Ultimo Aggiornamento : 6-10-2003 : Last Release
Nei segni che confondono la borghesia, la nobiltà e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione! - KARL MARX -
 
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L'ALTRA RIFONDAZIONE

(Copertina a colori, 144 pp. note biografiche dei principali nomi e organizzazioni citate, 8 euro)

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 In questa pagina puoi trovare: l'indice del volume.

                                                     il primo capitolo del libro

Indice

  Presentazione

  Capitolo 1: Dove va Rifondazione?

  Capitolo 2: Progetto comunista versus PRC?

  Capitolo 3: Autonomia del movimento o egemonia del partito?

  Capitolo 4: La guerra non può essere fermata dal pacifismo

  Capitolo 5:"Forse è vero che a Cuba non c'è il paradiso?"

  Capitolo 6: La restaurazione del capitalismo in URSS e in suo significato storico

  Capitolo 7: Da Lenin a Stalin

  Capitolo 8: Anni '70, anni del fracasso

  Capitolo 9: Una nuova direzione per il movimento operaio

  Capitolo 10: Rifondare la IV Internazionale?

 

CAPITOLO 1: DOVE VA RIFONDAZIONE?

 

 

D: Partiamo dall’ultima fase della vita politica di Rifondazione, dalla sua svolta verso l’ipotesi di una futura alleanza elettorale e governativa con l’Ulivo. Sembrava che tutta l’operazione del referendum sull’art.18, non andasse in tale direzione. Poi negli ultimi mesi, invece è iniziato il riavvicinamento a tappe forzate di Bertinotti all’Ulivo. Secondo te quali sono i motivi che muovono in questa direzione il gruppo dirigente di Rifondazione?

 

F: Forniamo intanto da una lettura di fondo dell’orientamento di questo gruppo dirigente, lettura che ci ha permesso di non essere sorpresi di fronte alla «svolta». Come Progetto comunista non abbiamo mai considerato la «rottura» con il governo Prodi nel 1998 da parte del gruppo dirigente del PRC come una sua inversione strategica di rotta. L’abbiamo invece considerata un passaggio «obbligato» a cui fu costretto dal logoramento della propria esperienza governativa: un passaggio funzionale alla riconquista di una massa critica negoziale per ricomporre un rapporto di alleanza e riaprire il varco ad un ritorno di governo.

Già nel 2000 la maggioranza dirigente del PRC tentò di rilanciare una prospettiva di governo con l’Ulivo attraverso i 14 accordi col centrosinistra in occasione delle elezioni regionali. Questa operazione fallì solo perché allora l’Ulivo affondò e ciò indusse Bertinotti a fare un passo indietro per non restare sul Titanic ulivista. Dopo le elezioni del 2001, ci fu l’immersione del PRC nella cosiddetta «stagione dei movimenti», ciò che il gruppo dirigente all’ultimo Congresso ha teso a presentare come la svolta «di sinistra» del partito, «l’abbandono del primato del politicismo e del governiamo». La rottura con Prodi – si disse allora solennemente - ha aperto la strada alla scoperta dei movimenti e la scoperta dei movimenti è l’inizio della vera rifondazione strategica del comunismo (la stessa rottura con Cossutta era stata presentata come rottura strategica). Tutto questo per noi era sovrastruttura ideologica e propagandistica. In realtà il rapporto del PRC con i movimenti, nella logica di Bertinotti, era teso a realizzare un’operazione di riconquista di forza sociale, politica e contrattuale da spendere nella ricomposizione con l’Ulivo.

Il referendum sull’estensione dell’articolo 18, non fu affatto per la maggioranza dirigente del PRC qualcosa di separato dalla prospettiva politica indicata. Al contrario. La finalità reale di questo referendum era per Fausto Bertinotti quella di conquistare la migliore posizione negoziale nel rapporto con il centrosinistra. A questo fine occorreva ridimensionare il «fenomeno Cofferati» che si presentava come il trade-union emergente dei movimenti di massa e godeva di un insediamento sociale enormemente più ampio e centrale di quello di cui disponeva il PRC. Sergio Cofferati preoccupava Bertinotti non tanto dal punto di vista elettorale ma perché il cofferatismo rischiava di occupare lo spazio negoziale tra PRC e Ulivo, marginalizzando il PRC. Il referendum fu quindi concepito per sgonfiare le ruote della macchina cofferatiana. In questa operazione, paradossalmente, c’è un aspetto oggettivamente positivo. Una delle ragioni che ci ha spinto a non considerare di per sé negativo il referendum stava nel fatto che esso avrebbe potuto contribuire a un ridimensionamento del mito del cofferatismo, rivelandone la reale natura politica agli occhi di grandi masse. Ciò che è avvenuto. Ma lo scopo del gruppo dirigente del PRC non era quello di guadagnare un più ampio spazio per la costruzione di una direzione alternativa dei movimenti di massa, bensì di giungere ad una ricomposizione con la borghesia.

E infatti l’accelerazione della ricomposizione tra Bertinotti e l’Ulivo è direttamente proporzionale al riflusso del cofferatismo, e si produce già nel corso della campagna referendaria del maggio-giugno 2003.

Voglio sottolineare l’enormità politica di questa «svolta». Il PRC si riavvicina ad una prospettiva di governo con l’Ulivo nel momento stesso in cui il Centro ulivista si presenta come carta di ricambio di quei poteri forti del paese delusi dal berlusconismo: ampi settori di Confindustria, Confcommercio, grandi banchieri e persino Bankitalia, tutti avversari di classe dei lavoratori e delle loro lotte. Può esservi un fatto più grave per un partito comunista che si voleva «rifondato»?

 

D: Tutta questa lettura, una lettura probabilmente verosimile di ciò che è avvenuto, è molto politicista, è tutta all’interno dello scontro di gruppi dirigenti e di frazioni politiche per l’occupazione di «spazi politici». Ma non pensi che nella svolta di Bertinotti del 1998 c’era un elemento di antipoliticismo? In fondo la rottura fu presentata come una rottura sui contenuti e non sugli equilibri parlamentari… E dunque, la svolta verso l’Ulivo del 2003 non è da attribuire alla cocente delusione patita da Rifondazione con il rinsecchirsi del movimento «no-iglobal»?

 

F: Quella che qui proponi è una chiave di lettura della parabola di Rifondazione che davvero non mi convince. Perché fa delle concessioni di fondo all’autorappresentazione che il bertinottismo fa di sé e che non ha mai corrisposto alla sua realtà. Al contrario – per essere chiari – io vedo nell’operazione del 1998 proprio la massima espressione di «politicismo». Torniamo un attimo a quegli avvenimenti.

Rifondazione sostenne dall’inizio il governo Prodi e votò la sua prima finanziaria di «lacrime e sangue» del 1996: negli anni ’90 è stata complessivamente (accanto a quella di Giuliano Amato del 1992) la Finanziaria più antioperaia e antipopolare. Essa aveva per di più una valenza strategica centrale perché fornì – tra tagli alle spese sociali ed eurotax – le basi materiali per l’entrata del capitalismo italiano nella costruzione dell’euro e quindi nel polo imperialistico europeo. Nel 1997 il PRC votò il «pacchetto Treu» che nella storia degli anni ’90 segnò uno spartiacque: non ricordo altri provvedimenti che siano stati più antioperai di questo, che siano stati strategicamente più dirompenti nell’economia quotidiana dei rapporti di lavoro e contrattuali. Si possono poi aggiungere il sostegno del PRC alle privatizzazioni (il governo Prodi realizzò il record assoluto di privatizzazioni in Europa), il voto favorevole alla legge Turco-Napolitano che istituiva i centri di detenzione per gli immigrati, il sostegno alla rottamazione a vantaggio della FIAT. In altri termini, il PRC consumò la sua prima esperienza di governo – per Bertinotti si trattava di un vero e proprio esordio politico in quanto era stato eletto segretario nel 1994 – sostenendo le misure strategicamente più rilevanti per la borghesia italiana.

Nel 1998 il PRC ruppe formalmente su una Finanziaria che era infinitamente meno onerosa di quelle precedentemente votate. Se il criterio di riferimento fosse stato quello degli interessi di classe quella rottura avrebbe dovuto realizzarsi… due anni prima.

Meglio ancora, l’accordo di governo con la borghesia non avrebbe mai dovuto realizzarsi. Non è questo allora il «politicismo»? E cosa c’è di più politicista oggi che avviare la ricomposizione di governo con l’Ulivo proprio a ridosso della contrapposizione tra PRC e centro liberale attorno alla questione cruciale dell’estensione dell’articolo 18? O nel momento in cui Fassino annuncia disponibilità sulla controriforma delle pensioni e plaude alla continuità dell’occupazione dell’Iraq sotto la bandiera dell’ONU?

 

D: Sono tutte considerazioni condivisibili. Ma non è forse vero che allo stesso tempo il gruppo dirigente di Rifondazione avvertiva che con il sostegno esterno al governo Prodi la vita militante dei circoli si stava prosciugando, che Rifondazione rischiava il collasso?

 

F: È vero. Il gruppo dirigente di Rifondazione si accorse del malumore profondo che cresceva in settori rilevanti del Partito. Ma non è stato certo questo il fattore prevalente nella ricollocazione all’opposizione. I fattori decisivi furono altri. In primo luogo tutti gli indicatori elettorali – dalla metà del 1997  –  segnalavano una crisi di rapporto del PRC con settori significativi del proprio elettorato: e ciò iniziava a ridimensionare il suo peso politico. In secondo luogo all’interno del centrosinistra lo spazio di contrattazione si andava logorando. Il PRC aveva aperto un canale privilegiato di negoziazione, entro la maggioranza di governo, con Romano Prodi, ossia con la più diretta espressione del capitale finanziario; scavalcando così sia i DS che la CGIL, ed anzi attivando un meccanismo concorrenziale con questi nella concertazione delle politiche antioperaie. Tuttavia, dopo la cosiddetta crisi delle «35 ore» attorno alla fine del ’97 – risolta con lo scambio tra la promessa della riduzione d’orario e la continuità del sostegno del PRC alle politiche antioperaie del governo – l’asse tra PRC e Prodi si era ormai profondamente usurato. Si registrava un impasse. In questa situazione maturò l’ipotesi ( mai smentita ) di un asse tra D’Alema e Bertinotti. Un’ipotesi che fu peraltro evidenziata da diversi commentatori politici.

Ricordo, uno per tutti, un editoriale di Andrea Colombo su Il Manifesto, a ridosso della caduta di Prodi, – intitolato «Il dalemone» – in cui si segnalava come il PRC accarezzasse l’idea di «una stagione nuova» («la seconda fase» del governo Prodi), che avrebbe dovuto concretizzarsi nell’appoggio del PRC ad un ricambio di guida del governo, alla sostituzione di Prodi con D’Alema. La rottura con Prodi era inizialmente concepita proprio in funzione di quel ricambio «concordato». E i termini del patto erano chiari: D’Alema avrebbe ottenuto l’emarginazione del suo concorrente ed una storica promozione politica; e Bertinotti avrebbe potuto presentare il ricambio di governo a favore dei DS come uno spostamento a «sinistra» della coalizione, di cui rivendicare il merito: ciò che avrebbe consentito un rilancio d’immagine della maggioranza di governo emersa dalle elezioni del 21 aprile del 1996. Questa operazione «iperpoliticista» naufragò per diverse ragioni. Fu determinante l’irruzione in campo di Cossiga e Mastella a sostegno del centrosinistra e di D’Alema: ciò che vanificò il ruolo del PRC nella maggioranza. Inoltre l’elezione di Ciampi alla Presidenza della Repubblica – inizialmente proposta dallo stesso Bertinotti come occasione di ricomposizione della «maggioranza del 21 aprile» – si realizzò con uno schieramento di unità nazionale, comprensivo del Polo, che marginalizzò il PRC. Ed infine la guerra in Kossovo allargò definitivamente il fossato tra il governo D’Alema ed il PRC, già peraltro indebolito dalla scissione di Cossutta.

È curioso osservare come oggi, per alcuni aspetti, si tenti di concretizzare, con anni di ritardo, il disegno che allora si concepì. Oggi come allora D’Alema è il principale interlocutore della maggioranza dirigente del PRC nella ricomposizione di governo tra PRC ed Ulivo. La differenza è che questa ricomposizione avviene sotto l’egida formale di quel Romano Prodi con cui Bertinotti aveva rotto… «strategicamente» nel ’98.

 

D: …dunque, secondo te, la svolta verso l’Ulivo del 2003 non è da attribuire alla cocente delusione patita da Rifondazione con il rinsecchirsi del movimento «no-global»?

 

F: Non lo credo affatto. È vero che Bertinotti ha fatto formalmente l’apologia del movimento no-global: ma sempre custodendo accuratamente un quadro di compatibilità tra il movimento e la prospettiva di alternanza di governo con l’Ulivo. Ha sempre appoggiato le proposte programmatiche più moderate che venivano dai gruppi dirigenti del movimento come il «bilancio partecipativo» e la liberale Tobin Tax, proposte cui, non a caso, lo stesso centrosinistra apriva (ed apre). Così dal punto di vista internazionale, ha avvalorato il mito di Lula. Che cos’è il mito di Lula nella rappresentazione del gruppo dirigente del PRC? È forse l’espressione di un’ingenua suggestione o invece risponde anche a esigenze di politica interna? Lula è in realtà la metafora della possibile conciliazione fra movimento «no-global» – nella sua capitale simbolica di Porto Alegre – e un possibile governo di centrosinistra in Italia. Se Lula governa in Brasile con grandi banchieri ed industriali applicando le direttive nel FMI, perché Bertinotti non potrebbe governare in Italia a braccetto con industriali e banchieri entro la cornice dell’Europa del capitale? Ancora oggi il segretario dei PRC sia nelle risoluzioni di maggioranza del CPN, sia nella lunghissima intervista concessa al giornale della Margherita Europa, cita espressamente il governo Lula come «modello»[1]. Lula sarebbe la prova provata che è possibile compatibilizzare il «movimento dei movimenti» con una soluzione di governo. Ed è significativo che il riferimento al «modello» di Lula sia mantenuto dal gruppo dirigente del PRC nonostante le politiche antioperaie che quel governo di centrosinistra sta conducendo: controriforma pensionistica, rifiuto della riforma agraria, tagli pesanti alle spese sociali. Politiche che iniziano ad incontrare in Brasile proprio l’opposizione dei movimenti.

Dal punto di vista del disegno politico reale (e non della propaganda), il cavalcamento del movimento «no-global» è sempre stato visto dal gruppo dirigente del PRC in funzione di una ricomposizione con il centro liberale. Bertinotti vide nel movimento «no-global» una possibile base sociale per il proprio riformismo e la propria prospettiva istituzionale. In fondo il gruppo dirigente del PRC era sempre stato costretto a costruire le sue operazioni governiste sulla base dell’utilità marginale del «proprio» elettorato (e del «proprio» gruppo parlamentare), nonché sfruttando le contraddizioni interne al centro-sinistra. Ora, col sorgere del nuovo movimento si presentò ai suoi occhi una possibile leva sociale su cui appoggiare la propria politica negoziale in quanto «rappresentanza politica» del movimento. Solo in questo senso, quindi, si può parlare di superamento del politicismo da parte di Bertinotti. Ma è un superamento tutto interno alla continuità di fondo della sua politica. Una politica che confligge peraltro più che mai con le ragioni sociali e le aspirazioni migliori dello stesso movimento «no-global» : che rapporto c’è tra l’aspirazione ad «un altro mondo possibile» ed una prospettiva di governo con Treu e Mastella sotto la guida di Prodi?

 

D: Subito dopo la rottura con Prodi ci fu una certa ripresa della militanza in Rifondazione. Si sentiva la necessità di difendere il partito da attacchi concentrici. Successivamente la tensione si è allentata, c’è stato un progressivo sfaldamento della vita militante che si è reso particolarmente evidente anche nella recente campagna referendaria.

Quale è oggi la tua percezione della situazione nel PRC, quali sono gli umori della base del partito?

 

F: Il corpo del partito vive da tempo una situazione di difficoltà e di «fatica» nella sua vita politica quotidiana. Questa difficoltà è legata non tanto a fattori di carattere congiunturale ma ad aspetti di fondo che si sono cumulati nell’arco di dieci anni. Il partito si è salvaguardato dal punto di vista della propria rappresentanza istituzionale e del proprio spazio politico (in questo senso il fallimento del referendum sulla abolizione della residua quota proporzionale ha rappresentato un passaggio decisivo). Ma non si è costruito dal punto di vista delle proprie radici sociali, delle proprie motivazioni ideali, della propria cultura e «senso comune». Col V Congresso Fausto Bertinotti ha cercato, a dire il vero, di promuovere una sorta di rifondazione culturale bertinottiana del PRC, con l’accentuazione formale degli elementi di distacco dalla cultura togliattiana del vecchio PCI in direzione della nuova mitologia movimentista. Ma si è trattato e si tratta di un’operazione fragile. Anche perché indebolita paradossalmente dalla politica reale del Partito e dalla sua prospettiva: come si fa a promuovere da un lato la centralità culturale del movimento e accelerare dall’altro le scelte di governo sul piano nazionale e locale con i peggiori avversari del movimento? Proprio la politica governista ed istituzionale del Partito richiama e rafforza nel suo corpo interno tutti i vecchi riflessi condizionati della cultura governista del PCI. Ed oggi, non a caso, la politica di ricomposizione con l’Ulivo trova a proprio sostegno tutta la vecchia destra interna del Partito e spiazza clamorosamente proprio le sensibilità movimentiste.Oggi la connessione sentimentale tra Bertinotti e quel consistente settore della sua base che aveva creduto nella”svolta a sinistra “è entrata obiettivamente in crisi.

 

D: Possiamo dire, a dodici anni di distanza, che la «rifondazione»  dell’idea comunista non c’è stata…

 

F: No, non c’è stata. Non solo non c’è stata la rifondazione rivoluzionaria e anticapitalista che è l’unica rifondazione all’altezza della nuova epoca e dei nuovi compiti – penso avremo poi l’occasione di tornarci in questa intervista – ma non c’è stata la costruzione di un partito sia pure riformista di sinistra che avesse una solidità di radici e di impianto politico culturale. Lo stesso enorme turn-over che questo partito ha conosciuto negli ultimi dieci anni, è anche l’espressione di tale crisi…

 

D: Un turn-over tanto più evidente nella gioventù…

 

F: Sì è vero, soprattutto nella gioventù. Il PRC ha esercitato ripetutamente in questi dieci anni un forte richiamo nei confronti di settori giovanili: in parte intercettando una domanda semplice di opposizione, in parte raccogliendo anche la domanda di uno strumento di lotta più generale contro questa società, che aprisse la discussione sul progetto di un mondo nuovo, che desse una motivazione di fondo, una ragione di impegno e di identità non puramente contingente. Queste domande non hanno trovato risposte nel gruppo dirigente del PRC: la domanda di opposizione viene ciclicamente smentita dalle svolte governiste; la domanda anticapitalistica è stata a maggior ragione, e perciò stesso, evasa. E così molti giovani si sono passivizzati ed anche allontanati dal Partito.

Questo turn-over ha avuto un carattere ciclico. Io sono contrario a leggere il percorso di Rifondazione come un progressivo e lineare rinsecchimento: secondo questa lettura ci sarebbe stato all’inizio degli anni ’90 un partito vitale  –  sull’onda della grande suggestione della ricostruzione di un partito comunista  –  a cui sarebbe seguito un progressivo ripiegamento. In realtà l’itinerario è stato, a me pare, assai più complesso e contraddittorio. E proprio il rapporto con i giovani né è la misura.

Negli anni Rifondazione ha prodotto al tempo stesso una costante capacità di richiamo e una costante frustrazione nella propria area giovanile di riferimento. Tanti giovani sono entrati e usciti dal partito, ripetutamente, a decine di migliaia. È una tendenza che si è espressa e si esprime anche oggi. Con l’ascesa dei nuovi movimenti nel 2001-2003 il PRC è tornato ad essere un polo di attrazione per i giovani. Lo si è visto persino dal punto di vista elettorale. Studiosi di sociologia elettorale hanno rilevato che c’è una crescita significativa del voto giovanile a Rifondazione diversamente da ciò che era avvenuto nella prima metà degli anni ’90. Il problema è che a questa nuova domanda non viene data una risposta corrispondente: ed anzi la risposta governista che oggi si offre la disarma e la colpisce profondamente.

Sino ad ora la collocazione all’opposizione di Rifondazione sul piano nazionale – a parte la sciagurata parentesi del sostegno al governo Prodi – ha consentito al partito di esercitare ciclicamente questa capacità di attrazione sull’avanguardia giovanile. Questo è stato uno degli elementi che ha consentito al PRC di reggere. È chiaro che oggi la svolta verso una prospettiva di governo, tanto più nei termini che attualmente si configurano (programma comune di governo con tanto di ministri del PRC per un’intera legislatura) finirà con l’entrare in collisione proprio con i settori più combattivi e radicali della gioventù, rischiando di disperdere un patrimonio prezioso ed insostituibile per la rifondazione comunista. Ed anche di disarmare – qui ed ora – le migliori energie dell’avanguardia di classe e dei movimenti. Non a caso proprio nell’area giovanile del partito all’interno del movimento l’opposizione alla «svolta» di governo è particolarmente concentrata.

 

D: D’altro canto oggi in Rifondazione si sostiene che un mancato accordo elettorale con l’Ulivo non sarebbe compreso da gran parte del suo elettorato e ciò condurrebbe direttamente al collasso del partito. Da parte di alcuni settori di Rifondazione, e in primo luogo della cosiddetta «area Grassi»[2], si fa intendere che l’accordo con l’Ulivo sarebbe il meno peggio, sarebbe una soluzione obtorto collo.

 

F: È significativo intanto l’argomento che tu citi. Nell’impossibilità di convincere larga parte del corpo militante del Partito sulle ragioni «a positivo» della svolta, si ripiega sulle ragioni «a negativo». Non essendo convincente l’argomento secondo cui un secondo governo Prodi grazie alla benedizione del PRC e dei movimenti potrebbe realizzare «un altro mondo possibile», si prova a convincere i militanti del Partito che – ahimè –  non c’è alternativa all’accordo di governo con l’Ulivo. Perché? Perché «c’è il bipolarismo».

Ora, è del tutto evidente che con il sistema elettorale maggioritario si è sviluppato e progressivamente consolidato il bipolarismo in Italia. Questo è avvenuto sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista del senso comune diffuso di larghi settori del popolo di sinistra (e quindi anche di settori del nostro partito e del nostro elettorato). È un dato oggettivo. Ma occorre vedere se la politica del PRC ha agito ed agisce in controtendenza rispetto a tale dato, oppure lo ha rafforzato e lo rafforza. Ebbene: tutta la politica della maggioranza dirigente del PRC in questi anni, a partire dalle scelte di carattere locale, è stata di fatto indirizzata al rafforzamento del meccanismo bipolare. Quando ricerchi e/o realizzi sistematicamente in ogni turno elettorale gli accordi di governo con il centro-sinistra rafforzi, di fatto, la percezione del bipolarismo come l’unico orizzonte possibile. Costruisci nel senso comune del tuo elettorato ed in parte del tuo stesso partito l’idea di essere «la sinistra del centro-sinistra». E così quando poi – per altrui indisponibilità – il PRC si presenta da solo alle elezioni il rischio di «non riconoscibilità» è più elevato, come è in parte avvenuto nella stessa tornata amministrativa del giugno 2003. Ma proprio questo fatto non misura forse, anch’esso, la dimensione della crisi della rifondazione? E non è soprattutto la misura preventiva degli effetti distruttivi sul profilo alternativo del PRC di un suo ingresso organico in un secondo governo Prodi?

Vi è dunque la necessità di cambiare totalmente prospettiva strategica, e quindi, linea politica. Occorre partire dalla domanda di riferimento alternativo che Rifondazione Comunista continua a richiamare in settori significativi di giovani e lavoratori, e costruire su quella una politica autonoma di classe Ovviamente questa sarebbe una scelta controcorrente, nel quadro di una situazione che è più complessa e difficile  –  anche per responsabilità nostra  –  di quella che poteva essere dieci anni fa. Ma resta il fatto che il vero collasso del PRC nel rapporto con quei settori di avanguardia si produrrebbe proprio nel caso di un nuovo abbraccio governista con l’Ulivo. Come mille segnali già oggi ci dicono.

Aggiungo che è necessario rimuovere un possibile equivoco. La necessità di cacciare Berlusconi non va affatto confusa con la necessità di un accordo di governo con l’Ulivo. C’è molta demagogia nel partito su questo aspetto e va demistificata.

È indubbio che il PRC ha esigenza di raccordo col sentimento popolare di massa che chiede di cacciare il governo attuale. Esattamente per questo Progetto Comunista ha posto da subito la rivendicazione della cacciata di Berlusconi come rivendicazione centrale nell’agitazione di massa, subendo paradossalmente per due anni l’accusa di «politicismo» da parte di Bertinotti. Ma una cosa è la cacciata di Berlusconi da parte dell’opposizione operaia e popolare sulla base delle sue proprie rivendicazioni. Cosa opposta è rimpiazzare Berlusconi con un governo borghese e liberale che usa i lavoratori come sgabello per fare una politica contro i lavoratori. La prima soluzione è una vittoria di classe. La seconda una sconfitta di classe. Significa allora che sono impossibili forme di accordi tecnici sul solo terreno elettorale per cacciare Berlusconi? No. Significa che è inaccettabile ogni accordo politico, programmatico, di governo con forze borghesi liberali antioperaie e sotto la direzione di quelle forze. Quella non sarebbe solo la vittoria definitiva del bipolarismo istituzionale. Ma l’ingresso del PRC nel polo di governo della borghesia italiana contro la classe operaia e i movimenti di massa. Un tradimento sociale e politico – non so definirlo diversamente  –  del tutto inaccettabile.

 

D: C’è stata anche una certa rimozione del risultato del referendum sull’allargamento dell’art.18 anche ai lavoratori impiegati in aziende sotto i 15 dipendenti. Prima del voto si sono fatti circolare tra i militanti, non solo del PRC ma anche della CGIL, falsi sondaggi che davano il «sì» al 52%. È vergognoso prendere in giro così gli attivisti. Poi si è detto che nessuno pensava a un raggiungimento «del quorum pieno», come se potesse esistere un quorum mezzo pieno e mezzo vuoto.

 

F: Non sono d’accordo quando tu dici che c’è stata una rimozione frettolosa della sconfitta referendaria. È avvenuto di peggio. Paradossalmente nelle discussioni interne al gruppo dirigente e soprattutto nei Comitati Federali in giro per l’Italia, c’è stata al contrario una drammatizzazione strumentale di questa sconfitta. Una drammatizzazione funzionale alla prospettiva governista della maggioranza dirigente del PRC. In sostanza si dice: «Abbiamo provato a imprimere una svolta a sinistra con i movimenti; ci abbiamo provato con il referendum scontrandoci con tutti, a questo punto la realpolitik ci indica come unica prospettiva possibile quella di un accordo con l’Ulivo». Ovviamente non verrà mai riportata nei documenti in questi termini, ma di fatto questa è l’argomentazione di fondo. Invece noi di Progetto Comunista, che eravamo più cauti nei confronti dello strumento referendario, che dicevamo che era sbagliato vedere nel referendum uno strumento sostitutivo della battaglia di egemonia alternativa nella lotta di classe, noi valorizziamo il lato positivo di questa campagna referendaria e del suo risultato: e cioè il fatto obiettivo che quasi 11 milioni di persone, in larga misura lavoratori, giovani, protagonisti dei movimenti di lotta di due anni, sono entrate in contraddizione con il centro liberale dell’Ulivo, schierato con la Confindustria e Berlusconi. Questa contraddizione, a nostro avviso è preziosa per una prospettiva politica alternativa. È necessario e possibile partire da quel dato per proporre alle masse politicamente e sindacalmente attive del popolo di sinistra la costruzione di un polo di classe indipendente in Italia. Il PRC può e deve dire insomma che il referendum sull’articolo 18 ha fatto da spartiacque tra le classi: da un lato tutte le forze della borghesia italiana, di centrodestra o di centro liberale, in competizione tra loro per la rappresentanza di governo del capitalismo e dei suoi interessi; dall’altro lato tutte le forze politiche o sindacali che, al di là delle loro responsabilità e prospettive, si pongono come rappresentanza del movimento operaio e dei movimenti di massa. A tutte queste forze, e quindi innanzitutto alla loro base di massa, il PRC deve avanzare una proposta chiara: rompere con il centro liberale e unire nella lotta le proprie forze per rovesciare Berlusconi e costruire una propria alternativa. Una campagna di massa su questa proposta entrerebbe da un versante di classe nelle contraddizioni del centrosinistra, sfiderebbe la burocrazia CGIL ad una coerenza per essa impossibile, concilierebbe la domanda di unità contro Berlusconi con l’esigenza dell’autonomia di classe e di un’alternativa vera. Sarebbe una campagna funzionale ad una prospettiva di conquista delle masse, ad un lavoro, certo faticoso e difficile, di egemonia alternativa del PRC e quindi di sua costruzione. Questo sarebbe il vero uso anticapitalistico del referendum e del suo valore di classe. Il paradosso tragico non sta nel fatto che il gruppo dirigente del PRC respinge questa impostazione. Sta nel fatto che sta usando ed usa il «suo» referendum come leva di ricollocazione in un futuro governo liberale. Cioè nella rappresentanza di governo dell’altra classe.

 

D: Proviamo a rovesciare la prospettiva. Ci sono settori di compagni che hanno già da tempo abbandonato Rifondazione, o altre realtà, gruppi e organizzazioni che hanno affermato sin da subito che Rifondazione rappresentava un freno al tentativo di costruire un polo anticapitalista, un polo rivoluzionario. Tenuto anche conto che i partiti che provenivano dalla tradizione dello stalinismo come il PCF o la PDS[3] tedesca – e che avevano mantenuto un certo insediamento – negli ultimi anni hanno conosciuto un rapido declino. Si tratterebbe quindi di bonificare tutto, di farla finita con questi tipi di partiti il più in fretta possibile, per poter aprire una prospettiva diversa.

 

F: Capisco l’interrogativo. Ma mi pare mal posto perché colloca sullo stesso piano questioni diverse. Non ho mai dubitato del fatto che il gruppo dirigente del PRC, nella sua politica e nella sua cultura di fondo, abbia rappresentato e rappresenti un ostacolo alla rifondazione comunista rivoluzionaria. Direi anzi di più: ha rappresentato e rappresenta il principale ostacolo. Ma la domanda è: come si affronta, come si supera l’ostacolo? È sufficiente la demarcazione esterna e la pura denuncia? Qui si pone la questione del rapporto tra il marxismo rivoluzionario ed il PRC: sempre se si intende il marxismo rivoluzionario non come un esercizio dottrinario o l’autoconservazione di un gruppo, ma un progetto di costruzione attiva di una prospettiva rivoluzionaria reale.

Il PRC, la sua realtà e la sua storia, non è riducibile al suo gruppo dirigente, né è rappresentabile come la semplice somma delle sue scelte politiche. È una realtà ben più complessa. A differenza del PCF o della PDS che tu citi, il PRC non è la continuità sostanziale del vecchio partito «comunista», del PCI. Nasce storicamente dal suo scioglimento sullo sfondo della crisi internazionale dello stalinismo; e si sviluppa per di più in un contesto politico che vede il grosso della burocrazia dirigente del vecchio PCI indirizzarsi a passi spediti verso il governo della seconda repubblica nelle nuove vesti di PDS-DS. Per questo il PRC ha raccolto una domanda di rifondazione e di opposizione da parte di significativi settori di avanguardia, di lavoratori e di giovani, che ancora segna una parte importante della sua base: una domanda che ha potuto raccogliere proprio in virtù della separazione dai vecchi apparati burocratici di controllo del movimento operaio. Del resto: quando il PRC ha massimamente raccolto forze ed esercitato capacità di attrazione nella sua storia? Innanzitutto nel momento della sua nascita prodotta, è bene ricordarlo, da una scissione; poi negli anni ’92-’93 quando si presentò come «cuore dell’opposizione» a fronte di un PDS coinvolto nel sostegno a Ciampi, giungendo a superare elettoralmente i DS nelle città storiche di Torino e Milano; poi ancora nel momento della sua ricollocazione all’opposizione, dopo il sostegno Prodi (al di là delle immediate difficoltà elettorali che sommavano contraddittoriamente sia la delusione per il sostegno fornito alle politiche antioperaie di Prodi sia il richiamo frontista contro le destre); infine nel momento della mobilitazione contro la guerra in Kossovo o della stessa ultima campagna referendaria, sullo sfondo della ripresa dei movimenti: sempre a fronte di un centrosinistra collocato dall’altra parte della barricata. Certo, nessuno di questi passaggi, come abbiamo visto, ha configurato svolte strategiche del gruppo dirigente del PRC: ed anzi ognuna di esse ha rappresentato – dentro un itinerario accidentato ed irregolare – un passaggio funzionale ad una successiva ricollocazione di governo. Ma come si fa a non vedere la contraddizione viva tra questa costante riproposizione di governo con la borghesia da parte del gruppo dirigente e le domande di segno contrario che quelle scelte di opposizione polarizzavano? È esattamente questa contraddizione che la nuova svolta di governo con l’Ulivo – se si realizzasse – condurrebbe ad una precipitazione definitiva.

Noi abbiamo voluto costruirci, in questi dieci anni, in questa contraddizione: contro la politica e la strategia della maggioranza dirigente del PRC, ma in un rapporto vivo con le migliori domande che il partito raccoglieva. E sempre mantenendo la rotta di fondo: la rifondazione comunista rivoluzionaria, una prospettiva in cui prima o poi ritroveremo anche gruppi e militanti genuinamente rivoluzionari che hanno scelto di non partecipare alla nostra battaglia nel PRC.

 

D: Qual’è il tuo giudizio sull’«area Grassi»? L’impressione è che abbia recuperato aspetti organizzativi – e non solo! – del vecchio PCI. Durante il dibattito al V Congresso del PRC e anche successivamente, pur continuando a far parte della maggioranza congressuale, è apparsa come un’opposizione in fieri all’interno di Rifondazione, attirando molte delle simpatie di settori importanti di giovani del PRC. Oggi, con il suo sostegno all’ipotesi di accordo programmatico con l’Ulivo, la sua immagine sembra un po’ appannata. È tornato fuori il riformismo di fondo di quest’area.

 

F: Indubbiamente l’area Grassi rivela capacità organizzative reali.

Essa emerge, e non a caso, con l’ultimo Congresso di Rifondazione. In quell’assise Bertinotti aveva realizzato – come abbiamo detto – un vero affondo sul terreno della rifondazione culturale del partito, cercando di costruire, sempre all’interno della prospettiva politica governista, una sovrastruttura ideologica marcatamente diversa da quella del togliattismo. Tutto ciò ha prodotto la reazione e la resistenza politico-culturale di quei settori del gruppo dirigente più legati alla tradizione togliattiana. La componente Grassi ha certo differenze di fondo con il bertinottismo dal punto di vista del richiamo alla tradizione del PCI, dei riferimenti internazionali filo-staliniani, di un accentuato «partitismo» ideologico. Non vi sono invece differenze reali dal punto di vista della prospettiva politico-strategica. Anzi per quanto riguarda la ricomposizione governista con il centro-sinistra, l’area dell’Ernesto ha fatto e fa da componente di frontiera. Sia sul piano nazionale, dove i dirigenti di quell’area sono stati sostenitori attivi dell’esperienza Prodi e delle corresponsabilità del PRC. Sia sul piano locale dove sono massimamente coinvolti da molti anni nella gestione politica delle peggiori scelte concertative, come nel caso del governo regionale dell’Emilia Romagna.

Vorrei osservare – senza alcuna ironia – che questa contraddizione plateale tra il riferimento ideologico «partitista e comunista» e la prassi politica reale è la migliore conferma dell’ortodossia togliattiana di questa componente: una riproposizione «rifondata» ed in miniatura di quello storico doppio binario che ha segnato tanta parte della tradizione staliniana del PCI.

Peraltro è significativo lo spiazzamento dell’«area dell’Ernesto» di fronte all’attuale svolta governista di Bertinotti. Questa svolta è infatti destinata a occupare progressivamente il suo spazio politico all’interno del PRC. Certo, esiste anche su questo terreno una differenza tattica: Bertinotti persegue direttamente una ricomposizione di governo con il centro liberale sulla testa delle tendenza socialdemocratiche della sinistra DS e puntando apertamente al loro ridimensionamento; Grassi propone un approccio frontista con la sinistra DS come passaggio intermedio della ricomposizione di governo col centro liberale. Ma l’obiettivo strategico è oggi più che mai comune: ministri del PRC in un governo borghese liberale. Per questo oggi più che mai l’unica opposizione reale alla linea Bertinotti è rappresentata da Progetto Comunista. È una verità sospinta dall’esperienza dei fatti, e sempre più evidente nella stessa percezione diffusa del partito.

 


 

[1] FORUM CON FAUSTO BERTINOTTI Noi, il centrosinistra, l’opposizione al governo. Parla il segretario di Rifondazione comunista. (Europa, 26 giugno 2003)

[2] Componente interna del PRC di cui Claudio Grassi, ex tesoriere e membro dell’attuale direzione nazionale di quel partito è il principale dirigente. Questa componente che pubblica la rivista L’Ernesto (www.lernesto.it) è venuta alla ribalta nell’ultimo Congresso Nazionale del PRC recuperando una serie di tematiche tipiche del togliattismo: l’apprezzamento per la storia del PCI e del ruolo dell’Unione Sovietica del XX secolo, la rivendicazione di un partito di massa radicato nella classe operaia e la rivendicazione di un rapporto privilegiato con i DS.

[3] PCF, Partito Comunista Francese; PDS, Il Partito del Socialismo Democratico (Germania) nasce nel 1991 in diretta continuità con la SED, il partito stalinista al potere in DDR per oltre quarant’anni.

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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