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il primo capitolo del libro
Indice
Presentazione
Capitolo
1: Dove va Rifondazione?
Capitolo
2: Progetto comunista versus PRC?
Capitolo
3: Autonomia del movimento o egemonia del partito?
Capitolo
4: La guerra non può essere fermata dal pacifismo
Capitolo
5:"Forse è vero che a Cuba non c'è il paradiso?"
Capitolo
6: La restaurazione del capitalismo in URSS e in suo significato storico
Capitolo
7: Da Lenin a Stalin
Capitolo
8: Anni '70, anni del fracasso
Capitolo
9: Una nuova direzione per il movimento operaio
Capitolo
10: Rifondare la IV Internazionale?
CAPITOLO 1: DOVE VA RIFONDAZIONE?
D: Partiamo dall’ultima
fase della vita politica di Rifondazione, dalla sua svolta verso l’ipotesi di
una futura alleanza elettorale e governativa con l’Ulivo. Sembrava che tutta
l’operazione del referendum sull’art.18, non andasse in tale direzione. Poi
negli ultimi mesi, invece è iniziato il riavvicinamento a tappe forzate di
Bertinotti all’Ulivo. Secondo te quali sono i motivi che muovono in questa
direzione il gruppo dirigente di Rifondazione?
F:
Forniamo intanto da una lettura di fondo dell’orientamento di questo gruppo
dirigente, lettura che ci ha permesso di non essere sorpresi di fronte alla
«svolta». Come Progetto comunista non abbiamo mai considerato la «rottura» con
il governo Prodi nel 1998 da parte del gruppo dirigente del PRC come una sua
inversione strategica di rotta. L’abbiamo invece considerata un passaggio
«obbligato» a cui fu costretto dal logoramento della propria esperienza
governativa: un passaggio funzionale alla riconquista di una massa critica
negoziale per ricomporre un rapporto di alleanza e riaprire il varco ad un
ritorno di governo.
Già nel 2000 la maggioranza dirigente del PRC tentò di rilanciare una
prospettiva di governo con l’Ulivo attraverso i 14 accordi col centrosinistra in
occasione delle elezioni regionali. Questa operazione fallì solo perché allora
l’Ulivo affondò e ciò indusse Bertinotti a fare un passo indietro per non
restare sul Titanic ulivista. Dopo le elezioni del 2001, ci fu l’immersione del
PRC nella cosiddetta «stagione dei movimenti», ciò che il gruppo dirigente
all’ultimo Congresso ha teso a presentare come la svolta «di sinistra» del
partito, «l’abbandono del primato del politicismo e del governiamo». La rottura
con Prodi – si disse allora solennemente - ha aperto la strada alla scoperta dei
movimenti e la scoperta dei movimenti è l’inizio della vera rifondazione
strategica del comunismo (la stessa rottura con Cossutta era stata presentata
come rottura strategica). Tutto questo per noi era sovrastruttura ideologica e
propagandistica. In realtà il rapporto del PRC con i movimenti, nella logica di
Bertinotti, era teso a realizzare un’operazione di riconquista di forza sociale,
politica e contrattuale da spendere nella ricomposizione con l’Ulivo.
Il referendum sull’estensione dell’articolo 18, non fu affatto per la
maggioranza dirigente del PRC qualcosa di separato dalla prospettiva politica
indicata. Al contrario. La finalità reale di questo referendum era per Fausto
Bertinotti quella di conquistare la migliore posizione negoziale nel rapporto
con il centrosinistra. A questo fine occorreva ridimensionare il «fenomeno
Cofferati» che si presentava come il trade-union emergente dei movimenti di
massa e godeva di un insediamento sociale enormemente più ampio e centrale di
quello di cui disponeva il PRC. Sergio Cofferati preoccupava Bertinotti non
tanto dal punto di vista elettorale ma perché il cofferatismo rischiava di
occupare lo spazio negoziale tra PRC e Ulivo, marginalizzando il PRC. Il
referendum fu quindi concepito per sgonfiare le ruote della macchina
cofferatiana. In questa operazione, paradossalmente, c’è un aspetto
oggettivamente positivo. Una delle ragioni che ci ha spinto a non considerare
di per sé negativo il referendum stava nel fatto che esso avrebbe potuto
contribuire a un ridimensionamento del mito del cofferatismo, rivelandone la
reale natura politica agli occhi di grandi masse. Ciò che è avvenuto. Ma lo
scopo del gruppo dirigente del PRC non era quello di guadagnare un più ampio
spazio per la costruzione di una direzione alternativa dei movimenti di massa,
bensì di giungere ad una ricomposizione con la borghesia.
E
infatti l’accelerazione della ricomposizione tra Bertinotti e l’Ulivo è
direttamente proporzionale al riflusso del cofferatismo, e si produce già nel
corso della campagna referendaria del maggio-giugno 2003.
Voglio sottolineare l’enormità politica di questa «svolta». Il PRC si riavvicina
ad una prospettiva di governo con l’Ulivo nel momento stesso in cui il Centro
ulivista si presenta come carta di ricambio di quei poteri forti del paese
delusi dal berlusconismo: ampi settori di Confindustria, Confcommercio, grandi
banchieri e persino Bankitalia, tutti avversari di classe dei lavoratori e delle
loro lotte. Può esservi un fatto più grave per un partito comunista che si
voleva «rifondato»?
D: Tutta questa
lettura, una lettura probabilmente verosimile di ciò che è avvenuto, è molto
politicista, è tutta all’interno dello scontro di gruppi dirigenti e di frazioni
politiche per l’occupazione di «spazi politici». Ma non pensi che nella svolta
di Bertinotti del 1998 c’era un elemento di antipoliticismo? In fondo la rottura
fu presentata come una rottura sui contenuti e non sugli equilibri parlamentari…
E dunque, la svolta verso l’Ulivo del 2003 non è da attribuire alla cocente
delusione patita da Rifondazione con il rinsecchirsi del movimento «no-iglobal»?
F:
Quella che qui proponi è una chiave di lettura della parabola di Rifondazione
che davvero non mi convince. Perché fa delle concessioni di fondo all’autorappresentazione
che il bertinottismo fa di sé e che non ha mai corrisposto alla sua realtà. Al
contrario – per essere chiari – io vedo nell’operazione del 1998 proprio la
massima espressione di «politicismo». Torniamo un attimo a quegli avvenimenti.
Rifondazione sostenne dall’inizio il governo Prodi e votò la sua prima
finanziaria di «lacrime e sangue» del 1996: negli anni ’90 è stata
complessivamente (accanto a quella di Giuliano Amato del 1992) la Finanziaria
più antioperaia e antipopolare. Essa aveva per di più una valenza strategica
centrale perché fornì – tra tagli alle spese sociali ed eurotax – le basi
materiali per l’entrata del capitalismo italiano nella costruzione dell’euro e
quindi nel polo imperialistico europeo. Nel 1997 il PRC votò il «pacchetto Treu»
che nella storia degli anni ’90 segnò uno spartiacque: non ricordo altri
provvedimenti che siano stati più antioperai di questo, che siano stati
strategicamente più dirompenti nell’economia quotidiana dei rapporti di lavoro e
contrattuali. Si possono poi aggiungere il sostegno del PRC alle privatizzazioni
(il governo Prodi realizzò il record assoluto di privatizzazioni in Europa), il
voto favorevole alla legge Turco-Napolitano che istituiva i centri di detenzione
per gli immigrati, il sostegno alla rottamazione a vantaggio della FIAT. In
altri termini, il PRC consumò la sua prima esperienza di governo – per
Bertinotti si trattava di un vero e proprio esordio politico in quanto era stato
eletto segretario nel 1994 – sostenendo le misure strategicamente più rilevanti
per la borghesia italiana.
Nel 1998 il PRC ruppe formalmente su una Finanziaria che era infinitamente meno
onerosa di quelle precedentemente votate. Se il criterio di riferimento fosse
stato quello degli interessi di classe quella rottura avrebbe dovuto
realizzarsi… due anni prima.
Meglio ancora, l’accordo di governo con la borghesia non avrebbe mai dovuto
realizzarsi. Non è questo allora il «politicismo»? E cosa c’è di più politicista
oggi che avviare la ricomposizione di governo con l’Ulivo proprio a ridosso
della contrapposizione tra PRC e centro liberale attorno alla questione cruciale
dell’estensione dell’articolo 18? O nel momento in cui Fassino annuncia
disponibilità sulla controriforma delle pensioni e plaude alla continuità
dell’occupazione dell’Iraq sotto la bandiera dell’ONU?
D: Sono tutte
considerazioni condivisibili. Ma non è forse vero che allo stesso tempo il
gruppo dirigente di Rifondazione avvertiva che con il sostegno esterno al
governo Prodi la vita militante dei circoli si stava prosciugando, che
Rifondazione rischiava il collasso?
F: È
vero. Il gruppo dirigente di Rifondazione si accorse del malumore profondo che
cresceva in settori rilevanti del Partito. Ma non è stato certo questo il
fattore prevalente nella ricollocazione all’opposizione. I fattori decisivi
furono altri. In primo luogo tutti gli indicatori elettorali – dalla metà del
1997 – segnalavano una crisi di rapporto del PRC con settori significativi del
proprio elettorato: e ciò iniziava a ridimensionare il suo peso politico. In
secondo luogo all’interno del centrosinistra lo spazio di contrattazione si
andava logorando. Il PRC aveva aperto un canale privilegiato di negoziazione,
entro la maggioranza di governo, con Romano Prodi, ossia con la più diretta
espressione del capitale finanziario; scavalcando così sia i DS che la CGIL, ed
anzi attivando un meccanismo concorrenziale con questi nella concertazione delle
politiche antioperaie. Tuttavia, dopo la cosiddetta crisi delle «35 ore» attorno
alla fine del ’97 – risolta con lo scambio tra la promessa della riduzione
d’orario e la continuità del sostegno del PRC alle politiche antioperaie del
governo – l’asse tra PRC e Prodi si era ormai profondamente usurato. Si
registrava un impasse. In questa situazione maturò l’ipotesi ( mai smentita ) di
un asse tra D’Alema e Bertinotti. Un’ipotesi che fu peraltro evidenziata da
diversi commentatori politici.
Ricordo, uno per tutti, un editoriale di Andrea Colombo su Il Manifesto,
a ridosso della caduta di Prodi, – intitolato «Il dalemone» – in cui si
segnalava come il PRC accarezzasse l’idea di «una stagione nuova» («la seconda
fase» del governo Prodi), che avrebbe dovuto concretizzarsi nell’appoggio del
PRC ad un ricambio di guida del governo, alla sostituzione di Prodi con D’Alema.
La rottura con Prodi era inizialmente concepita proprio in funzione di quel
ricambio «concordato». E i termini del patto erano chiari: D’Alema avrebbe
ottenuto l’emarginazione del suo concorrente ed una storica promozione politica;
e Bertinotti avrebbe potuto presentare il ricambio di governo a favore dei DS
come uno spostamento a «sinistra» della coalizione, di cui rivendicare il
merito: ciò che avrebbe consentito un rilancio d’immagine della maggioranza di
governo emersa dalle elezioni del 21 aprile del 1996. Questa operazione «iperpoliticista»
naufragò per diverse ragioni. Fu determinante l’irruzione in campo di Cossiga e
Mastella a sostegno del centrosinistra e di D’Alema: ciò che vanificò il ruolo
del PRC nella maggioranza. Inoltre l’elezione di Ciampi alla Presidenza della
Repubblica – inizialmente proposta dallo stesso Bertinotti come occasione di
ricomposizione della «maggioranza del 21 aprile» – si realizzò con uno
schieramento di unità nazionale, comprensivo del Polo, che marginalizzò il PRC.
Ed infine la guerra in Kossovo allargò definitivamente il fossato tra il governo
D’Alema ed il PRC, già peraltro indebolito dalla scissione di Cossutta.
È
curioso osservare come oggi, per alcuni aspetti, si tenti di concretizzare, con
anni di ritardo, il disegno che allora si concepì. Oggi come allora D’Alema è il
principale interlocutore della maggioranza dirigente del PRC nella
ricomposizione di governo tra PRC ed Ulivo. La differenza è che questa
ricomposizione avviene sotto l’egida formale di quel Romano Prodi con cui
Bertinotti aveva rotto… «strategicamente» nel ’98.
D: …dunque, secondo te,
la svolta verso l’Ulivo del 2003 non è da attribuire alla cocente delusione
patita da Rifondazione con il rinsecchirsi del movimento «no-global»?
F: Non
lo credo affatto. È vero che Bertinotti ha fatto formalmente l’apologia del
movimento no-global: ma sempre custodendo accuratamente un quadro di
compatibilità tra il movimento e la prospettiva di alternanza di governo con
l’Ulivo. Ha sempre appoggiato le proposte programmatiche più moderate che
venivano dai gruppi dirigenti del movimento come il «bilancio partecipativo» e
la liberale Tobin Tax, proposte cui, non a caso, lo stesso centrosinistra apriva
(ed apre). Così dal punto di vista internazionale, ha avvalorato il mito di Lula.
Che cos’è il mito di Lula nella rappresentazione del gruppo dirigente del PRC? È
forse l’espressione di un’ingenua suggestione o invece risponde anche a esigenze
di politica interna? Lula è in realtà la metafora della possibile conciliazione
fra movimento «no-global» – nella sua capitale simbolica di Porto Alegre – e un
possibile governo di centrosinistra in Italia. Se Lula governa in Brasile con
grandi banchieri ed industriali applicando le direttive nel FMI, perché
Bertinotti non potrebbe governare in Italia a braccetto con industriali e
banchieri entro la cornice dell’Europa del capitale? Ancora oggi il segretario
dei PRC sia nelle risoluzioni di maggioranza del CPN, sia nella lunghissima
intervista concessa al giornale della Margherita Europa, cita
espressamente il governo Lula come «modello»[1].
Lula sarebbe la prova provata che è possibile compatibilizzare il «movimento dei
movimenti» con una soluzione di governo. Ed è significativo che il riferimento
al «modello» di Lula sia mantenuto dal gruppo dirigente del PRC nonostante le
politiche antioperaie che quel governo di centrosinistra sta conducendo:
controriforma pensionistica, rifiuto della riforma agraria, tagli pesanti alle
spese sociali. Politiche che iniziano ad incontrare in Brasile proprio
l’opposizione dei movimenti.
Dal punto di vista del disegno politico reale (e non della propaganda), il
cavalcamento del movimento «no-global» è sempre stato visto dal gruppo dirigente
del PRC in funzione di una ricomposizione con il centro liberale. Bertinotti
vide nel movimento «no-global» una possibile base sociale per il proprio
riformismo e la propria prospettiva istituzionale. In fondo il gruppo dirigente
del PRC era sempre stato costretto a costruire le sue operazioni governiste
sulla base dell’utilità marginale del «proprio» elettorato (e del «proprio»
gruppo parlamentare), nonché sfruttando le contraddizioni interne al
centro-sinistra. Ora, col sorgere del nuovo movimento si presentò ai suoi occhi
una possibile leva sociale su cui appoggiare la propria politica negoziale in
quanto «rappresentanza politica» del movimento. Solo in questo senso, quindi, si
può parlare di superamento del politicismo da parte di Bertinotti. Ma è un
superamento tutto interno alla continuità di fondo della sua politica. Una
politica che confligge peraltro più che mai con le ragioni sociali e le
aspirazioni migliori dello stesso movimento «no-global» : che rapporto c’è tra
l’aspirazione ad «un altro mondo possibile» ed una prospettiva di governo con
Treu e Mastella sotto la guida di Prodi?
D: Subito dopo la
rottura con Prodi ci fu una certa ripresa della militanza in Rifondazione. Si
sentiva la necessità di difendere il partito da attacchi concentrici.
Successivamente la tensione si è allentata, c’è stato un progressivo sfaldamento
della vita militante che si è reso particolarmente evidente anche nella recente
campagna referendaria.
Quale è oggi la tua percezione della situazione
nel PRC, quali sono gli umori della base del partito?
F: Il
corpo del partito vive da tempo una situazione di difficoltà e di «fatica» nella
sua vita politica quotidiana. Questa difficoltà è legata non tanto a fattori di
carattere congiunturale ma ad aspetti di fondo che si sono cumulati nell’arco di
dieci anni. Il partito si è salvaguardato dal punto di vista della propria
rappresentanza istituzionale e del proprio spazio politico (in questo senso il
fallimento del referendum sulla abolizione della residua quota proporzionale ha
rappresentato un passaggio decisivo). Ma non si è costruito dal punto di vista
delle proprie radici sociali, delle proprie motivazioni ideali, della propria
cultura e «senso comune». Col V Congresso Fausto Bertinotti ha cercato, a dire
il vero, di promuovere una sorta di rifondazione culturale bertinottiana del
PRC, con l’accentuazione formale degli elementi di distacco dalla cultura
togliattiana del vecchio PCI in direzione della nuova mitologia movimentista. Ma
si è trattato e si tratta di un’operazione fragile. Anche perché indebolita
paradossalmente dalla politica reale del Partito e dalla sua prospettiva: come
si fa a promuovere da un lato la centralità culturale del movimento e accelerare
dall’altro le scelte di governo sul piano nazionale e locale con i peggiori
avversari del movimento? Proprio la politica governista ed istituzionale del
Partito richiama e rafforza nel suo corpo interno tutti i vecchi riflessi
condizionati della cultura governista del PCI. Ed oggi, non a caso, la politica
di ricomposizione con l’Ulivo trova a proprio sostegno tutta la vecchia destra
interna del Partito e spiazza clamorosamente proprio le sensibilità movimentiste.Oggi
la connessione sentimentale tra Bertinotti e quel consistente settore della sua
base che aveva creduto nella”svolta a sinistra “è entrata obiettivamente in
crisi.
D: Possiamo dire, a
dodici anni di distanza, che la «rifondazione» dell’idea comunista non c’è
stata…
F: No,
non c’è stata. Non solo non c’è stata la rifondazione rivoluzionaria e
anticapitalista che è l’unica rifondazione all’altezza della nuova epoca e dei
nuovi compiti – penso avremo poi l’occasione di tornarci in questa intervista –
ma non c’è stata la costruzione di un partito sia pure riformista di sinistra
che avesse una solidità di radici e di impianto politico culturale. Lo stesso
enorme turn-over che questo partito ha conosciuto negli ultimi dieci anni, è
anche l’espressione di tale crisi…
D: Un turn-over tanto
più evidente nella gioventù…
F: Sì è
vero, soprattutto nella gioventù. Il PRC ha esercitato ripetutamente in questi
dieci anni un forte richiamo nei confronti di settori giovanili: in parte
intercettando una domanda semplice di opposizione, in parte raccogliendo anche
la domanda di uno strumento di lotta più generale contro questa società, che
aprisse la discussione sul progetto di un mondo nuovo, che desse una motivazione
di fondo, una ragione di impegno e di identità non puramente contingente. Queste
domande non hanno trovato risposte nel gruppo dirigente del PRC: la domanda di
opposizione viene ciclicamente smentita dalle svolte governiste; la domanda
anticapitalistica è stata a maggior ragione, e perciò stesso, evasa. E così
molti giovani si sono passivizzati ed anche allontanati dal Partito.
Questo turn-over ha avuto un carattere ciclico. Io sono contrario a leggere il
percorso di Rifondazione come un progressivo e lineare rinsecchimento: secondo
questa lettura ci sarebbe stato all’inizio degli anni ’90 un partito vitale –
sull’onda della grande suggestione della ricostruzione di un partito comunista
– a cui sarebbe seguito un progressivo ripiegamento. In realtà l’itinerario è
stato, a me pare, assai più complesso e contraddittorio. E proprio il rapporto
con i giovani né è la misura.
Negli anni Rifondazione ha prodotto al tempo stesso una costante capacità di
richiamo e una costante frustrazione nella propria area giovanile di
riferimento. Tanti giovani sono entrati e usciti dal partito, ripetutamente, a
decine di migliaia. È una tendenza che si è espressa e si esprime anche oggi.
Con l’ascesa dei nuovi movimenti nel 2001-2003 il PRC è tornato ad essere un
polo di attrazione per i giovani. Lo si è visto persino dal punto di vista
elettorale. Studiosi di sociologia elettorale hanno rilevato che c’è una
crescita significativa del voto giovanile a Rifondazione diversamente da ciò che
era avvenuto nella prima metà degli anni ’90. Il problema è che a questa nuova
domanda non viene data una risposta corrispondente: ed anzi la risposta
governista che oggi si offre la disarma e la colpisce profondamente.
Sino ad ora la collocazione all’opposizione di Rifondazione sul piano nazionale
– a parte la sciagurata parentesi del sostegno al governo Prodi – ha consentito
al partito di esercitare ciclicamente questa capacità di attrazione
sull’avanguardia giovanile. Questo è stato uno degli elementi che ha consentito
al PRC di reggere. È chiaro che oggi la svolta verso una prospettiva di governo,
tanto più nei termini che attualmente si configurano (programma comune di
governo con tanto di ministri del PRC per un’intera legislatura) finirà con
l’entrare in collisione proprio con i settori più combattivi e radicali della
gioventù, rischiando di disperdere un patrimonio prezioso ed insostituibile per
la rifondazione comunista. Ed anche di disarmare – qui ed ora – le migliori
energie dell’avanguardia di classe e dei movimenti. Non a caso proprio nell’area
giovanile del partito all’interno del movimento l’opposizione alla «svolta» di
governo è particolarmente concentrata.
D: D’altro canto oggi
in Rifondazione si sostiene che un mancato accordo elettorale con l’Ulivo non
sarebbe compreso da gran parte del suo elettorato e ciò condurrebbe direttamente
al collasso del partito. Da parte di alcuni settori di Rifondazione, e in primo
luogo della cosiddetta «area Grassi»[2],
si fa intendere che l’accordo con l’Ulivo sarebbe il meno peggio, sarebbe una
soluzione obtorto collo.
F: È
significativo intanto l’argomento che tu citi. Nell’impossibilità di convincere
larga parte del corpo militante del Partito sulle ragioni «a positivo» della
svolta, si ripiega sulle ragioni «a negativo». Non essendo convincente
l’argomento secondo cui un secondo governo Prodi grazie alla benedizione del PRC
e dei movimenti potrebbe realizzare «un altro mondo possibile», si prova a
convincere i militanti del Partito che – ahimè – non c’è alternativa
all’accordo di governo con l’Ulivo. Perché? Perché «c’è il bipolarismo».
Ora, è del tutto evidente che con il sistema elettorale maggioritario si è
sviluppato e progressivamente consolidato il bipolarismo in Italia. Questo è
avvenuto sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista del senso
comune diffuso di larghi settori del popolo di sinistra (e quindi anche di
settori del nostro partito e del nostro elettorato). È un dato oggettivo. Ma
occorre vedere se la politica del PRC ha agito ed agisce in controtendenza
rispetto a tale dato, oppure lo ha rafforzato e lo rafforza. Ebbene: tutta la
politica della maggioranza dirigente del PRC in questi anni, a partire dalle
scelte di carattere locale, è stata di fatto indirizzata al rafforzamento del
meccanismo bipolare. Quando ricerchi e/o realizzi sistematicamente in ogni turno
elettorale gli accordi di governo con il centro-sinistra rafforzi, di fatto, la
percezione del bipolarismo come l’unico orizzonte possibile. Costruisci nel
senso comune del tuo elettorato ed in parte del tuo stesso partito l’idea di
essere «la sinistra del centro-sinistra». E così quando poi – per altrui
indisponibilità – il PRC si presenta da solo alle elezioni il rischio di «non
riconoscibilità» è più elevato, come è in parte avvenuto nella stessa tornata
amministrativa del giugno 2003. Ma proprio questo fatto non misura forse,
anch’esso, la dimensione della crisi della rifondazione? E non è soprattutto la
misura preventiva degli effetti distruttivi sul profilo alternativo del PRC di
un suo ingresso organico in un secondo governo Prodi?
Vi è dunque la necessità di cambiare totalmente prospettiva strategica, e
quindi, linea politica. Occorre partire dalla domanda di riferimento alternativo
che Rifondazione Comunista continua a richiamare in settori significativi di
giovani e lavoratori, e costruire su quella una politica autonoma di classe
Ovviamente questa sarebbe una scelta controcorrente, nel quadro di una
situazione che è più complessa e difficile – anche per responsabilità nostra
– di quella che poteva essere dieci anni fa. Ma resta il fatto che il vero
collasso del PRC nel rapporto con quei settori di avanguardia si produrrebbe
proprio nel caso di un nuovo abbraccio governista con l’Ulivo. Come mille
segnali già oggi ci dicono.
Aggiungo che è necessario rimuovere un possibile equivoco. La necessità di
cacciare Berlusconi non va affatto confusa con la necessità di un accordo di
governo con l’Ulivo. C’è molta demagogia nel partito su questo aspetto e va
demistificata.
È
indubbio che il PRC ha esigenza di raccordo col sentimento popolare di massa che
chiede di cacciare il governo attuale. Esattamente per questo Progetto Comunista
ha posto da subito la rivendicazione della cacciata di Berlusconi come
rivendicazione centrale nell’agitazione di massa, subendo paradossalmente per
due anni l’accusa di «politicismo» da parte di Bertinotti. Ma una cosa è la
cacciata di Berlusconi da parte dell’opposizione operaia e popolare sulla base
delle sue proprie rivendicazioni. Cosa opposta è rimpiazzare Berlusconi con un
governo borghese e liberale che usa i lavoratori come sgabello per fare una
politica contro i lavoratori. La prima soluzione è una vittoria di classe. La
seconda una sconfitta di classe. Significa allora che sono impossibili forme di
accordi tecnici sul solo terreno elettorale per cacciare Berlusconi? No.
Significa che è inaccettabile ogni accordo politico, programmatico, di governo
con forze borghesi liberali antioperaie e sotto la direzione di quelle forze.
Quella non sarebbe solo la vittoria definitiva del bipolarismo istituzionale. Ma
l’ingresso del PRC nel polo di governo della borghesia italiana contro la classe
operaia e i movimenti di massa. Un tradimento sociale e politico – non so
definirlo diversamente – del tutto inaccettabile.
D: C’è stata anche una
certa rimozione del risultato del referendum sull’allargamento dell’art.18 anche
ai lavoratori impiegati in aziende sotto i 15 dipendenti. Prima del voto si sono
fatti circolare tra i militanti, non solo del PRC ma anche della CGIL, falsi
sondaggi che davano il «sì» al 52%. È vergognoso prendere in giro così gli
attivisti. Poi si è detto che nessuno pensava a un raggiungimento «del quorum
pieno», come se potesse esistere un quorum mezzo pieno e mezzo vuoto.
F: Non
sono d’accordo quando tu dici che c’è stata una rimozione frettolosa della
sconfitta referendaria. È avvenuto di peggio. Paradossalmente nelle discussioni
interne al gruppo dirigente e soprattutto nei Comitati Federali in giro per
l’Italia, c’è stata al contrario una drammatizzazione strumentale di
questa sconfitta. Una drammatizzazione funzionale alla prospettiva governista
della maggioranza dirigente del PRC. In sostanza si dice: «Abbiamo provato a
imprimere una svolta a sinistra con i movimenti; ci abbiamo provato con il
referendum scontrandoci con tutti, a questo punto la realpolitik ci indica come
unica prospettiva possibile quella di un accordo con l’Ulivo». Ovviamente non
verrà mai riportata nei documenti in questi termini, ma di fatto questa è
l’argomentazione di fondo. Invece noi di Progetto Comunista, che eravamo più
cauti nei confronti dello strumento referendario, che dicevamo che era sbagliato
vedere nel referendum uno strumento sostitutivo della battaglia di egemonia
alternativa nella lotta di classe, noi valorizziamo il lato positivo di questa
campagna referendaria e del suo risultato: e cioè il fatto obiettivo che quasi
11 milioni di persone, in larga misura lavoratori, giovani, protagonisti dei
movimenti di lotta di due anni, sono entrate in contraddizione con il centro
liberale dell’Ulivo, schierato con la Confindustria e Berlusconi. Questa
contraddizione, a nostro avviso è preziosa per una prospettiva politica
alternativa. È necessario e possibile partire da quel dato per proporre alle
masse politicamente e sindacalmente attive del popolo di sinistra la costruzione
di un polo di classe indipendente in Italia. Il PRC può e deve dire insomma che
il referendum sull’articolo 18 ha fatto da spartiacque tra le classi: da un lato
tutte le forze della borghesia italiana, di centrodestra o di centro liberale,
in competizione tra loro per la rappresentanza di governo del capitalismo e dei
suoi interessi; dall’altro lato tutte le forze politiche o sindacali che, al di
là delle loro responsabilità e prospettive, si pongono come rappresentanza del
movimento operaio e dei movimenti di massa. A tutte queste forze, e quindi
innanzitutto alla loro base di massa, il PRC deve avanzare una proposta chiara:
rompere con il centro liberale e unire nella lotta le proprie forze per
rovesciare Berlusconi e costruire una propria alternativa. Una campagna di massa
su questa proposta entrerebbe da un versante di classe nelle contraddizioni del
centrosinistra, sfiderebbe la burocrazia CGIL ad una coerenza per essa
impossibile, concilierebbe la domanda di unità contro Berlusconi con l’esigenza
dell’autonomia di classe e di un’alternativa vera. Sarebbe una campagna
funzionale ad una prospettiva di conquista delle masse, ad un lavoro, certo
faticoso e difficile, di egemonia alternativa del PRC e quindi di sua
costruzione. Questo sarebbe il vero uso anticapitalistico del referendum e del
suo valore di classe. Il paradosso tragico non sta nel fatto che il gruppo
dirigente del PRC respinge questa impostazione. Sta nel fatto che sta usando ed
usa il «suo» referendum come leva di ricollocazione in un futuro governo
liberale. Cioè nella rappresentanza di governo dell’altra classe.
D: Proviamo a
rovesciare la prospettiva. Ci sono settori di compagni che hanno già da tempo
abbandonato Rifondazione, o altre realtà, gruppi e organizzazioni che hanno
affermato sin da subito che Rifondazione rappresentava un freno al tentativo di
costruire un polo anticapitalista, un polo rivoluzionario. Tenuto anche conto
che i partiti che provenivano dalla tradizione dello stalinismo come il PCF o la
PDS[3]
tedesca – e che avevano mantenuto un certo insediamento – negli ultimi anni
hanno conosciuto un rapido declino. Si tratterebbe quindi di bonificare tutto,
di farla finita con questi tipi di partiti il più in fretta possibile, per poter
aprire una prospettiva diversa.
F:
Capisco l’interrogativo. Ma mi pare mal posto perché colloca sullo stesso piano
questioni diverse. Non ho mai dubitato del fatto che il gruppo dirigente del
PRC, nella sua politica e nella sua cultura di fondo, abbia rappresentato e
rappresenti un ostacolo alla rifondazione comunista rivoluzionaria. Direi anzi
di più: ha rappresentato e rappresenta il principale ostacolo. Ma la domanda è:
come si affronta, come si supera l’ostacolo? È sufficiente la demarcazione
esterna e la pura denuncia? Qui si pone la questione del rapporto tra il
marxismo rivoluzionario ed il PRC: sempre se si intende il marxismo
rivoluzionario non come un esercizio dottrinario o l’autoconservazione di un
gruppo, ma un progetto di costruzione attiva di una prospettiva rivoluzionaria
reale.
Il PRC, la sua realtà e la sua storia, non è riducibile al suo gruppo dirigente,
né è rappresentabile come la semplice somma delle sue scelte politiche. È una
realtà ben più complessa. A differenza del PCF o della PDS che tu citi, il PRC
non è la continuità sostanziale del vecchio partito «comunista», del PCI. Nasce
storicamente dal suo scioglimento sullo sfondo della crisi internazionale dello
stalinismo; e si sviluppa per di più in un contesto politico che vede il grosso
della burocrazia dirigente del vecchio PCI indirizzarsi a passi spediti verso il
governo della seconda repubblica nelle nuove vesti di PDS-DS. Per questo il PRC
ha raccolto una domanda di rifondazione e di opposizione da parte di
significativi settori di avanguardia, di lavoratori e di giovani, che ancora
segna una parte importante della sua base: una domanda che ha potuto raccogliere
proprio in virtù della separazione dai vecchi apparati burocratici di controllo
del movimento operaio. Del resto: quando il PRC ha massimamente raccolto forze
ed esercitato capacità di attrazione nella sua storia? Innanzitutto nel momento
della sua nascita prodotta, è bene ricordarlo, da una scissione; poi negli anni
’92-’93 quando si presentò come «cuore dell’opposizione» a fronte di un PDS
coinvolto nel sostegno a Ciampi, giungendo a superare elettoralmente i DS nelle
città storiche di Torino e Milano; poi ancora nel momento della sua
ricollocazione all’opposizione, dopo il sostegno Prodi (al di là delle immediate
difficoltà elettorali che sommavano contraddittoriamente sia la delusione per il
sostegno fornito alle politiche antioperaie di Prodi sia il richiamo frontista
contro le destre); infine nel momento della mobilitazione contro la guerra in
Kossovo o della stessa ultima campagna referendaria, sullo sfondo della ripresa
dei movimenti: sempre a fronte di un centrosinistra collocato dall’altra parte
della barricata. Certo, nessuno di questi passaggi, come abbiamo visto, ha
configurato svolte strategiche del gruppo dirigente del PRC: ed anzi ognuna di
esse ha rappresentato – dentro un itinerario accidentato ed irregolare – un
passaggio funzionale ad una successiva ricollocazione di governo. Ma come si fa
a non vedere la contraddizione viva tra questa costante riproposizione di
governo con la borghesia da parte del gruppo dirigente e le domande di segno
contrario che quelle scelte di opposizione polarizzavano? È esattamente questa
contraddizione che la nuova svolta di governo con l’Ulivo – se si realizzasse –
condurrebbe ad una precipitazione definitiva.
Noi abbiamo voluto costruirci, in questi dieci anni, in questa contraddizione:
contro la politica e la strategia della maggioranza dirigente del PRC, ma in un
rapporto vivo con le migliori domande che il partito raccoglieva. E sempre
mantenendo la rotta di fondo: la rifondazione comunista rivoluzionaria, una
prospettiva in cui prima o poi ritroveremo anche gruppi e militanti genuinamente
rivoluzionari che hanno scelto di non partecipare alla nostra battaglia nel PRC.
D: Qual’è il tuo
giudizio sull’«area Grassi»? L’impressione è che abbia recuperato aspetti
organizzativi – e non solo! – del vecchio PCI. Durante il dibattito al V
Congresso del PRC e anche successivamente, pur continuando a far parte della
maggioranza congressuale, è apparsa come un’opposizione in fieri all’interno di
Rifondazione, attirando molte delle simpatie di settori importanti di giovani
del PRC. Oggi, con il suo sostegno all’ipotesi di accordo programmatico con
l’Ulivo, la sua immagine sembra un po’ appannata. È tornato fuori il riformismo
di fondo di quest’area.
F:
Indubbiamente l’area Grassi rivela capacità organizzative reali.
Essa emerge, e non a caso, con l’ultimo Congresso di Rifondazione. In
quell’assise Bertinotti aveva realizzato – come abbiamo detto – un vero affondo
sul terreno della rifondazione culturale del partito, cercando di costruire,
sempre all’interno della prospettiva politica governista, una sovrastruttura
ideologica marcatamente diversa da quella del togliattismo. Tutto ciò ha
prodotto la reazione e la resistenza politico-culturale di quei settori del
gruppo dirigente più legati alla tradizione togliattiana. La componente Grassi
ha certo differenze di fondo con il bertinottismo dal punto di vista del
richiamo alla tradizione del PCI, dei riferimenti internazionali
filo-staliniani, di un accentuato «partitismo» ideologico. Non vi sono invece
differenze reali dal punto di vista della prospettiva politico-strategica. Anzi
per quanto riguarda la ricomposizione governista con il centro-sinistra, l’area
dell’Ernesto ha fatto e fa da componente di frontiera. Sia sul piano nazionale,
dove i dirigenti di quell’area sono stati sostenitori attivi dell’esperienza
Prodi e delle corresponsabilità del PRC. Sia sul piano locale dove sono
massimamente coinvolti da molti anni nella gestione politica delle peggiori
scelte concertative, come nel caso del governo regionale dell’Emilia Romagna.
Vorrei osservare – senza alcuna ironia – che questa contraddizione plateale tra
il riferimento ideologico «partitista e comunista» e la prassi politica reale è
la migliore conferma dell’ortodossia togliattiana di questa componente: una
riproposizione «rifondata» ed in miniatura di quello storico doppio binario che
ha segnato tanta parte della tradizione staliniana del PCI.
Peraltro è significativo lo spiazzamento dell’«area dell’Ernesto» di fronte
all’attuale svolta governista di Bertinotti. Questa svolta è infatti destinata a
occupare progressivamente il suo spazio politico all’interno del PRC. Certo,
esiste anche su questo terreno una differenza tattica: Bertinotti persegue
direttamente una ricomposizione di governo con il centro liberale sulla testa
delle tendenza socialdemocratiche della sinistra DS e puntando apertamente al
loro ridimensionamento; Grassi propone un approccio frontista con la sinistra DS
come passaggio intermedio della ricomposizione di governo col centro liberale.
Ma l’obiettivo strategico è oggi più che mai comune: ministri del PRC in un
governo borghese liberale. Per questo oggi più che mai l’unica opposizione reale
alla linea Bertinotti è rappresentata da Progetto Comunista. È una verità
sospinta dall’esperienza dei fatti, e sempre più evidente nella stessa
percezione diffusa del partito.
[1]
FORUM CON FAUSTO BERTINOTTI Noi, il centrosinistra, l’opposizione al
governo. Parla il segretario di Rifondazione comunista. (Europa,
26 giugno 2003)
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