Come in
un remake di cattivo gusto, in Argentina sono andate onda le elezioni
presidenziali. A quindici mesi dalla rivolta che infiammò il paese, non sembra
essere rimasta traccia della parola d’ordine “che se ne vadano tutti!” che era
passata di bocca in bocca in quei giorni. Infatti ha partecipato al voto ben
l’80% della popolazione e i candidati che andranno al ballottaggio sono due
peronisti: l’ex presidente Menem e il figlioccio di Duhalde, Kirchner.
Se si
tiene conto che i candidati che hanno superato lo 0,5% dei voti sono stati 11,
la cosiddetta sinistra con i suoi due candidati “marxisti” (Patricia Walsh del
blocco MST-PC e Jorge Altamira, del Partido Obrero) hanno raccolto
complessivamente circa il 2,5% dei suffragi mentre le stesse forze che avevano
invitato all’astensionismo “attivo” (inserire delle schede false nell’urna) come
il PTS, Zamora, ecc. hanno ottenuto il miserrimo risultato di circa 15.000
schede false ritrovate nell’urna. Tutto ciò potrebbe indurre a scoraggiamento e
invece impone una riflessione non scontata:
1.
Il livello
d’integrazione nel sistema della classe proletaria (per non parlare delle classi
medie impoverite e no) in tutti i paesi democratici resta un fattore
straordinario di salvaguardia e stabilizzazione del sistema. Il solo fatto che
la borghesia non abbia utilizzato il metodo golpista per porre fine alla rivolta
del dicembre 2001, ci segnala come la “maturità democratica” argentina sia assai
forte.
2.
Ne discende
che il problema non è solo che “la classe deve fare le sue esperienze” cercando
tutte le soluzioni all’interno del sistema prima di rivolgersi all’alternativa
rivoluzionaria (il voto a Kirchner è visto dagli analisti come un voto di
centro-sinistra, una sorta di freno al liberismo!), ma della necessità di un
lavoro di educazione e organizzazione antistatale e antiparlamentare di lunga
lena, che non può essere improvvisato.
3.
La fragilità
dell’avanguardia sociale che fu in prima linea in quella insurrezione
(disoccupati e piccola borghesia impoverita) e che potrebbe diventare l’elemento
caratteristico fondamentale delle insurrezioni della nostra epoca, fa sì che gli
stessi modelli tradizionali di partiti rivoluzionari divengano del tutto
inutilizzabili: il lento lavoro di organizzazione centralizzato nelle grandi
concentrazioni industriali di un piccolo gruppo d’avanguardia non si confà a
situazioni in cui a rapide e violente ascese corrispondono altrettanto rapidi
riflussi. Questo è ancora di più vero quando si vede il cul-de-sac in cui sono
finite le occupazioni della Zanon e di altre aziende del paese.
4.
Il
fallimento di tutto l’apparato delle varie sinistre trotskiste e neo-leniniste.
Dopo aver blaterato per mesi sul “febbraio argentino” a cui sarebbe seguito il
suo “Ottobre”, dopo le dispute sulle parole d’ordine e sulla direzione del
“movimento”, hanno dimostrato nel partecipazionismo elettoralesco tutta la loro
impotenza. Percentuali di voto da prefisso telefonico e legittimazione del
sistema, è tutto quello che queste forze sono riuscite a ottenere. Al costante
clima di rissa e di intimidazione fisica tra militanti delle forze di estrema
sinistra, si è aggiunta inoltre la “mafia welferista” della gestione dei
contributi statali per i disoccupati. Infatti ognuno di questi gruppi ha creato
la propria associazione di piqueteros. Oggi esistono almeno una dozzina di
organizzazioni piquetere controllate ognuna dispoticamente dal gruppetto di
sinistra di turno. Il controllo ferreo di queste associazioni da parte dei
gruppi di sinistra non è solo il prodotto del settarismo ma soprattutto dal loro
perverso intreccio con lo Stato che a chiacchiere vorrebbero abbattere. Infatti
ognuna di queste associazioni riceve mensilmente dallo Stato 50 dollari di
sussidio per ogni suo associato, 50 dollari che poi è la stessa organizzazione
“piquetera” a distribuire ai “suoi” disoccupati. E così la militanza piquetera
si è trasformato in un tragicomico welfare statale gestito… dalle estreme
sinistre, che in tal modo mantengono mafiosamente legati gli aderenti ai loro
gruppi. D’altro canto i disoccupati, una volta chiamati a votare, hanno
preferito votare per i candidati peronisti che hanno promesso che i sussidi
rimarranno anche dopo le elezioni e non per i vari Lenin della Pampa. I
disoccupati hanno inteso che in fondo essi sono solo i dispensatori
dell’elemosina di Stato. Insomma molto pragmaticamente i proletari hanno
compreso, chi in questa farsa parassitaria, chi è il “signore” e chi è il
“valvassino”.
5.
La carsicità
e l’andamento tachicardico della lotta di classe in Argentina è destinato però a
diventare permanente. L’Argentina non può tornare a essere né quella d’inizio
secolo, né quella degli anni ’60: la maturità della struttura mondiale
imperialista non consente a un paese che si basa sull’export di prodotti
agricoli e su un’industria in gran parte desueta (anche in relazioni alle
necessità del mercato interno) di potersi rivitalizzare. L’Argentina può al
massimo galleggiare in attesa di un nuovo tonfo: il PIL e la produzione
industriale sono negativi da un anno e mezzo anche se la stabilizzazione del
dollaro a quota 2.90 ha calmierato l’ansietà delle classi medie (anche se al
prezzo di una perdita ulteriore del 30% dei risparmi). 600.000 operai e
professionisti sono emigrati e molti altri attendono i visti dalle ambasciate
per lasciare il Paese. La disoccupazione è al 21% mentre i sottoccupati
rappresentano il 40% della restante forza-lavoro. La malnutrizione resta uno dei
caratteri fondamentali in un paese che esporta carne in tutto il globo. 10
milioni di argentini vivono con meno di 70 dollari al mese.
Le
contraddizioni e la crisi argentina non potranno che tornare a far parlare di sé
il mondo. L’affermazione di una nuova teoria della liberazione e
dell’organizzazione, la nascita di una nuova avanguardia antistatale e
rivoluzionaria (fuori dalle vecchie mafie trotskiste e maoiste), sono le
condizioni necessarie per una nuova insorgenza proletaria che “spazzi via
tutti”, una volta per tutte.
per conoscere tutti i dati delle elezioni clicca
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