali istituti di credito

svizzeri) di operare negli Stati Uniti. «Se gli svizzeri insistono nel puntare i piedi, allora

dovrò chiedere a tutti gli azionisti americani di sospendere le loro operazioni con loro»

mise in guardia Bronfman nel marzo 1998. «La faccenda sta arrivando a un punto in cui o

si risolve da sé o si trasforma in una guerra senza quartiere.» In aprile, le banche svizzere

cominciarono a piegarsi sotto il peso della pressione, ma non volevano ancora accettare

una resa disonorevole. (Da quel che si dice, nel corso del 1997 gli svizzeri spesero

cinquecento milioni di dollari per rintuzzare gli attacchi dell'industria dell'Olocausto.)

«Un cancro terribile affligge la società svizzera» si lamentò Melvyn Weiss, uno degli

avvocati delle class actions. «Abbiamo dato loro la possibilità di liberarsene con una dose

massiccia di radiazioni a un prezzo davvero esiguo e loro l'hanno rifiutata.» In giugno, le

banche svizzere fecero la loro «ultima offerta» di seicento milioni di dollari. Abraham

Foxman, responsabile dell'ADL, sconcertato dall'arroganza degli svizzeri, riuscì a stento

a trattenere la collera: «Questo ultimatum è un insulto alla memoria delle vittime, ai

sopravvissuti e ai [149]membri della comunità ebraica che in buona fede si sono rivolti

agli svizzeri per lavorare insieme al fine di risolvere questo problema cosi

complesso» (32).

Nel luglio 1998, Hevesi e Mc Call minacciarono nuove e pesanti sanzioni. New Jersey,

Pennsylvania, Connecticut, Florida, Michigan e California aderirono nel giro di pochi

giorni. A metà agosto, gli svizzeri capitolarono. Nell'accordo per la class action raggiunto

con la mediazione del giudice Korman, le banche svizzere accettarono di pagare un

miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari. «Lo scopo del pagamento addizionale»

recitava il comunicato stampa di una banca svizzera «è di allontanare la minaccia di

sanzioni come pure di lunghe e costose azioni legali. (33)»

«Lei è stato un vero pioniere in questa saga» si congratulò con D'Amato il Primo ministro

israeliano Binyamin Netanyahu. «Il risultato non è soltanto ciò che si è ottenuto in

termini materiali, ma anche una vittoria morale e un trionfo dello spirito. (34)»

Il miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari dell'accordo con la Svizzera copriva in

linea di massima tre gruppi di casi: i conti inattivi depositati in banche svizzere e

reclamati, il rifiuto di concessione di asilo a rifugiati e il beneficio che la Svizzera aveva

ricavato dal lavoro degli internati nei suoi campi (35). Nonostante la virtuosa

indignazione nei confronti dei «perfidi svizzeri», comunque, l'analogo operato degli

americani è, da [150] ogni punto di vista, altrettanto negativo, se non peggiore. Tra breve

tornerò alla questione dei conti inattivi negli Stati Uniti. Come la Svizzera, l'America

negò l'accesso a rifugiati ebrei in fuga dai nazisti prima e durante la Seconda guerra

mondiale. Ciò nonostante, il governo americano non ha trovato opportuno, per esempio,

risarcire i rifugiati ebrei che si trovavano a bordo della sfortunata nave St. Louis.

Immaginate la reazione se le migliaia di rifugiati dell'America Centrale e di Haiti, cui

venne negato asilo dopo la fuga dagli squadroni della morte appoggiati dagli Stati Uniti,

venissero qui a chiedere un risarcimento. E, per quanto molto più piccola per estensione e

per risorse, la Svizzera all'epoca dell'Olocausto nazista accolse tanti ebrei rifugiati quanti

gli Stati Uniti: circa ventimila (36).

Il solo modo di espiare le colpe del passato - era la lezioncina dei politici americani alla

Svizzera - consisteva nel concedere un risarcimento materiale. Stuart Eizenstat,

sottosegretario al Commercio e inviato speciale di Clinton per le restituzioni dei beni,

giudicò l'indennizzo della Svizzera agli ebrei «una conferma importante della volontà di

questa generazione di affrontare il passato e di ripararne i torti». Benché non potessero

essere «ritenuti responsabili per ciò che era accaduto anni prima» riconobbe D'Amato alla

stessa udienza al Senato, gli svizzeri avevano ancora «la responsabilità e il dovere di

tentare di fare ciò che è giusto in questo momento».

[151] Analogamente, appoggiando pubblicamente le richieste di risarcimento del

Congresso Mondiale Ebraico, il presidente Clinton osservò che «dobbiamo guardare in

faccia e correggere, meglio che possiamo, le terribili ingiustizie del passato». «La storia

non cade in prescrizione» disse il presidente James Leach durante le udienze della

commissione sulle attività bancarie della Camera e «non bisogna mai dimenticare il

passato». «Dovrebbe essere chiaro», scrissero i capigruppo al Congresso di entrambi i

partiti in una lettera al segretario di Stato, che «la risposta alla questione della restituzione

verrà considerata come una prova del rispetto per i diritti umani fondamentali e per

l'autorità della legge». E in un messaggio al parlamento svizzero, il segretario di Stato

Madeleine Albright spiegò che i benefici economici derivanti dai conti nascosti degli

ebrei «sono stati trasmessi alle generazioni successive e questo è il motivo per cui il

mondo ora guarda al popolo svizzero non perché si assuma la responsabilità di azioni

commesse dai loro padri, ma perché si comporti generosamente nel fare ora ciò che è

possibile per riparare i torti passati» (37). Tutti nobili sentimenti, ma ai quali non si presta

nemmeno lontanamente attenzione - se non per metterli immediatamente alla berlina -

quando si tratta di risarcire gli afroamericani per la schiavitù (38).

Resta poco chiaro, nell'accordo finale, come andranno le cose per le «vittime bisognose

dell'Olocausto».

Gizella Weisshaus, la prima a intentare causa per entrare in possesso di un conto

inattivo in Svizzera, ha tolto l'incarico al suo avvocato, Edward Fagan, accusandolo con

amarezza di averla usata. La parcella di Fagan ammontava a quattro milioni di dollari.

Quelle degli altri avvocati arrivavano ai quindici milioni di dollari, con «molti» conti da

seicento dollari l'ora. C'è un avvocato che chiede duemilaquattrocento dollari per avere

letto Nazi Gold [I cassieri dell'Olocausto], il libro di Tom Bower. «I gruppi ebraici e i

soprawissuti» riportò il «Jewish Week» di New York «in concorrenza per avere una parte

di quel miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari versato dalle banche svizzere in

base all'accordo sull'Olocausto, stanno iniziando a litigare tra di loro.» Querelanti e

sopravvissuti sostengono che tutto quel denaro dovrebbe andare direttamente a loro. Ma

le organizzazioni ebraiche non vogliono rinunciare a prendersi una fetta della torta. Nel

denunciare l'invadenza delle organizzazioni ebraiche, Greta Beer, una testimone chiave

del Congresso nella causa contro le banche svizzere, implorò la corte del giudice

Korman: «Non voglio essere schiacciata sotto una scarpa come un insetto». Malgrado la

sua sollecitudine verso le «vittime bisognose dell'Olocausto», il Congresso Mondiale

Ebraico vuole che circa la metà del denaro degli svizzeri sia destinato alle organizzazioni

ebraiche e all'«educazione all'Olocausto». Il Centro Simon Wie[153]senthal sostiene che

se ricevono denaro organizzazioni ebraiche «degne», «una parte dovrebbe andare ai

centri di educazione ebraici». Pur di «mettere le mani» su una fetta più grossa della torta,

ciascuna delle organizzazioni di ebrei, sia riformati sia ortodossi, si presenta come quella

che i sei milioni di morti avrebbero preferito come beneficiaria di questi soldi. L'industria

dell'Olocausto aveva costretto la Svizzera a raggiungere un accordo perché, si diceva, la

cosa essenziale era il tempo: «Le vittime bisognose dell'Olocausto muoiono ogni giorno».

Tuttavia, una volta che la Svizzera ebbe messo il denaro a disposizione, l'urgenza svanì

per miracolo: oltre un anno dopo il raggiungimento dell'accordo non esisteva ancora un

piano di distribuzione. Quando il denaro verrà finalmente suddiviso, tutte le «vittime

bisognose dell'Olocausto» probabilmente saranno morte. In effetti, al dicembre 1999

meno della metà dei duecento milioni di dollari del «Fondo speciale per le vittime

bisognose dell'Olocausto» istituito nel febbraio 1997 era stata distribuita alle vittime vere

e proprie. Una volta pagate le parcelle degli avvocati, il denaro svizzero finirà nelle casse

delle organizzazioni ebraiche «degne» (39).

«Forse nessun accordo è difendibile» scrisse sul «New York Times» Burt Neuborne,

professore di legge alla New York University e membro del team legale che promosse la

class action «se consente che per le banche [154] svizzere l'Olocausto si configuri come

un'impresa che produce profitti.» Edgar Bronfman, con toni patetici, testimoniò davanti

alla commissione sulle attività bancarie della Camera che non si sarebbe dovuto

permettere agli svizzeri di «trarre profitto dalle ceneri dell'Olocausto». D'altro canto,

Bronfman ha ammesso di recente che la tesoreria del Congresso Mondiale Ebraico ha

ammassato non meno di «sette miliardi di dollari circa» grazie al denaro dei

risarcimenti (40).

Le autorevoli relazioni sulle banche svizzere sono state nel frattempo pubblicate e ora è

possibile giudicare se davvero ci sia stata, come sostiene Bower, una «cospirazione

elvetico-nazista durata cinquant'anni per sottrarre miliardi agli ebrei europei e ai

sopravvissuti all'Olocausto».

Nel luglio 1998, la Commissione indipendente di esperti (presieduta da Bergier) diede

alle stampe il suo rapporto, Switzerland and Gold Transactions in Second World War [La

Svizzera e la compravendita d'oro durante la Seconda guerra mondiale]. (41) La

commissione confermò che le banche svizzere acquistarono oro dalla Germania nazista,

per un valore di circa quattro miliardi di dollari in valuta corrente, sapendo che era stato

sottratto alle banche centrali degli Stati europei occupati. Nel corso delle udienze in

Campidoglio, i membri del Congresso espressero sconcerto per il fatto che le banche

svizzere avessero trafficato in beni rubati [155] e, cosa persino peggiore, che indulgessero

ancora a queste spregevoli pratiche. Deplorando il fatto che i politici corrotti depositino i

loro guadagni illeciti in banche svizzere, un membro del Congresso fece appello alla

Svizzera affinché emanasse finalmente una legge «contro la movimentazione segreta di

denaro [...] da parte di personaggi di spicco, o con ruoli dirigenziali in politica, e di

persone che rubano». Lamentando come «nelle banche svizzere abbiano trovato un

rifugio per le loro cospicue ricchezze un gran numero di affaristi e di alti funzionari

governativi corrotti, provenienti da tutto il mondo», un altro membro del Congresso si

domandò se «il sistema bancario svizzero stia accogliendo malviventi di tal fatta, e i

Paesi che essi rappresentano, [...] come venne concesso un luogo sicuro al regime nazista

cinquantacinque anni fa? (42)» . Davvero il problema giustifica la preoccupazione. Ogni

anno, una cifra stimata tra i cento e i duecento miliardi di dollari, frutto della corruzione

politica, attraversa i confini di ogni Paese e viene depositata in banche private. Le

reprimende della commissione sulle attività bancarie del Congresso avrebbero comunque

avuto maggior peso se una buona metà di questi «capitali illegali in fuga» non fossero

depositati in banche americane con la benedizione della legge americana. (43) Tra i

beneficiari recenti di questo «santuario» americano, si annoverano Raul Salinas de

Gortari, fratello dell'ex presidente messica[156]no, e la famiglia dell'ex dittatore

nigeriano, il generale Sani Abacha. «L'oro rubato da Hitler e dai suoi scagnozzi» osserva

Jean Ziegler, un parlamentare elvetico duramente critico nei confronti delle banche del

suo Paese, «nella sostanza non è diverso dai soldi sporchi di sangue» che oggi i dittatori

del Terzo Mondo tengono sui loro conti privati in Svizzera. «Milioni di uomini, donne e

bambini furono condotti alla morte dai ladri autorizzati di Hitler» e «ogni anno centinaia

di migliaia di bambini [muoiono] di malattie e malnutrizione» nel Terzo Mondo perché «i

tiranni spogliano i propri Paesi con l'aiuto degli squali della finanza svizzera (44)» . E

anche con l'aiuto degli squali della finanza americana, senza parlare del fatto, ancor più

importante, che molti di questi dittatori sono stati portati al governo dal potere americano,

che li appoggia e li autorizza a depredare i loro Paesi.

Sul caso specifico dell'Olocausto nazista, la commissione indipendente arrivò alla

conclusione che le banche svizzere acquistarono «lingotti contenenti oro strappato dai

criminali nazisti alle vittime dei campi di lavoro e dei campi di sterminio», ma che

comunque non lo fecero consapevolmente: «Non esistono prove che i responsabili della

decisione alla banca centrale svizzera sapessero che la Reichsbank stesse consegnando

alla Svizzera lingotti contenenti oro ottenuto in quel modo». La commissione valutò

l'«oro delle vittime» acquistato in[157]consapevolmente dalla Svizzera in 134.428 dollari

in valuta dell'epoca, pari a circa un milione di dollari attuali. Questa cifra si riferisce

aff'«oro delle vittime» strappato a internati sia ebrei sia non ebrei. (45)

Nel dicembre 1999, la «commissìone indipendente di personalità illustri» (presieduta da

Volcker) diede alle stampe il suo Report on Dormant Accounts of Victims o f Nazi

Persecution in Swiss Banks (46) [Relazione sui conti inattivi delle vittime della

persecuzione nazista giacenti nelle banche svizzere]. La Relazione documenta le

risultanze di un'esauriente verifica che durò tre anni e costò non meno di cinquecento

milioni di dollari . (47) Il nucleo delle conclusioni, riguardante il «trattamento dei conti

inattivi delle vittime della persecuzione nazista» merita di essere citato per esteso:

Per quanto concerne le vittime della persecuzione nazista, non sono emerse prove di

discriminazione sistematica, di impedimento all'accesso, di appropriazione indebita o di

violazione della legge svizzera sulla conservazione dei documenti. Tuttavia, la Relazione

critica anche le azioni di alcune banche per il modo in cui hanno trattato i conti di vittime

della persecuzione nazista. È necessario porre in evidenza il termine «alcune» nella frase

precedente, dal momento che le azioni oggetto di critica sono principalmente quelle di

specifiche banche nella loro gestione di conti individuali intestati a vittime della [158]

persecuzione nazista, e che queste azioni sono emerse nel contesto di un'indagine che ha

riguardato duecentocinquattaquattro banche e coperto un arco temporale di circa

sessant'anni. Per quanto riguarda le azioni criticate, la Relazione riconosce anche che per

la condotta delle banche coinvolte in queste attività ci furono circostanze attenuanti. La

Relazione riconosce inoltre che ci sono molti casi documentati in cui le banche cercarono

attivamente i titolari scomparsi dei conti o i loro eredi, ivi compresi alcune vittime

dell'Olocausto, e pagarono il saldo dei conti inattivi alle legittime parti.

La mite conclusione del paragrafo è che «la commissione ritiene che le azioni oggetto di

critica siano di sufficiente importanza perché sia auspicabile documentare in questa

sezione quali furono gli errori in modo da imparare da essi e non ripeterli in faturo (48)» .

La Relazione concluse inoltre che, nonostante la commissione non fosse in grado di

seguire le tracce di tutti i documenti bancari per il «periodo attinente» (1933-45),

distruggere documenti senza essere scoperti «sarebbe stato difficile, se non impossibile»

e che «in effetti non è emersa alcuna prova di distruzione sistematica delle registrazioni

di conto allo scopo di nascondere i comportamenti passati». La Relazione conclude che la

percentuale di documenti recuperati (sessanta per cento) era «davvero straordinaria» e

«degna di nota», tenuto soprattutto conto del fatto che la legge svizzera non

richiede che i documenti siano conservati oltre i dieci anni. (49)

Ebbene, si metta a confronto il tutto con la versione che il «New York Times» riporta

delle conclusioni della commissione presieduta da Volcker. Sotto il titolo The Deceptions

of Swiss Banks [I raggiri delle banche svizzere], (50) il «New York Times» scrisse che il

comitato non aveva trovato «prove decisive» che le banche svizzere avessero trafficato

con i conti inattivi di ebrei. Eppure, la Relazione affermava categoricamente che non

esisteva «alcuna prova». Il giornale prosegue asserendo che la commissione aveva

scoperto che «le banche svizzere avevano in qualche maniera trovato il modo di far

perdere le tracce di un numero impressionante di questi conti». La verità è che la

Relazione sottolineava il fatto che gli svizzeri avevano conservato una quantità di

documenti «davvero straordinaria» e «degna di nota». Per finire, il «New York Times»

riporta che secondo la commissione «molte banche avevano respinto con crudeltà e con

l'inganno molti familiari che cercavano di rientrare in possesso dei patrimoni perduti». In

realtà, la Relazione sottolineò che solamente «alcune» banche avevano agito male e che

in quei casi c'erano «circostanze attenuanti», facendo parimenti rilevare i «molti casi» in

cui le banche cercarono attivamente i legittimi aventi diritto.

La Relazione accusa effettivamente le banche svizze[160]re di non essere state «leali e

franche» sin dalle precedenti indagini sui conti inattivi del periodo dell'Olocausto. Ciò

nondimeno, sembra attribuire queste mancanze più a fattori tecnici che a malafede. (51)

La Relazione identifica cinquantaquattromila conti che presentano «una probabile o

possibile relazione con vittime della persecuzione nazista», ma ritiene che solamente in

metà (venticinquemila) di questi casi la probabilità fosse abbastanza significativa da

giustificare la pubblicazione dei nomi dei titolari dei conti. In moneta corrente, il valore

stimato per diecimila di questi conti, per i quali era reperibile qualche informazione,

oscilla tra i centosettanta e i duccentosessanta milioni di dollari. Stimare il valore corrente

dei restanti conti si rivelò impossibile. (52) Il valore totale dei conti inattivi realmente

riguardanti l'epoca dell'Olocausto sarà probabilmente molto superiore ai trentadue milioni

di dollari stimati in origine dalle banche svizzere, ma sarà decisamente inferiore alla cifra

oscillante tra i sette e i venti miliardi di dollari dichiarata dal Congresso Mondiale

Ebraico. Nella testimonianza in seguito resa alla commissione sulle attività bancarie,

Volcker osservò che il numero di banche che fossero «probabilmente o possibilmente» in

relazione con vittime dell'Olocausto era «molte volte superiore a quello emerso dalle

precedenti indagini degli svizzeri». Comunque, continuava: «Sottolineo le parole

"probabilmente o possibilmente" in quanto, fatta eccezione per un numero

relativamente esiguo di casi, dopo oltre mezzo secolo, non siamo in grado di stabilire con

certezza inconfutabile una relazione tra vittime e titolari dei conti» (53).

La scoperta più esplosiva effettuata dalla commissione presieduta da Volcker non venne

riportata dai media americani: oltre alla Svizzera, anche gli Stati Uniti rientravano tra i

luoghi dove gli ebrei d'Europa avevano cercato di mettere al sicuro i propri beni:

Il clima di attesa della guerra e le difficoltà economiche, insieme alla

persecuzione degli ebrei e di altre minoranze per mano dei nazisti prima e durante

la Seconda guerra mondiale, fecero sì che molte persone, e tra esse le vittime di

queste persecuzioni, spostassero i loro beni verso Paesi ritenuti in grado di fornire

un rifugio sicuro (con la significativa presenza di Stati Uniti e Regno Unito) [...]

In considerazione del fatto che la neutrale Svizzera confinava con Paesi dell'Asse

(o comunque occupati dalle forze dell'Asse), anche le banche svizzere e altre

società elvetiche d'intermediazione finanziaria divennero collettori di parte dei

patrimoni in cerca di un rifugio.

Un'appendice importante elenca le «destinazioni preferite» dei beni mobili appartenenti

agli ebrei europei: le più ricorrenti risultarono gli Stati Uniti e la Svizzera.

(In terza posizione «con molto distacco» veniva il Regno Unito.) (54)

La domanda che sorge ovvia è: che fine hanno fatto i conti inattivi dell'epoca

dell'Olocausto depositati nelle banche americane? La commissione sulle attività bancarie

della Camera chiamò un esperto a testimoniare sulla questione. Seymour Rubin,

attualmente docente all'American Universìty, fu vicecapo della delegazione statunitense

nei negoziati con la Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale. Sotto gli auspici delle

organizzazioni ebraiche americane, Rubin aveva anche lavorato, nel corso degli anni

Cinquanta, con un «gruppo di esperti della vita delle comunità ebraiche in Europa» per

identificare conti inattivi dell'epoca dell'Olocausto nelle banche americane. Nella sua

deposizione, Rubin affermò che, dopo una rapida e molto superficiale analisi limitata alle

banche di New York, il valore di questi conti fu stimato in sei milioni di dollari. Le

organizzazioni richiesero al Congresso questa somma per le «vittime bisognose» (negli

Stati Uniti, per via della dottrina della proprietà caduca, i conti inattivi abbandonati

vengono incamerati dallo Stato). Quindi Rubin ricordò:

La stima iniziale di sei milioni di dollari venne rifiutata dai deputati interessati a

promuovere un disegno di legge sull'argomento, e nella bozza originaria fu

stabilito un tetto di tre milioni di dollari [...] Di fatto, nel corso delle udienze

alla commissione, i tre milioni furono portati a uno. L'azione legislativa ridusse

ulteriormente l'ammontare a cinquecentomila dollari, cifra cui la Corte dei Conti

si oppose, proponendo un limite di duecentocinquantamila dollari. La legge,

comunque, passò con uno stanziamento di cinquecentomila dollari.

«Gli Stati Uniti» concluse Rubin «adottarono solamente provvedimenti molto limitati per

identificare i conti privi di eredi e stanziarono [...] solamente cinquecentomila dollari

contro i trentadue milioni riconosciuti dalle banche svizzere anche prima dell'indagine

Volcker. (55)» In altre parole, il comportamento americano è molto peggiore di quello

svizzero. Va sottolineato che, fatta eccezione per un accenno fugace di Eizenstat, durante

le udienze delle commissioni sulle attività bancarie della Camera e del Senato aventi

come oggetto le banche svizzere, non venne fatta menzione di conti inattivi negli Stati

Uniti. Inoltre, benché Rubin giochi un ruolo centrale nelle ricostruzioni dell'affare, delle

banche svizzere (Bower dedica pagine e pagine a questo «crociato del Dipartimento di

Stato»), nessuno fà parola della sua testimonianza alla commissione della Camera dei

rappresentanti, dove espresse anche «una certa dose di scetticismo circa le grosse somme

di denaro [nei conti inattivi in Svizzera] di cui si va parlan[164]do». È inutile dire che i

puntuali rilievi di Rubin su questo argomento vennero altrettanto puntualmente ignorati.

Dove erano le proteste del Congresso contro i «perfidi» banchieri americani? Uno dopo

l'altro, i membri delle commissioni sulle attività bancarie di Camera e Senato chiesero a

gran voce che la Svizzera «alla fine pagasse», ma nessuno chiese che gli Stati Uniti

facessero lo stesso. Anzi, un membro della commissione sulle attività bancarie della

Camera affermò sfacciatamente, con l'approvazione di Bronfman, che «soltanto» la

Svizzera «non è riuscita a dimostrare di avere il coraggio di confrontarsi con la sua

storia» (56). Non sorprende che l'industria dell'Olocausto non abbia lanciato una

campagna per un'indagine sulle banche americane: una verifica condotta con lo stesso

grado di scientificità di quella svizzera ai cittadini americani sarebbe costata in

proporzione non milioni ma miliardi di dollari (57) e, nel momento in cui fosse stata

portata a termine, gli ebrei americani avrebbero chiesto asilo a Monaco di Baviera. Il

coraggio ha i suoi limiti.

Già alla fine degli anni Quaranta, quando gli Stati Uniti stavano facendo pressione sulla

Svizzera perché identificasse i conti inattivi intestati a ebrei, gli svizzeri protestarono che

l'America avrebbe fatto meglio a occuparsi degli affari suoi (58). A metà del 1997, il

governatore di New York Pataki annunciò l'istituzione di una [165] commissione di Stato

per il recupero dei beni delle vittime dell'Olocausto con il compito di esaminare i reclami

contro le banche svizzere. Tutt'altro che impressionati, gli svizzeri suggerirono che la

commissione avrebbe potuto impiegare meglio il proprio tempo vagliando i reclami

contro le banche americane e israeliane (59). In effetti, Bower ricorda che i banchieri

israeliani avevano «rifiutato di stilare elenchi di conti inattivi intestati a ebrei» dopo la

guerra del 1948; inoltre, il «Financial Times» ha riportato che «diversamente dai Paesi

europei, le banche d'Israele e le organizzazioni sioniste stanno resistendo alle pressioni

per costituire commissioni indipendenti che stabiliscano quante proprietà e quanti conti

inattivi fossero intestati a sopravvissuti all'Olocausto e come rintracciare i titolari».

(All'epoca del mandato britannico, gli ebrei europei comprarono appezzamenti di terra e

aprirono conti correnti in Palestina per sostenere il movimento sionista o per prepararsi a

una futura immigrazione.) Nell'ottobre 1998, il Congresso Mondiale Ebraico e la World

Jewish Restitution Organization «presero la decisione di massima di non porre la

questione dei beni appartenenti alle vittime dell'Olocausto in territorio israeliano sulla

base del fatto che questa responsabilità era di competenza del governo israeliano»

(«Haaretz»). Quindi il mandato di queste organizzazioni arriva fino alla Svizzera, ma non

allo Stato israeliano. L'accusa più sensa[166]zionale mossa contro le banche svizzere fu

che queste avevano richiesto agli eredi delle vittime dell'Olocausto nazista i certificati di

morte. L'avevano fatto anche le banche israeliane, ma si cercherebbero invano denunce

nei confronti dei «perfidi israeliani». A dimostrazione del fatto che «non si può porre

equivalenza morale tra le banche in Israele e quelle in Svizzera» il «New York Times»

riportò le parole di un ex legislatore israeliano: «Da noi si è trattato al massimo di

negligenza; in Svizzera fu un crimine» (60). Ogni commento è superfluo.

Nel maggio 1998, una commissione consultiva presidenziale sui beni dell'Olocausto negli

Stati Uniti fu incaricata dal Congresso di «condurre una nuova ricerca sul destino dei beni

sottratti alle vittime dell'Olocausto e giunti in possesso del governo federale americano» e

di «suggerire al presidente la politica che si dovrebbe adottare per restituire tali beni

rubati ai legittimi proprietari o ai loro eredi». «Il lavoro della commissione dimostra

inconfitabilmente» dichiarò il suo presidente Bronfman «che quanto ai beni

dell'Olocausto negli Stati Uniti vogliamo attenerci a quegli stessi standard di verità su cui

abbiamo portato altre nazioni.» Ma una commissione consultiva presidenziale con un

budget di sette milioni di dollari è una cosa piuttosto diversa da un'indagine esterna

(costata cinquecento milioni di dollari) che ha coinvolto l'intero sistema bancario di una

nazione e ha comportato l'accesso sen[167]za restrizioni a tutti i suoi documenti (61). Per

dissipare ogni dubbio sul fatto che gli Stati Uniti erano schierati dalla parte di quelli che

non lasciavano nulla di intentato per restituire i beni degli ebrei rubati all'epoca

dell'Olocausto, James Leach, presidente della commissione sulle attività bancarie della

Camera dei rappresentanti, nel febbraio 2000 annunciò con orgoglio che un museo del

North Carolina aveva restituito un quadro a una famiglia austriaca. «È un segno del senso

di responsabilità americano [...] e penso che sia un gesto cui questa commissione debba

dare risalto. (62)»

Per l'industria dell'Olocausto la vicenda delle banche svizzere, come i tormenti postbellici

patiti dal «sopravvissuto» svizzero Binjamin Wilkomirski, era un'ulteriore conferma

dell'inveterato e irrazionale odio dei gentili. Il caso mise in risalto la grossolana

insensibilità che anche un «Paese europeo liberal-democratico», conclude Itamar Levin,

poteva mostrare «nei confronti di quanti portano sulla propria pelle le ferite fisiche e

psicologiche del più grave crimine della storia». Nell'aprile 1997, una ricerca compiuta

dall'Università di Tel Aviv documentò «un'evidente impennata» dell'antisemitismo

svizzero. Eppure questa inquietante scoperta non poteva essere messa in alcun modo in

relazione con l'estorsione attuata dall'industria dell'Olocausto nei confronti della Svizzera.

«L'antisemitismo non è colpa degli ebrei» sospirò Bronfman «è colpa degli

antisemiti. (63)»

[168] Il risarcimento materiale per l'Olocausto «è la più importante prova morale che

l'Europa si trovi ad affrontare alla fine del ventesimo secolo» sostiene Itamar Levin.

«Sarà questa la vera prova del trattamento riservato agli ebrei da parte del

Continente. (64)» E anzi, imbaldanzita dal fatto di essere riuscita a spillare soldi alla

Svizzera, l'industria dell'Olocausto è passata in fretta a «mettere alla prova» il resto

dell'Europa. La tappa successiva è stata la Germania.

Dopo avere regolato i conti con la Svizzera nell'agosto 1998, in settembre l'industria

dell'Olocausto attuò la medesima strategia vincente contro la Germania. Gli stessi tre

team legali (Hausfeld-Weiss, Fagan-Swift, e il Consiglio mondiale delle comunità

ebraiche ortodosse) intentarono una class action contro l'industria privata tedesca,

domandando non meno di venti miliardi di dollari di risarcimento. Hevesi, il revisore dei

conti della città di New York, brandendo l'arma del boicottaggio economico, cominciò a

«tenere sotto controllo» i negoziati nell'aprile 1999. La commissione sulle attività

bancarie della Camera dei rappresentanti tenne le udienze in settembre. Il membro dei

Congresso Carolyn Maloney dichiarò che «il tempo trascorso non deve essere una

scusante per un arricchimento iniquo» (in ogni caso, un conto è il lavoro schiavistico

degli ebrei, un altro quello degli afroamericani) mentre Leach, presidente della

commissione,[169] recitò il solito vecchio copione: «La storia non cade in prescrizione».

Stuart Eizenstat disse alla commissione che le società tedesche in rapporti d'affari con gli

Stati Uniti «danno prova qui della loro buona volontà, e vorranno continuare sulla strada

del civismo di cui hanno sempre dato prova negli Stati Uniti e in Germania». Mettendo

da parte le amenità diplomatiche, il membro del Congresso Rick Lazio raccomandò senza

mezzi termini alla commissione di «concentrarsi sulle aziende private tedesche, in

particolare quelle che fanno affari con gli Stati Uniti» (65).

Per fomentare l'isteria collettiva contro la Germania, nell'ottobre 1999 l'industria

dell'Olocausto si servì di molteplici annunci pubblicitari a piena pagina sui quotidiani. La

terribile verità non bastava: si ricorse a qualunque mezzo. In un'inserzione pubblicitaria

che denunciava la casa farmaceutica tedesca Bayer venne fatto il nome di Josef Mengele,

nonostante non ci sia alcuna prova che la Bayer abbia «diretto» i suoi terrificanti

esperimenti. Rendendosi conto dell'inesorabilità dell'infernale macchina dell'Olocausto,

verso la fine dell'anno i tedeschi cedettero e accettarono un accordo per una cifra

considerevole. Il «Times» di Londra attribuì questa resa alla campagna «Holo-cash»

portata avanti negli Stati Uniti. «Non avremmo potuto raggiungere un accordo» riferì in

seguito Eizenstat alla commissione sulle attività bancarie della Camera «sen[170]za il

coinvolgimento personale e la presa di posizione del presidente Clinton [ ... ] e di altri

influenti funzionari» del governo americano (66).

L'industria dell'Olocausto ribadì che la Germania aveva l'«obbligo morale e giuridico» di

risarcire gli ex internati nei campi di lavoro. «Questi prigionieri costretti al lavoro

schiavistico meritano un minimo di giustizia» sostenne Eizenstat «nei pochi anni che

restano loro da vivere.» Tuttavia, come si è già detto, è semplicemente falso sostenere

che essi non avessero ricevuto alcun risarcimento. In base agli accordi originari, il

governo tedesco garantiva un indennizzo ai prigionieri dei campi di lavoro. Il governo

risarcì anche gli ex internati per «la privazione della libertà» e per «danni fisici e

materiali». Soltanto il mancato versamento dei salari non era coperto da indennizzo. Tutti

coloro che sostennero di avere subito danni permanenti ricevettero un consistente

vitalizio (67). Inoltre la Germania versò alla Claims Conference circa un miliardo di

dollari (in valuta corrente) per quegli ex internati ebrei che avevano ricevuto un

indennizzo minimo. Come si è già detto, la Claims Conference, venendo meno agli

accordi con la Germania, utilizzò invece il denaro per vari progetti che le stavano a cuore.

La giustificazione che fornì per questo (ab)uso del risarcimento tedesco partiva dal

presupposto che «ancor prima che si potesse attingere ai fondi [...] le necessità delle

vittime "bisognose" del na[171]zismo erano già state ampiamente soddisfatte» (68).

Eppure, ancora cinquant'anni dopo, l'industria dell'Olocausto stava domandando soldi per

«le vittime bisognose dell'Olocausto» che erano vissute nell'indigenza perché, a suo dire,

i tedeschi non le avevano mai risarcite.

Che cosa costituisca un «giusto» risarcimento per gli ex internati ebrei costretti al lavoro

schiavistico è decisamente un interrogativo senza risposta. Tuttavia, si può dire questo: in

base ai termini del nuovo accordo, a ciascuno di loro è destinata una cifra pari a circa

settemilacinquecento dollari. Se la Claims Conference avesse distribuito correttamente

fin dall'inizio il denaro della Germania, un maggior numero di ex internati avrebbe

ricevuto molto di più e molto prima.

Se «le vittime bisognose dell'Olocausto» vedranno o no una parte dei nuovi soldi della

Germania è una questione tuttora aperta. La Claims Conference vuole una bella fetta di

torta a titolo di suo «fondo speciale». Secondo il «Jerusalem Report», la Claims

Conference ha «tutto da guadagnare nel fare in modo che i sopravvissuti non ottengano

niente». Michael Kleiner, deputato della Knesset israeliana (Herut), tacciò la Claims

Conference di essere uno «Judenrat, che svolge, in modo diverso, la stessa opera dei

nazisti». «Un'associazione disonesta, che si muove costantemente in segreto, e inquinata

da una vergognosa e ben nota corruzione morale», ribadiva Kleiner «un ente malvagio

che maltratta gli ebrei [172] sopravvissuti all'Olocausto e i loro eredi mentre se ne sta

seduto su un enorme mucchio di denaro che appartiene a singoli individui ma che esso

cerca di incamerare con ogni mezzo, sebbene queste persone siano ancora in vita. (69)»

Nel frattempo, Stuart Eizenstat, testimoniando davanti alla commissione sulle attività

bancarie della Camera, continuava a incensare la «trasparenza dell'operato della Jewish

Material Claims Conference nel corso degli ultimi quarantanni». A eccellere per cinismo

fu il rabbino Israel Singer. Oltre all'incarico di segretario generale al Congresso Mondiale

Ebraico, Singer ricopriva quello di vicepresidente della Claims Conference e aveva il

compito di condurre i negoziati nelle trattative con la Germania sulla questione del lavoro

schiavistico. Dopo il raggiungimento degli accordi con la Svizzera e con la Germania,

egli, mostrando di essere un uomo pio, ribadi più volte alla commissione sulle attività

bancarie della Camera che «sarebbe [stata] una vergogna» se gli indennizzi per

l'Olocausto fossero stati «pagati agli eredi invece che ai sopravvissuti». «Non vogliamo

che quei soldi vadano agli eredi. Vogliamo che vadano alle vittime.» Però, «Haaretz»

riferisce che Singer fu uno dei più convinti sostenitori dell'utilizzo del denaro dei

risarcimenti «per far fronte alle necessità dell'intera comunità ebraica, e non solo di

quegli ebrei che furono così fortunati da sopravvivere all'Olocausto e raggiungere la

vecchiaia» (70).

[173] In una pubblicazione dello US Holocaust Memorial Museum, Henry Friedlander,

autorevole studioso di storia dell'Olocausto nazista ed ex internato ad Auschwitz, in

relazione al numero dei sopravvissuti alla fine della guerra ipotizzò:

Se all'inizio del 1945 c'erano circa 715.000 prigionieri nei campi, e almeno un

terzo, vale a dire circa 238.000, morì nella primavera del 1945, possiamo supporre

che sopravvissero al massimo 475.000 prigionieri. Dato che gli ebrei erano stati

uccisi in modo sistematico, e soltanto quelli scelti per lavorare (ad Auschwitz pari

circa al quindici per cento) avevano una possibilità di sopravvivenza, dobbiamo

supporre che al momento della liberazione gli ebrei costituissero non più del venti

per cento della popolazione dei campi.

«Perciò possiamo stimare» concludeva «che il numero di sopravvissuti ebrei non

superasse le centomila unità. » La stima di Friedlander degli ex internati ebrei costretti al

lavoro schiavistico alla fine della guerra, tra l'altro, è considerata relativamente alta dagli

economisti. In un autorevole saggio, Leonard Dinnerstein calcolava: «Sessantamila ebrei

[...] uscirono dai campi di concentramento. Nel giro di una settimana ne morirono più di

ventimila» (71).

In un briefing del Dipartimento di Stato del maggio [174] 1999, Stuart Eizenstat stimò il

numero totale degli ex internati ancora in vita, ebrei e non ebrei, citando come fonte

«gruppi che li rappresentano», in un numero «compreso tra le settanta e le novantamila

persone» (72). Eizenstat era l'inviato americano ai negoziati sui campi di lavoro tedeschi

e lavorò a stretto contatto con la Claims Conference (73). La sua stima portava il numero

totale degli ex deportati ancora vivi a una cifra oscillante tra i quattordicimila e i

diciottomila (il venti per cento dei settanta-novantamila). Ciò nonostante, non appena

iniziarono i negoziati, l'industria dell'Olocausto chiese risarcimenti per

centotrentacinquemila ex internati ebrei costretti al lavoro schiavistico e il loro numero

totale, comprendendo i non ebrei, passò a duecentocinquantamila (74). In altre parole, il

numero degli ex deportati ebrei nei campi di lavoro ancora in vita fu quasi decuplicato

rispetto al maggio 1999 e la forbice tra ex deportati ebrei e non ebrei si restrinse

drasticamente. In effetti, a voler credere all'industria dell'Olocausto, oggi sono vivi più ex

deportati ebrei nei campi di lavoro rispetto a cinquant'anni fa. «Quale rete aggrovigliata

tessiamo» scrisse Sir Walter Scott «quando stiamo imparando a mentire.»

Quando l'industria dell'Olocausto gioca con i numeri per aumentare le richieste di

risarcimento, gli antisemiti sfottono allegramente gli «ebrei bugiardi» che

«mercanteggiano» perfino sulla propria morte. Con i suoi [175] giochi di prestigio,

l'industria dell'Olocausto ha, per quanto involontariamente, riabilitato il nazismo. Raul

Hilberg, l'autorità per antonomasia sull'Olocausto nazista, stima che gli ebrei uccisi siano

stati cinque milioni e centomila (75). Eppure, se oggi fossero vivi centotrentacinquemila

ex internati nei campi di lavoro, alla guerra dovrebbero essere sopravvissuti circa

seicentomila, che sono almeno cinquecentomila in più rispetto alle stime normali. Si

dovrebbe poi sottrarre questo mezzo milione ai cinque milioni e centomila uccisi. Non

soltanto i «sei milioni» diventano una cifra insostenibile, ma le cifre stimate dall'industria

dell'Olocausto si avvicinano di molto a quelle di coloro che negano l'Olocausto. Si

consideri che Heinrich Himmler, l'organizzatore della Soluzione Finale, nel gennaio 1945

calcolò tutta la popolazione dei campi in poco più di settecentomila persone e che,

secondo Friedlander, circa un terzo di loro era stato eliminato entro il mese di maggio.

Ebbene, se gli ebrei costituivano solamente il venti per cento della popolazione uscita

viva dai campi, e se, come sostiene l'industria dell'Olocausto, alla guerra sopravvissero

seicentomila ebrei deportati, allora in tutto sarebbero dovuti sopravvivere tre milioni di

prigionieri. Sulla base dei calcoli dell'industria dell'Olocausto, le condizioni di vita dei

campi di concentramento non sarebbero state così dure e si dovrebbero ipotizzare un

tasso di natalità decisamente alto e uno di mortalità decisamente basso (76).

[176] È risaputo che la Soluzione Finale fu uno sterminio industriale, portato a termine

con efficienza senza precedenti, con tecniche da catena di montaggio (77). Ma se, come

sostiene l'industria dell'Olocausto, sopravvissero svariate centinaia di migliaia di ebrei,

dopo tutto la Soluzione Finale non fu così efficiente. Deve essere stato un massacro

condotto in modo casuale: esattamente quello che sostengono coloro che negano

l'esistenza dell'Olocausto. Les extrêmes se touchent.

In una recente intervista, Raul Hilberg sottolinea che per capire l'Olocausto nazista i

numeri sono fondamentali. In effetti, con la sua radicale revisione delle cifre, la Claims

Conference solleva dubbi sulla sua stessa interpretazione. Secondo la sua «dichiarazione

programmatica» per i negoziati con la Germania «il lavoro schiavistico costituì uno dei

tre metodi principali che i nazisti impiegarono per uccidere gli ebrei: gli altri furono le

fucilazioni e le camere a gas. Uno degli obiettivi del lavoro schiavistico era di sfruttare i

prigionieri fino a provocarne la morte [...] Il termine "schiavistico" è inesatto in questo

contesto, perché in linea di massima i padroni hanno interesse a preservare la vita e la

salute dei loro schiavi. Il progetto nazista per gli "schiavi", invece, era quello di sfruttare

il loro potenziale lavorativo per poi eliminarli». Tranne coloro che negano l'Olocausto,

nessuno ha ancora messo in discussione il fatto che i nazisti consegnarono a questo

terribile de[177]stino gli internati costretti al lavoro schiavistico. Come è possibile però

conciliare questi fatti riconosciuti con l'asserzione che molte centinaia di migliaia di ebrei

impiegati siano sopravvissuti? La Claims Conference non ha in questo modo aperto una

breccia nel muro che separa la spaventosa verità sull'Olocausto nazista dalla sua

negazione? (78)

In un'inserzione a piena pagina sul «New York Times», luminari dell'industria

dell'Olocausto come Elie Wiesel, il rabbino Marvin Hier e Steven T. Katz condannarono

«la negazione dell'Olocausto da parte della Siria». Il testo criticava duramente un

editoriale apparso su un quotidiano ufficiale del governo siriano che sosteneva che Israele

«inventa storie sull'Olocausto» allo scopo di «prendere più soldi dalla Germania e da altri

Paesi occidentali». Per quanto spiacevole, l'accusa siriana è vera. L'ironia, che sfugge

tanto al governo siriano quanto ai firmatari della pagina a pagamento, è che questa stessa

storia delle molte centinaia di migliaia di sopravvissuti costituisce una forma di

negazione dell'Olocausto. (79)

L'estorsione nei confronti di Svizzera e Germania è stata solamente il preludio del gran

finale: l'estorsione nei confronti dell'Europa dell'Est. Con il crollo del blocco sovietico, in

quello che era stato il cuore geografico della comunità ebraica europea si aprirono

prospettive allettanti. Intonando la salmodia ipocrita delle «vit[178]time bisognose

dell'Olocausto», l'industria dell'Olocausto ha cercato di estorcere miliardi di dollari a

questi Paesi già impoveriti e, perseguendo il suo fine senza alcun riguardo e in modo

inflessibile, è diventata la principale fomentatrice dell'antisemitismo in Europa.

L'industria dell'Olocausto si è presentata nelle vesti dell'unico legittimo avente diritto a

reclamare i beni comuni e personali di coloro che perirono durante l'Olocausto nazista.

«Esiste un accordo con il governo israeliano» riferì Edgar Bronfman alla commissione

sulle attività bancarie della Camera dei rappresentanti «in base al quale i beni senza eredi

dovrebbero essere accreditati alla World Jewish Restitution Organization.» Utilizzando

questo «mandato», l'industria dell'Olocausto ha chiesto ai Paesi dell'ex blocco sovietico

di consegnare tutti i beni che prima della guerra erano di proprietà di ebrei o di

provvedere a un risarcimento in denaro. (80) Tuttavia, diversamente dal caso di Svizzera

e Germania, avanza queste richieste senza dare loro troppo risalto pubblicitario:

l'opinione pubblica, infatti, non è stata troppo contraria al ricatto nei confronti dei

banchieri svizzeri e degli industriali tedeschi, ma potrebbe guardare con meno favore al

ricatto degli stremati contadini polacchi. inoltre, gli ebrei che hanno perso parenti

nell'Olocausto nazista potrebbero anche lanciare qualche occhiata risentita alle

macchinazioni della VJRO: la pretesa di essere i legittimi eredi dei morti per

incame[179]rarne i beni potrebbe essere facilmente scambiata per sciacallaggio. D'altro

canto, l'industria dell'Olocausto non ha bisogno di mobilitare l'opinione pubblica: con il

sostegno dei funzionari-chiave dell'amministrazione americana, può annientare

facilmente la debole resistenza di nazioni già prostrate.

«È importante comprendere che i nostri sforzi per la restituzione di proprietà

comunitarie» spiegò Stuart Eizenstat a una commissione parlamentare «sono tutti

finalizzati alla rinascita e al rinnovamento della vita degli ebrei» nell'Europa dell'Est. Al

fine di «promuovere il rinnovarnento» della vita ebraica in Polonia, la World Jewish

Restitution Organization sta avanzando pretese su oltre seimila proprietà comunitarie

ebraiche prebelliche, comprese quelle attualmente usate come scuole e ospedali. Prima

della guerra, la popolazione ebraica della Polonia era nell'ordine dei tre milioni e mezzo

di persone; quella attuale è di alcune migliaia. Promuovere la rinascita della vita ebraica

deve per forza comportare l'assegnazione di una sinagoga o di un edificio scolastico a

ogni ebreo polacco? La WJRO sta anche redamando la proprietà di centinaia di migliaia

di appezzamenti di terra polacca, valutati in svariate decine di miliardi di dollari. «Gli

amministratori polacchi temono», riporta «Jewish Week», che la richiesta «possa portare

la nazione alla bancarotta.» Quando il parlamento polacco propose di porre dei limiti ai

risarcimenti per evitare l'in[180]solvenza, Elan Steinberg del CME denunciò la legge

come un «atto fondamentalmente antiamericano». (81)

Esercitando pesanti pressioni sulla Polonia, gli avvocati dell'industria dell'Olocausto

intentarono una class action presso la corte del giudice Korman per risarcire i

«sopravvissuti all'Olocausto che stanno invecchiando e morendo». Nella denuncia si

sosteneva che i governi postbellici della Polonia «proseguirono nel corso degli ultimi

cinquantaquattro anni» una politica genocida tesa a «espellere fino all'ultimo» ebreo. I

membri dei New York City Council concordarono una risoluzione all'unanimità che

chiedeva alla Polonia «di approvare adeguate norme legislative che mettessero in atto la

restituzione completa dei beni dell'Olocausto», mentre cinquantasette membri del

Congresso (capeggiati da Anthony Weiner, di New York) inviarono una lettera al

parlamento polacco in cui chiedevano «adeguate norme legislative volte alla restituzione

del cento per cento di tutte le proprietà e i beni confiscati durante l'Olocausto». «Dal

momento che le persone coinvolte diventano ogni giorno più vecchie» precisava la lettera

«il tempo a disposizione per risarcire coloro che hanno subito dei torti sta

scadendo.» (82)

Nella testimonianza resa alla commissione sulle attività bancarie del Senato, Stuart

Eizenstat deplorò la lentezza degli sfratti nell'Europa orientale: «Nel corso dell'opera di

recupero delle proprietà sono sorti mol[181]tissimi problemi. In alcuni Paesi, per

esempio, le persone o le comunità che hanno cercato di rivendicare le proprietà si sono

sentite chiedere, a volte intimare, [...] di permettere agli attuali occupanti di restare per un

lungo periodo di tempo pagando canoni d'affitto a prezzo controllato». (83) La scarsa

sensibilità della Bielorussia turbò in particolar modo Eizenstat. Quello Stato è «molto,

molto indietro» nella restituzione delle proprietà ebraiche di prima della guerra, riferì alla

commissione sulle relazioni internazionali della Camera dei rappresentanti. (84) Il reddito

mensile pro capite della Bielorussia è di cento dollari.

Per forzare alla sottomissione i governi recalcitranti, l'industria dell'Olocausto agitò lo

spauracchio delle sanzioni americane. Eizenstat fece pressione sul Congresso per

«esaltare» l'importanza dei risarcimenti per l'Olocausto, perché venissero messi «in cima

alla lista» dei requisiti per quei Paesi dell'Est che cercano di entrare nell'OCSE, nella

NWO, nell'Unione Europea, nella Nato e nel Consiglio d'Europa: «Se voi parlate, loro

ascolteranno [...] Capiranno al volo». Israel Singer, del Congresso Mondiale Ebraico,

chiese al Congresso di «continuare a guardare la lista della spesa» per «controllare» che

ogni Paese pagasse. «È estremamente importante che le nazioni coinvolte nella questione

comprendano» affermò Benjamin Gilman, membro del Congresso e della commissione

sulle relazioni in[182]ternazionali della Camera, «che la loro reazione [...] è uno dei molti

punti di riferimento sulla cui base gli Stati Uniti valutano le relazioni bilaterali.»

Avraham Hirschson, presidente della Commissione per la restituzione della Knesset

israeliana e rappresentante d'Israele presso la World Jewish Restitution Organization,

pagò un tributo alla complicità del Congresso nell'estorsione. Ricordando le sue

«battaglie» con il Primo ministro rumeno, Hirschson testimoniò: «Nel mezzo della

polemica feci un'osservazione che cambiò l'atmosfera. Gli dissi: «Bene, tra due giorni

sarò a un'udienza al Congresso. Che cosa volete che dica loro?". L'atmosfera cambiò

completamente». Il Congresso Mondiale Ebraico ha «creato una perfetta industria

dell'Olocausto» avverte un avvocato dei sopravvissuti ed è «colpevole di promuovere [...]

un odioso ritorno di fiamma dell'antisemitismo in Europa». (85)

«Se non fosse per gli Stati Uniti d'America» osservò correttamente Eizenstat nel suo

peana al Congresso «ben poche, o forse nessuna, di queste iniziative oggi starebbero

procedendo.» Per giustificare le pressioni esercitate sull'Europa orientale, spiegò che un

tratto distintivo della moralità «occidentale» è di «restituire o risarcire le proprietà

comuni o personali di cui ci si è ingiustamente appropriati». Per le «nuove democrazie»

dell'Europa dell'Est, adeguarsi a questo standard «darebbe la misura del loro passaggio

dal novero dei tota[183]litarismi a quello delle democrazie». Eizenstat è un funzionario di

alto livello del governo americano e un importante sostenitore d'Israele. Eppure, a

giudicare tanto dalle rivendicazioni dei nativi americani quanto da quelle dei palestinesi,

né gli Stati Uniti né Israele hanno ancora compiuto questo passaggio. (86)

Nella sua testimonianza resa alla Camera, Hirschson rievocò il malinconico spettacolo di

anziane «vittime bisognose dell'Olocausto» provenienti dalla Polonia «che si presentano

ogni giorno nel mio ufficio alla Knesset [...] implorando di riavere i loro beni [...], di

riavere le case che avevano lasciato, i negozi che avevano perduto». Nel frattempo,

l'industria dell'Olocausto muove guerra su un secondo fronte. Rifiutando l'ingannevole

mandato della World Jewish Restitution Organization, le comunità ebraiche locali

dell'Europa orientale hanno avanzato le loro pretese sui beni di proprietà ebraica senza

eredi. Si assiste quindi alla tanto auspicata rinascita della vita ebraica nel momento in cui

gli ebrei dell'Europa orientale mettono a profitto le loro radici appena ritrovate e

ottengono una fetta del bottino dell'Olocausto. (87)

L'industria dell'Olocausto si vanta di avere stanziato il denaro dei risarcimenti per opere

di beneficenza a favore di ebrei. «Per quanto la beneficenza sia una nobile causa» osserva

un avvocato che rappresenta le vere vittime «è sbagliato farla con i soldi di altre

per[184]sone.» Una delle cause predilette è l'«educazione all'Olocausto», a sentire

Eizenstat «il più grande lascito dei nostro lavoro». Hirschson è anche fondatore di

«March of the Living», un'organizzazione chiave del sistema di educazione all'Olocausto

e uno dei principali beneficiari del denaro dei risarcimenti. In questo spettacolo

d'ispirazione sionista giovani ebrei di tutto il mondo convergono sui campi di sterminio in

Polonia per un primo giro di istruzione sulla malvagità dei gentili prima di essere portati

in salvo in Israele. Il «Jerusalem Post» coglie il kitsch dell'Olocausto che

contraddistingue la «March»: «"Ho tanta paura, non ce la faccio, vorrei essere già in

Israele" continua a dire una giovane del Connecticut. Sta tremando [ ... ] Il suo amico

prontamente estrae una grande bandiera israeliana. Lei la avvolge intorno a entrambi; poi

proseguono». Una bandiera israeliana: mai andare in giro senza. (88)

David Harris dell'AJC, parlando alla Washington Conference on Holocaust Era Assets,

sentenziò con eloquenza sul «profondo impatto» che i pellegrinaggi ai campi di sterminio

nazisti hanno sulla gioventù ebraica. Il «Forward» riportò un episodio particolarmente

ricco di pathos. Sotto il titolo Israeli Teens Frolic With Strippers After Auschwitz Visit

[Ragazzi israeliani si divertono con spogliarelliste dopo una visita ad Auschwitz], il

quotidiano spiegava che, secondo gli esper[185]ti, gli studenti dei kibbutz avevano

«pagato spogliarelliste per scaricare le violente emozioni suscitate dalla visita» ad

Auschwitz. A quanto pare gli stessi tormenti assillarono gli studenti ebrei che

partecipavano a una gita di studio dello US Holocaust Memorial Museum e che, stando al

«Forward», «se ne andavano in giro a spassarsela, a pomiciare e quant'altro». (89) Come

dubitare della saggezza della decisione da parte dell'industria dell'Olocausto di investire il

denaro dei risarcimenti nell'educazione all'Olocausto piuttosto che «sprecare i fondi»

(Nahum Goldmann) per i sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti? (90)

Nel gennaio 2000 i rappresentanti di circa cinquanta Stati, tra cui il Primo ministro di

Israele Ehud Barak, si riunirono a Stoccolma per partecipare a un importante convegno

sull'Olocausto. La dichiarazione conclusiva del convegno sottolineava il «solenne

impegno» della comunità internazionale a combattere i mali del genocidio, della pulizia

etnica, dei razzismo e della xenofobia. Più tardi, un giornalista svedese chiese a Barak dei

profughi palestinesi. In linea di principio, rispose Barak, era contrario all'idea che anche

un solo profugo entrasse in Israele: «Non possiamo farci carico di alcuna responsabilità

morale, giuridica o di altro genere per i profughi». Il convegno fu davvero un successo

straordinario. (91)

La Guide to Compensation and Restitution for Holo[186]caust Survivors [Guida al

risarcimento e alla restituzione dei beni per i sopravvissuti all'Olocausto], testo ufficiale

della Claims Conference, stila un lungo elenco di organizzazioni affiliate: è fiorito un

vasto apparato burocratico, pieno di soldi. Compagnie d'assicurazione, musei d'arte,

aziende private, possidenti e agricoltori praticamente in ogni Paese europeo sono nel

mirino dell'industria dell'Olocausto. Ma le «vittime bisognose», in nome delle quali

l'industria dell'Olocausto agisce, protestano che essa sta soltanto «perpetuando

l'espropriazione». In molti hanno intentato causa contro la Claims Conference.

L'Olocausto potrebbe ancora rivelarsi «il più grande ladrocinio nella storia del genere

umano». (92)

Lo storico Ilan Pappe riporta che quando, dopo la guerra, Israele cominciò le trattative

con la Germania per i risarcimenti, il ministro degli Esteri Moshe Sharett propose di

assegnarne una parte ai profughi palestinesi «per riparare a quella che è stata definita la

piccola ingiustizia (la tragedia palestinese), provocata da quella più terribile

(l'Olocausto)». (93) Questa proposta non ebbe alcun seguito. Un importante studioso

israeliano ha suggerito di utilizzare una parte dei fondi provenienti dalle banche svizzere

e dalle società tedesche per «risarcire i profughi arabi palestinesi». (94) Dal momento che

la maggior parte dei sopravvissuti all'Olocausto nazista è già morta, sembrerebbe una

proposta sensata.

[187] Secondo il vecchio stile del Congresso Mondiale Ebraico, il 13 marzo 2000 Israel

Singer fece l'«annunciò straordinario» che un documento americano appena reso

pubblico rivelava che l'Austria era in possesso di beni appartenuti a ebrei all'epoca

dell'Olocausto e privi di eredi il cui valore ammontava a circa dieci miliardi di dollari.

Singer sostenne anche che «il cinquanta per cento delle opere d'arte presenti in America è

stato rubato agli ebrei». (95) È evidente che l'industria dell'Olocausto ha completamente

perso la testa.

 

capitolo 3

Note

1. Henry Friedlander, Darkness and Dawn in 1945. - The Nazis, the Allies, and the

Survivors, in US Holocaust Memorial Museum, 1945 - the Year of Liberation,

Washington 1995, 11-35.

2. Si veda, per esempio, Segev, Seventh Million, 248.

3. Lappin, Man With Two Heads, 48. D.D. Guttenplan, The Holocaust on Trial, in

«Atlantic Monthly», febbraio 2000, 62; ma si legga il testo di Lipstadt, in cui l'autrice

equipara il sollevare dubbi circa la testimonianza di un sopravvissuto alla negazione

dell'Olocausto.

4. Wiesel, All Rivers, 121-30, 139, 163-64, 201-2, 336. «Jewish Week», 17 settembre

1999. «New York Times», 5 marzo 1997.

5. Leonard Dinnerstein, America and the Survivors of the Holocaust, New York 1982, 24.

6. Daniel Ganzfried, Binjamin Wilkomirski und die verwandelte Polin, in «Weltwoche»,

4 novembre 1999.

7. Marilyn B. Young, The Vietnam Wars, New York 1991, 301; Cohen: US Not Sorry for

Vietnam War, in «Associated Press», 11 marzo 2000.

8. Per i retroscena, si vedano soprattutto Nana Sagi, German Reparations, New York

1986, e Ronald W Zweig, German Reparations and the Jewish World, Boulder 1978.

Entrambi i volumi sono ricostruzioni storiche ufficiali commissionate dalla Claims

Conference.

9. In risposta a un'interrogazione recentemente fatta dal deputato tedesco Martin

Hohmann (CDU), il governo tedesco ha riconosciuto (pur tra mille giri di parole) che

solamente il quindici per cento del denaro versato alla Claims Conference è davvero

giunto alle vittime delle persecuzioni naziste. La replica del governo tedesco prosegue

dicendo che «l'accusa secondo cui quattrocentocinquanta milioni di marchi sono stati

"usati per uno scopo diverso da quello previste" e "rifiutati"» alle vittime dell'Olocausto

non corrisponde quindi al vero». Si veda il verbale del Bundestag tedesco,

quattordicesima legislatura, 23 febbraio 2000, 8277, risposta dei segretario di Stato Diller

all'interpellanza di Hohmann. Questa rassicurazione può tuttavia essere conciliata con la

ricostruzione storica ufficiale della Jewish Claims Conference (cfr. n. 10).

10. Nella sua ricostruzione storica ufficiale, Ronald Zweig ammette esplicitamente che la

Claims Conference violò i termini dell'accordo: «L'afflusso di fondi della Claims

Conference permise al Joint [Distribution Committee] di proseguire in Europa programmi

che altrimenti sarebbero stati chiusi e di avviare programmi che altrimenti non sarebbero

stati presi in considerazione per mancanza di fondi. Ma il cambiamento più significativo

nel budget dell'JDC che dipese dal pagar mento dei risarcimenti furono le assegnazioni di

denaro nei Paesi musulmani, dove le attività del joint, durante i primi tre anni di

versamenti da parte della Claims Conference, registrarono un aumento del sessantotto per

cento. Nonostante le restrizioni formali all'uso dei fondi di risarcimento nell'accordo con

la Germania, i soldi vennero impiegati là dove le necessità erano prioritarie. Moses

Leavitt [funzionario d'alto rango della Claims Conferencel [...] osservò: "I nostri criteri si

basavano sulle priorità dentro e fuori Israele, Paesi musulmani compresi [...]

Consideravamo i fondi della Claims Conference nient'altro che una parte di un fondo

generale stanziato a nostra disposizione per venire incontro alle necessità degli ebrei

nell'area di cui eravamo responsabili, l'area delle priorità urgenti"». (German

Reparations, 74.)

11. Si vedano, per esempio, Lorraine Adams, The Reckoning, in «Washington Post

Magazine», 20 aprile 1997; Netty C. Gross, The Old Boys Club, in «Jerusalem Report»,

15 marzo 1997 e 16 agosto 1997; Rebecca Spence, Holocaust Insurance Team Racking

Up Millions in Expenses as Survivors Wait, in «Forward», 30 luglio 1999; Verena

Dobnik, Oscar Hammerstein's Cousin Sues German Bank Over Holocaust Assets, in «AP

Online», 20 novembre 1998 (Hertzberg).

12. Greg B. Smith, Federal Judge OKs Holocaust Accord, in «Daily News», 7 gennaio

2000. Janny Scott, Jews Tell of Holocaust Deposits, in «New York Times», 17 ottobre

1996. Saul Kagan lesse una bozza di questa sezione sulla Claims Conference. La versione

finale accoglie tutte le sue correzioni relative ai dati.

13. Elli Wohlgelernter, Lawyers and the Holocaust, in «Jerusalem Post», 6 luglio 1999.

14. Per lo scenario generale, si vedano Tom Bower, Nazi Gold, New York 1998; Itamar

Levin, The Last Deposit, Westport (Connecticut) 1999; Gregg J. Rickman, Swiss Banks

and Jewish Souls, New Brunswick (NJ) 1999; Isabel Vincent, Hitler's Silent Partners,

New York 1997; Jean Ziegler, The Swiss, the Gold and the Dead, New York 1997. Per

quanto viziati da una pesante ostilità contro la Svizzera, questi libri contengono molte

informazioni utili.

15. Levin, Last Deposit, capitoli 6 e 7. Per il servizio giornalistico che contiene l'errore (il

cui autore, benché non ne fàccia parola, fu Levin), si veda Hans J. Halbheer, To Our

American Friends, in American Swiss Foundation Occasional Papers (senza data).

16. Negli Stati Uniti operavano tredici filiali di sei banche svizzere. Nel 1994 le banche

svizzere prestarono a imprese amerícane trentotto miliardi di dollari e gestirono centinaia

di miliardi di dollari in investimenti in azioni e banche americane per i loro clienti.

83

17. Nel 1992, il Congresso Mondiale Ebraico creò una nuova organizzazione, la World

Jewish Restitution Organization (WJR0), che rivendicò la giurisdizione legale sui beni

dei 192 sopravvissuti all'Olocausto, vivi e morti. Guidata da Bronfman, la WJRO è

l'organizzazione che riunisce altre organizzazioni ebraiche, sul modello della Claims

Conference.

18. Udienze di fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche,

Senato degli Stati Uniti, 23 aprile 1996. La difesa degli «interessi ebraici» operata da

Bronfman è altamente selettiva. È un importante socio d'affari di Leo Kirch, un

ultraconservatore magnate tedesco dei media, noto in anni recenti per aver cercato di

licenziare un giornalista che si era schierato a favore di una decisione della Corte

Suprema contro la presenza delle croci cristiane nelle aule delle scuole pubbliche.

(www.Seagram.comlcompany-infolhistory/inain.liti:ril; Oliver Gelirs, Einfluss aus der

Dose, in «Tagesspiegel», 12 settembre 1995.)

19. Rickman, Swiss Banks, 50-51. Bower, Nazi Gold, 299-300.

20. Bower, Nazi Gold, 295 («portavoce»), 306-7; cfr. 319. Alan Morris Schom, The

Unwanted Guests, Swiss Forced Labor Camps, 1940-1944, rapporto preparato per il

Centro Simon Wiesenthal, gennaio 1998. (Schom afferma che erano «veri campi di

lavoro schiavistico».) Levin, Last Deposit, 158, 188. Per un'indagine equilibrata sui

campi per i rifugiati in Svizzera, si vedano Ken Newman (a cura di), Swiss Wartime

Camps: A Collection of Eyewitness Testimonies, 1940-1945, Zurigo 1999, e a cura della

Commissione internazionale di esperti sulla Svizzera e la Seconda guerra mondiale,

Switzerland and Refugees in the Nazi Era, Berna 1999, capitolo 4.4.4. Saidel, Never Too

Late, 222-23 («alla Disneyland», «sensazionalistico»). Yossi Elein Halevi, Who Owns the

Memory?, in «Jerusalem Report», 25 febbraio 1993. Wiesenthal concede l'uso del proprio

nome al Centro per novantamila dollari l'anno.

21. Bower, Nazi Gold, XI, XV, 8, 9, 42, 44, 56, 84, 100, 150, 219, 304. Rickman, Swiss

Banks, 219.

22. Thomas Sancton, A Painful History, in «Time», 24 febbraio 1997. Udienze di fronte

alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 25

giugno 1997. Bower, Nazi Gold, 301-2. Rickman, Swiss Banks, 48. Anche Levin tace il

fatto che Salmanovitz era ebreo (cfr. 5, 129,135).

23. Levin, Last Deposit, 60. Udienze di fronte alla commissione sulle attività bancarie e

finanziarie, Camera dei rappresentanti, 11 dicembre 1996 (citando la testimonianza resa

da Wiesel il 16 ottobre 1996 alla commissione sulle attività bancarie del Senato). Raul

Hilberg, The Destruction of the European Jews, New York 1961, capitolo 5.

24. Udienze di fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche,

Senato degli Stati Uniti, 6 maggio 1997.

25. Udienze di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 11 dicembre 1996. Smith si lamentò con la stampa che i documenti che

aveva scovato già da molto tempo fossero stati pubblicizzati da D'Amato come nuove

acquisizioni. In un bizzarro tentativo di difesa, Rickman, che mobilitò un cospicuo

contingente di ricercatori in tutti i musei dell'Olocausto negli Stati Uniti per le udienze al

Congresso, risponde: «Pur sapendo del libro di Smith, ho deciso di non leggerlo in modo

da non poter essere accusato di usare documenti "suoi"» (113). Vincent, Silent Partners,

240.

26. Bower, Nazi Gold, 307. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e

finanziarie, Camera dei rappresentanti, 25 giugno 1997.

27. Rickman, Swiss Banks, 77. Per una trattazione definitiva di questo argomento, si veda

Peter Hug e Marc Perrenoud, Assets in Switzerland of Victim of Nazism and the

Compensation Agreements with East Bloc Countries, Berna 1997. Per gli inizi della

discussione negli Stati Uniti, si veda Seymour J. Rubin e Abba E Schwartz, Refugees and

Reparations, in «Law and Contemporary Problems», Duke University School of Law

1951, 283.

28. Levin, Last Deposit, 93, 186. Udienza di fronte alla commissione sulle attività

bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 11 dicembre 1996. Rickman, Swiss

Banks, 218. Bower, Nazi Gold, 318, 323. Una settimana dopo l'istituzione dei fondo

speciale, il presidente svizzero, «terrorizzato dall'incessante ostilità in America» (Bower),

annunciò la creazione di un fondo di solidarità dei valore di cinque miliardi di dollari

«per ridurre la povertà, la disperazione e la violenza» in tutto il pianeta. L'approvazione

del fondo richiese comunque un referendum nazionale e l'opposizione interna venne

rapidamente a galla. Il suo destino resta incerto.

29. La class action, in base alla legislazione americana, è l'azione giudiziaria condotta da

uno o più avvocati a nome e nell'interesse di tutte le vittime di una stessa azione

delittuosa. [NAT.]

30. Bower, Nazi Gold, 315. Vincent, Silent Partners, 211. Rickman, Swiss Banks, 184

(Volcker).

31. Levin, Last Deposit, 187-88, 125.

32. Ivi, 218. Rickman, Swiss Banks, 214, 223, 221.

33. Rickman, Swiss Banks, 231.

34. Ibid. Rickman intitola appropriatamente questo capitolo della sua ricostruzione

«Boicottaggi e diktat».

35. Per il testo completo del «Class Action Settlement Agreement», si veda commissione

indipendente di personalità illustri, Report on Dormant Accounts of Victims of Nazi

Persecution in Swiss Banks, Bema 1999, appendice O. Oltre ai duecento milioni di dollari

di fondo speciale e al miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari per l'accordo sulla

class action, l'industria dell'Olocausto brigò per ottenere altri settanta milioni di dollari

dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nel corso di un incontro avvenuto nel 1997 a Londra

sull'oro svizzero.

36. Per la politica americana riguardo ai rifugiati ebrei durante questi anni, si vedano, di

David S. Wyman, Paper Walls, New York 198 5, e The Abandonment of the Jews, New

York 1984. Per la politica svizzera, si veda la commissione indipendente di esperti sulla

Svizzera e la Seconda guerra mondiale, Switzerland and Refugees in the Nazi Era, Berna

1999. Una simile miscela di fattori (la crisi economica, la xenofobia, l'antisemitismo e

infine la sicurezza) influì sulle quote molto restrittive americane e svizzere. Ricordando

l'«ipocrisia nei discorsi delle altre nazioni, specialmente gli Stati Uniti che non erano per

nulla interessati a rendere più liberali le loro leggi sull'immigrazione», la commissione,

per quanto duramente critica nei confronti della Svizzera, riporta che la sua politica verso

i rifugiati fuì «simile a quella dei governi di molti altri Stati» (42, 263). Non vedo traccia

di questo punto nel largo spazio dedicato dai mezzi di comunicazione americani ai rilievi

critici della commissione.

37. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche,

Senato degli Stati Uniti, 15 maggio 1997 (Eizenstat e D'Amato). Udienza di fronte alla

commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche, Senato degli Stati Uniti, 23

aprile 1996 (Bronfman, citazione di Clinton e lettera dei capigruppo del Congresso).

Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche, Senato

degli Stati Uniti, 11 dicembre 1996 (Leach). Udienza di fronte alla commissione sulle

attività bancarie, edilizie e urbanistiche, Senato degli Stati Uniti, 25 giugno 1997 (Leach).

Rickman, Swiss Banks, 204 (Albright).

38. La sola nota discordante durante le serie di udienze del Congresso sul risarcimento

per l'Olocausto venne dal membro del Congresso Maxine Waters, della California. Nel

dichiarare la sua adesione «al mille per cento al progetto per fare giustizia per tutte le

vittime dell'Olocausto», Waters sollevò anche il problema di «come prendere questo

schema e usarlo per affrontare la questione del lavoro schiavistico dei miei antenati qui

negli Stati Uniti. È davvero strano che io sieda qui [...] senza chiedermi che cosa potrei

fare [...] per riconoscere il lavoro schiavistico negli Stati Uniti [...] I risarcimenti alla

comunità afroamericana sono stati condannati senza indugio come udidea radicale e molti

di coloro [...] che hanno cercato tanto tenacemente di portare questa questione all'esame

del Congresso sono stati messi letteralmente in ridicolo». Nel caso specifico, Waters

propose che alle agenzie governative che avevano l'ordine di ottenere il risarcimento per

l'Olocausto venisse ordinato di ottenere il risarcimento anche per il «lavoro schiavistico

in patria». «La gentile signora solleva un argomento di straordinaria profondità» replicò

James Leach, della commissione sulle attività bancarie della Camera «e la presidenza lo

prenderà in considerazione [...] La profondità della questione che lei solleva nello

scenario storico americano, come anche in quello dei diritti umani, è notevole.» La

questione sarà stata senza dubbio depositata nel profondo del dimenticatoio della

commissione sulle attività bancarie della Camera. (Udienza di fronte alla commissione

sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche, Senato degli Stati Uniti, 9 febbraio 2000.)

Randall Robinson, che sta al momento guidando una campagna per risarcire gli

afroamericani per la schiavitù, ha contrapposto il «silenzio» del governo americano su

questo furto «perfino quando il sottosegretario di Stato americano, Stuart Eizenstat, si è

impegnato per fare in modo che sedici aziende tedesche risarcissero gli ebrei impiegati

come schiavi sotto il nazismo». (Randall Robinson, Compensate the Forgotten Victims of

America' Slavery Holocaust, in «Los Angeles Times», 11 febbraio 2000; cfr. Randall

Robinson, The Debt, New York 2000, 245 .)

39. Philip Lentz, Reparation Woes, in «Crain's», 15-21 novembre 1999. Michael Shapiro,

Lawyers in Swiss Bank Settlement Submitt Bill, Outraging jewisb Groups, in «Jewish

Telegraphic Agency», 23 novembre 1999. Rebecca Spence, Hearings on Legal Fees in

Swiss Bank Case, in «Forward», 26 novembre 1999. James Bone, Holocaust Survivors

Protest Over Legal Fee, in «The Times» (Londra), 1· dicembre 1999. David Barrett,

Holocaust Assets, in «New York Post», 2 dicembre 1999. Stewart Ain, Religious Strife

Erupts In Swiss Money Fight, in «Jewish Week», 14 gennaio 2000 («mettere le mani»).

Adam Dickter, Discord in the Court, in «Jewish Week», 21 gennaio 2000. Fondo

svizzero per le vittime bisognose dell'Olocausto/Shoah, Overview on Finances, Payments

and Pending Applications, 30 novembre 1999. I sopravvissuti all'Olocausto residenti in

Israele non hanno mai ricevuto nulla dei denaro del fondo speciale loro destinato, si veda

Yair Sheleg, Surviving Israeli Bureaucracy, in «Haaretz», 6 febbraio 2000.

40. Burt Neuborne, Totaling the Sum of Swiss Guilt, in «New York Times», 24 giugno

1998. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 11 dicembre 1996. Holocaust-Konferenz in Stockholm, in «Frankfurter

Allgemeine Zeitung», 26 gennaio 2000 (Bronfman).

41. Commissione indipendente di esperti sulla Svizzera e la Seconda guerra mondiale,

Switzerland and Gold Transactions in the Second World War, Interim Report, Berna

1998.

42. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 11 dicembre 1996. Chiamato a deporre come testimone esperto, lo storico

Gerhard L. Weinberg, della University of North Carolina, dichiarò ipocritamente: «La

posizione del governo svizzero durante la guerra e nel periodo immediatamente

successivo da sempre di considerare legale il saccheggio». Disse anche che «la priorità

assoluta» per le banche svizzere era «fare quanti più soldi possibile [...] e senza stare a

guardare cose come la legalità, la moralità, la decenza o altro». (Udienza di fronte alla

commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 25 giugno

1997.)

43. Raymond W Baker, The Biggest Loophole in the Free-Market System in «Washington

Quarterly», autunno 1999. Benché senza l'avallo della legge americana, gran parte di una

cifra oscillante tra i cinquecento e i mille miliardi di dollari annualmente «riciclati»,

provenienti dal traffico di droga, è anch'essa «ben al sicuro nei depositi delle banche

americane».

44. Ziegler, The Swiss, XII; cfr. 19, 265.

45. Switzerland and Gold Transactions in the Second World War, iv, 48.

46. Commissione indipendente di personalità illustri, Report on Dormant Accounts of

Victims of Nazi Persecution in Swiss Banks, Berna 1999; da qui in poi abbreviato in

Report.

47. I «costi esterni» della verifica furono stimati in duecento milioni di dollari (Report,

pagina 4, paragrafo 17). Il costo per le banche svizzere ammontò a circa trecento milioni

di dollari (commissione federale svizzera sull'attività bancaria, comunicato stampa, 6

dicembre 1999).

48. Report, allegato 5, pagina 81, paragrafo 1 (cfr. parte prima, pagine 13-15, paragrafi

41-49).

49. Report, parte prima, pagina 6, paragrafo 22 («alcuna prova»); parte prima, pagina 6,

paragrafo 23 (leggi bancarie e percentuale); allegato 4, pagina 58, paragrafo 5 «davvero

straordinaria») e allegato 5, pagina 81, paragrafo 3 («degna di nota») (cfr. parte prima,

pagina 15, paragrafo 47; parte prima, pagina 17, paragrafo 58; allegato 7, pagina 107,

paragrafi 3 e 9).

50. The Deceptions of Swiss Banks, in «New York Tímes», 7 dicembre 1999.

51. Report, allegato 5, pagina 81, paragrafo 2. Report, allegato 5, pagina 87-88, paragrafo

27: «Si possono dare molte spiegazioni riguardo alla stima, notevolmente errata per

difetto, fornita nel corso delle prime investigazioni, ma alcune delle cause principali

possono essere attribuite all'uso della definizione in senso stretto del termine conti

"inattivi"; l'esclusione di certi tipi di conto dalle loro ricerche, oppure ricerche

inadeguate; il loro errore nel verificare conti sotto un determinato saldo minimo; oppure

il loro errore nel non considerare certi titolari di conto come vittime della violenza o delle

persecuzioni del nazismo nonostante i loro parenti lo avessero sostenuto presso le

banche».

52. Report, pagina 10, paragrafo 30 «probabile o possibile»); pagina 20, paragrafo 73-75

(probabilità significativa riguardante venticinquemila conti). Report, allegato 4, pagine

65-67, paragrafi 20-26, e pagina 72, paragrafi 40-43 (valori correnti). Seguendo le

raccomandazioni della Relazione, la commissione federale svizzera sull'attività bancaria

acconsentì, nel marzo 2000, a pubblicare i nomi dei titolari dei venticinquemila conti.

(Swiss Federal Banking Commission Follows Volcker Recommendations, comunicato

stampa, 30 marzo 2000.)

53. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 9 febbraio 2000 (citazione dalla testimonianza scritta di Volcker). Si

confrontino gli avvisi della commissione federale svizzera sull'attività bancaria che «tutte

le indicazioni sul possibile valore corrente dei conti identificati si basano in sostanza su

presupposizioni e su proiezioni» e che «solamente nel caso di circa mìlleduecento conti

[...] è possibile [sic] trovare una prova reale, suffragata da documenti dell'epoca interni

alla banca, del fàtto che i titolari del conto fossero davvero vittime dell'Olocausto»

(comunicato stampa, 6 dicembre 1999).

54. Report, pagina 2, paragrafo 8 (cfr. pagina 23, paragrafo 92). Report, allegato S,

pagine A- 134; per un'analisi più precisa, cfr. pagine A- 135 e seguenti.

55. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 25 giugno 1997 (citazione dalla testimonianza scritta di Rubin). Per il

contesto, si veda Seymour J. Rubin e Abba P Schwartz, Refugees and Reparations, in

«Law and Contemporary Problems», Duke University School of Law 1951, 286-89.

56. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 25 giugno 1997 (citazione dal manoscritto della testimonianza di Rubin).

Ulteriori informazioni sui retroscena sono reperibili in Seymour J. Rubin e Abba B.

Schwartz, Refugees and Reparations, in «Law and Contemporary Problems», Duke

University School of Law, 1951, 286-89.

57. Nel «periodo attinente» del 1933-45, la Svizzera aveva una popolazione di circa

quattro milioni di persone, mentre gli Stati Uniti superavano i centotrenta milioni. Ogni

conto svizzero aperto, attivo o inattivo che fosse durante quegli anni, fu analizzato dalla

commissione presieduta da Volcker.

58. Levin, Last Deposit, 23. Bower, Nazi Gold, 256. Bower definisce la richiesta svizzera

«retorica senza spazi di risposta». Nessun dubbio che non vi siano risposte, ma perché

retorica?

59. Rickman, Swiss Banks, 194-95.

60. Bower, Nazi Gold, 350-51. Akiva Eldar, UK: Israel Didn't Hand Over Compensation

to Survivors, in «Haaretz», 21 febbraio 2000. Judy Dempsey, Jews Find It Hard to

Reclaim Wartime Property in Israel, in «Financial Times», 1· aprile 2000. Jack

Katzenell, Israel Has WWII Assets, in «Associated Press», 13 aprile 2000. Joel

Greenberg, Hunt for Holocaust Victims'Property Turns in New Direction: Toward Israel,

in «New York Times», 15 aprile 2000. Akiva Eldar, People and Politics, in «Haaretz»,

27 aprile 2000.

61. Per informazioni sulla commissione, è possibile consultare www.pcha.gov (la

citazione di Bronfman è tratta da un comunicato stampa del 21 novembre 1999).

62. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 9 febbraio 2000.

63. Levin, Last Deposit, 223, 204. Swiss Defensive About WWII Role, in «Associated

Press», 15 marzo 2000. «Time», 24 febbraio 1997 (Bronfman).

64. Levin, Last Deposit, 224.

65. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 14 settembre 1999.

66. Yair Sheleg, Not Even Minimum Wage, in «Haaretz», 6 ottobre 1999. William

Drozdiak, Germans Up Offer to Auschwitz Slave Laborers, in «Washington Post», 18

novembre 1999. Burt Herman, Auschwitz Labor Talks End Without Pact, in «Forward»,

20 novembre 1999. Bayer's Biggest Headache, in «New York Times», 5 ottobre 1999.

Jan Cienski, Wartime Slave-Labour Survivor'Ads Hit Back, in «National Post», 7 ottobre

1999. Edmund L. Andrews, Germans To Set Up $5. 1 Billion Fund For Nazis'Slaves, in

«New York Times», 15 dicembre 1999. Edmund L. Andrews, Germany Accepts $5. 1

billion Accord to End Claims of Nazi Slave Workers, in «New York Times», 18 dicembre

1999. Allan Hall, Slave Labour List Names 255 German Companies, in «The Times»,

Londra, 9 dicembre 1999. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e

finanziaríe, Camera dei rappresentanti, 9 febbraio 2000 (citate dalla testimonianza scritta

di Eizenstat).

67. Sagi, German Reparations, 161. Presumibilmente circa un quarto dei lavoratori

forzati ebrei ricevette questo vitalizio, e tra questi anche il mio defunto padre (prigioniero

ad Auschwitz). Di fatto, la richiesta avanzata dalla Claims Conference negli attuali

negoziati per gli internati ebrei nei campi di lavoro ancora in vita è calcolata sulla base di

coloro che stanno già percependo una pensione e un indennizzo dalla Germania!

(Parlamento tedesco, 92a sessione, 15 marzo 2000.)

68. Zweig, German Reparations and the Jewish World 98; cfr. 25.

69. Conference on Jewish Material Claims Against Germany, Position Paper - Slave

Labor Proposed Remembrance and Responsability Fund, 15 giugno 1999. Netty C.

Gross, $5.1Billion Slave Labor Deal Could Yield Little Cash For Jewish Claimants, in

«Jerusalem Report», 31 gennaio 2000. Zvi Lavi, Kleiner (Herut).- Germany Claims

Conference Has Become Judenrat, Carring on Nazi Ways, in «Globes», 24 febbraio

2000. Yair Sheleg, MK Kleiner. The Claims Conference Does Not Transfer

Indemnifications to Shoah Survivors, in «Haaretz», 24 febbraio 2000.

70. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 9 febbraio 2000. Yair Sheleg, Staking a Claim to Jewish Claims, in

«Haaretz», 31 marzo 2000.

71. Henry Friedlander, Darkness and Dawn in 1945-The Nazis, the Allies, and the

Survivors, in US Holocaust Memorial Museum, 1945 - The year ofLiberation,

Washington 1995, 11-35. Dinnerstein, America and the Survivors of the Holocaust, 28.

Lo storico israeliano Shlomo Shafir riporta che «le stime sugli ebrei sopravvissuti alla

fine della guerra in Europa variano dalle cinquantamila alle settantamila. persone»

(Ambiguous Relations, 384 n1). La stima totale elaborata da Friedlander per i

sopravvissuti ai campi di lavoro, ebrei e non ebrei, è nella norma; si veda Benjamin

90

Ferencz, Less Than Slaves, Cambridge 1979: «Nei campi che furono liberati dagli eserciti

degli alleati furono trovate approssimativamente mezzo milione di persone, più o meno

vive» (XVII; cfr. 240n5).

72. Stuart Eizenstat, sottosegretario di Stato all'Economia, agli Affari e all'Agricoltura,

capo della delegazione americana alle negoziazioni sui campi di lavoro in Germania,

Briefing al Dipartimento di Stato, 12 maggio 1999.

73. Si vedano le «osservazioni» di Eizenstat al meeting annuale della Conference on

Jewish Material Claims Against Germany and Austria, New York, 14 luglio 1999.

74. Toby Axelrod, $5.2 Billion Slave-Labor Deal Only the Start, in «Jewish Bullettin»,

12 dicembre 1999, citando la Jewish Telegraphic Agency.

75. Hilberg, The Destruction, 1985, III volume, appendice B.

76. In un'intervista rilasciata alla «Berliner Zeitung», citando Friedlander, espressi dubbi

circa la cifra di centotrentacinquemila ex deportati dichiarata dalla Claims Conference.

Nella sua secca replica, la Claims Conference sostenne che il computo di

centotrentacinquemila persone era «basato sulle fonti migliori e più attendibili e di

conseguenza è corretto». Nessuna di queste supposte fonti è stata comunque identificata.

(Die Ausbeutung jüdischen Leidens, in «Berliner Zeitung», 29-30 gennaio 2000;

Gegendarstellung der Jewish Claims Conference, in «Berliner Zeitung», 10 febbraio

2000.) In risposta alle mie critiche, in un'intervista al «Tagesspiegel», la Claims

Conference sostenne che alla guerra erano sopravvissuti settecentomila ebrei deportati nei

campi di lavoro, trecentocinquanta o quattrocentomila dei quali nel territorio del Reich e

trecentomila in campi di concentramento in altri Paesi. Quando le venne richiesto di

presentare fonti scientifiche, la Claims Conference, indignata, rifiutò. Basti dire che

queste cifre non trovano riscontro in alcuno studio scientifico sull'argomento. (Eva

Schweitzer, Entschaedigung für Zwangsarbeiter, in «Tagesspiegel», 6 marzo 2000.)

77. «Mai prima nel corso della storia» ha osservato Hilberg «le persone erano state uccise

secondo procedure da catena di montaggio» (Destruction, III volume, 863).

L'interpretazione classica di questo punto si legge in Modernity of the Holocaust, di

Zygmunt Bauman.

78. Guttenplan, Holocaust on Trial. (Hilberg) Conference on Jewish Material Claims

Against Germany, Position Paper - Slave - Labor, 15 giugno 1999.

79. We Condemn Syria's Denial of the Holocaust, in « New York Times», 9 febbraio

2000. Per documentare «l'aumento dell'antisemitismo» in Europa, David Harris,

dell'AJC, sottolineò che l'affermazione «gli ebrei stanno sfruttando il ricordo dello

sterminio nazista degli ebrei per i loro scopi» era condivisa da molti. Fece poi riferimento

al «modo estremamente negativo in cui alcuni giornali tedeschi trattarono la Claims

Conference [...] durante i negoziati per i risarcimenti per il lavoro schiavistico e per

quello forzato. Molti articoli dipinsero la stessa Claims Conference e la maggior parte

degli avvocati ebrei come avidi ed egoisti, e sui principali quotidiani nacque una bizzarra

discussione sul fatto che potessero esistere tanti ebrei sopravvissuti quanti sosteneva la

Claims Conference». (Udienza di fronte alla commissione affari esteri, Senato degli Stati

Uniti, 5 aprile 2000.) In realtà, mi è stato quasi impossibile sollevare questa questione in

Germania. Nonostante il tabù sia stato infranto dal quotidiano progressista tedesco «Die

Berliner Zeitung», il coraggio dimostrato del suo direttore, Martin Süskind, e dal

corrispondente dagli Stati Uniti, Stefan Elfenbein, hanno avuto tra i mezzi d'informazione

tedeschi scarsa eco, in gran parte dovuta alle minacce legali e al ricatto morale della

Claims Conference, ma anche a causa, in linea di massima, della riluttanza dei tedeschi a

criticare apertamente gli ebrei.

80. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei

rappresentanti, 11 dicembre 1996. J.D. Bindenagel (a cura di), Proceedings, Washington

Conference on Holocaust-Era Assets. 30 November-3 December 1998, US Government

Printing Office, Washington DC, 700-1,706.

81. Udienza di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei

rappresentanti, 6 agosto 1998. Bindenagel, Washington Conference on Holocaust-Era

Assets, 433. Joan Gralia, Poland Tries to Get Holocaust Lawsuit Dismissed, in «Reuters»,

23 dicembre 1999. Eric J. Greenberg, Polish Restitution Plan Slammed, in «Jewish

Weekly, 14 gennaio 2000. Poland Limits WWII Compensation Plan, in «Newsday», 6

gennaio 2000.

82. Theo Garb e altri contro la Repubblica di Polonia, Corte distrettuale degli Stati Uniti,

Eastern District di New York, 18 giugno 1999. (La class action fu intentata da Edward E.

Klein e Mel Urbach, quest'ultimo un veterano degli accordi con la Svizzera e la

Germania. Una «querela emendata» emessa il 2 marzo 2000 fu controfirmata da molti più

avvocati, ma omette alcune delle accuse più pittoresche contro i governi della Polonia

postbellica.) Dear Leads NYC Council in Call to Polish Govemment to Make Restitution

to Victims Of Holocaust Era Property Seizure, in «News From Council Member Noach

Dear», 29 novembre 1999. (La citazione testuale è tratta dalla risoluzione effettiva,

adottata il 23 novembre 1999.) [Antbony D.] Weiner Urges Polish Government To

Repatriate Holocaust Claims, Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti (comunicato

stampa, 14 ottobre 1999). (Le citazioni testuali sono tratte dal comunicato stampa e dalla

lettera, datata 13 ottobre 1999.)

83. Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche,

Senato degli Stati Uniti, 23 aprile 1996.

84. Udienza di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei

rappresentanti, 6 agosto 1998.

85. Udienza di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei

rappresentanti, 6 agosto 1998. Isabel Vincent, Who Will Reap the Nazi-Era Reparations?,

in «National Post», 20 febbraio 1999.

86. Udienza di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei

rappresentanti, 6 agosto 1998. Attualmente vicepresidente onorario dell'American Jewish

Committee, Eizenstat fu il primo presidente dell'Institute on American Jewish-Israeli

Relations, filiazione dell'AJC.

87. Udienza di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei

rappresentanti, 6 agosto 1998. Marilyn Henry, Whose Claim Is It Anyway?, in «Jerusalem

Post», 4 luglio 1997. Bindenagel, Washington Conference on Holocaust Era Assets, 705.

Editoriale, Jewish Property Belongs to Jews, in «Haaretz», 26 ottobre 1999.

88. Sergio Karas, Unsettled Accounts, in «Globe and Mail», 1· settembre 1998. Stuart

Eizenstat, Remarks, Conference on Jewish Material Claims Against Germany and

Austria Annual Meeting, New York, 14 luglio 1999. Tom Sawicki, 6,000 witnesses, in

«Jerusalem Post», 5 maggio 1994.

89. Bindenagel, Washington Conference on Holocaust-Era Assets, 146. Michael Arnold,

Israeli Teens Frolic With Strippers After Auschwitz Visit, in «Forward», 26 novembre

1999. Il membro dei Congresso Carolyn Maloney, di Manhattan, informò con orgoglio la

commissione sulle attività bancarie della Camera di un progetto di legge che aveva

presentato, l'Holocaust Education Act, che «procurerà, attraverso il Dipartimento 210

dell'Educazione, finanziamenti alle organizzazioni che si occupano dell'Olocausto per

corsi di formazione per gli insegnanti e fornirà materiali a scuole e comunità che si

dedichino all'approfondimento dell'educazione all'Olocausto». Rappresentando una città

con un sistema di scuole pubbliche che notoriamente scarseggia di insegnanti e libri di

testo, Maloney avrebbe potuto porre priorità diverse per l'utilizzo degli scarsi fondi del

Dipartimento dell'Educazione. (Udienza di fronte alla commissione sulle attività bancarie

e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 9 febbraio 2000.)

90. Zweig, German Reparations and the Jewish World, 118. Goldmann fu il fondatore

del Congresso Mondiale Ebraico e il primo presidente della Claims Conference.

91. Marilyn Henry, International Holocaust Education Conference Begins, in «Jerusalem

Post», 26 gennaio 2000. Marilyn Henry, PM. We Have No Moral Obligation to Refugees,

in «Jerusalem Post», 27 gennaio 2000. Marilyn Henry, Holocaust «Must Be Seared in

Collective Memory», in «Jerusalem Post», 30 gennaio 2000.

92. Claims Conference, Guide to Compensation and Restitution of Holocaust Survivors,

New York, senza data. Vincent, Hitler's Silent Partners, 302. («espropriazione»); cfr.

308-309. Ralf Eibl, Jewish Claims Conference ringt um ihren Leumund Nachkommen

jüdischer Sklaven, in «Die Welt», 8 marzo 2000 (cause intentate). L'industria dei

risarcimenti dell'Olocausto è un argomento tabù negli Stati Uniti. Il sito web

sull'Olocausto (www2.h-net.mm.edu), per esempio, impedì la circolazione di messaggi

critici anche se pienamente sostenuti da prove documentarie (corrispondenza personale

con il membro del Consiglio Richard S. Ley, 19-21 novembre 1999). Per la citazione sul

«più grande ladrocinio nella storia del genere umano», cfr. pagina 111.

93. Ilan Pappe, The Making of the Arab-IsraeIi Conflict, 1947-51, Londra 1992, 268.

94. Clinton Bailey, Holocaust Funds to Palestinians May Meet Some Cost of

Compensation, in «International Herald Tribune», riapparso in «Jordan Times», 20

giugno 1999.

95. Elli Wohlgelemter, WJG: Austria Holding $ 10b. In Holocaust Victims'Assets, in

«Jerusalem Post», 14 marzo 2000. Singer, nella sua successiva testimonianza al

Congresso, diede risalto all'accusa contro l'Austria ma - come suo solito - mantenne un

silenzio discreto sulle accuse contro gli Stati Uniti. (Udienza di fronte alla commissione

affari esteri, Senato degli Stati Uniti, 6 aprile 2000.)

 

CONCLUSIONE

Resta da esaminare l'impatto che l'Olocausto ha avuto negli Stati Uniti. Nel farlo, mi

avvarrò anche delle osservazioni critiche di Peter Novick.

Oltre alle commemorazioni dell'Olocausto, almeno diciassette Stati hanno istituito o

proposto programmi di studio sull'argomento, e numerosi college e università hanno

finanziato cattedre in questa materia. Difficilmente passa una settimana senza che sul

«New York Times» compaia un articolo importante che ne parli. Il numero di ricerche

accademiche dedicate alla Soluzione Finale nazista viene prudentemente stimato oltre le

diecimila. Lo si confronti con ciò che si conosce dell'ecatombe in Congo. Tra il 1891 e il

1911, circa dieci milioni di africani morirono nel corso dello sfruttamento da parte

dell'Europa delle risorse congolesi di avorio e di caucciù. Eppure il primo e unico studio

in lingua inglese interamente dedicato a questo argomento fu pubblicato solo nel

1998. (1)

[216] Dato il vasto numero di istituzioni e di professionisti che si sono dedicati a

conservarne la memoria, oggi l'Olocausto è fortemente radicato nella vita americana.

Novick, tuttavia, nutre qualche dubbio sul fatto che questa sia una cosa positiva. Prima di

tutto, porta numerosi esempi di come venga banalizzato. In verità, risulta difficile

nominare anche una sola causa politica - che si tratti di un movimento per la vita o a

favore della libertà di scelta, dei diritti degli animali o degli Stati - che non faccia ricorso

all'Olocausto. Condannando gli scopi dozzinali per cui questo evento viene utilizzato,

Elie Wiesel ha dichiarato: «Giuro di evitare [...] spettacoli volgari». (2)

Eppure Novick riferisce che «la più fantasiosa e sottile operazione dì sfruttamento

dell'immagine dell'Olocausto si verificò nel 1996, quando Hillary Clinton, allora sotto un

fuoco incrociato per varie accuse mosse contro di lei, apparve nel corridoio della Casa

Bianca, mentre suo marito teneva il discorso (ripreso da tutte le televisioni) sullo stato

dell'Unione, con a fianco sua figlia Chelsea ed Elie Wiesel». (3)

Secondo lei i rifugiati del Kosovo costretti all'esodo dai serbi durante i bombardamenti

della Nato richiamavano alla mente scene dell'Olocausto rappresentate in Schindler's List.

«Quelli che imparano la storia dai film di Spielberg» commentò sarcasticamente un

dissidente serbo «non dovrebbero venirci a dire come vivere la nostra vita.» (4)

[217] La «Pretesa che l'Olocausto faccia parte della memoria americana», sostiene più

avanti Novick, è un alibi morale. «Fa sì che si eviti di assumersi quelle responsabilità che

davvero spettano agli americani nel momento, in cui affrontano il proprio passato, il

proprio presente e il proprio futuro» (5) (il corsivo è nell'originale). Questo è un punto

fondamentale. È molto più facile deplorare i crimini commessi dagli altri piuttosto che i

nostri. È anche vero, comunque, che se lo volessimo potremmo imparare molto su noi

stessi dall'esperienza nazista. La dottrina del Destino Manifesto ha anticipato quasi tutti

gli elementi dogmatici e programmatici della politica del Lebensraum di Hitler. Di fatto,

Hitler modellò la sua conquista dell'Oriente sulla conquista americana del West. (6)

Nella prima metà del Ventesimo secolo un cospicuo numero di Stati americani approvò

leggi sulla sterilizzazione e decine di migliaia di americani furono sterilizzati contro il

loro volere. Quando promulgarono le leggi sulla sterilizzazione, i nazisti fecero

esplicitamente riferimento al precedente americano. (7)

Le famigerate leggi di Norimberga privarono gli ebrei del diritto di voto e proibirono le

unioni miste tra ebrei e non ebrei. Negli Stati del Sud, i neri subirono le stesse

discriminazioni legali e furono oggetto di una violenza popolare molto più spontanea e

tollerata di quella che dovettero affrontare gli ebrei in Germania prima della guerra. (8)

[218] Per mettere in risalto i crimini che si compiono all'estero, gli Stati Uniti ricorrono

spesso alla memoria dell'Olocausto. È però significativo osservare quando gli Stati Uniti

chiamano in causa l'Olocausto. Crimini compiuti da nemici ufficiali come il bagno di

sangue dei khmer rossi in Cambogia, l'invasione sovietica dell'Afghanistan, l'invasione

irachena del Kuwait e la pulizia etnica dei serbi in Kosovo rievocano l'Olocausto; i

crimini in cui sono implicati gli Stati Uniti no.

Proprio mentre venivano svelate le atrocità dei khmer rossi in Cambogia, il governo

indonesiano appoggiato dagli Stati Uniti stava massacrando un terzo della popolazione di

Timor Est. Eppure, diversamente da quello cambogiano, il genocidio di Timor Est non si

guadagnò il paragone con l'Olocausto e non meritò neppure l'attenzione dei giornali. (9)

Proprio quando l'Unione Sovietica commetteva, secondo la definizione del Centro Simon

Wiesenthal, un «altro genocidio» in Afghanistan, il regime del Guatemala appoggiato

dagli Stati Uniti perpetrava quello che la Commissione guatemalteca per la Verità ha

recentemente definito un «genocidio» contro la popolazione indigena maya. Il presidente

Reagan respinse le accuse contro il governo guatemalteco liquidandole come

«infondate». Per onorare i risultati ottenuti da Jeane Kirkpatrick nel difendere

l'amministrazione Reagan dalle accuse dei crimini che venivano alla luce in America

Centrale, il Centro [219] Simon Wiesenthal la ricompensò con il premio Humanitarian of

the Year. (10)

Prima della cerimonia di premiazione, in molti pregarono in forma privata Simon

Wiesenthal di riconsiderare la decisione. Lui rifiutò. Chiesero con insistenza in forma

privata a Elie Wiesel di intercedere presso il governo israeliano, uno dei principali

fornitori di armi ai macellai guatemaltechi. Anche lui rifiutò. L'amministrazione Carter

rievocò il ricordo dell'Olocausto quando cercò una sistemazione per i boat-people

vietnamiti in fuga dal regime comunista. L'amministrazione Clinton si dimenticò

dell'Olocausto quando costrinse i boat-people haitiani, in fuga dagli squadroni della

morte appoggiati dagli Stati Uniti, a tornare indietro. (11)

Il ricordo dell'Olocausto fu invocato quando ebbero inizio, nella primavera del 1999, i

bombardamenti Nato, guidati dagli Stati Uniti, sulla Serbia. Come si è visto, Daniel

Goldhagen paragonò i crimini serbi contro il Kosovo alla soluzione finale e, su invito del

presidente Clinton, Elie Wiesel si recò nei campi profughi kosovari in Macedonia e in

Albania. Ma prima che Wiesel andasse a versare lacrime a comando per i kosovari, il

regime indonesiano appoggiato dagli Stati Uniti aveva perpetrato nuovi massacri a Timor

Est, riprendendo dal punto in cui si era fermato alla fine degli anni Settanta. L'Olocausto

però svanì dalla memoria quando l'amministrazione Clinton chiuse un occhio [220] sulla

carneficina. «L'Indonesia conta» spiegò un diplomatico occidentale «Timor Est no». (12)

Novick sottolinea che, pur nella diversità, la complicità passiva dell'America nelle

tragedie dell'umanità è comparabile, come portata, all'Olocausto nazista. Ricordando, per

esempio, il milione di bambini uccisi nella Soluzione Finale, osserva che i presidenti

americani fanno poco più che esprimere pietà di fronte al fatto che, in tutto il mondo,

ogni anno un numero di bambini che supera ampiamente quella cifra «muore di

malnutrizione o di malattie che potrebbero essere curate». (13)

Si potrebbe anche prendere in considerazione un caso pertinente di complicità attiva

dell'America. Dopo che la coalizione guidata dagli Stati Uniti ebbe devastato l'Iraq nel

1991 per punire «Saddam-Hitler», gli Stati Uniti e la Gran Bretagna imposero brutali

sanzioni Onu a quello sfortunato Paese nel tentativo di deporre il dittatore. Come

nell'Olocausto nazista, è probabile che sia morto un milione di bambini (14). Interrogata

da una televisione nazionale sul terribile tributo di morte versato dall'Iraq, il segretario di

Stato Madeleine Albright rispose: «È il prezzo da pagare».

«Il carattere estremo dell'Olocausto» sostiene Novick «inficia seriamente la sua capacità

di fornire un insegnamento applicabile alla nostra vita quotidiana.» In quanto «paradigma

di oppressione e atrocità» tende a «banalizzare crimini di portata inferiore» (15). Eppure

[221] l'Olocausto nazista può anche renderci più sensibili nei confronti di queste

ingiustizie. Visto attraverso le lenti di Auschwitz ciò che prima veniva dato per scontato -

per esempio il fanatismo - non può più esserlo. (16) In effetti, fu l'Olocausto nazista a

screditare il razzismo scientifico che aveva tanto pervaso la vita intellettuale americana

prima della Seconda guerra mondiale. (17)

Per coloro che si dedicano al progresso dell'umanità, l'esistenza di un male come pietra di

paragone non soltanto non impedisce, ma addirittura invita al confronto. La schiavitù ha

occupato nell'universo morale del tardo diciannovesimo secolo grosso modo lo stesso

posto che l'Olocausto nazista ha oggi. Di conseguenza fu spesso chiamata a gettare luce

su mali ancora non pienamente definiti. John Stuart Mill paragonò alla schiavitù la

condizione delle donne in quella veneratissima istituzione vittoriana che era la famiglia.

Osò addirittura affermare che, per certi aspetti fondamentali, era peggiore. «Sono ben

lungi dal sostenere che in generale le mogli non siano trattate meglio degli schiavi; ma

nessuno schiavo è schiavo così a lungo e in un senso così pieno dei termine quanto una

moglie.» (18) Soltanto coloro che usano un male esemplare non come bussola morale ma

come randello ideologico indietreggiano di fronte a simili analogie. «Non fare paragoni»

è il mantra dei ricattatori morali. (19)

[222] L'ebraismo americano ha sfruttato l'Olocausto nazista per sviare le critiche da

Israele e dalla sua politica moralmente indifendibile. Il perseguimento di questa politica

ha portato Israele e l'ebraismo americano ad assumere posizioni strutturalmente

congruenti: A destino di entrambi è appeso a un filo sottile che fà capo alle élite del

potere americano. Se queste élite decidessero che Israele è di peso o che l'ebraismo

americano è sacrificabile, A filo potrebbe essere reciso. Non c'è dubbio che si tratti di una

semplice congettura, forse eccessivamente allarmistica, forse no.

Comunque, è facilissimo pronosticare la posizione delle élite ebraiche americane nel caso

in cui questa eventualità si verificasse. Se Israele uscisse dalle grazie degli Stati Uniti,

molti di quei leader che ora difendono Israele a spada tratta manifesterebbero

coraggiosamente la loro disaffezione nei confronti dello Stato ebraico e sferzerebbero gli

ebrei americani per avere trasformato Israele in una religione. E se i circoli del potere

americano decidessero di fare degli ebrei un capro espiatorio, non ci sorprenderemmo se i

leader ebraici americani si comportassero esattamente come i loro predecessori durante

l'Olocausto nazista. «Non potevamo immaginare che i tedeschi sarebbero riusciti a

coinvolgere nelle loro azioni anche elementi ebraici» ricordava Yitzhak Zuckerman, uno

degli organizzatori della rivolta del ghetto di Varsavia «e cioè che gli ebrei avrebbero

condotto alla morte altri ebrei.» (20)

[223] Durante una serie di dibattiti pubblici negli anni Ottanta, molti studiosi di fama,

tedeschi e non tedeschi, si schierarono contro la «storicizzazione» delle infamie del

nazismo. Il timore era che essa avrebbe indotto una caduta della tensione morale. (21) Per

quanto valida possa essere stata la tesi allora, oggi non convince più. Le dimensioni

sbalorditive della Soluzione Finale di Hitler sono ormai ben note. E la storia «normale»

dell'umanità non è forse piena di spaventosi casi di disumanità? Non c'è bisogno che un

crimine sia aberrante perché se ne renda necessaria l'espiazìone. La sfida di oggi è di

ristabilire l'Olocausto nazista come un oggetto di indagine razionale. Soltanto allora

potremo davvero trarre lezione da esso.

La sua anormalità non nasce dall'evento in sé, ma dallo sfruttamento industriale che ne è

stato fatto. L'industria dell'Olocausto è sempre stata fallimentare. Resta solo da

ammetterlo apertamente. Ed è da molto tempo ormai che va liquidata. Il gesto più nobile

nei confronti di coloro che sono morti è serbarne il ricordo, imparare dalla loro sofferenza

e, finalmente, lasciarli riposare in pace.

 

APPENDICI SUGLI ULTIMI AVVENIMENTI

I (22)

Nel terzo capitolo dei presente volume ho spiegato come l'industria dell'Olocausto abbia

«trovato una duplice fonte di guadagno» nei Paesi europei da una parte e nei

sopravvissuti ebrei all'Olocausto nazista dall'altra. I recenti sviluppi confermano tale

analisi. Chi cerca prove che avvalorino la mia argomentazione non dovrà far altro che

esaminare in maniera critica e approfondita i documenti accessibili al pubblico.

Alla fine dell'agosto 2000, il Congresso Mondiale Ebraico ha affermato di avere a

disposizione niente meno che nove miliardi di dollari in risarcimenti. (23) Erano stati

riscossi a nome delle «vittime bisognose dell'Olocausto», ma, a detta di Elan Steinberg,

segretario dell'organizzazione, il denaro sarebbe spettato al «popolo [230] ebraico nella

sua interezza», di cui l'ente si è in sostanza autonominato rappresentante. Frattanto, un

banchetto promosso da Edgar Bronfman, presidente del CME, e tenutosi presso l'Hotel

Pierre di New York, ha festeggiato la nascita di una «fondazione del popolo ebraico»,

destinata a finanziare sia le organizzazioni ebraiche sia l'«educazione all'Olocausto» (un

ebreo critico nei confronti del «banchetto dedicato al tema dell'Olocausto» ha rievocato il

seguente scenario: «Strage. Terribili saccheggi. Lavoro da schiavi. Buon appetito»). Le

risorse finanziarie della fondazione sarebbero provenute dalle somme «residue» rimaste

dopo la distribuzione dei risarcimento, che sarebbero ammontate «probabilmente a

diversi miliardi di dollari» (Steinberg). Dio solo sa come facesse il Congresso Mondiale

Ebraico a sapere che sarebbero rimasti «probabilmente diversi miliardi» se alle vittime

dell'Olocausto non era ancora stato liquidato alcun indennizzo. A dire il vero, non si

conosceva nemmeno il numero degli aventi diritto. Oppure l'industria dell'Olocausto

aveva riscosso i risarcimenti a nome delle «vittime bisognose» sapendo già che sarebbero

rimasti «probabilmente diversi miliardi»? Così facendo, si è resa sostenitrice di due

affermazioni contraddittorie: da una parte sosteneva che le trattative per raggiungere un

accordo con la Germania e la Svizzera avrebbero prodotto solo modeste somme per i

superstiti, dall'altra che sarebbero avanzati «probabilmente diversi miliardi».

[231] Come era facile prevedere, i sopravvissuti all'Olocausto hanno reagito con rabbia

(nessuno di loro aveva preso parte alla creazione della fondazione). «Chi ha consentito a

queste organizzazioni di decidere» si legge nell'infiammato editoriale di uno dei loro

giornali «di utilizzare le somme "residue" (dell'ordine di miliardi) ottenute a nome delle

vittime della Shoah per realizzare i loro progetti prioritari anziché per aiutare tutti i

sopravvissuti all'Olocausto a sostenere i costi sempre maggiori dell'assistenza medica?»

Di fronte al fuoco di sbarramento delle reazioni negative del pubblico, il CME ha fatto un

improvviso dietrofront. La cifra di nove miliardi era un po' fuorviante, ha riconosciuto in

seguito Steinberg, precisando che la fondazione «non dispone di alcuna somma, né di

alcun piano per distribuirla» e che il banchetto non era stato organizzato per festeggiare il

finanziamento dell'ente mediante gli indennizzi, bensì per raccogliere fondi a quello

scopo. I sopravvissuti ebrei più anziani, che in precedenza nessuno aveva interpellato né

tanto meno invitato al «galà costellato di star», hanno dimostrato davanti all'ingresso

dell'Hotel Pierre.

Tra gli ospiti figurava anche il presidente Clinton che, con parole commoventi, ha

ricordato come gli Stati Uniti siano sempre in prima linea quando è necessario «guardare

in faccia un brutto passato»: «Sono stato nelle riserve dei nativi americani e ho ammesso

[232] che in molti casi i trattati da noi sottoscritti sono stati ingiusti e non sono stati

rispettati con onestà. Mi sono recato in Africa [...] e ho riconosciuto la responsabilità

degli Stati Uniti nella vendita di esseri umani ridotti in schiavitù. Ci stiamo sforzando di

trovare l'essenza più profonda della nostra umanità, e questo è un compito tutt'altro che

semplice». Come è facile intuire, quel che manca in tutti questi esempi del «compito

tutt'altro che semplice» è una riparazione in moneta forte. (24)

L'11 settembre 2000 è stato infine reso noto il «piano proposto dal responsabile

straordinario per il pagamento e la distribuzione del ricavato della conciliazione»

concordato con le banche svizzere durante la controversia giudiziaria e denominato qui di

seguito piano Gribetz. (25) Dopo ben due anni di lavoro, il momento dell'annuncio non è

stato scelto tenendo in considerazione gli interessi delle «vittime bisognose

dell'Olocausto, di cui alcune muoiono ogni giorno», bensì in vista del galà di quella sera.

Burt Neuborne, il principale consulente dell'industria dell'Olocausto durante le trattative

con le banche svizzere, ha elogiato il documento definendolo «elaborato con la massima

esattezza [...] redatto con grande meticolosità ed empatia». (26) Il piano sembrava infatti

smentire i timori sempre più diffusi secondo cui il denaro non sarebbe finito nelle tasche

delle organizzazioni ebraiche. Il «Forward» ha riferito per esempio che «il piano di

distribuzione [...] pre[233]vede che oltre il novanta per cento delle somme svizzere venga

versato direttamente ai sopravvissuti e ai loro eredi». Elan Steinberg ha dichiarato che «il

Congresso Mondiale Ebraico non ha mai preteso nemmeno un centesimo, non intascherà

mai nemmeno un centesimo e non accetterà alcun fondo di indennizzo» e ha elogiato il

piano Gribetz definendolo con ipocrisia «un documento straordinariamente saggio e

dettato dalla compassione». È senza dubbio saggio, ma per nulla dettato dalla

compassione. Nelle sue minuscole postille si cela infatti la diabolica verità secondo cui,

con ogni probabilità, solo una piccola parte del denaro elvetico verrà versata direttamente

ai superstiti dell'Olocausto e ai loro eredi. Prima di approfondire questo aspetto, occorre

tuttavia sottolineare che il documento dimostra, in maniera convincente anche se

involontaria, come l'industria dell'Olocausto abbia spremuto la Svizzera. (28)

Il lettore rammenta forse che nel maggio 1996 le banche svizzere avevano acconsentito

formalmente alla conduzione di un'esauriente indagine esterna (a detta di Richter Roman

«l'indagine più completa e costosa della storia»), in base ai risultati della quale sarebbero

state prese in esame tutte le rivendicazioni pendenti dei sopravvissuti all'Olocausto e dei

loro eredi. (29) Ancor prima che la commissione d'inchiesta presieduta da Paul Volcker

avesse la possibilità di riunirsi, l'industria dell'Olocausto aveva tuttavia insistito per il

raggiungi[234]mento di un accordo finanziario. Per battere sul tempo la commissione

Volcker, erano state sollevate due obiezioni: per prima cosa non si poteva fare

affidamento sull'organismo e, secondariamente, le vittime bisognose dell'Olocausto non

potevano aspettare gli esiti dell'indagine. Il piano Gribetz svuota di significato entrambe

le obiezioni.

Nel giugno 1997, Neuborne aveva presentato un «parere legale» per giustificare come

mai non si volesse attendere la conclusione dei lavori della commissione. Negando con

grande sfacciataggine l'evidenza, aveva definito l'organismo un espediente elvetico per

sviare le critiche verso un «tentativo privato di composizione promosso, pagato e guidato

dagli imputati». (30) Cosa ancor più interessante, Neuborne aveva persino accusato i

banchieri svizzeri di essersi intascati i cinquecento milioni di dollari destinati all'inchiesta

senza precedenti che era stata loro imposta. Nell'agosto 1998, ancora prima che la

commissione Volcker portasse a termine il proprio compito, l'industria dell'Olocausto era

riuscita a far approvare a carico degli svizzeri una somma di conciliazione non

rimborsabile pari a un miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari. (31) Benché, pur

di ottenere tale accomodamento, fossero state messe in circolazione voci secondo cui la

commissione Volcker era inaffidabile, il piano Gribetz copre l'organismo di elogi e

sottolinea che i suoi esiti e le sue procedure di [235] esame delle rivendicazioni («Claims

Resolution Tribunal» o CRI Tribunale per la risoluzione delle rivendicazioni) sono stati e

sono di «importanza decisiva» per la distribuzione del denaro svizzero. (32) Il fatto che,

nel caso della ripartizione dei fondi, l'industria dell'Olocausto si sia appoggiata tanto

volentieri alla commissione smentisce il pretesto principale che aveva usato per batterla

sul tempo ottenendo una somma di accomodamento non rimborsabile.

In base all'accordo raggiunto con l'industria dell'Olocausto, gli svizzeri non solo sono

stati costretti a rimborsare conti inattivi dell'epoca dell'Olocausto nazista, ma anche a

«restituire i proventi» che avevano ricavato «consapevolmente» dai titolari ebrei derubati

dai nazisti e dal lavoro forzato degli ebrei. (33)

Il piano Gribetz dimostra anche l'infondatezza di tali rilievi. Riconosce che, se mai ve ne

furono, i contatti diretti tra gli svizzeri da una parte e i titolari ebrei derubati o gli ex

internati nei campi di lavoro dall'altra furono pochissimi, per non parlare poi dei contatti

direttamente redditizi o consapevolmente redditizi. Il piano rivela infatti che i rilievi

contenuti in queste accuse collettive si basano su avvenimenti che accaddero «forse»,

«probabilmente» o «presumibilmente». (34) Gli svizzeri sono infine stati obbligati a

risarcire gli ebrei che si erano visti negare l'accoglienza mentre fuggivano dai nazisti. Il

piano Gribetz riconosce espressamente, [236] anche se solo in una nota. che tale

rivendicazione è «discutibile dal punto di vista giuridico». (35) Nonostante tutte queste

ammissioni, il documento continua tuttavia a sostenere in tono di approvazione che «in

un mondo davvero giusto, i protagonisti di questa vicenda avrebbero dovuto ricevere una

somma molto più elevata» del miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari sottratti

agli svizzeri. (36)

Per ottenere un indennizzo non rimborsabile, oltre ad alludere alla presunta parzialità

della commissione Volcker, l'industria dell'Olocausto ha accennato al fatto che ai

sopravvissuti non restava ancora molto da vivere. Il tempo ha svolto un ruolo tanto

decisivo perché, a quanto si diceva, «le vittime bisognose dell'Olocausto» sarebbero

vissute ancora per poco. Dopo essere entrata in possesso del denaro, l'industria

dell'Olocausto ha tuttavia scoperto all'improvviso che le «vittime bisognose» non

muoiono poi così in fretta. Riferendosi a uno studio commissionato dalla Claims

Conference, il piano Gribetz asserisce che «il numero delle vittime del nazismo decresce

con maggiore lentezza di quanto si pensasse inizialmente». Il documento prevede infatti

che «un numero abbastanza significativo di vittime ebree dei nazisti vivrà

presumibilmente almeno per altri vent'anni e che, con ogni probabilità, fra trenta o

trentacinque anni» (vale a dire circa novant'anni dopo la Seconda guerra mondiale)

«saranno ancora in vita [237] parecchie decine di migliaia di ebrei perseguitati dal

nazismo». (37) Visto il modo in cui si è evoluta finora la storia dell'industria

dell'Olocausto' nessuno dovrebbe stupirsi apprendendo che in realtà tale scoperta verrà

sfruttata per imporre all'Europa altre richieste di risarcimento e che nel frattempo viene

usata per rimandare la liquidazione delle somme. Il piano Gribetz consiglia pertanto di

distribuire il denaro poco per volta in modesti importi, perché «sarebbe controproducente

destare nelle vittime bisognose speranze che non farebbero altro che erodere il capitale a

disposizione e dunque le possibilità d'aiuto». (38)

Durante le trattative con le banche svizzere, l'industria dell'Olocausto ha affermato che

l'età media dei sopravvissuti si aggirava intorno ai settantatré anni in Israele e agli

ottaneanni nel resto del mondo. raspettativa di vita nei tre Paesi in cui oggi si trova il

maggior numero di sopravvissuti oscilla tra i sessanta (nei Paesi dell'ex Unione Sovietica)

e i settantasette anni (negli Stati Uniti e in Israele). (39) Non è uno scandalo chiedersi

come sia possibile pensare che fra trentacinque anni saranno ancora in vita «decine di

migliaia» di superstiti. Si può in parte rispondere a questa domanda rammentando che

l'industria dell'Olocausto ha riformulato per l'ennesima volta la definizione di

sopravvissuto. «Uno dei motivi alla base di questa diminuzione relativamente lenta del

loro numero» sostiene il citato stu[238]dio della Claims Conference «consiste nel fatto

che, se si applica la definizione estesa, esistono molte più giovani vittime del nazismo di

quanto si pensasse in un primo momento» (il corsivo è nell'originale). (40) Seguendo

criteri infiazionistici che ricordano l'epoca di Weimar, il piano Gribetz quantifica i

superstiti ancora vivi in quasi un milione, il quadruplo dei già sorprendenti

duecentocinquantamila individui indicati quando è stato imposto il risarcimento per

l'Olocausto alla Svizzera. (41)

Per realizzare questo capolavoro statistico e demografico, il piano Gribetz considera

sopravvissuto all'Olocausto ogni ebreo russo scampato alla Seconda guerra

mondiale. (42) Gli ebrei russi che erano già sfuggiti ai nazisti o che servirono nell'Armata

rossa diventano così sopravvissuti all'Olocausto, perché, se fossero stati catturati,

sarebbero stati torturati e uccisi. (43) Anche se si adotta questa nuova definizione ai fini

dell'argomentazione, non si spiega come mai i funzionari sovietici che erano già sfuggiti

ai nazisti e i soldati non ebrei dell'Armata rossa non rientrino nella medesima categoria.

Se fossero stati catturati, anche loro infatti sarebbero stati torturati e uccisi. Il piano

Gribetz riferisce, per esempio, che un militare ebreo americano preso prigioniero dai

nazisti fu internato in un campo di concentramento. (44) Tutti i soldati semplici americani

della Seconda guerra mondiale non dovrebbero quindi esse[239]re definiti sopravvissuti

all'Olocausto? Qui si apre una vasta gamma di possibilità. Come spiega un illustre storico

della sezione Olocausto del British Imperial War Museum esprimendosi a favore di tale

aggiornamento dei dati sulla mortalità all'interno del piano Gribetz, «in senso ancor più

lato possono [...] essere considerati "sopravvissuti all'Olocaust" anche i discendenti della

seconda e persino della terza generazione», perché «può darsi che soffrano di danni

psichici». (45) Tra qualche tempo l'industria dell'Olocausto perdonerà persino

Wilkomirski definendo anche lui un sopravvissuto, giacché, per citare il direttore dello

Yad Vashem, il suo «dolore è autentico».

Per molti aspetti, all'industria dell'Olocausto conviene dare una nuova definizione di

sopravvissuto e arrotondare per eccesso il numero delle vittime. In tal modo, non solo

giustifica il fatto di avere sottratto denaro agli Stati europei, ma anche di averlo sottratto

alle vere vittime dell'Olocausto nazista. Per anni, queste ultime hanno implorato la

Claims Conference di destinare il denaro dei risarcimenti a un programma di

assicurazione sanitaria. Nel piano Gribetz, questa «interessante» proposta viene

menzionata in una nota, deplorando il fatto che la somma ricavata dalla composizione

con la Svizzera «non sarebbe sufficiente» a garantire un'assicurazione sanitaria per «oltre

ottocentomila sopravvissuti all'Olocausto». (46) A parte un importo irri[240]sorio,

secondo il piano Gribetz il denaro elvetico è destinato solo agli ebrei vittime del nazismo.

Dal punto di vista tecnico, la composizione riguardava tutte «le vittime reali o designate

della persecuzione nazista». In realtà, questa formulazione all'apparenza completa e

«politicamente corretta» è uno stratagemma linguistico per escludere la maggior parte

delle vittime non-ebree. L'espressione «vittime reali o designate della persecuzione

nazista» comprende deliberatamente solo ebrei, zingari, testimoni di Geova, omosessuali

e disabili. Per qualche misterioso motivo, esclude altri perseguitati politici (per esempio i

comunisti e i socialisti) e di diverse etnie (per esempio i polacchi e gli abitanti della

Bielorussia) che formano gruppi molto più numerosi rispetto a quelli elencati nel piano

Gribetz accanto agli ebrei come «vittime reali o designate della persecuzione nazista». A

livello pratico, ciò significa che quasi tutto il denaro dei risarcimenti spetta agli ebrei. Il

piano comprende centosettantamila lavoratori schiavi ebrei; su un milione di lavoratori

schiavi non ebrei, solo trentamila vengono tuttavia considerati «vittime reali o designate

della persecuzione nazista». Analogamente, il documento prevede novanta milioni di

dollari per le vittime ebree dei saccheggì nazisti, destinando invece solo dieci milioni ai

non ebrei. P, in parte possibile giustificare tale suddivisìone ricordando che una simile

situazione affonda le sue radici nei precedenti accordi di [241] indennizzo. Il piano lascia

però anche intuire che in passato le vittime non ebree abbiano ricevuto una quota troppo

esigua dei risarcimenti. Un piano di distribuzione equo non dovrebbe porre rimedio alle

precedenti ingiustizie anziché accentuarle? (47)

Del miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari estorti alla Svizzera, il piano Gribetz

stanzia niente meno che ottocento milioni per soddisfare le legittime rivendicazioni su

conti bancari inattivi dell'epoca delr Olocausto. Comprese le appendici e le tabelle, il

testo del documento si compone di parecchie centinaia di pagine con oltre mille note.

L'unico particolare curioso consiste nelfatto che il piano non tenta mai di fornire

motivazioni credibili per questa decisiva ripartizione. Si limita infatti a stabilire quanto

segue: «Sulla base dell'analisi del rapporto Volcker, dei decreto giudiziario definitivo e

delle consultazioni con i rappresentanti della commissione Volcker, il responsabile

straordinario stima che il valore complessivo dei conti bancari da rimborsare si aggiri

intorno agli ottocento milioni di dollari». (48) Tale valutazione appare grottesca ed

esagerata. Con ogni probabilità, la somma versata per i contì inattivi ammonta solo a una

minuscola frazione dì questi ottocento milioni. (49) Si desume che il denaro «residuo»,

vale a dire la somma rimasta una volta soddisfatte tutte le rivendicazioni legittime, verrà

distribuito direttamente ai superstiti o a organizzazioni ebraiche la [242] cui attività sia

legata all'Olocausto. (50) In realtà, le risorse rimanenti andranno quasi sicuramente alle

organizzazioni ebraiche, non solo perché l'industria dell'Olocausto avrà l'ultima parola,

ma anche perché il denaro verrà distribuito solo tra molti anni, quando i veri

sopravvissuti ancora in vita saranno pochissimi.51

A parte gli ottocento milioni di dollari destinati a rimborsare i conti bancari, il piano

Gribetz ripartisce circa quattrocento milioni prevalentemente tra le categorie «proprietari

derubati», «lavoratori schiavi» e «rifugiati». Ma contiene anche la decisiva riserva

secondo cui nessuna di queste somme verrà sbloccata finché «non saranno esauriti tutti i

ricorsi della controversia legale». Il documento riconosce che i «pagamenti proposti forse

non potranno cominciare se non tra qualche tempo» e cita un interessante precedente in

cui i procedimenti di ricorso sono durati tre anni e mezzo. (52) I sopravvissuti anziani

all'Olocausto non possono vincere, perché l'industria dell'Olocausto non può

assolutamente perdere. Molti di loro, indignati per via del piano, vorranno senza dubbio

fare ricorso, ma, anche nell'ipotesi in cui il ricorso avesse successo, solo pochi ne

trarrebbero vantaggio. I procedimenti di ricorso potranno solo arricchire ulteriormente

l'industria dell'Olocausto, che è già la principale beneficiaria del piano Gribetz: a causa

del ritardo, altre somme andranno infatti a rimpinguare i suoi forzieri mentre morirà un

numero sempre maggiore di superstiti.

[243] Una volta sfruttate tutte le vie legali, il piano Gribetz prevede la seguente

ripartizione per questi quattrocento milioni:

1) Nella categoria «proprietari derubati». novanta milioni non verranno versati

direttamente ai sopravvissuti all'Olocausto, bensì a organizzazioni ebraiche che assistono

«comunità dell'Olocausto» in senso lato. La parte più consistente spetterà alla Claims

Conference, che il piano Gribetz elogia più volte per la sua «incomparabile esperienza al

servizio delle esigenze delle vittime del nazismo». (53) Il documento riserva dieci milioni

a una «fondazione il cui obiettivo consisterà nel raccogliere i nomi di tutte le vittime,

reali o designate, della persecuzione nazista e nel renderli disponibili a scopo di ricerca o

commemorazione». Consiglia inoltre alla fondazione di utilizzare come materiale di base

gli «insostituibili dati dei questionari originali» compilati dalle vittime dell'Olocausto.

Una risposta frequente tra questi «insostituibili dati» rivela che ben una su sei vittime

ebree (settantunomila su quattrocentotrentamila) ha dichiarato di essere stata titolare di

un conto bancario elvetico prima della Seconda guerra mondiale. Una su sei possedeva

anche una Mercedes e uno chalet in Svizzera. (54)

2) Nella categoria «lavoratori schiavi», ciascuno dei centosettantamila ex forzati di

origine ebraica ancora in vita dovrebbe ricevere un pagamento suddiviso in [244] due

rate: cinquecento dollari quando tutti i ricorsi saranno stati risolti e «fino a» cinquecento

dollari quando saranno state verificate tutte le rivendicazioni sui conti bancari

inattivi. (55) In realtà, la cifra di centosettantamila persone è un'esagerazione, e

probabilmente molti degli ex lavoratori schiavi ebrei non vivranno abbastanza da

riscuotere la prima rata, per non parlare poi della seconda. Le domande vengono

esaminate dalla Claims Conference, che, in quanto principale beneficiaria dei risarcimenti

rimasti, trarrà vantaggio da ogni richiesta respinta.

3) Nella categoria «rifugiati», gli aventi diritto riceveranno somme comprese tra i

duecentocinquanta e i duemilacinquecento dollari, che, come nel caso dei «lavoratori

schiavi», verranno corrisposte in due rate. (56) In base agli «insostituibili dati contenuti

nel questionari originali», circa diciassettemila ebrei hanno reclamato l'appartenenza a

questo gruppo. Con ogni probabilità, solo una piccola parte di queste diciassettemila

persone riuscirà però a dimostrare di godere di un diritto legittimo (sarà la Claims

Conference a valutare le domande), e ancora meno saranno gli individui che vivranno

abbastanza a lungo da riscuotere il denaro.

Un'accurata analisi del piano Gribetz conferma pertanto le principali argomentazioni

esposte nel terzo capitolo del presente volume. Dimostra che i pretesti addotti

dall'industria dell'Olocausto per esigere dalle [245] banche elvetiche una somma di

composizione non rimborsabile sono falsi e che pochi dei veri sopravvissuti all'Olocausto

nazista beneficeranno direttamente (o anche solo indirettamente) del denaro svizzero.

L'esame di altri accordi conclusi dall'industria dell'Olocausto produrrebbe probabilmente

risultati analoghi. Le norme esecutive del piano Gribetz nascondono in effetti un gruzzolo

d'emergenza a essa destinato. Con ogni probabilità, la maggior parte dei fondi svizzeri

verrà distribuita solo quando non sarà rimasto altro che un esiguo gruppetto di

sopravvissuti. Una volta venuti a mancare questi ultimi, il denaro si riverserà nei forzieri

delle organizzazioni ebraiche. Non c'è dunque da meravigliarsi se il piano Gribetz è stato

elogiato all'unanimità dall'industria dell'Olocausto.

Norman G. FinkeIstein

novembre 2000 New York

[257]

 

II (57)

L'industria dell'Olocausto si incentra su due tesi fondamentali. In primo luogo, i tedeschi

- e soltanto i tedeschi - devono assumersi la responsabilità di fare i conti con il proprio

passato. Nella Catastrofe della Germania, Friedrich Meinecke osserva che la Germania

nazista non fu unicamente malvagia perché l'«elemento amorale» su cui si imperniava

infettò l'intera civiltà occidentale. «Questa verità» ci avverte tuttavia «non dovrebbe

essere una giustificazione per noi tedeschi. Considerazioni di natura etica e storica

impongono a noi tedeschi di pensare a ciò che riguarda noi e sforzarci di comprendere A

ruolo speciale svolto dalla Germania in questa situazione.» (58) È vero anche il contrario:

considerazioni di natura etica e storica impon[258]gono, per esempio, agli Stati Uniti di

pensare a ciò che riguarda loro. Pur essendo fin troppo disposti a sovrintendere alla resa

dei conti tedesca, gli americani non sono invece disposti a concepire un'analoga

responsabilità né sono capaci di farlo. Nel discorso che ha segnato la conclusione delle

negoziazioni sul lavoro schiavistico in Germania, il segretario di Stato Madeleine

Albright ha spiegato che è «negli interessi della politica estera statunitense adottare

misure per affrontare le conseguenze dell'era nazista, imparando le lezioni di questo

capitolo buio della storia tedesca, insegnandole al mondo e cercando di garantire che fatti

del genere non si ripetano mai più». (59) A dire il vero, sarebbe negli «interessi della

politica estera» di quasi tutta l'umanità se gli Stati Uniti analizzassero i «capitoli bui» del

loro passato. Mentre i tedeschi combattono ogni giorno contro i propri crimini storici, gli

americani non hanno infatti ancora riconosciuto la maggior parte dei loro. Nella maggior

parte delle discussioni americane sul Vietriam, ci si domanda soltanto quando i vietnamiti

ammetteranno quel che ci hanno fatto. (60) In altre parole, noi americani ci troviamo sul

medesimo piano morale del discorso di Himmler a Posen.

La seconda tesi fondamentale dell'Industria dell'Olocausto sostiene che le élite ebraiche

americane sfruttano l'Olocausto nazista per ottenere vantaggì politici e finanziari. Nella

Questione della colpa, Karl Jaspers affer[259]ma che l'«accusa» rivolta alla Germania

«non è più un'incriminazione» se diviene «un'arma usata [...] per altri scopi, siano essi

politici o economici» (corsivo nell'originale). (61) Pur avendo l'indiscutibile

responsabilità di affrontare gli orrori del nazismo, i tedeschi hanno anche il diritto di

opporsi allo sfruttamento di tali crimini.

Nell'Industria dell'Olocausto ho spiegato come le organizzazioni, le istituzioni e le

personalità di spicco del mondo ebraico americano abbiano strumentalizzato l'Olocausto

nazista per proteggere Israele dalle critiche e, in epoca più recente, per ricattare l'Europa.

Il principale rimprovero rivolto al libro non mi incolpa di aver travisato i fatti, bensì di

aver inventato una «teoria della cospirazione» nel tentativo di descrivere questa iniziativa

coordinata. Nella Ricchezza delle nazioni, Adani Smith osserva che i capitalisti «di rado

si incontrano, anche per gaiezza e divertimento, ma le loro conversazioni finiscono

sempre in cospirazione contro il pubblico o in un qualche espediente per aumentare i

prezzi». Un simile assunto trasforma forse anche il classico di Smith in una «teoria della

cospirazione»? (62)

***

Dalla pubblicazione dell'edizione tedesca dell'Industria dell'Olocausto, i nuovi sviluppi

hanno avvalorato le mie [260] teorie principali. Nell'ottobre del 2001, il Claims

Resolution Tribunal (CRT), pronunciandosi sui ricorsi riguardanti i conti svizzeri inattivi

dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha reso noti gli esiti delle sue ricerche tramite

una lista iniziale di 5570 conti esteri. Ha scoperto che il valore attuale dei conti

appartenenti alle vittime dell'Olocausto, inclusi gli interessi maturati, ammonta a dieci

milioni di dollari. Con ogni probabilitá, una volta risolti i ricorsi sui restanti ventunmila

conti inattivi e chiusi dell'epoca dell'Olocausto, tale cifra non si avvicinerà nemmeno

lontanamente al miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari estorto alle banche

svizzere nella composizione definitiva, per non parlare poi della somma richiesta in

origine, compresa tra i sette e i venti miliardi. Riferendo le conclusioni del CRI il

«Times» di Londra ha pubblicato un articolo intitolato: «Il denaro svizzero dell'Olocausto

è un mito». Il peso delle prove convalida l'accusa di Raul Hilberg, secondo cui il

Congresso Mondiale Ebraico ha inventato «cifre stratosferiche» per poi «ricattare» le

banche svizzere e costringerle a sottomettersi. (63) Poiché solo una piccolissima

percentuale del miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari della composizione con la

Svizzera è finita nelle tasche delle vittime o dei loro eredi, i ricattatori hanno cominciato,

come era prevedibile, a contendersi il bottino dell'Olocausto. È interessante notare che chi

si trova in mezzo [261] a questo fuoco incrociato è proprio la vittima dei ricattatori.

Sostenendo che Israele è il legittimo destinatario e dichiarando: «Non mi fido del

Congresso Mondiale Ebraico», il ministro della Giustizia israeliano chiede infatti che

«l'accordo con le banche svizzere venga rinegoziato». (64)

La tattica del ricatto adottata da Stuart Eizenstat, il principale ufficiale di collegamento

dell'industria dell'Olocausto con l'amministrazione Clinton (dove ha lavorato come vicesegretario

al Tesoro), si è dimostrata meno efficace nei confronti della Francia. In

Francia, la commissione Matteoli aveva individuato sessantaquattromila conti bancari

forse appartenuti a vittime dell'Olocausto, un numero molto più elevato rispetto ai

venticinquemila conti svizzeri. Pur avanzando richieste che hanno «scioccato» i francesi,

Eizenstat, che ha lavorato con l'acqua alla gola nelle fasi finali della presidenza Clinton, è

però riuscito a strappare solo una somma di poco superiore a quella effettivamente dovuta

alle vittime dell'Olocausto. In una «Dichiarazione d'interesse» allegata all'accordo

definitivo, Eizenstat ha sottolineato che «tra gli interessi degli Stati Uniti figura [...]

un'equa e tempestiva risoluzione» dei ricorsi presentati dalle vittime dell'Olocausto

contro la Francia, «per portare un po' di giustizia nella loro vita». Senza dubbio un nobile

interesse, che, ahimè, non si è però esteso ai ricorsi contro gli Stati Uniti. Il

confron[262]to tra la documentazione statunitense e quella svizzera è suffidente a mettere

in luce questa ipocrisia. (65)

Nel maggio del 1998, il Congresso ha incaricato una commissione consultiva

presidenziale di «condurre nuove ricerche sul destino dei beni sottratti alle vittime

dell'Olocausto ed entrati in possesso del governo federale degli Stati Uniti» e di

«suggerire al presidente le politiche da adottare per la restituzione dei beni rubati ai

legittimi proprietari o ai loro eredi». (66) Nel dicembre del 2000, la commissione,

presieduta da Edgar Bronfman (che aveva orchestrato l'attacco alle banche svizzere), ha

pubblicato il tanto atteso rapporto, intitolato Plunder and Restitution: The U.S. and

Holocaust Victims' Assets. (67) Il documento vuole dimostrare che «gli Stati Uniti non

hanno preteso da se stessi meno di quanto abbiano preteso dalla comunità

intemazionale». (68) In realtà, un'attenta lettura della relazione conduce alla conclusione

opposta: pur essendosi macchiati di tutti i reati di cui hanno accusato gli svizzeri, gli

Stati Uniti non si sono visti imporre analoghe richieste di restituzione. (69)

La commissione presidenziale contrappone l'«intransigenza delle banche svizzere» agli

«straordinari sforzi» compiuti dagli Stati Uniti per restituire i beni dell'epoca

dell'Olocausto. (70) Io vorrei prima confrontare le accuse rivolte agli svizzeri con il

comportamento americano rivelato nel rapporto della commissione.

[263] La negazione dell'accesso ai beni dell'epoca dell'Olocausto

L'industria dell'Olocausto ha accusato le banche svizzere di aver sistematicamente negato

ai sopravvissuti e ai loro eredi l'accesso ai conti dopo la Seconda guerra mondiale. La

commissione Volcker ha concluso che, tranne qualche raro caso, questa accusa era priva

di fondamento. (71) La commissione presidenziale ha invece scoperto che, dopo il

conflitto, «molti» sopravvissuti all'Olocausto e loro eredi non riuscirono a recuperare i

beni negli Stati Uniti a causa «dei costi e delle difficoltà di compilazione» del ricorso (dal

1941 il governo federale bloccava o investiva i beni di tutti i cittadini provenienti dai

paesi che avevano subito l'occupazione nazista). (72) Come le banche svizzere, in «alcuni

casi» il governo federale cercò i legittimi proprietari. (73)

La distruzione della documentazione riguardante i beni dell'epoca dell'Olocausto

L'industria dell'Olocausto ha accusato le banche svizzere di aver sistematicamente

distrutto documenti importanti nel tentativo di coprire le proprie tracce. La commissione

Volcker ha concluso che l'accusa era priva di fondamento. (74)

A distruggere fondamentali «dati grezzi» sono invece stati gli Stati Uniti. Dopo la

dichiarazione di guerra contro l'Asse, il ministero del Tesoro chiese alle società [264]

finanziarie americane di presentare elenchi dettagliati di tutti i beni di cittadini stranieri in

deposito. La commissione riferisce che i moduli (in tutto 565.000) «sono andati distrutti e

che le indagini non hanno portato alla luce alcun duplicato. È pertanto impossibile

stimare l'ammontare dei beni delle vittime negli Stati Uniti nel 1941». Stranamente, la

commissione non dice quando e perché i documenti siano stati macerati. (75)

L'appropriazione indebita dei beni dell'epoca dell'Olocausto

L'industria dell'Olocausto ha giustamente accusato la Svizzera di aver usato il denaro di

proprietà delle vittime dell'Olocausto provenienti dalla Polonia e dall'Ungheria come

risarcimento per i beni svizzeri nazionalizzati dai governi di questi paesi. (76) La

Commissione presidenziale riferisce tuttavia che ciò accadde anche negli Stati Uniti: «Il

risarcimento dei beni statunitensi perduti in Europa ebbe la precedenza sul risarcimento

dei beni di cittadini stranieri congelati negli Stati Uniti. Il Congresso considerò i beni

tedeschi congelati una fonte con cui liquidare le richieste statunitensi per il risarcimento

dei danni subiti da società e cittadini americani durante la guerra [...] I danni statunitensi

furono così in parte risarciti mediante beni tedeschi che comprendevano, con ogni

probabilità, i beni delle vittime [dell'Olocausto]». (77)

[265] Il commercio dell oro nazista rubato

L'industria dell'Olocausto ha giustamente accusato gli svizzeri di aver acquistato l'oro

nazista sottratto alle tesorerie centrali europee. (78) La commissione presidenziale rivela

tuttavia che gli Stati Uniti fecero lo stesso. Il commercio dell'oro nazista rubato restò

infatti una politica ufficiale americana finché la dichiarazione di guerra della Germania

ne impedì la prosecuzione. Vale la pena di citare per intero il relativo brano del rapporto

della commissione:

L'invasione tedesca di Francia, Belgio e Paesi Bassi nel maggio del 1940 indusse il signor

Pinsent, consulente finanziario presso l'ambasciata britannica, a inviare un messaggio al

ministero del Tesoro per chiedere al signor Morgenthau [il segretario del Tesoro] «se

fosse disposto a passare al setaccio le importazioni d'oro allo scopo di rifiutare quelle

presumibilmente tedesche», poiché Pinsent aveva il chiaro timore che le riserve private di

oro belga e olandese finissero in mano tedesca. In un memorandum del 4 giugno 1940,

Harry Dexter White [responsabile della Divisione per le ricerche valutarie] spiega perché

il ministero del Tesoro statunitense non abbia sollevato domande riguardo all'origine

dell'oro «tedesco» [...] La mossa più efficace che gli Stati Uniti potessero compiere

affinché l'oro continuasse a essere un mezzo di scambio internazionale, sostiene White,

[266] «consiste nel conservarne l'inviolabilità e l'accettazione indiscussa come mezzo di

pagamento internazionale». In effetti, sei mesi dopo, White avrebbe parlato con sdegno

della sua «incrollabile opposizione a prendere in seria considerazione le proposte

avanzate da coloro che non conoscono a fondo l'argomento e ci chiedono di sospendere

l'acquisto dell'oro o di smettere di comprare l'oro di un determinato paese per una ragione

o per un'altra». All'inizio dei 1941, un memorandum interno del ministero del Tesoro

invitò nuovamente White a porsi la domanda: «Di chi è l'oro che acquistiamo?», ma dai

suoi appunti risulta chiaramente che la risposta fu «un'accettazione indiscussa

dell'oro». (79)

L'industria dell'Olocausto ha giustamente accusato gli svizzeri anche di aver comprato

l'oro nazista rubato alle vittime dell'Olocausto. Nulla dimostra però che gli svizzeri

abbiano comprato consapevolmente «l'oro delle vittime», il cui valore complessivo

attuale è stato stimato in circa un milione di dollari. (80) La Commissione presidenziale

non esclude inoltre che «i lingotti e le monete acquistati dal ministero del Tesoro

mediante le Federal Reserve Banks di New York durante e dopo la guerra contenessero

quantità infinitesimali di oggetti d'oro rubati alle vittime del nazismo». (81)

In sintesi, il rapporto della Commissione presidenziale dimostra che gli Stati Uniti si

macchiarono di tut[267]te le accuse rivolte alla Svizzera dall'industria dell'Olocausto.

Quest'ultima ha costretto le banche svizzere a condurre un'esauriente indagine esterna,

costata mezzo miliardo di dollari, per individuare tutti i beni non reclamati dell'epoca

dell'Olocausto. Ancor prima che l'indagine venisse completata, l'industria dell'Olocausto

ha imposto agli svizzeri il risarcimento di un miliardo e duecentocinquanta milioni di

dollari. (82) La commissione Volcker ha tuttavia riferito che gli Stati Uniti erano, proprio

come la Svizzera, uno dei principali porti d'approdo dei beni ebrei in Europa. (83)

Esaminiamo ora le richieste imposte agli Stati Uniti.

Come già detto, la Commissione presidenziale ha dichiarato che il suo «lavoro [...]

dimostra che gli Stati Uniti non hanno preteso da se stessi meno di quanto abbiano

preteso dalla comunità internazionale». La Commissione non ha tuttavia eseguito un

calcolo completo dei beni dell'epoca dell'Olocausto non reclamati in territorio

statunitense. Il rapporto sostiene che non spettava alla Commissione «quantificare

meccanicisticamente o attribuire un valore in dollari alle carenze storiche rilevate nella

politica statunitense o nella sua messa in opera». (84) A quanto pare, non ha potuto farlo

sia a causa del «necessario compromesso tra gli obiettivi della ricerca e il tempo e le

risorse disponibili per il suo completamento» sia a causa dell'«insufficien[268]za e della

qualità eterogenea della documentazione in suo possesso». (85) Inspiegabilmente, la

Svizzera è riuscita a superare tali ostacoli, ma gli Stati Uniti no. Che cosa ha impedito di

investire più «tempo e risorse» e di condurre un'indagine sul modello svizzero per

colmare le lacune documentali? (86) Allo stesso modo, un computo accurato dei beni

dell'epoca dell'Olocausto restituiti avrebbe richiesto «indagini sistematiche che sarebbero

state al di là delle capacità» (87) della Commissione, ma non al di là di quelle delle

banche svizzere.

La Commissione riferisce che la Jewish Restitution Successor Organization (JRSO)

«accettò solo con riluttanza» il risarcimento di cinquecentomila dollari offerto dal

governo statunitense all'inizio degli anni Sessanta per i beni dell'epoca dell'Olocausto non

reclamati. (88) Sebbene i risultati del rapporto avvalorino l'assunto di Seymour Rubin,

secondo cui la cifra di cinquecentomila dollari era «assai modesta», (89) la Commissione

conclude, come era prevedibile, che l'esiguità del risarcimento non è «imputabile a cattive

intenzioni da parte di alcun funzionario, agente o istituzione statunitense». (90) Il

rapporto non accenna nemmeno al fatto che gli Stati Uniti dovrebbero pagare un

risarcimento maggiore, per non parlare poi di una cifra paragonabile al miliardo e

duecentocinquanta milioni di dollari estorto agli svizzeri.

La Commissione presidenziale acclude inoltre una [269] lista di nobili

raccomandazioni. (91) Al termine della guerra, i soldati americani di stanza in Europa si

dedicarono a massicci saccheggi. (92) Una delle raccomandazioni chiede al governo

federale «di mettere a punto, in concerto con le organizzazioni militari dei veterani, un

programma volto a promuovere la restituzione volontaria dei beni delle vittime di cui gli

ex membri delle forze armate potrebbero essersi impossessati come souvenir di guerra».

Senza dubbio i veterani stanno già facendo la fila per restituire il bottino. Una delle

raccomandazioni conclusive chiede agli Stati Uniti di «conservare il loro ruolo di primo

piano nell'incoraggiare l'impegno della comunità internazionale ad affrontare i problemi

legati alla restituzione dei beni». Dopo il rapporto sarebbe ragionevole giungere alla

conclusione che il ruolo di primo piano dell'America è più una catastrofe che una

benedizione.

***

Nel libro affermo che, durante i recenti negoziati con la Germania, l'industria

dell'Olocausto ha gonfiato sia il numero di ex lavoratori schiavi ebrei vivi al termine della

guerra sia il numero di quelli ancora vivi oggi. È la stessa Claims Conference ad

ammetterlo. Il professor Yehuda Bauer, ex direttore dello Yad Vashem - il museo

dell'Olocausto, oltre che il principale istituto [270] israeliano di ricerca sull'Olocausto -

lavora oggi come consulente della Conferenza per l'educazione all'Olocausto. Nel suo

recente studio, Rethinking The Holocaust, stima «che, alla fine della Seconda guerra

mondiale, circa duecentomila ebrei scamparono ai campi nazisti di concentramento e

lavoro forzato e sopravvissero alle marce della morte». Pur essendo molto più elevata

delle stime consuete, la cifra indicata da Bauer è inconciliabile con le asserzioni fatte

dall'industria dell'Olocausto durante i negoziati, secondo cui settecentomila lavoratori

schiavi ebrei sopravvissero alla guerra e centoquarantamila sono ancora vivi a distanza di

più dì cinquantanni. (93) Persino le organizzazioni dei sopravvissuti accusano l'industria

dell'Olocausto di aver ingigantito il numero durante le trattative per poi ridimensionarlo

una volta ottenuti i risarcimenti: «Come mai il numero degli effettivi superstiti della

Shoah è stato esagerato in maniera cosi clamorosa durante i negoziati e come mai i

negoziatori avevano tanta paura che la stampa e gli oppositori tedeschi e svizzeri

potessero smentire le loro statistiche?» (94) L'inflazione supera ormai quella del periodo

di Weimar: J.D. Bindenagel, inviato speciale del Dipartimento di Stato americano per i

problemi legati all'Olocausto, ha infatti dichiarato che «negli anni del dopoguerra molti

milioni di vittime dell'Olocausto furono catturate dietro la Cortina di ferro». (95)

[271] I tedeschi convinti che il pagamento delle somme estorte e gli elogi pubblici

tributati all'industria dell'Olocausto per la sua irreprensibilità morale avrebbero chiuso

una volta per tutte il capitolo dei risarcimenti devono attendersi una sorpresa. L'industria

dell'Olocausto ha ora messo i suoi avidi occhi sui trecentocinquanta milioni di dollari

stanziati per una fondazione tedesca che promuova la tolleranza («Fondo per il faturo»).

A guidare la carica è il rabbino Israel Singer, vicepresidente della Claims Conference.

Affermando che «è dovere della comunità ebraica mettere in discussione le parti della

composizione con cui non si trova d'accordo», questo ideatore della strategia del ricatto

adottata dall'industria dell'Olocausto dichiara: «Non credo che dovremmo giocare

secondo le regole dei tedeschi». Non c'è da meravigliarsi se, a quanto dice Singer, persino

gli altri ebrei «mi definiscono un gangster». (96)

Le parcelle dei legali che hanno lavorato all'accomodamento tedesco ammontavano in

totale a sessanta milioni di dollari. I primi in classifica sono Melvyn I. Weiss e Michael

Hausfeld, rispettivamente con sette milioni e trecentomila e cinque milioni e

ottocentomila dollari, mentre almeno altri dieci hanno intascato oltre un milione. Il

professor Burt Neuborne dell'università di New York ha osservato che il suo onorario da

cinque milioni non era «particolarmente alto» (soprattutto se lo con[272]frontiamo con la

somma - compresa tra i cinque e i settemila dollari - assegnata dalla composizione

tedesca a un sopravvissuto di Auschwitz). Alle sue spalle, con soli quattro milioni e

trecentomila dollari, è Robert Swift, che ha preso con filosofia il suo compenso «minimo

sotto tutti i punti di vista»: «Non tutto quel che si fa nella vita può essere misurato in

dollari e centesimi». Cercando conforto altrove, un intraprendente avvocato ha venduto la

storia del suo cliente a Mike Ovitz di HolIywood, ex presidente della Disney. Stuart

Eizenstat ha continuato a difendere le parcelle dei legali definendole «troppo modeste». I

sopravvissuti all'Olocausto la pensavano diversamente. «Se si fosse risparmiata solo la

metà della somma spesa per gli onorari degli avvocati, ossia circa trenta milioni di

dollari» ha commentato una delle loro organizzazioni «quel denaro avrebbe potuto essere

usato per creare uno o più centri di assistenza sanitaria riservati ai sopravvissuti anziani e

malati. Queste parcelle esorbitanti sono una vergogna!» (97)

È tuttavia un errore concentrarsi esclusivamente sui misfatti degli avvocati

dell'Olocausto. Questa è infatti la principale strategia adottata dall'industria

dell'Olocausto per distogliere l'attenzione da se stessa man mano che la scomoda verità

viene a galla (negli Stati Uniti, dove i legali si prendono insulti da tutti, il successo è

quasi garantito). In realtà, gli avvocati che hanno intentato azioni collettive hanno

intascato meno del due per [273] cento delle varie composizioni. I veri ladri sono i

consigli di amministrazione incrociati delle organizzazioni affiliate all'industria

dell'Olocausto, quali la Claims Conference e il Congresso Mondiale Ebraico (CME).

Nell'Industria dell'Olocausto, ho documentato il cattivo uso dei risarcimenti fatto dalla

Claims Conference sin da quando fu fondata nei primi anni Cinquanta. Nessuna di queste

accuse è mai stata confutata con argomentazioni valide, (98) e i recenti sviluppi si

conformano allo schema osservato. Nel novembre del 2001, il CME ha dichiarato di aver

raccolto undici miliardi di dollari in risarcimenti per l'Olocausto e prevedeva che alla fine

la cifra avrebbe sfiorato i quattordici miliardi (non è chiaro se tali somme comprendano le

decine di migliaia di proprietà dei valore di svariati miliardi che la Claims Conference

contesta tuttora in Germania). Al momento, l'industria dell'Olocausto «non discute se, ma

come» usare i «probabili miliardi» di «avanzi» che rimarranno una volta «uscite di

scena» le vittime bisognose. (99) È difficile immaginare come faccia a sapere che vi

saranno «probabili miliardi» di rimanenze se - e questa è un'altra delle sue affermazioni -

i sopravvissuti all'Olocausto indigenti e ancora vivi sono quasi un milione e «decine di

migliaia» saranno «probabilmente in vita» nel 2035. (100)

L'industria dell'Olocausto prevede dunque rimanenze miliardarie asserendo al tempo

stesso di non potersi permettere la creazione di centri di assistenza sanitaria per le [274]

vittime più anziane. Denunciando lo spreco dei risarcimenti, nel giugno del 2001

ventimila vittime dell'Olocausto hanno fondato una nuova organizzazione, la Holocaust

Survivors Foundation - USA, «per garantire che i miliardi di dollari raccolti per i

superstiti vengano versati ai superstiti». Leo Rechter, segretario della Fondazione,

afferma che i sopravvissuti all'Olocausto e i «governi stranieri» sono stati «indotti per

decenni a credere» che la Claims Conference «avesse a cuore i NOSTRI interessi». David

Schächter, presidente della Fondazione, lamenta che molti superstiti anziani vivono in

«condizioni disperate» mentre «la Claims Conference ha messo a loro disposizione solo

una minima percentuale dei miliardi che ha acquisito in nome dei sopravvissuti

all'Olocausto». È «ingiusto» che i superstiti non ricevano assistenza sanitaria, afferma Joe

Sachs, direttore della Fondazione, «mentre si spendono milioni per la creazione di

istituzioni in località remote come la Siberia e si sperperano centinaia di milioni per

progetti dalle dubbie finalità in tutto il mondo». Tra queste iniziative ambigue figurano

«un milione e cinquecentomila dollari per il "Teatro yiddish" di Tel Aviv», «un milione

per il "Mordechai Anielevich Memorial" in Israele», «centinaia di migliaia di dollari per

uno studio sulla storia delle yeshivot prebelliche» e «oltre un milione di dollari per una

"Fondazione in memoria della cultura ebraica" a New York, una cifra pari al doppio delle

somme recentemen[275]te stanziate per tutti i sopravvissuti bisognosi della Florida».

Rimproverando l'industria dell'Olocausto per «essersi intromessa e aver cercato di

procurarsi denaro per i suoi enti benefici preferiti anziché metterlo a disposizione delle

persone nel cui nome l'ha ottenuto», Rechter ha posto ai negoziatori una domanda

retorica: avevano comunicato ai loro interlocutori che una «considerevole fetta» dei

risarcimenti non sarebbe stata spesa per i sopravvissuti bensì per i loro «progetti

preferiti»?

«I rappresentanti delle organizzazioni ebraiche, che hanno condotto con clamore la

nobile campagna per l'istituzione dei fondi di risarcimento, non hanno agito spinti da un

profondo interesse verso i sopravvissuti all'Olocausto e i loro eredi» ha detto alla Knesset

israeliana il deputato Micnael Kleiner, mentre gli ebrei bisticciavano per il bottino

dell'Olocausto. «Il vero scopo non consisteva nel restituire i beni ebraici ai legittimi

proprietari. I rappresentanti delle organizzazioni hanno fatto tutto il possibile per

garantire che il denaro e le proprietà ebraiche finissero invece nei loro forzieri. In tal

modo, speravano di dare nuova linfa ai loro enti e alla vita lussuosa cui sono ormai

abituati.» Analogamente, l'autorevole quotidiano israeliano «Haaretz» ha osservato: «A

volte sembra che, nelle mani delle grandi organizzazioni ebraiche, l'Olocausto si sia

trasformato in uno strumento per ottenere fondi con cui finanziare i progetti cari ai leader

di quegli organismi». (101)

[276]***

L'industria dell'Olocausto ha designato l'«educazione all'olocausto» quale principale

beneficiaria dei risarcimenti. Nel libro ho scritto che gran parte della letteratura

sull'Olocausto non ha «alcun valore didattico». Deplorando che «le case editrici

americane hanno pubblicato una pletora di volumi inutili, tra cui le testimonianze di

sopravvissuti che a quel tempo avevano sette anni», Hilberg osserva che «negli Stati

Uniti nessuno è davvero interessato a imparare qualcosa di nuovo riguardo a questo

periodo storico» e che «oggi gli unici studi seri sull'Olocausto provengono dalla

Germania». (102)

Una rapida panoramica della recente letteratura sull'Olocausto conferma i giudizi più

severi:

I. L'industria dell'Olocausto ha scelto Never Again: A History of the Holocaust [Mai più.

Una storia dell'Olocausto], l'ultimo contributo di Sir Martin Gilbert alla letteratura

sull'Olocausto, per la distribuzione in Lituania. Un'appendice al libro offre una perla di

sciovinismo insulso fino all'imbarazzo: «Penso che gli ebrei d'Europa siano stati il popolo

più intelligente della terra perché volevano conoscere il mondo che li circondava».

Prendiamo in considerazione i titoli di alcuni capitoli: «La rivolta nel ghetto di Varsavia»,

«Le rivolte nei ghetti», «La fuga verso i partigiani», «I movimenti di resi[277]stenza

ebraici», «Gli ebrei negli eserciti alleati», «Gli ebrei nel movimento di resistenza

nazionale», «Le rivolte nei campi di sterminio», «Gli ebrei durante la rivolta di Varsavia

del 1944». Dagli ebrei che vanno incontro alla morte «come pecore al macello» siamo

ora passati agli ebrei che vanno incontro alla morte come dei «Rambowitz». (103)

2. Come abbiamo già detto, Yehuda Bauer è l'ex direttore della Sezione ricerche

sull'Olocausto dello Yad Vashem e al momento è consulente, per l'educazione

all'Olocausto, della Claims Conference. In Rethinking the Holocaust [Ripensando

all'Olocausto], il coronamento del lavoro di una vita, riesce ad affermare e negare al

tempo stesso ciascuna delle principali tesi sullo sterminio nazista degli ebrei: può e non

può essere compreso razionalmente; è e non è scaturito dall'Illuuminismo e dalla

Rivoluzione francese; è e non è paragonabile allo sterminio degli zingari L'autore formula

bizzarre critiche riguardo a «gran parte della storiografia tedesca» sull'Olocausto nazista

perché «essa trascura la strage in sé soffermandosi invece su chi decise che cosa e quando

in merito al massacro degli ebrei». Bauer ha infine un'illuminante intuizione sulle

motivazioni di Himmler: «Se tutti gli esseri umani recano in sé i semi degli atteggiamenti

che definiamo positivi e negativi, possiamo descrivere Himmler come un individuo in cui

gli elementi negativi si manifestarono in forma [278] estrema, senza dubbio in seguito

alla confluenza di fattori sociali e personali-individuali». (104)

3. Saul Friedländer, uno storico dell'Olocausto, ha elogiato lo studio di Guenter Lewy,

intitolato The Nazi Persecution of the Gypsies [La persecuzione nazista degli zingari], per

la sua «profonda compassione». Secondo la tesi centrale del libro, durante la Seconda

guerra mondiale gli zingari non soffrirono quanto gli ebrei, anzi non furono nemmeno

vittime di un genocidio. Ecco qui le argomentazioni dell'autore: gli zingari furono

sterminati senza pietà dagli Einsatgruppen come gli ebrei, ma solo perché sospettati di

spionaggio; gli zingari furono deportati ad Auschwitz come gli ebrei, ma solo «per

toglierli di mezzo, non per ucciderli»; gli zingari furono gassati a Chelmno come gli

ebrei, ma solo perché avevano contratto il tifo; gran parte degli zingari sopravvissuti fu

sterilizzata come gli ebrei, ma non per impedirne la moltiplicazione bensì solo per

«impedire la contaminazione del "sangue tedesco"». Non è difficile immaginare come

reagirebbero il pubblico e gli intellettuali se sostituissimo «zingari» con «ebrei» nel

volume di Lewy. (105)

4. L'ultimo libro di Richard Overy, un illustre docente britannico di storia

contemporanea, si intitola Interrogations. The Nazi Elite in Allied Hands, 1945

[Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del [279] Terzo Reich].

In questa raccolta di documenti riguardanti i processi di Norimberga - per il resto

annotata con dovizia di particolari -, Overy riporta senza commenti critici la

testimonianza di Franz Blaha, un medico ceco imprigionato a Dachau, secondo il quale lì

ebbero luogo «molte esecuzioni con il gas, le facilazioni o le iniezioni». Si dà il caso che

Blaha sia stato l'unico a testimoniare sulla camera a gas di Dachau durante il processo

svoltosi in quella stessa città nel 1945. In precedenza aveva dichiarato che vi era stata una

prova con il gas e aveva aggiunto di aver visto nella camera due persone morte, due

svenute e tre in piedi. In tribunale testimoniò di aver scorto tra le otto e le dieci persone,

tre delle quali ancora vive. Solo più tardi, a Norimberga, denunciò numerose esecuzioni

con il gas. È proprio questa sciatteria nel controllo delle fonti a rendere credibile la

negazione dell'Olocausto. Esaminare le fonti con meticolosità è senza dubbio più

importante che cercare di suscitare clamore intorno alle minacce dei negatori

dell'Olocausto. (106)

Lo scopo dell'educazione all'Olocausto consiste naturalmente nell'«imparare le lezioni

dell'Olocausto». Ma quali sono le lezioni che l'industria dell'Olocausto vuole

trasmetterci? Una di esse insegna a dare la priorità alla lotta contro l'antisemitismo tranne

nei casi in cui è più conveniente non farlo. Cosi, mentre esortava la co[280]munità

mondiale a boicottare l'Austria dopo che il Partito liberale di Jörg Haider era entrato nella

coalizione alla guida del paese, l'industria dell'Olocausto negoziava tranquillamente un

accordo di risarcimento a Vienna. Dopo aver raggiunto un compromesso vantaggioso,

Stuart Eizenstat ha coperto il governo austriaco di elogi per aver «dimostrato, non solo

all'Austria ma anche al resto dell'Europa e al mondo intero, che è possibile riconciliarsi

con il proprio passato e rimarginare le ferite anche molti decenni dopo». (107) Un'altra

lezione importante insegna a «non confrontare» l'Olocausto con altri crimini tranne nei

casi in cui il confronto è conveniente dal punto di vista politico. Così, un periodico

dell'industria dell'Olocausto ha paragonato l'attacco dell'11 settembre contro il World

Trade Center al «travaglio della Seconda guerra mondiale e alle sofferenze della Shoah»,

mentre l'«Atlantic Monthly» si è domandato chi occupasse il posto più alto nella

«gerarchia del male» tra Bin Laden e Hitler, e il «New York Times Magazine» ha

affermato che il fondamentalismo islamico è «un nemico più formidabile del

nazismo». (108) Un'altra lezione insegna a ricordare il genocidio nazista ma a

dimenticare tutti gli altri. Shimon Peres, il ministro degli Esteri israeliano, ha così

liquidato lo sterminio sistematico degli armeni da parte dei turchi come semplici

«chiacchiere» e ha definito «insignificante» il bilancio armeno della strage. (109) Un'altra

lezione insegna a vigilare [281] sui crimini contro l'umanità a eccezione di quelli

commessi dal nostro governo. Così, mentre l'incontrollabile potere statunitense semina

distruzione tra gran parte dell'umanità, l'Holocaust Memorial Council «ha invitato gli

Stati Uniti a concentrarsi sulla "minaccia di genocidio" in Sudan». (110) Chi sta

imparando dall'Olocausto la lezione più istruttiva è infine l'esercito israeliano: per

soffocare la resistenza palestinese a un'occupazione che dura ormai da trentacinque anni,

un alto ufficiale israeliano ha chiesto alle truppe di «analizzare e interiorizzare gli

insegnamenti derivanti [...] dal modo in cui l'esercito tedesco combatté nel ghetto di

Varsavia (111)».

A mio parere, l'unica vera lezione dell'Olocausto è semplicissima: dire la verità.

Nell'attuale clima di intimidazione e «correttezza verso l'Olocausto», il sacrificio

personale e professionale può essere notevole. Ma il prezzo del silenzio è chiaramente più

alto. Le menzogne e i travisamenti dell'industria dell'Olocausto alimentano la negazione

dell'Olocausto; i suoi ricatti e la sua avidità fomentano l'antisemitismo; la sua ipocrisia e

la sua ambivalenza precludono la diffusione di principi significativi. Prima l'industria

dell'Olocausto verrà chiusa, e meglio staremo tutti quanti, ebrei e non ebrei.

Norman G. Finkelstein

febbraio 2002 New York

 

Note

1. Adam Hochschild, King Leopold's Ghost, Boston 1998.

2. Wiesel, Against Silence, III volume, 190; cfr. I volume, 186, II volume, 82, III volume,

242 e Wlesel, And the Sea, 18.

3. Novick, The Holocaust, 230-1.

4. «New York Times», 25 maggio 1999.

5. Novick, The Holocaust, 15.

6. John Toland, Adolf Hitler, New York 1976, 702. Joachim Fest, Hitler, New York

1975, 214, 650. Si veda anche Finkelstein, Image and Reality, capitolo 4.

7. Si veda, per esempio, Stefan Kühl, The Nazi Connection, Oxford 1994.

8. Si veda, per esempio, Leon F. Litwack, Trouble in Mind, New York 1998,

specialmente i capitoli 5 e 6. La gloriosa tradizione occidentale ha nessi profondi con il

nazismo. Per giustificare lo sterminio degli handicappati - che precorse la Soluzione

Finale - i medici nazisti tirarono in ballo il concetto di «vita indegna di essere vissuta»

(lebensunwertes Leben). Nel Gorgia, Platone scrisse: «Non credo che la vita sia degna di

essere vissuta se il corpo di una persona versa in una condizione orribile». Nella

Repubblica, Platone sanciva l'assassinio dei bambini menomati. Analogamente,

l'opposizione di Hitler nel Mein Kampf al controllo delle nascite perché fà a meno della

selezione naturale fu prefigurata da Rousseau nel suo Discorso sull'origine e i fondamenti

della diseguaglianza tra gli uomini. Immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale,

Hannah Arendt rifletteva sul fatto che «la corrente sotterranea della storia occidentale è

finalmente venuta alla superficie usurpando la dignità della nostra tradizione» (Le origini

del totalitarismo, LXXXII).

9. Si veda, per esempio, Edward Herman e Noarn Chomsky, The Political Economy of

Human Rights, I volume: The Washington Connection and Third World Fascism, Boston

1979, 129-204.

10. «Response», marzo 1983 e gennaio 1986.

11. Noam Chomsky, Turning the Tide, Boston 1985, 36 (citazione di un'intervista a

Wiesel concessa alla stampa ebraica). Berenbaum, World Must Know, 3.

12. Sander Thoenes, Martial Law-Habibie's Last Card, in «Financial Times», 8

settembre 1999.

116

13. Novick, The Holocaust, 255.

14. Si veda, per esempio, Geoff Simons, The Scourging of Iraq, New York 1998.

15. Novick, The Holocaust, 244, 14.

16. A questo proposito si veda in particolare Chaumont, La concurrence, 316-18.

17. Si veda, per esempio, Carl N. Degler, In Search of Human Nature, Oxford 1991, 202

e seguenti.

18. Si veda, per esempio, Carl N. Degler, In Search of Human Nature, Oxford 1991, 202

e seguenti.

19. Altrettanto disgustoso è fare paragoni con l'Olocausto, come propone Michael

Berenbaum, soltanto per «dimostrarne l'unicità» (After Tragedy, 29).

20. Zuckerman, A Surplus of Memory, 210.

21. Mi riferisco qui sia al cosiddetto Historikerstreit sia alla corrispondenza tra Saul

Friedländer e Martin Broszat. In entrambi i casi la controversia è largamente incentrata

sulla natura assoluta o relativa dei crimini nazisti; per esempio, la pertinenza del

confronto con il gulag. Si vedano Peter Baldwin (a cura di), Reworking the Past; Richard

J. Evans, In Hitler's Shadow, New York 1989; James Knowlton e Truett Cates, Forever

in the Shadow of Hitler?, Atlantic Highlands, NJ 1993; Aharon Weiss (a cura di), «Yad

Vashem Studies XIX», Gerusalemme 1988.

22. Questo testo è comparso come appendice alla prima edizione tedesca dei volume (Die

Holocaust-Industrie, Piper, München-Zúrich 2001).

23. Per questo paragrafo e per quello successivo, si vedano Joan Gralla, Holocaust

Foundation Set for Restitution Funds, Reuters, 22 agosto 2000; Michael j. Jordan,

Spending Restitution Money Pits Survivors Against Groups, Jewish Telegraphic Agency,

29 agosto 2000; in «NAHOS» (rivista dell'Associazione nazionale dei sopravvissuti

all'Olocausto figli di ebrei), 10 settembre e 6 ottobre 2000; Marilyn Henry, Proposed

«Foundation for Jewish People» Has No Cash, in «Jerusalem Post», 8 settembre 2000;

Joan Gralla, Battle Brews Over Holocaust Compensation, in «Reuters», 11 settembre

2000; Shlomo Shamir, Government to Set Up New Fund for Holocaust Payments, in

«Haaretz», 12 settembre 2000; Yair Sheleg, Burg Honored at Controversial NY Dinner,

in «Haaretz», 12 settembre 2000; E.J. Kessler, Hillary the Holocaust Heroine?, in «New

York Post», 12 settembre 2000; Melissa Radler, Survivors Get Most of Cash in Shoah

Fund, in «Forward», 17 settembre 2000; The WJC Defends Event Panned by

Commentary, in «Jewish Post», 20 settembre 2000.

117

24. Remarks by the President During Bronfman Gala, Ufficio dell'addetto stampa della

Casa Bianca, distribuito dall'Ufficio per i programmi informativi internazionali, ministero

degli Esteri statunitense (http://usinfo.state.gov).

25. Il piano è stato elaborato da Judah Gribetz, l'ex presidente del Consiglio per le

relazioni con le comunità ebraiche di New York e attuale membro del consiglio

d'amministrazione del Museum of Jewish Heritage di New York, un monumento vivente

all'Olocausto. È stato nominato «responsabile straordinario» presso la Corte dell'East

District di New York dal giudice Edward Korman, che la presiedeva durante la

controversia legale nella class action contro la Svizzera. Il piano completo è stato

pubblicato su Internet all'indirizzo http://www.swissbankclaims.com/.

26. Statement of Burt Neuborne, nell'appendice al piano Gribetz. In quanto consulente

capo, Neuborne era stato incaricato di elaborare le «teorie giuridiche» sostenute

dall'industria dell'Olocausto durante la controversia legale contro la Svizzera.

27. Raller, Survivors Get Most of Cash in Shoah Fund.

28. È interessante ricordare che Raul Hilberg, la principale autorità sullo sterminio

nazista degli ebrei, ha accusato espressamente il Congresso Mondiale Ebraico di avere

ricattato gli svizzeri: «È stata la prima volta nella storia in cui gli ebrei si sono serviti di

un'arma che possiamo solo chiamare ricatto». In una dichiarazione che avrebbe dovuto

sostenere la proposta per l'approvazione dell'accordo con la Svizzera, Burt Neuborne,

visibilmente preoccupato per il presunto ricatto («Alcuni potrebbero essere tentati di

considerare una forma di ricatto i pagamenti legittimi stabiliti mediante un accordo.») ha

esortato il giudice Korman a negare quanto aveva stabilito in giudizio (Holocaust Expert

Says Swiss Banks Are Laying Too Much, Deutsche Presse-Agentur, 28 gennaio 1999;

Declaration of Burt Neuborne, Esq., 5 novembre 1999, paragrafo 8; Edward R. Korman,

In re Holocaust Victim Assets Litigation, Corte distrettuale degli Stati Uniti, East District

di New York, 26 luglio 2000, 23-24).

29. Korman, In re Holocaust Victim Assets Litigation, 19.

30. Burt Neuborne, Memorandum of Law Submitted by Plaintiffs in Response to Expert

Submissions Filed By Legal Academics Retained By Defendants, Corte distrettuale degli

Stati Uniti, East District di New York, 14 giugno 1997, 68 (cfr. anche 62-64). Più avanti:

parere Neuborne.

31. Per la non rimborsabilità sancita dall'accordo finale, cfr. piano Gribetz, pagina 12

nota 18: «Occorre ricordare che le banche imputate o altre istituzioni elvetiche non si

vedranno restituire nessuna parte dell'ammontare della composizione di un miliardo e

duecentocinquanta milioni di dollari».

32. Piano Gribetz, pagine 11 («importanza decisiva»), 13- 14, 93, 101-104.

118

33. Parere Neuborne, pagine 3, 6-7, 11-12, 28-31, 34-35, 43, 47-48. Nel documento si

ammette che le banche svizzere avrebbero dovuto essere citate in giudizio soltanto se

avessero tratto profitto «consapevolmente» dall'arricchimento illegittimo dei nazisti: «Se

si riconosce che le banche imputate non erano a conoscenza di nulla, le azioni degli

accusati non giustificherebbero la pretesa restituzione dei profitti illegittimi», 34.

34. Piano Gribetz, pagine 23, 29, 113-114, 118 nota 345, 128-129 nota 371, 145-148;

appendice G («The Looted Assets Class»), pagine G-3, G-43, G-57; appendice H («Slave

Labor Class I»), pagine H-52, H-57-58.

35. Ivi, appendice J («The Refugee Class»), pagina'J-26 nota 85. Da una nota

apprendiamo anche che, secondo Seymour J. Rubin, una delle principali autorità in

questo campo, «la Svizzera accolse molti più rifugiati di qualsiasi altro Paese in rapporto

al proprio numero di abitanti, al contrario degli Stati Uniti, che non solo negarono

l'ingresso ai disperati della St. Louis, ma evitarono anche sistematicamente di

raggiungere le pur modeste quote d'immigrazione disponibili», pagina J-5. In una lettera

alla rivista «Nation», Burt Neuborne ha dichiarato che i rifugiati cui era stato negato

l'ingresso in Svizzera durante la Seconda guerra mondiale avrebbero ora ottenuto un

risarcimento e ha affermato con rammarico: «Vorrei solo che si potesse imporre

un'analoga sanzione agli Stati Uniti, poiché anch'essi si rifiutarono di accogliere quegli

uomini durante la loro fuga disperata dalla persecuzione nazista» (5 ottobre 2000). A

parte la viltà e l'ipocrisia, che cosa potrebbe avere impedito al consulente capo

dell'industria dell'Olocausto di far valere tale rivendicazione?

36. Piano Gribetz, pagina 89. La citazione è tratta dal decreto giudiziario del giudice

Korman con cui è stato approvato definitivamente l'accordo di composizione.

37. Ivi, appendice C («Demographics of "Victim or Target" Groups»), pagina C- 13.

38. Ivi, 135-136.

39. Ivi, appendice C, pagina C-12; appendice F («Social Safety Nets»), pagina F- 15.

40. Ukeles Associates Inc., documento #3 (riveduto), Projection of the Population of

Victims of Nazi Persecution, 2000-2040, 31 maggio 2000.

41. Piano Gribetz, 9; appendice C, pagina C-8; appendice E («risarcimento per

l'Olocausto»), pagine E-89 ed E-90 nota 282. La cifra di duecentocinquantamila persone

è stata calcolata quando è stato distribuito il denaro del «Fondo speciale per le vittime

bisognose dell'Olocausto», istituito dagli svizzeri nel febbraio 1997.

42. Ivi, appendice C, pagina C-7, tabella 3. In una nota del piano, si ammette che «nell'ex

Unione Sovietica vi sono relativamente pochi sopravvissuti ai campi di concentramento,

ai ghetti o ai campi di lavoro» (appendice E, pagina E-56 nota 150).

43. Ivi , pagine 122-123; appendice E, pagina E-138; appendice E pagina F-4 nota 13.

119

44. Ivi, appendice E, pagina E-56.

45. Steve Paulsson, Re: Survivor Article, disponibile all'indirizzo internet http://HHolocaust@

n~net.msu.edu/, 28 settembre 2000.

46. Piano Gribetz, pagina 135. Si noti che nel piano anche il numero dei veri

sopravvissuti all'Olocausto subisce un notevole incremento. Vi si afferma infatti che al

momento circa centosettantamila ex lavoratori schiavi ebrei riscuotono una pensione

dalla Germania (piano Gribetz, appendice H, «Slave Labor Class I», pagine H-5-6). Si

calcola però che solo uno su quattro di questi individui percepisca una pensione da quel

Paese. Oggi il numero dei lavoratori schiavi ebrei ancora in vita si aggira dunque intorno

ai settecentomila, mentre il numero dei lavoratori schiavi ebrei ancora vivi alla fine della

guerra era pari a circa due milioni e ottocentomila persone. Gli studiosi partono di solito

dal presupposto che al termine dei conflitto fossero sopravvissuti circa centomila

lavoratori schiavi ebrei, di cui oggi restano ancora in vita forse alcune decine di migliaia.

47. Ivi, pagine 7, 25-27, 83-84, 118-119, 138-139, 149, 154 e «Summary of Major

Holocaust Compensation Programs». Oltre a quanto detto prima, il piano giustifica tale

suddivisione in maniera tautologica «con dati demografici attuali, poiché le vittime ebree

sono giunte frattanto a rappresentare la parte prevalente delle "vittime reali o designate

sopravvissute alla persecuzione nazista", così come definite nell'accordo di

composizione», numero 119. Gli ebrei costituiscono pertanto la «parte prevalente»

solamente perché la categoria «vittime reali o designate » viene intesa in tal senso.

48. Ivi, pagina 15. La medesima affermazione viene ripetuta parola per parola alle pagine

98-99.

49. La commissione Volcker ha consigliato di pubblicare gli estremi di circa

venticinquemìla conti bancari che con ogni probabilità sono appartenuti a vittime della

persecuzione nazista. L'«attuale valore complessivo» dei diecimila conti su cui esistono

alcune informazioni è compreso tra i centocinquanta e i duecentotrenta milioni di dollari.

Se si esegue una proiezione basata su tali stime e riferita a tutti i venticinquemila conti, si

ottiene una cifra tra i trecentosettantacinque e i cinquecentosettantacinque milioni di

dollari. A giudicare da quanto è accaduto durante i passati procedimenti del tribunale per

la risoluzione delle rivendicazioni, verranno sollevate rivendicazioni legittime solo su

metà dei venticinquemila conti, e la metà del denaro ivi depositato dovrebbe ammontare a

una cifra che varia dai centottantotto ai duecentottantotto milioni di dollari. La lista dei

venticinquemila contiene perlopiù non conti inattivi, bensì conti chiusi, i cui nominativi

fanno pensare a vittime dell'Olocausto. La commissione VoIcker è giunta alla

conclusione che «non esistono prove [...] di sforzi coordinati volti ad accantonare il

patrimonio delle vittime della persecuzione nazista per scopi non giustificati». Si può

dunque dedurre con certezza che quasi tutti i conti chiusi siano stati chiusi regolarmente

dai proprietari, dai loro eredi o da delegati legittimi e attendibili e che il tribunale

riconoscerà solo poche delle rivendicazioni su detti conti. Con ogni probabilità,

l'ammontare complessivo delle rivendicazioni legittime sui venticinquemila conti sarà

pertanto inferiore alla stima che oscilla tra i centottantotto e i duecentottantotto milioni,

per fissare i quali si era ipotizzato che tutti i conti fossero inattivi e che fossero legittime

le rivendicazioni relative alla metà degli stessi (piano Gribetz, pagine 94 nota 298, 96-97,

105-106 nota 326; commissione indipendente di personalità illustri [commissione

VoIcker], Report on Dormant Accounts of Victims of Nazi Persecution in Swiss Banks,

Berna 1999, pagina 13, paragrafo 41 [a]).

50. Ivi, pagine 12, 19-20. A pagina 12 si stabilisce che «gli importi residui dopo la

composizione dovranno essere ripartiti tra le altre [...] categorie dell'accordo, per esempio

«proprietari derubati», Iavoratori schiavi» e "rifugiati"». Come si dimostra più avanti, le

somme destinate alla categoria «Proprietari derubati» non sono state versate direttamente

ai sopravvissuti all'Olocausto, bensì a organizzazioni ebraiche promotrici di progetti

legati all'Olocausto nazista. Alle pagine 19-20, il piano stabilisce inoltre che «é anche

possibile utilizzare una parte dei denaro residuo per attuare alcuni dei progetti proposti in

ambito culturale o educativo oppure a fini commemorativi, da sottoporsi all'attenzione

del responsabile straordinario».

51. Per essere più precisi, il piano dispone che la suddivisione dei denaro avanzato dagli

ottocento milioni di dollari possa cominciare solo una volta verificate tutte le

rivendicazioni sui venticinquemila conti. Il tribunale ha impiegato ben tre anni per

confrontare diecimila rivendicazioni con la precedente lista separata di

cinquemilaseicento conti svizzeri. Nel piano si dice che, con ogni probabilità, verranno

presentati oltre ottantamila reclami per la lista dei venticinquemila conti. Il documento

prevede inoltre che i reclami non vengano verificati solo a fronte di quella lista

pubblicata, ma anche rispetto a milioni di altri conti elvetici che non presentano alcun

legame evidente con le vittime dell'Olocausto. Anche nell'ipotesi in cui il lavoro del

tribunale proceda senza intoppi, trascorreranno senza dubbio molti anni prima che si

giunga a una soluzione (piano Gribetz, pagine 91, 94 nota 299, 105-106 nota 126). Se si

tralasciano le vittime dell'Olocausto titolari di conti inattivi, il documento prende solo

misure vaghe e limitate in merito agli eredi (pagine 18-19 e appendice D [«Eredi»1).

52. Piano Griberz, pagine 16-17.

53. Ivi, pagine 25-26, 120-121, 119-138.

54. Ivi, pagine 18, 27, 116, appendice C, pagina C- 10, allegato 3 all'appendice C, pagina

1 (i «questionari originali» sono stati distribuiti alle «vittime reali o designate della

persecuzione nazista» dopo l'approvazione della composizione con la Svizzera da parte

del giudice Korman). Raul Hilberg, che da bambino fuggì dall'Austria con i genitori, ha

espresso la sua disapprovazione verso le eccessive pretese avanzate dall'industria

dell'Olocausto nei confronti delle banche elvetiche; in un'intervista comparsa di recente

ricorda: «Negli anni Trenta gli ebrei erano poveri. La mia famiglia apparteneva al ceto

medio, ma non avevamo alcun conto corrente in Austria, e tanto meno in Svizzera»

(«Berliner Zeitung», 4 settembre 2000).

55. Piano Gribetz, pagine 29-31, 154-156.

56. Ivi, pagine 35-39, 172-175.

57. Questo testo è stato pubblicato come introduzione all'edizione economica tedesca dei

volume (Piper, Miinchen-Urich, 2002).

58. Friedrich Meinecke, The German Catastrophe: Reflections and Recollections,

Cambridge 1950, trad. ingl. di Sidney B. Fay, p. 53.

59. Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Statement by Secretary of State Madeleine K.

Albright, 20 ottobre 2000.

60.Prima di partire per il Vietnam nel novembre del 2000, il presidente Bill Clinton ha

dichiarato che la sua «unica priorità» consisteva nell'«ottenere il computo esatto dei

prigionieri di guerra americani e degli americani dispersi nell'Asia sudorientale». In

precedenza, il «New York Times» aveva riferito che Clinton sarebbe stato «il primo

presidente a mettere piede sul suolo dei Vietnam dalla fine della guerra in quel paese,

guerra che era costata la vita a cinquantottomila americani». Per fortuna non è morto

nessun vietnamita. Un esperto americano che ha visitato la nazione qualche mese dopo

temeva che le relazioni tra Stati Uniti e Vietnam potessero essere compromesse dalla

richiesta di aiuti umanitari formulata da Hanoi per il milione di vittime vietnamite (tra cui

centocinquantamila bambini) dell'Agent Orange: «Se le bonifiche venissero considerate

indispensabili, se l'assistenza sanitaria fosse indispensabile, se il risarcimento fosse

necessario, i costi sarebbero molto elevati». Certo, Clinton si è «impegnato a fornire al

Vietnam un sistema informatico contenente dati sulle aree in cui l'esercito statunitense

conservava e spruzzava l'Agent Orange». Persino Human Rights Watch, l'illustre

organizzazione umanitaria con sede negli Stati Uniti, si è limitata a «invitare» Clinton a

insistere affinché il Vietnam si assumesse le proprie responsabilità riguardanti i diritti

umani (David E. Sanger, Settling a Goal of Reconciliation, Clinton Plans a November

Trip to Vietnam, in «New York Times», 15 novembre 2000 [«cinquantottomila»]; Seth

Mydans, Clinton to Try to Juggle Last Horrors and Future Hopes on Vietnam Visit, in

«New York Times», 16 novembre 2000 [«priorità»]; Official. 70 Percent of Agent

Orange child victims bave not received aid, in «Associated Press», 30 maggio 2001

[«centocinquantamila»]; Tini Tran, U. S., Vietnam hold second meeting on Agent Orange

research, in «Associated Press», 2 luglio 2001 [«molto elevati»]; comunicato stampa,

Human Rights Watch, 10 novembre 2000).

61. Karl Jaspers, The Question of German Guilt, New York 1961, trad. ingl. di E.B.

Ashton, p. 45.

62. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Abbozzo, Editori Riuniti, Roma 1991, tr. it.

di Valentino Parlato. Vale la pena di ricordare brevemente che, almeno nella

giurisprudenza anglo-americana, una «teoria della cospirazione» non è assurda prima

facie. Anzi, «la partecipazione a un piano comune o a una cospirazione» finalizzati

all'aggressione fu il cardine della tesi dell'accusa durante il processo di Norimberga.

63. Tribunale per la risoluzione delle rivendicazioni sui conti inattivi in Svizzera, «The

Claims Resolution Tribunal has fulfilled its initial project», comunicato stampa, s.d;

Adam Sage e Roger Boyes, Swiss Holocaust cash revealed to be myth, in «The Times»,

13 ottobre 2001; Comment s'écrira désormais l'histoire de l'holocauste? Entretien avec

l'auteur de «La destruction des juifs d'Europe», in Libération, Parigi, 15 settembre 2001

(«cifre stratosferiche»); Holocaust Expert Says Swiss Banks Are Paying Too Much, in

Deutsche Presse-Agentur, 28 gennaio 1999, («ricatto»). Dal novembre del 2001, il

Tribunale ha accordato altri tre milioni e cinquecentomila dollari a fronte dei ricorsi sui

ventunmila conti restanti (comunicazione personale di Viejo Heiskanen, segretario

generale dei Claims Resolution Tribunal, 21 gennaio 2002).

Tutti sono concordi nell'affermare che l'industria dell'Olocausto ha adottato contro le

compagnie di assicurazione europee una strategia identica alla campagna di ricatto

svizzera, argomento su cui tornerò in una prossima pubblicazione. Nel frattempo, la

International Commission on Holocaust Era Insurance Claims (ICHEIC) è coinvolta in

uno scandalo per aver sperperato oltre trenta milioni di dollari in spese amministrative

(tra cui varie conferenze internazionali di durata non superiore alle ventiquattr'ore con

sistemazione in hotel a quattro stelle e voli in business class) distribuendo solo tre milioni

di dollari ai ricorrenti dell'Olocausto (Lawrence Eagleburger, capo della commissione,

intasca un compenso annuo pari a trecentocinquantamila dollari). Non dando peso alle

critiche, Elan Steinberg, direttore esecutivo del Congresso Mondiale Ebraico, afferma che

il «conto verrà pagato dalle banche e dalle compagnie d'assicurazione», ossia «tocca ai

goyim» (Yair Sheleg, Profits of doom, in «Haaretz», 29 giugno 2001; Henry Weinstein,

Spending by Holocaust Claims Panel Criticized, in «Los Angeles Times», 17 maggio

2001). A parte la volgarità, questa affermazione è quasi sicuramente falsa: in base alle

condizioni della composizione tedesca, le spese amministrative vengono infàtti dedotte

dal totale di cento milioni di dollari assegnato ai detentori di polizze. Non ci meraviglia

che ora l'industria dell'Olocausto chieda agli assicuratori tedeschi di pagarle anche le

vacanze.

64. Pierre Heumann, Israel fordert neuen Bankenvergleich, in «Weltwoche», 10 gennaio

2002 («non mi fido», «rinegoziato»).

65. Agreement between the Govemment of the United States of America and the

Govemment of France concerning Payments for Certain Losses Suffered Duríng World

War II, 18 gennaio 2001; Jonathan Wright, U.S., France sign deal on jewish bank claims,

in Reuters, 18 gennaio 2001 («scioccato»). Oltre a introdurre una procedura analoga a

quella del CRT per la risoluzione dei ricorsi sui conti inattivi, i francesi hanno destinato

circa cento milioni di dollari (equivalenti a cento milioni di euro) a una fondazione per

l'Olocausto.

66. Per i retroscena, cfr. p. 119 dell'edizione inglese in brossura. La commissione è stata

costituita al culmine delle pressioni statunitensi sulle banche svizzere e a fronte delle

critiche elvetiche secondo cui nemmeno gli Stati Uniti si erano comportati in maniera

irreprensibile per quanto concerneva la questione dei risarcimenti dell'Olocausto.

67. Washington, DC. (in seguito: P&R diviso in due parti: Findings and

Recommendations e Staff Report. I numeri di pagina dello Staff Report sono indicati dalla

sigla SR.

68. P & R, p. 5.

69. Vale la pena di ricordare brevemente che il rapporto è costellato delle iperboli tipiche

delle pubblicazioni diffuse dall'industria dell'Olocausto. L'Olocausto viene così definito

«il maggior furto di massa della storia» (P&R, SR-3). Tutti gli Stati Uniti sorsero sulle

terre rubate alla popolazione indigena, e lo sviluppo industriale americano fu alimentato

per secoli dal lavoro non pagato degli afro-americani nelle piantagioni di cotone: la

Commissione ha tenuto conto di questi furti nei suoi calcoli?

70. P & R, pp. 4, 5.

71. Cfr. pp. 111-112 dell'edizione inglese in brossura. Anche dopo la pubblicazione delle

conclusioni della commissione Volcker, il professor Gerald Feldman dell'università di

Berkeley ha continuato ad accusare la Svizzera di aver «gestito i rapporti con gli ebrei in

maniera assolutamente abominevole». Ha addirittura lodato con parole stucchevoli

l'impegno profuso dall'America per ottenere il risarcimento dall'Europa omettendo però

che, come vedremo in seguito, la Commissione presidenziale - per la quale lui stesso

aveva lavorato come «consulente esterno» (P&R, p. 48) - aveva dimostrato che ogni capo

d'accusa contro gli svizzeri era applicabile agli Stati Uniti in misura uguale o maggiore e

che la Commissione non aveva presentato agli Stati Uniti analoghe richieste di

risarcimento (Reparations, Restitution, and Compensation in the Aftermath of National

Socialism, 1945-2000, Holocaust Center of Northern California, 10 febbraio 2001). Oltre

ad avere contatti con la Commissione presidenziale statunitense, Feldman è membro delle

Commissioni della Bank Austria e della Deutsche Bank; per le sue molteplici consulenze

sull'Olocausto, cfr. http://www.%20normanfinkelstein/.com alla voce «The Holocaust

Industry» (Prof. Gerald Feldman: Another Holocaust huckster?).

72. P & R, pp. 11-12; SR-167-168. Il rapporto osserva anche: «I ricorsi delle vittime non

sono stati facilitati da alcuna percettibile attenuazione delle regole o degli iter [...] Gli

eredi hanno incontrato ancor più difficoltà dei titolari dei conti nominativi. Molti

documenti attestavano che il ricorrente iniziale era morto durante il processo di ricorso.

In quei casi [...] ulteriori indagini [...] hanno rallentato la procedura».

73. P & R, SR-170. Cfr. pp. 111-112 dell'edizione inglese in brossura.

74. Cfr. p. 112 dell'edizione inglese in brossura.

75. P & R, SR-4, SR-213-214.

76. Cfr. pp. 97-98 dell'edizione inglese in brossura.

77. P & R, p. 12; SR-6, SR-170.

124

78. Cfr. pp. 96-7, 108-109 dell'edizione inglese in brossura.

79. P&R, SR-51.

80. Cfr. pp. 97, 110-111 dell'edizione inglese in brossura.

81. P & R, SR-214.

82. Per i dettagli, cfr. pp. 89-120 passim dell'edizione inglese in brossura.

83. Ivi, pp. 114-115.

84. P & R, p. 7.

85. Ivi, p. 19; SR-212-213.

86. La Commissione si è limitata a condurre un «progetto pilota abbinando i nomi di una

breve lista di vittime dell'Olocausto a un elenco di proprietà confiscate e gestite dallo

Stato di New York [...] Tale procedura [...] ha portato alla luce diciotto abbinamenti tra

nomi di vittime e conti correnti inattivi nello Stato di NewYork [...] Il valore di tali conti

varia da qualche dollaro a cinquemila dollari» (secondo la legge sulla confisca, le banche

americane sono tenute a trasferire al rispettivo governo statale i conti inattivi

abbandonati). La Commissione ha inoltre raggiunto un accordo con le maggiori banche

«consigliando loro i metodi migliori da adottare durante la ricerca dei beni

dell'Olocausto». In base a tale accordo, le banche che si offrono di partecipare devono

eseguire «analisi autonome» della documentazione e informare i funzionari statali su tutti

i conti inattivi localizzati. Come è evidente, tra i «metodi migliori» e l'approfondita

indagine esterna imposta alle banche svizzere vi è un abisso. Cosa ancor più interessante,

l'accordo prevede persino che le banche partecipanti non siano tenute a rivelare

pubblicamente «l'identità dei titolari» degli «eventuali conti individuati» (P&R, pp. 3, 15-

17).

87. P & R, SR- 184, nota 249.

88. P & R, SR-138. Dopo la guerra, la JRSO fu incaricata di recuperare i beni dell'epoca

dell'Olocausto rimasti senza eredi. Particolare interessante, la Commissione riferisce che

la JRSO reclamò per sé alcune proprietà appartenenti ai sopravvissuti all'Olocausto e ai

loro eredi:

Alcuni scoprirono che la Successor Organization aveva reclamato le loro proprietà e si

erano quindi rivolti all'ente per la restituzione; nel 1955 la JRSO aveva ormai ricevuto

quattromilaottocento ricorsi di questo tipo. Dopo una consultazione interna, accettò di

restituire le proprietà ai ricorrenti pur avendo diritto di incamerare tali beni [...] Impose

tuttavia un onere di servizio per i richiedenti defunti al fine di coprire le spese sostenute.

Gli importi dipendevano dal rapporto di parentela tra il ricorrente e l'ex proprietario e dal

valore stimato della proprietà. Se la JRSO aveva effettivamente recuperato una proprietà,

tali costi subivano una maggiorazione del dieci per cento (benché l'organizzazione l'abbia

ridotta al cinque per i ricorrenti meno agiati). Una donna criticò aspramente le autorità

statunitensi per aver «ceduto» la sua proprietà alla JRSO. Asseriva di aver sentito parlare

del termine di inoltro solo dopo che lo stesso era decorso e di aver invece scoperto che

«verrò punita perché l'esercito d'occupazione, per il quale io e mio marito abbiamo già

pagato molto, ritiene giusto sottrarmi la proprietà e darla a chissà chi». La frustrazione e

la rabbia espresse in questa lettera rispecchiano lo stato d'animo di altri ricorrenti che non

avevano rispettato il termine; la JRSO fu sommersa da «richieste» e «proteste» per la

restituzione immediata delle proprietà (Pd-R, SR-156).

Cinquant'anni dopo, la jewish Claims Conference, succeduta alla JRSO, adotta la

medesima strategia per privare i legittimi eredi ebrei delle proprietà nell'ex Germania

Orientale. Cfr. i riferimenti citati a p. 87 nota 11 dell'edizione inglese in brossura e Netty

Gross, Times' Running Out, in «Jerusalem Report», 7 maggio 2001. Gross cita le parole

di un erede frodato: «Veniamo derubati per la seconda volta. Prima dai nazisti e dai loro

collaboratori Adesso [...] veniamo invece vittimizzati dagli enti ebraici [...] che hanno a

cuore solo i loro interessi organizzativi». Una newsletter scritta da superstiti

dell'Olocausto disillusi sottolinea che la Claims Conference, pur accusando le banche e le

compagnie d'assicurazione europee di non aver pubblicato elenchi completi dei potenziali

ricorrenti e non aver cercato questi ultimi, «non ha fatto alcuno sforzo per individuare gli

ex titolari ebrei» delle proprietà nella Germania Orientale e «non ha mai pubblicato una

lista di proprietari ebrei» (NAHOS, newsletter della National Association of Jewish

Child Holocaust Survivors, 10 novembre 2001, e NAHOS, vol. 7, no. 14, 11 aprile 2001,

p. 1 [corsivo nell'originale]).

89. P & R, SR-171. La citazione è tratta da una dichiarazione di Seymour Rubin risalente

al 1959 (per Rubin, cfr. pp. 115-116 dell'edizione inglese in brossura). Alla fine, la JRSO

approvò questa cifra perché, secondo Rubin, i sopravvissuti all'Olocausto non avrebbero

vissuto ancora a lungo: «II tempo stringe per queste persone». L'industria dell'Olocausto

ha suonato la stessa solfa dei «tempo che stringe» durante l'indagine delle banche

svizzere. Si sarebbe potuto pensare che cinquaneanni dopo il tempo fosse già scaduto. Per

interessanti prove del fatto che il valore complessivo dei beni non reclamati era molto più

elevato, cfr. P&R, SR-6; SR166-167; SR-172, SR-214-215.

90. P & R, p. 7.

91. P & R, pp. 21-26.

92. P & R, SR-117 segg.

93. Yehuda Bauer, Rethinking the Holocaust, New Haven 2001, p. 246. Per le cifre della

Claims Conference, cfr. pp. 127-128 dell'edizione inglese in brossura. Con ogni

probabilità, solo il dieci per cento circa dei lavoratori schiavi ebrei sopravvissuti alla

guerra è ancora in vita. Tale dato è avvalorato da recenti stime, secondo cui durante il

conflitto la Chiesa cattolica tedesca «usò diecimila forzati, di cui circa mille sono ancora

vivi», «New York Times», 8 novembre 2000. Per questa e altre questioni inerenti, cfr. in

particolare Gunnar Heinsohn, Judische Sklavenarbeiter Hitlerdeutschlands - Wie viele

überlebten 1945 den Genozid und wie viele könnten im jahr 2000 noch leben?,

Schriftenreihe des Raphael-Lemkin-Instituts Nr. 9, Brema 2001; è interessante notare

che, secondo Heinsohn, i media tedeschi si astennero da qualsiasi discussione seria sulle

cifre riguardanti i lavoratori schiavi (p. 67).

94. NAHOS, vol. 7, no. 18, 14 agosto 2001, p. 7. Cfr. anche NAHOS, vol. 7, no. 15, 11

maggio 2001, dove la Claims Conference viene rimproverata per aver manipolato il

numero dei sopravvissuti «a seconda delle esigenze politiche». Per esempio, allo scopo di

accelerare le negoziazioni, l'industria dell'Olocausto lamenta sin dalla metà degli anni

Novanta che «ogni giorno muore qualche sopravvissuto all'Olocausto» e che ogni anno

ne scompare «il dieci per cento». Eppure, il numero di superstiti ancora in vita che la

Claims Conference indica per giustificare le sue richieste sempre più esose aumenta di

anno in anno. Probabilmente non conosceremo mai il numero effettivo degli ex lavoratori

schiavi ebrei, perché il governo tedesco ha deciso di esaminare solo in modo frettoloso le

domande di risarcimento presentate dalla Claims Conference (cfr. la risposta del

sottosegretario al ministero delle Finanze alla richiesta di Martin Hohmann [CDU], 9

ottobre 2001)

95. Nun bitte auch Zahlen, in «Die Zeit», dicembre 2001.

96. Nacha Cattan, Shoah «People» Fund Attacked, in «The Forward», 28 dicembre 2001

(«regole»); Yair Sheleg, Only He Knows what Needs to Be Done, in « Haaretz», 9

novembre 2001 («gangster»).

97. Jane Fritsch, $52 Million for Lawyers'Fees in Nazi-Era Slave-Labor Suits, in «New

York Times», 15 giugno 2001 (Neuborne); Daniel Wise, $60 Million in Fees Awarded to

Lawyers Who Negotiated $5 Billion Holocaust Fund, in «New York Law Journal», 15

giugno 200 1; Larry Neumeister, Millions in Legal Fees Awarded ín Slave Labor Cases,

in «Associated Press», 18 giugno 2001 (Eizenstat, Swift); Jonathan Goddard, Holocaust

Lawyers Make Millions as the Survivors Wait, in «London Jewish News», 22 giugno

2001 e Nazi Story Sold, in «London Jewish News», 6 luglio 2001 (Hollywood); The

Survivors Belong at the Head of the Table, in NAHOS, 1· novembre 2001, ristampa di un

articolo originariamente pubblicato in «Aufbau», 28 marzo 2001 (sopravvissuti).

Attaccando la prima edizione dell'Industria dell'Olocausto, il professor Ulrich Herbert ha

difeso appassionatamente l'avvocato Michael Hausfeld sostenendo che senza di lui «i

lavoratori schiavi dell'Europa orientale non avrebbero avuto alcuna possibilità di

risarcimento». In realtà, le testimonianze documentali dimostrano con chiarezza che il

governo Schröder si era impegnato a risarcire i lavoratori schiavi dell'Europa dell'Est

príma che entrassero in scena gli avvocati dell'Olocausto (già nel 1992 il governo Kohl

aveva infatti pagato volontariamente un milione e cinquecentomila marchi ai governi

dell'Europa orientale per risarcire le vittime del nazismo). L'eroe non celebrato non è

Hausfeld bensì Klaus von Munchhausen, che era stato il primo a premere sul governo

tedesco per conto dei lavoratori schiavi dell'Europa dell'Est già nel 1996, ma che

l'industria dell'Olocausto aveva relegato a un ruolo secondario durante i negoziati. Nella

corrispondenza successiva, Herbert, ricercatore di Hausfeld, ha ammesso che quest'ultimo

era «fin troppo interessato a guadagnare cifre inimmaginabili». Quando questa citazione è

giunta alle sue orecchie, Hausfeld ha minacciato - come era prevedibile di prendere

«misure idonee» qualora l'avessi riportata (Ulrich Herbert, Vorschnelle Begeisterung -

Ein Kritikwürdiges Buch, eine nutzliche Provokation: Ober die Thesen Norman

Finkelsteins, in «Süddeutsche Zeitung», 18 agosto 2000; Klaus von Munchhausen:

«Esgeht nicht um die Opfer, es gebt um Profit» [intervista], in «Der Tagesspiegel», 14

giugno 2000; Mark Spörer, Entschadigungsieistunger an ehemalige NS-Zwangsarbeiter

seit 1945, all'indirizzo wwwuni-hohenheim.de/~www570a/spoerer/ entschaedigung.htm;

Gunnar Heinsohn, Das Klaus von Munchhausen-Gerhard Schröder-Team und der 3.9

Milliarden Coup der jewish Claims Conference, cronologia preparata per ARD/Radio

Bremen, 23 febbraio; corrispondenza con UIrich Herbert, 18 aprile 2001, e Michael

Hausfeld, 17 gennaio 2002).

98. Cfr. p. 84 segg. dell'edizione inglese in brossura. Le mie conclusioni si basano in gran

parte su German Reparations and the Jewish World, uno studio del professor Ronald

Zweig commissionato dalla Claims Conference. Dopo la pubblicazione dell'Industria

dell'Olocausto, Zweig mi ha accusato più volte di aver «travisato» e «usato

scorrettamente» le sue ricerche, ma, pur avendo avuto spazio e tempo sufficienti a far

valere le proprie ragioni, non ha saputo citare nemmeno un esempio (cfr. la recensione di

Zweig dell'Industria dell'Olocausto sul sito http://www.amazon.com/ e p. 10 della sua

introduzione alla seconda edizione di German Reparations and the Jewish World, Londra

2001 nonché il dibattito radiofonico Democracy Now all'indirizzo

www.webactive.com/pacifica/demnow/dt120000713.html).

99. Jon Greenberg, Jewish Leader Say Holocaust Reparations Are Nearly Complete, in

«Associated Press», 2 novembre 2001 («undici miliardi»); Yair Sheleg, Conflicting

Claims, in «Haaretz», 10 dicembre 2001 (proprietà tedesche); Nacha Cattan, Shoah

«PeopIe» Fund Attacked («discute») e Clash Looming Over Uses of Shoah Funds, in

«Forward», 9 novembre 2001 («scena»).

100. Per queste cifre, cfr. pp. 152, 159-160 dell'edizione inglese in brossura.

101. «PR-Newswire», 4 giugno 2001, («garantire», Sachs, Schäcter); NAHOS, vol. 7, no.

15 (Rechter), vol. 7, no. 17,16 luglio 2001, p. 2, vol. 8, no. 2, 20 dicembre 2001, pp. 5-7

(«iniziative ambigue») e vol. 7, no. 13 («considerevole fetta»), p. 3; Cattan, Shoah

«People» Fund Attacked («enti benefici preferiti»); Yaìr Sheleg, Future Imperfect Tense,

in «Haaretz», 1· febbraio 2002 (Michael Kleiner); Eliahu Saipeter, Time Is Running Out

for Compensation, in «Haaretz», 13 febbraio 2002 («strumento»). Rechter si domanda

perché le organizzazioni costituenti l'industria dell'Olocausto stiano «lottando con tanta

ferocia» per una fetta dei risarcimenti se, a quanto dicono, il denaro non sarà sufficiente

nemmeno a finanziare un programma di assistenza sanitaria (NAHOS, voi. 8, no. 3, p. 1).

Denunciando l'uso fraudolento che l'industria dell'Olocausto fa dell'espressione

«sopravvissuto all'Olocausto» per negare il dovuto agli effettivi superstiti, Rechter

osserva inoltre: «Aiutare gli ebrei bisognosi è sicuramente una nobile causa, ma occorre

ricordare che questo denaro è stato richiesto per conto dei sopravvissuti all'Olocausto e

che dovrebbe quindi essere impiegato a loro vantaggio. La Russia non subì l'occupazione

nazista. Molti dei suoi ebrei fuggirono a est per paura dei nazisti e sono pertanto «vittime

di guerra», ma non sopravvissuti all'Olocausto». Un'espressione è stata manipolata in

modo analogo allo scopo di gonfiare il numero di superstiti durante i negoziati per i

risarcimenti (Sheleg, Conflicting Claims, e p. 160 dell'edizione inglese in brossura). A

titolo informativo, mentre i sopravvissuti anziani muoiono senza assicurazione medica,

l'attuale compenso annuo e le gratifiche di Gideon Taylor, vicepresidente esecutivo della

Claims Conference, ammontano complessivamente a duecentoventimila dollari

(dichiarazione dei redditi presentata dalla Claims Conference nel 1999).

102. Nacha Cattan, Shoah «People» Fund Attacked e Struggle Seen as Bronfman Eyes

WJC Exit, in «The Forward», 4 gennaio 2002 (principale beneficiaria); «Libération», 15

settembre 2001 (Hilberg). Per «alcun valore», cfr. p. 55 dell'edizione inglese in brossura.

L'«educazione all'Olocausto» non prospera solo nel mondo editoriale ma anche in quello

accademico. L'università australiana di Sydney offre ora un «master per gli studi

sull'Olocausto». Perché non offrire anche un «master sulla grande carestia irlandese»?

103. Martin Gilbert, Never Again: A History of the Holocaust, New York 2001, p. 25

(«intelligente»). Per la traduzione in lituano, cfr. Task Force for International

Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research, all'indirizzo

http://taskforce.ushmm.org/ (Working Group on the Liaison Project with Lithuania: State

of project as of September 2001).

104. Bauer, Rethinking the Holocaust, cit., pp. xii-xiii, 7 (razionalità contro irrazionalità),

pp. 43, 53, 263-264 (Illuminismo/Rivoluzione francese), pp. 50, 52, 109, 140, 264, 265,

267 (zingari), p. 86 (storiografia tedesca), p. 21 (Himmler).

105. Guenter Lewy, The Nazi Persecution of the Gypsies, Oxford, 2000, pp. 38, 116, 117,

118, 128, 162, 165 («toglierli di mezzo»), 220, 221 («contaminazione»).

106. Richard Overy, Interrogations: The Nazi Elite in Allied Hands, 1945, New York:

2001, p. 378. Sono in debito con Harold Marcuse per le informazioni sulla deposizione di

Blaha (cfr. Eugen Kogon et al., Nazi Mass Murder. A Documentary History of the Use of

Poison Gas, New Haven 1993, cap. 8).

107. Per le osservazioni di Eizenstat, cfr. Unofficial Transcript: Schaumayer, Eizenstat

on Nazi Slave Labor Fund, 17 maggio 2000. Non perdendo mai l'occasione di fare a

scaricabarile, Edgar Bronfman, presidente del CME e multimiliardario della Seagram, ha

chiesto agli ebrei di «fermare l'austriaco Jörg Haider e gli altri estremisti versando al

Congresso Mondiale Ebraico un contributo per le emergenze» (sollecito inviato per

posta).

108. Together. American Gathering of jewish Holocaust Survivors, novembre 2001; Ron

Rosenbaum, Degrees of Evil, in «Atlantic Monthly», febbraio 2000; Andrew Sullivan,

Who Says It's Not about Religion? in «The New York Times Magazine», 7 ottobre 2001.

109. Robert Fisk, Peres Stands Accused over Denial of «Meaningless» Armenian

Holocaust, in «The Independent», 18 aprile 2001. Astenendosi da qualsiasi confronto tra

lo sterminio nazista e quello turco, l'ambasciatore israeliano in Georgia e Armenia ha

affermato che gli ebrei furono vittime di un «genocidio», mentre quel che è accaduto agli

armeni è stato semplicemente una «tragedia» (Armenia Files Complaint with Antel over

Comments on Genocide, in «Associated Press», 16 febbraio 2002).

110. Bush Remembers Holocaust Victims, Pledges Defense of Israel, in «Reuters», 19

aprile 2001.

111. Amir Oren, At the Gates of Yassergrad, in «Haaretz», 25 gennaio 2002, e Uzi

Benziman, Immoral Imperative, in «Haaretz», 10 febbraio 2002.

 

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