Proponiamo qui
l'introduzione al volume Crimini invisibili. Storie e lotte proletarie (4 euro,
64 pp. copertina a colori) Per acquistare il volume clicca qui a sinistra sull'
immagine "i nostri libri".
Immigrate che lavorano come colf e badanti;
operai della Fiat di Cassino; inquilini del centro di Roma; precari delle
biblioteche comunali; le diverse figure sociali presenti nei gradi cortei romani
del 23 marzo e del 16 aprile 2002. Questo lo spaccato che emerge dal presente
opuscolo. Suggerendo, nei limiti del possibile, il carattere multiforme del
proletariato presente nelle nostre metropoli. E cercando di dare anche un'idea,
certo parziale, dell'attività di Corrispondenze metropolitane. Cioè di
un'esperienza che - sia pure in un cammino non privo di difficoltà- ha saputo
interagire a vari livelli con significativi segmenti del mondo del lavoro e con
varie lotte per i bisogni nel territorio di riferimento: Roma ed il suo
hinterland, nonché i luoghi ad essa legati da specifici nessi, produttivi,
amministrativi e culturali. Peraltro questo rapporto, ha avuto sempre la sua
prima manifestazione nella raccolta di testimonianze legate alla condizione e
alle rivendicazioni dei soggetti sociali raggiunti. Ora, siffatta attività si è
realizzata nelle forme più diverse, quasi tutte prese in considerazione in
questa pubblicazione. Dove troviamo il testo di una video-intervista, ma anche
brani tratti da un giornale ("Corrispondenze metropolitane", appunto),
nonché trascrizioni di trasmissioni radiofoniche. Nel nostro percorso abbiamo
utilizzato tutti i possibili mezzi di comunicazione, cercando di valorizzarne le
potenzialità documentarie e riflessive. Però in principio, giova ricordarlo per
misurare un cammino che qui, nella parzialità dei materiali riprodotti, trova
un'efficace esemplificazione, si dava maggior rilievo ad uno strumento piuttosto
che ad altri. Corrispondenze metropolitane nasce come giornale, anzi, per
usare la dicitura originaria, come Rivista di controinformazione e di inchiesta.
Autodefinendosi, all'alba della sua attività e per un cospicuo tempo, come
redazione e non, come accade attualmente, in quanto collettivo. Si è fatto
dunque un salto in avanti di cui bisogna parlare, se ci si propone l'obiettivo
di meglio collocare questa esperienza. Quel che va da subito rilevato è che il
salto cui si allude non rimanda a nessuna cesura all'interno di un cammino
semmai segnato dalla continuità. Mai, d'altra parte, in una realtà in continuo
sommovimento, i percorsi, soprattutto collettivi, possono evitare repentini
sbalzi o battute d'arresto. Il nostro s'è sempre legato ad una progettualità che
le difficoltà incontrate sul campo hanno portato ad assumere in modo più
problematico e che i successi ottenuti hanno spinto a riconfermare senza enfasi.
Ciò significa che i mutamenti intercorsi nella attività che si va qui
descrivendo, pur non segnalando fratture, non rimandano a mere questioni
tecniche. La stessa alternanza di mezzi di comunicazione che ha connotato
l'agire di CM, muove dalla precisa constatazione del loro non essere "neutrali",
da una attenta valutazione delle specifiche prerogative di ognuno di essi. Una
trasmissione radiofonica può essere il luogo dell'approfondimento fino ad un
certo punto, ma ha la capacità di far entrare chi ascolta nel vivo di una lotta,
con una immediatezza comunicativa non riscontrabile in altri medium. Un
audiovisivo, soprattutto se elaborato, può ottenere un risultato notevole sul
piano della narrazione di un vissuto proletario, restituendone la molteplicità
di aspetti nella misura in cui ci fa giungere a un tempo voci e sguardi, parole
e gesti. La varietà degli elementi significanti gli conferisce dunque grandi
potenzialità. Se poi i soggetti sociali coinvolti controllano la realizzazione
del video sino alla fine, dicendo la loro sulle immagini da selezionare, sulle
scelte di montaggio, ci si inoltra sul proficuo terreno dell'autonarrazione. Non
solo: l'esemplificazione circa le possibili finalizzazioni dei diversi mezzi di
comunicazione potrebbe durare a lungo. Ma non proseguiremo su questo terreno,
perché con tutta la sua importanza nel motivare le nostre scelte, non giustifica
appieno il passaggio da redazione a collettivo. E se l'ordine di valutazioni
appena accennato venisse considerato a sé stante, sganciato dai problemi di
natura teorico-politica che a breve affronteremo, potrebbe indurre ad equivoci.
Facendo pensare che dalle nostre parti ormai si svaluti quell'attività dello
scrivere che dà pur sempre la possibilità di cogliere il senso ultimo di un
avvenimento, di analizzare con precisione l'esito di una vertenza. O spingendo a
credere che non vi fosse un'apertura verso altri strumenti già dal principio.
Supposizione, questa, smentita dai fatti. Di uno spazio radiofonico (Crimini
invisibili, su Radio Onda Rossa) si è disposto quasi dall'inizio,
potendo comprendere presto, quindi, quanto possa essere avvolgente, per
l'ascoltatore, una testimonianza di lotta resa via etere. La "multimedialità”
ci è appartenuta dai primi passi, ma poi il tempo e l'esperienza l'hanno
sospinta, rendendola coessenziale ad un processo che ha visto la progressiva
assunzione di un ruolo sempre più marcatamente politico, il graduale profilarsi
di un protagonismo che non ha mai tradito le originarie aspirazioni. Racchiuse
in una definizione, o meglio autodefinizione, che può sorprendere. Noi,
abbiamo già avuto modo di scriverlo, consideriamo la nostra struttura e
l'attività da essa posta in essere, come "funzione della classe". Il che
può spiazzare non solo per motivi di contenuto, ma perché colloca
Corrispondenze metropolitane lontano dai codici linguistici in uso nel
movimento, componenti radicali incluse. Qualcuno, forse, scorgerà, in un modo
di presentarsi così anomalo, l’influenza dell'elaborazione di un dirigente (e
teorico) del PSI dei primi anni '50 del secolo scorso: Rodolfo Morandi. Ma a
questa intuizione occorrerà aggiungere la comprensione del significato che diamo
alla definizione di cui sopra, degli slittamenti di senso introdotti
nell'originaria formulazione morandiana. La quale risulta tutta interna alla
tematica del partito, anzi vede in esso la "funzione della classe" in grado di
esprimerne ed accompagnarne i movimenti, le istanze.
Ora, si tratta di una posizione comunque avanzata nel tempo in cui si delineò e
che si va a rielaborare nella consapevolezza di agire in un contesto diverso ed
alla luce di precise esperienze storiche. Esperienze che spingono ad una
riformulazione complessiva del nodo dell'organizzazione, muovendo dalla
constatazione ch'esso non può più essere risolto con l'invocazione del partito.
Si deve giungere a non considerare perennemente valida nessuna forma
organizzativa, sempre interrogandosi sulla sua adeguatezza alla vigente
situazione sociale e produttiva. In tal senso non basta più neanche
l'illuminata proposta di Morandi. Essa, va sottolineato, aveva il merito di far
vivere (solo teoricamente, data la concreta prassi del partito di riferimento)
l'ipotesi allora controcorrente di un'organizzazione che si concepisse in un
rapporto né di supremazia né di carattere pedagogico con i soggetti sociali di
riferimento. Tutto il contrario del Partito nuovo togliattiano, l'educatore che
non accettava di essere educato e che ergeva sé stesso al di sopra di ogni cosa,
istanze di classe comprese. Tutto il contrario, quindi, di quel primato della
politica che, applicato altrove, da quei "partiti fratelli" dell’est che
detenevano per intero il potere dello Stato, assunse le mostruose sembianze di
una dittatura sui bisogni. Certo, da noi non poté essere così. Ma,
come si accennava, il diverso modo di intendere l’organizzazione cui qui si fa
riferimento non ebbe concretizzazione. Rimase come stimolo riflessivo e come
elemento della formazione di futuri innovatori della cultura del movimento
operaio, quali Raniero Panzieri ed altri. Tuttavia oggi, sfrondato di alcuni
elementi contingenti, come il richiamo al partito leninista, ritorna a noi
rivelando la straordinaria attualità del suo movente ultimo. Movente che ci
appartiene; non solo l'organizzazione che verrà -risultato di un lungo processo
di aggregazione proletaria- sarà funzione della classe. Ma anche i militanti,
anche le strutture che operano nell'oggi debbono essere e dirsi tali. Non si può
dunque pensare sé stessi come "cellule" di futuri Partiti cui guadagnare settori
di classe da coinvolgere in un progetto che né hanno definito né potranno
modificare. Men che meno le strutture attualmente in piedi possono pretendere di
sovrapporre il loro punto di vista a quello dei soggetti sociali. Essi ne
esprimeranno il movimento, le istanze, i bisogni; cercando di creare le
condizioni affinché gli sfruttati possano far emergere il loro punto di vista.
Tutto ciò implica l'abbandono del modo di
percepirsi che, quasi sempre, contraddistingue i militanti, a prescindere dalle
loro opzioni teoriche. Infatti, anche quando si professano libertari, essi
tendono ad assolutizzare il proprio ruolo, di rado riconoscendolo nel creare le
condizioni - mediante l'agitazione, l'attività di trasmissione della memoria -
affinché un movimento, non appena sviluppato, assuma il più possibile certe
caratteristiche, sospinga la lotta verso lidi di autentica radicalità.
Purtroppo, il più delle volte i militanti si pensano come coloro che ai
movimenti danno vita, provando un senso di smarrimento ogni qualvolta scoppi
qualcosa fuori dal loro controllo e dalle loro coordinate. In sostanza domina
l'idea di sé come "facitori della storia" e non si avverte che non ci si può
proporre in certi termini neanche quando si è interni ad una lotta dal
principio. Anche in quel caso non si crea il movimento. Lo si accompagna,
spingendolo in nuove direzioni, aspettando le verifiche fornite dai fatti per
stimolare la riflessione collettiva. E, soprattutto, si cerca di mettere in
comunicazione la propria lotta con quella di altri. È un imperativo,
quest'ultimo. Lo è quando si vive dal di dentro un conflitto. Lo è, ancor di
più, quando si agisce come struttura che ad esso si relaziona dall'esterno,
senza attribuirsi il compito di portare la coscienza alle lotte. Ponendosi
invece l'obiettivo di favorirne l'avanzamento attraverso la presa di contatto
con esperienze simili, seppur legate a categorie o a figure sociali diverse. È
essenziale che chi lotta capisca che non è solo, che la sua condizione lo
accomuna a molti, anche a chi - dopo anni di scomposizione di classe - verrebbe
"naturale" pensare come estraneo a sé, perché ha un altro contratto, un'altra
collocazione produttiva. In tal senso, il militante ha un ruolo forte e di non
secondaria importanza. Ma quanto si sta descrivendo rimanda ad una dimessa
attività quotidiana, tale da concedere poco al personalismo deteriore, ancorato
alla mentalità, come s’è detto, dominante. Non solo, la prassi di cui stiamo
parlando ha anche la peculiarità di risultare lontana dal fragore mediatico di
quei grandi eventi su cui solo sembra appuntarsi l'interesse delle forze
organizzate della sinistra critica o antagonista. In realtà, dal nostro punto di
vista, l'impegno costante e la presenza in momenti che sono - o che vengono
percepiti - come cruciali, non dovrebbero escludersi a vicenda. Non casualmente,
nella breve storia di Corrispondenze metropolitane non si riscontrano
accenti moralistici nella considerazione dei grandi avvenimenti che portano
masse enormi di persone a contestare l'esistente. Al limite, il nostro tentativo
è sempre stato quello di analizzarli, di cogliere le specificità di ciascuno di
essi. Per capire in quali forme e con quale impegno esservi presenti. Una
valutazione, questa, fortemente legata al rapporto che con certe scadenze
sviluppano i soggetti sociali di riferimento. Quindi, una valutazione complessa,
che oltre a tenere conto della partecipazione reale, deve prendere in
considerazione un altro aspetto. Deve, per meglio dire, comprendere per tempo il
possibile impatto di un avvenimento sulla sfera dell'immaginario, il suo
potenziale diventare oggetto di una rielaborazione collettiva che coinvolga
-presente o meno ad esso - lo stesso proletariato metropolitano. È in
quest'ottica che, pur nella lontananza dalla cultura delle principali realtà
organizzate del movimento che si suole definire no global, non si è
esitato a considerare assolutamente centrale Genova 2001. E ciò non rimanda solo
alla distinzione tra le masse in piazza e la leadership. Tale distinzione, a
rigore, viene fatta anche da gruppi di impianto teorico tradizionale ma
desiderosi di conquistarsi un posto al sole, magari attraverso la più classica
delle battaglie per l'egemonia. Ora, è vero che tali gruppi si rivelano più
intelligenti di certi settori provenienti dall'area dell'ex Autonomia,
che arrivano quasi ad ostentare disprezzo verso il movimento diffuso
identificandolo tout court con i suoi "portavoce". E risulta evidente pure che
gli attuali epigoni del marxismo-leninismo si collocano spesso una spanna al di
sopra di componenti che in grado, fino a poco tempo fa, di rivendicare internità
al sociale, ora, non avendo rinnovato prassi e analisi, non riescono più ad
esprimere un punto di vista sulla realtà, né a dare vita a forme d'azione tali
da appagare il bisogno di radicalità diffuso in un piccolo ma significativo
settore dei no global. Ma se gli "emmelle", in questo contesto, rivelano
sicuramente intelligenza, ciò non vuol dire che essi siano in grado di cogliere
l'essenza del problema. Essi, a nostro avviso, rimangono al di qua di
quell'ordine di valutazioni che ci ha permesso di prevedere che le giornate di
Genova potessero risolversi in una rappresentazione simbolica della
ricomposizione di classe. Ora, tale intuizione rivela che più che
nell'adoperarci in una ragionevole ma ovvia distinzione tra il movimento diffuso
e i suoi leader, il nostro tentativo consiste nel valorizzare certe scadenze
intendendole, sulla scia di Raffaele Sbardella, in quanto appuntamenti
metropolitani.
Momenti, cioè, in cui i diversi segmenti di un proletariato quanto mai
frastagliato, possano giungere ad una vera e propria fusione e in cui le
diversità - senza essere soppresse - siano ricondotte ad unità nell'azione.
Momenti che rimandano, quindi, al definirsi di un autentico "soggetto
collettivo" e proprio in un’accezione che, derivando anche dalla impostazione di
Jean Paul Sartre,
distingua tra l'assemblea, luogo in cui si esprimono le differenze ed il
passaggio di piazza, in cui il processo fusionale determina l'irrompere di una
sola volontà. Di fronte ad eventi in cui la suddetta dinamica arrivi, in tutto o
in parte, a svilupparsi, una realtà come la nostra non può che ribadire la sua
filosofia. Il definirsi di un momento fusionale, deve spingere ad un agire che
ne inveri nella quotidianità il carico di valenze simboliche, l'esplicita
allusione ad una ricomposizione possibile. Si tratta di saldare il legame tra
l'accadimento eccezionale e la dinamica sociale di tutti i giorni, con le sue
mille vertenze nei luoghi di lavoro, con le sue mille battaglie territoriali sui
bisogni. E qui entra ancora una volta in campo - ma con nuove implicazioni -
l'attività di collegamento che sinora ha costituito uno degli oggetti del nostro
discorso. Un'attività, dunque, che nelle grandi occasioni di piazza non trova un
diversivo, un momento di distrazione dal proprio sforzo quotidiano o di
autentico turismo politico, bensì un elemento di rafforzamento. La prova
provata, da discutere con i proletari con i quali si è in contatto, che l'unità
tra gli sfruttati non è impossibile, essendo stata già prefigurata in specifici
momenti di piazza.
Questa, quindi, è stata la bussola che ci ha
orientato di fronte a certi episodi. Di fronte, per rimanere all'esempio
iniziale, a quel luglio 2001 a Genova, le cui potenzialità sono state colte
anche dall'apparato repressivo dello Stato. Se si sono avute cruente
manifestazioni di quella che chiamiamo "controrivoluzione preventiva" non è
certo in virtù dei contenuti espliciti dei cortei, ancorati alle parole d'ordine
di uno sviluppo ecocompatibile o, addirittura - in certi spezzoni - della
riforma della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Quel che si è
considerato, o anche semplicemente sentito, dall'altra parte della barricata, è
che Genova costituiva una primissima rappresentazione dell'unità del
proletariato universale. Altro che il commento sprezzante del vecchio militante
che, nella piazza, non ritrova gli slogan cui è affezionato! Gli accadimenti di
Genova dovrebbero stimolare le strutture effettivamente operanti a ripensare i
propri atteggiamenti ed orientamenti di fondo. Soprattutto: se lo Stato, il
potere costituito dimostrano di intuire le potenzialità di certi eventi, chi
sente l'esigenza di una trasformazione radicale dell'esistente, deve giungere ad
una comprensione profonda degli stessi. Così abbiamo ragionato in occasione di
momenti di piazza successivi al luglio 2001 e da esso, a prima vista, distanti
come il 23 marzo ed il 16 aprile 2002. Ed anzi, in quelle circostanze, da parte
nostra, si è avuto modo di precisare le ragioni di un modo di fare che -
risultando lontanissimo da ogni ecumenismo di comodo - vuol superare qualsiasi
inutile steccato, qualsiasi ridicolo settarismo da micro-organizzazione politica
e/o sociale paga dei propri piccoli raggiungimenti. Per farci capire, però,
entriamo nel merito. Il 23 marzo ha visto: Roma invasa dai lavoratori, gli
applausi scroscianti all'allora leader CGIL Cofferati, la diserzione della più
parte del sindacalismo di base. Questo è risultato al primo sguardo
dell'osservatore politicizzato, interno a certi "giri". Ma chi ha cercato di
calarsi dentro a quell'avvenimento, per comprenderne appieno il senso, si è
imbattuto in scoperte sorprendenti. Ne sono testimonianza eloquente, per quanto
estremamente parziale, le interviste qui raccolte. Nella quali emerge, a tratti,
una radicalità difficilmente sospettabile da chi abbia scambiato le posizioni
realmente diffuse nella piazza con le proposte ufficiali della CGIL. Se è certo
che il piccolo spaccato qui presentato non rivela, in modo diretto, che gli
umori di una parte infinitesimale della piazza, è anche vero che esso può avere
carattere emblematico. Lo può capire chi, anche nella più classica delle
attività di diffusione dei propri materiali, si sia impegnato a percorrere in
lungo e largo quel corteo, osservandolo senza pregiudizi legati alla propria
appartenenza politico-organizzativa. Muovendo da una tale disposizione d'animo,
infatti, è risultato facile registrare che nella piazza si rifiutava la
precarietà in quanto tale, che non si lottava solo per difendere le proprie
posizioni ma anche per estenderle ad altri. È stato un errore non da poco,
dunque, quello di gran parte del sindacalismo di base, che - disertando il
corteo del 23 marzo - ha perso la possibilità di interloquire con chi
concretamente lo animava. Preparandosi il terreno per un successivo momento,
puntualmente verificatosi, e non difficile da prevedere. Quello in cui Cofferati,
dimessi i panni del rivoluzionario, è giunto a precisare la sua filosofia di
fondo, rivelando la sua internità all'ipotesi -già formulata da Bruno Trentin -
di gestione da parte sindacale della modernità. Un'ipotesi che, nel frangente
attuale, coincide integralmente col cosiddetto governo della flessibilità. Ora,
essere in qualche modo interni al 23 marzo poteva rappresentare un tassello
decisivo nella graduale costruzione di un'alternativa complessiva alla strategia
della CGIL. Anche perché si sarebbe gettato un ponte tra diversi comparti del
proletariato tanto più utile in un momento in cui il sindacalismo di base,
magari senza averne piena coscienza, è riuscito a realizzare uno tra i suoi più
rilevanti successi. È riuscito a far scendere in piazza per la prima volta - nei
suoi grandi cortei del 2002, tra i quali quello del 16 aprile qui documentato-
i nuovi settori, le nuove figure sociali figlie di anni di riforma del mercato
del lavoro: gli interinali, i co.co.co. Il che già di per sé non è poco, ma
rimanda anche ad altro rispetto a quanto è immediatamente percepibile. A
rappresentarsi come "precari in lotta" in quegli splendidi cortei, sono stati,
spesso, gli stessi giovani che nei grandi raduni no global manifestano
contro le regole del commercio internazionale e lo strapotere delle
multinazionali, in solidarietà con gli indios latinoamericani o con i contadini
filippini. In sostanza, si sono poste le basi di un significativo salto in
avanti del movimento che contesta, periodicamente, i meeting dei "grandi". Le
componenti proletarie ad esso interne, legate prevalentemente alle nuove figure
sociali, hanno iniziato a percepirsi per quello che sono, smentendo peraltro
quei gruppi che, poco informati sulla attuale composizione di classe, non
vedendo operai nei cortei no global, li ritenevano frequentati esclusivamente da
piccolo-borghesi. Ma non è dimostrare i limiti di certi settori militanti il
principale traguardo raggiunto. Si sta iniziando a capire che con gli sfruttati
di altre latitudini non basta essere genericamente solidali, perché - pur se
ancor peggiori sono altrove le condizioni di lavoro e di vita - comune a tutti/e
è il nemico.
La radicalizzazione, l'evoluzione del movimento
diffuso o di suoi settori verso lidi di autentico anticapitalismo, non sono più
scenari improbabili.
Valutazioni ardue, si dirà con qualche ragione.
Ma anche valutazioni che non nascono da illazioni o da schemi astratti, non
comprovati da una specifica prassi sociale. Sono le testimonianze raccolte, le
corrispondenze che ci giungono dai luoghi dello sfruttamento che forniscono il
materiale per le nostre generalizzazioni. Testimonianze e corrispondenze che non
sono altro che le articolazioni quotidiane di quella che non si esita a definire
inchiesta permanente. Volendo con ciò intendere un'inchiesta che
usa altri strumenti rispetto a quello - comunque di notevole utilità, data la
portata complessiva - del questionario. Certo, i mezzi in questione ottengono
risultati più parziali rispetto a quelli dell'inchiesta con la i maiuscola, che
peraltro non si esclude di portare avanti - nei prossimi anni - in alcuni luoghi
di lavoro. Però gli strumenti "leggeri" di cui stiamo parlando, proprio perché
di facile utilizzazione, consentono un contatto più costante con i soggetti
sociali, una verifica continua dei dati. Il tutto nella piena fedeltà a due
obiettivi ultimi a suo tempo specificati da Raniero Panzieri in "Uso
socialista dell'inchiesta operaia". Il primo sostanzia la cosiddetta
"inchiesta a caldo", svolta in un momento di conflitto, che risulta utile, per
usare le parole dell'esponente dei Quaderni Rossi, per "studiare in
che maniera cambia il sistema di valori che l'operaio esprime in periodi
normali, quali valori si sostituiscono con consapevolezza di alternativa, quali
scompaiono in quei momenti, perché ci sono dei valori che l'operaio possiede in
periodi normali e che non possiede più in periodi di conflitto di classe e
viceversa".
Di più, per Panzieri si trattava, in ultima
analisi, di "studiare in che misura è possibile cogliere in concreto la
dinamica attraverso la quale la classe operaia tende a passare dal conflitto
all'antagonismo". Ora, se si raccolgono testimonianze di lotta da un luogo
di lavoro ove si siano già sviluppati contatti in "tempi di pace", si riuscirà a
registrare i salti di coscienza collettivi da una situazione all'altra. E -
nell'evolversi del conflitto - si avrà modo di verificare come si risponde ai
problemi che di volta in volta si vanno a presentare, attraverso quale di essi
passi la spinta ad una maggiore radicalità o alla rottura vera e propria. E così
abbiamo evidenziato il primo momento di vicinanza, pur nelle nostre forme,
peraltro non definitive, con l'elaborazione di Panzieri. Ora si tratta di
passare al secondo obiettivo che, tra gli altri individuati da questo grande
teorico, condividiamo e cerchiamo -nei nostri limiti - di perseguire. Esso
rimanda al tentativo di sfuggire, attraverso la conoscenza raggiunta con
l'inchiesta, a qualsiasi visione mitica del proletariato. È ovvio che non si
pretende di dire di aver superato qualsiasi velo ideologico si frapponga ad una
autentica comprensione del reale. Si vuol semplicemente indicare un proposito,
che non può rimanere nella sfera delle intenzioni, ma che va praticato,
conquistato nel quotidiano. Sì, conquistato. Dentro un processo nel quale il
militante, superando convinzioni poco fondate, modifica il suo punto di vista,
arrivando a trasformarsi. Ma, a ben vedere, non solo il militante, nella
dinamica presa in considerazione, giunge ad un diverso modo di concepire la
realtà. Quella interazione costante tra soggetti che è, in ultima analisi,
l'inchiesta, nel momento stesso in cui libera noi dai preconcetti, riesce a
spingere gli sfruttati raggiunti da essa ad una maggiore attività
autoriflessiva. Un'attività che ha una manifestazione importante già nell'atto
stesso di fornire la testimonianza, che coincide col raccogliere e
sistematizzare le impressioni sulla condizione che si vive. Ma il discorso va
oltre. E, tra l'altro, richiamando ad una prassi di inchiesta che "lavori a
fondo" sul tema della soggettività, rinvia ad apporti teorici diversi da quello
di Panzieri. Ciò perché anche la singola testimonianza rimanda ad un contesto
relazionale forte. A un prima e, soprattutto, a un dopo, in cui si sviluppa un
dialogo tra chi la fornisce e chi l’ascolta in prima istanza. Tali intensi
momenti di scambio raccolgono l'istanza di fondo della "conricerca", per come
essa veniva intesa da Danilo Montaldi. Il militante che vi partecipa conosce
dalla voce di chi la vive, una lotta in corso o la situazione in un determinato
luogo di lavoro e, nello stesso tempo, inizia a fornire alle persone con le
quali interloquisce elementi su altre realtà con le quali ha intessuto un
rapporto. Si svolge in tal senso una funzione che va oltre il mettere in
comunicazione due o più lotte. Perché quel ch'egli sviluppa assieme ai soggetti
che gli raccontano la propria condizione, è una vera e propria comparazione tra
esperienze. Come si vede, stiamo parlando di una attività che, per quanto
semplice nel suo svolgersi, si fonda su un'operazione politico-teorica
ambiziosa. Cioè sul tentativo di sintetizzare la lezione che viene da due
"scuole": quella dei Quaderni Rossi e quella che si lega all'esperienza,
cui diedero vita Montaldi ed altri, di Unità Proletaria di Cremona. Di
più, l'idea di fondo è che si possa muovere da questa ottica per dare luogo ad
una prassi duttile, capace di assumere qualsiasi curvatura, di aderire
immediatamente alle pieghe del reale, ai diversi sentieri intrapresi dalle
esplosioni conflittuali. Di qui l'uso di strumenti agili, di qui l'adozione dei
più diversi mezzi di comunicazione: il giornale, la trasmissione radiofonica, da
poco tempo anche l'audiovisivo…
Il tutto rimanda ad una esperienza multiforme,
eppure avviata in un'unica direzione. Specificando la quale, si può tornare sul
concetto, precedentemente sviluppato, di struttura politica come "funzione della
classe", per ultimare un discorso ancora non totalmente sviscerato. Per
evidenziare che la definizione in questione non esclude che la soggettività
politica porti avanti un preciso punto di vista. Esso, però, che coincide con la
"direzione" appena accennata, non nasce dalle "pensate geniali" dei compagni, ma
dal loro rapporto con la storia. Il militante, come sosteneva
Danilo Montaldi, vive una dimensione temporale particolare. Vive, cioè, in un
"passato/futuro" che solo lui conosce, che soltanto a lui appartiene. E che
rimanda al fatto che la sua tensione al futuro, al rovesciamento dell'ordine
vigente, si nutre di memoria, fa riferimento anche ad essa quando occorre
prendere posizione rispetto ai problemi del presente. E qui ci avviciniamo ad un
nodo di assoluto rilievo e di una certa complessità; s'inizia a parlare, cioè,
di quell'esperienza proletaria che proprio nel "passato/futuro"
vissuto dai militanti riesce ad affiorare o ad irrompere con facilità.
Producendosi in una spinta che non solo non va mai frenata, ma che va
interrogata di continuo, perché -pur non fornendo soluzioni bell'e pronte ai
problemi dell'oggi - può rischiarare il presente quanto agli orientamenti da
seguire in certe circostanze. Per fare un esempio: è l'esperienza proletaria a
dirci che il primo imperialismo da combattere è quello di casa propria. Ciò,
nell'oggi, trova traduzione concreta nella campagna contro il nascente
imperialismo europeo, nella certezza che esso sarà mosso non da un astratto
ideale di giustizia planetaria, ma dalla volontà di contendere posizioni alla
potenza dominante, a scapito dei proletari d'ogni dove, agnelli sacrificali del
futuro scontro UE-USA. Ora, tale illuminante esempio, che rivela quanto la
rielaborazione di una pluridecennale esperienza proletaria possa incidere sul
nostro attuale punto di vista, non può però essere svilito. Non può spingere a
credere che noi si faccia riferimento ad un campionario di precetti, solo da
adattare un pochino ai diversi contesti. L'esperienza proletaria, per come
qui la si intende, è anche - e si direbbe quasi soprattutto - retaggio,
tradizione, momento di consapevolezza che può derivare da lotte passate delle
quali non si è spenta l'eco. In questo senso, essa può non essere
appannaggio esclusivo dei militanti. I quali, magari, sono portatori di una
conoscenza complessiva della stessa, laddove realtà collettive di lavoratori
risultano partecipi di una sua parte. Una parte, un segmento di memoria che non
rendono lo sfruttato sempre e comunque in grado di sviluppare uno sguardo che
vada oltre il presente, di costruirsi una propria dimensione temporale. Ma che
gli aprono comunque possibilità infinite e lo rendono pienamente interno
all'altra faccia dell'esperienza proletaria, quella che il più delle volte
sfugge alle realtà organizzate. Perché il frammento di memoria effettivamente
posseduto viene fatto agire immediatamente su un problema attuale, viene messo a
confronto con le acquisizioni dovute all'andamento di una vertenza, diventa, con
i suoi suggerimenti, parte di un armamentario che comprende gli strumenti di
lotta affinati oggi e quelli definiti ieri. Di più, se ancora non fa possedere
il futuro, spinge lo sfruttato, non più inerme di fronte al padrone perché
dotato di un sapere elaborato da sé, a prepararlo.
È continua fonte di sorprese, dunque,
l'esperienza proletaria. Alle
volte fa uscire dal dimenticatoio modi della conflittualità sepolti sotto strati
di compatibilità. In altre occasioni, integra strumenti del passato, della cui
origine si ha un'idea parziale, con gli arnesi dell'odierna pratica quotidiana.
È compito nostro favorire l'incontro tra questi saperi, comprendendo - di contro
alla naturale superbia del militante - che non v'è ordine gerarchico tra di
essi. Perché anzi non vi è nulla di più utile alla preparazione di un futuro
diverso della continua rielaborazione di forme di lotta del passato svolta in
conflitti attuali. Spesso nelle singole lotte si verificano commistioni tra
passato e presente che sarebbe necessario trasformare in prassi generalizzate. E
la conoscenza reciproca tra i diversi fronti rivendicativi, tra le pratiche e i
frammenti di memoria che vi si esprimono, potenzia ognuno di essi. Lo salva dal
rivendicazionismo puro. Invero, questo concetto lo abbiamo già accennato, si
tratta ora di esplorarlo. Di legarlo al nostro nuovo oggetto: la memoria. Il
collegamento tra le memorie è lo snodo attraverso il quale passa l'acquisizione
collettiva della complessiva esperienza proletaria, intesa come storico
patrimonio di lotte e di indicazioni. Un patrimonio che, finalmente, risulta
pronto per dare linfa allo scontro sociale attuale, superando la dimensione
ancora astratta in cui si colloca quando risulta compreso, nella sua interezza,
solo da militanti e strutture. Che hanno dato un apporto significativo,
trasmettendo memoria, facendo comunicare tra loro frammenti d'una tradizione. Ma
in questo modo hanno permesso un superamento anche del loro approccio, anche
della loro visione. Perché così collettivamente si è entrati in una nuova
dimensione, dove non solo il passato e il futuro, ma anche la memoria ed il
presente arrivano a completa fusione.
In Russia nel 1917, nel vivo di un fuoco
rivoluzionario si ripresentarono i Soviet, nati dalla gloriosa esperienza di 12
anni prima. Un esperienza che era stata già in grado di modificare anche se
purtroppo in modo parziale, il punto di vista dell'avanguardia spingendo a
riconsiderare il ruolo dell'organizzazione politica, a relativizzare quei testi
che, - come il "Che fare?" leniniano nel 1902 - avevano posto l'accento sulla
necessità di portare la coscienza "dall'esterno della lotta". Nel futuro
prossimo chissà quali forme di lotta, di organizzazione spontanea di classe
affioreranno nelle espressioni conflittuali, sospingendole verso il vero e
proprio antagonismo. E chissà come si modificherà il modo di sentire la realtà
da parte del militante e attraverso quale dinamica sarà indotto ad abbandonare
il suo ruolo abituale, agendo da elemento interno alla massa che lotta e,
considerando tali pure le strutture cui fa riferimento. Quel che si sa è che le
infinite possibilità dell'esperienza proletaria non possono cogliersi qualora
non si tenga presente delle condizioni che offre il territorio in cui si agisce,
ossia la metropoli. Soffermandoci un attimo su questo argomento, vogliamo
partire da un aspetto che è ormai impossibile trascurare. Vogliamo cioè, muovere
dalla constatazione che lo spazio metropolitano è ormai contraddistinto dalla
presenza di un autentico proletariato universale, nel quale è forte la presenza
di immigrati provenienti da ogni dove. Molti di loro sono portatori di
precedenti esperienze di lotta. Tutti poi detengono saperi, culture che possono
attraversare, permeare il conflitto che si dispiega nelle nostre grandi città.
Ora tenendo conto di ciò, si può comprendere
qual è il senso che diamo al rapporto con gli/le immigrate, che per noi è sempre
stato centrale, come risulta anche da questo opuscolo. In termini generali
possiamo dire che nel relazionarci a questo soggetto sociale abbiamo cercato di
evitare i pericoli insiti in due opposte ed altrettanto discutibili posizioni,
molto diffuse nei settori militanti. La prima è quella che vede negli immigrati
"oggetti" della nostra solidarietà, di cui sostenere le lotte per i diritti
nell'ambito di una generica "battaglia di civiltà". La seconda, invece,
risultando interna ad una ipotesi di ricomposizione di classe, può in linea di
massima ritenersi condivisibile, ma ha il torto di peccare di schematismo e di
scarsa concretezza. Gli/le immigrate in quest’ottica sono visti come un segmento
della classe, ma senza prendere in considerazione i loro problemi specifici,
quasi non ci fossero per loro questioni come il permesso di soggiorno. Dal
nostro punto di vista considerare gli/le immigrate interni al proletariato, non
significa non vedere quegli elementi che segnandone la quotidianità li scindono
dal resto della classe. Né tanto meno negare le peculiarità organizzative e
culturali intrinseche alle singola comunità. Non a caso spesso si va ad
interloquire con associazioni costituite dagli immigrati stessi. Il detto "vieni
con me che autorganizzo anche te", assai diffuso tra le strutture politiche, non
ci appartiene. Piuttosto ci sentiamo interni alla logica del confronto, anche
serrato, con ipotesi organizzative e tradizioni di lotta diverse. Uno scambio
questo che risulta utile qualora si voglia favorire il superamento del
particolarismo delle singole comunità. Che, invece rischia di mantenersi se
viene contrastato verbalmente, sulla base di una negazione delle differenze che
lascia tutto così com'è e svaluta un patrimonio culturale che invece dovrebbe
essere per noi del massimo interesse.
A partire da queste considerazioni, possiamo
meglio spiegare i termini del rapporto che si cerca di sviluppare con gli
immigrati. Collegare le loro lotte con quelle di altri soggetti sociali
significa, in buona sostanza, far parlare fra di loro mondi diversi, differenti
visioni del conflitto. In sostanza, si tratta di arricchire l'esperienza
proletaria, di farle assumere una connotazione ancora più complessiva,
rendendola finalmente esperienza del proletariato universale. Ora, siffatta
articolata trama di tradizioni conflittuali, una volta costruita, mediante il
collegamento, lo scambio, il dialogo, può informare di sé le lotte che già i
proletari immigrati sostengono con gli altri, ad esempio rispetto alla questione
delle abitazioni. Se si pensa alle case occupate si arriva alla conclusione che
esse sono già sperimentazione continua della coesistenza tra differenze. Quanto
gioverebbe a situazioni del genere un contesto di proficua compenetrazione tra
saperi provenienti da mondi diversi? E sin qui si è approfondito solo un aspetto
di un possibile, nuovo rapporto con gli/le immigrati/e. Si prenda ora in
considerazione il piano, strettamente collegato a quanto stiamo trattando,
dell'internazionalismo. Esso non può più essere degradato a sostegno
estemporaneo alla lotta di liberazione che va di moda in un dato periodo, con
tanto di avvicendamento di miti (Marcos, Ocalan, Barghouti) che rimanderebbero a
realtà da comprendere e che sono al più consumate, senza dare neanche una
parvenza di senso a certo scadenzismo. Di contro a questa logica, si vuole qui
affermare che sforzo internazionalista e attività volta all'unificazione delle
lotte che si svolgono nel territorio metropolitano non possono che coincidere.
Ciò alla luce dell'attuale composizione del
proletariato metropolitano. Infatti unificare i suoi segmenti, vuol dire dare un
effettivo contributo alla ricomposizione di classe su scala planetaria. A ben
vedere, un corteo che nella nostra metropoli coinvolga i proletari italiani e di
tutte le altre nazionalità risulta essere già una raffigurazione, concreta e
simbolica ad un tempo, della forza che potrebbe sprigionarsi in virtù di
uno stabile collegamento tra gli sfruttati di ogni angolo del
globo. Ed anche l'opposizione a certi episodi, come i probabili futuri
momenti della guerra preventiva le nuove missioni coloniali yankee o - prendendo
a riferimento il continente africano - francesi, deve tradursi in manifestazioni
partecipate dal proletariato universale. Altrimenti non si sfruttano le nuove
possibilità connesse all’attuale vissuto delle metropoli. Non si valorizza il
fatto che ormai tutte risultano essere un po' "il mondo intero". E non solo nei
paesi a capitalismo avanzato, ma anche in quelli che si usa definire "in via di
sviluppo". Lo si può vedere comparandole. Nelle metropoli dei cosiddetti paesi
sviluppati, in seguito ad oltre un ventennio di ristrutturazione industriale, si
disloca, permeandone l'intero territorio, la produzione di merci. In tali
agglomerati urbani, un proletariato multietnico è diviso nelle mille
articolazioni della produzione decentrata, segmentato in un incredibile
molteplicità di forme contrattuali ed attraversato, infine, dalla netta linea di
separazione tra chi è cittadino e chi non lo è, tra gli immigrati e gli altri.
Ora tale frammentata classe crea diversi luoghi di incontro, uno per figura
sociale, uno per nazionalità. Ma svolgere un attività di aggregazione che superi
le divisioni, con tutte le difficoltà del caso, non riesce impossibile. E chiama
in causa la sperimentazione. Nelle metropoli di quelli che vengono chiamati
"paesi in via di sviluppo", segnati da una costante crescita demografica,
l'esser presente "il mondo intero" vuol dire qualcosa di simile e di diverso
rispetto a quanto poc'anzi evidenziato. Rimandando alla valutazione del ruolo
che le stesse esercitano nel mercato mondiale. Stiamo parlando degli effetti di
quella che suole definirsi, adottando un termine più valido sul piano
descrittivo che su quello analitico, globalizzazione. In sostanza non stiamo
affrontando una realtà del tutto inedita. Ciò che si ha di fronte non è che
l'intensificazione di quei processi di costante internazionalizzazione del
capitale che già Marx aveva saputo individuare e spiegare. E che ora sembrano
ancor meno arrestabili che al tempo suo non limitandosi più a comprendere
nell'universale mercato delle merci manufatti che, realizzati con tecniche
produttive precapitalistiche, risultavano in passato legati alla mera
autosussistenza di comunità isolate dal resto del pianeta. Ormai infatti, anche
l'osservatore meno attento si rende conto del fatto che le parti più avanzate
della produzione possono ritrovarsi anche in alcune delle aree "arretrate", sia
pure nel contesto di economie dipendenti, sotto il controllo delle imprese
multinazionali nostrane. Ciò, accanto al più tradizionale fenomeno della
estrazione, anch'essa controllata da capitalisti stranieri, di risorse minerarie
da far lavorare alle industrie di altri paesi, rafforza il rapporto fra i PVS ed
il mercato mondiale. Un rapporto che - qui sta il punto - si serve di punti
d'appoggio ben individuabili coincidenti con le metropoli. Le quali
rappresentano un po' i satelliti del mercato mondiale , coinvolgendo in esso le
aree più lontane, ponendo in comunicazione col mondo intero le lande più
sperdute.
Certo l'internità alla complessa - ed in
continuo sommovimento - realtà del capitalismo mondiale, si attua diversamente
zona per zona dei paesi in via di sviluppo. Alcune mantengono comunque modalità
produttive tradizionali. Altre risultano raggiunte da un processo che,
introducendo la produzione capitalistica vera e propria, ne sconvolge
l'originario assetto, ne distrugge il tessuto sociale. Tutte comunque sono, come
si diceva, in rapporto con le metropoli dei PVS, le quali svolgendo
coerentemente il loro ruolo raccolgono anche l'immigrazione interna,
proveniente, cioè, dalle suddette aree. Si pensi ad Abidjan in Costa d'Avorio,
colma delle genti di tutti i paesi circonvicini.
Ma questi elementi, desunti dall'osservazione
di una realtà globale, collocano di nuovo un piccolo intervento come il nostro,
facendogli assumere ulteriori valenze. Si, perché è indubbio che lo sforzo di
cui siamo portatori è volto al definirsi di un soggetto collettivo nella nostra
metropoli. Ma è anche vero che le reti della comunicazione planetaria che
collegano fra loro le grandi città da un lato ed il rapporto che si sviluppa qui
con gli immigrati dall'altro, consentono di mettere le nostre fatiche in
relazione con quelle di strutture che operano in altri contesti. Di più: è
possibile che si costituisca un soggetto collettivo a livello mondiale,
attraverso passaggi di piazza partecipati dal proletariato universale
Appuntamenti metropolitani tra loro collegati,
volti ad un medesimo obiettivo, possono svolgersi quasi simultaneamente a Roma,
New York, Kuala Lumpur, Delhi, Abidjan, Lagos, Buenos Aires, Quito. Tanti
momenti di piazza possono cioè comporne uno solo, tale da alludere al compimento
dell'unità tra gli sfruttati a livello planetario. In fondo lo stesso 15
febbraio 2003, si fosse svolto in una condizione di maggiore forza del
proletariato universale, di una sua maggiore autonomia dalla sinistra
istituzionale, avrebbe potuto rimandare allo scenario appena evocato. Ma così
non è stato: lorsignori, forzandone il significato, approfittando di una
debolezza che è anche quella dei militanti che la pensano diversamente, sono
riusciti a farne l'atto costitutivo del popolo europeo, il momento di massimo
sostegno di piazza all'UE contro gli States. Il che chiama tutti a prendere atto
delle proprie mancanze e ad interrogarsi sui propri strumenti di lavoro.
Da parte nostra siamo coscienti del fatto che
un'attività come quella di Corrispondenze metropolitane, non costituisce
in ultima analisi più che un frammento. Che, se anche fosse meno sperso,
rinviando alla prassi di migliaia di persone nelle metropoli di ogni angolo del
globo, risulterebbe sempre parziale.
Perché le grandezze che abbiamo suggerito, gli
ordini di problemi su cui abbiamo sollecitato la riflessione, impongono uno
sforzo notevole alla creatività collettiva. Spingono, cioè, ad una costante
attività di reinvenzione di un patrimonio e di valorizzazione delle scoperte
dell'oggi. Ancora una volta si deve rinviare all'esperienza proletaria nella sua
molteplicità, nel suo essere passato che non passa e storia che si fa nel
quotidiano. Non è un caso se molti ritengono che per creare un ambito dove si
stabilizzi un attività di collegamento come la nostra, occorra tornare ad un
luogo vecchio quasi quanto il movimento operaio: la camera del lavoro, ora detta
del lavoro metropolitano . Chissà se tale forma sarà idonea a fare da collettore
delle spinte proprie alle diverse componenti della classe, chissà se coinciderà
con la quotidiana assemblea in cui mille voci possono confrontarsi per dare vita
a momenti di organizzazione, di fusione collettiva.
Vi è una sola certezza: essa sarà così simile al
passato, ai primi tentativi di aggregazione di classe, da risultare inedita.
Come ogni nuovo inizio. Come la spinta al superamento dell'esistente che, tra
ostacoli e contrasti, si sta sviluppando nelle città del mondo.
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