Ultimo Aggiornamento : 28-10-2003 : Last Release
Nei segni che confondono la borghesia, la nobiltà e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione! - KARL MARX -
 
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Introduzione.
Per costruire percorsi di inchiesta nelle metropoli del proletariato universale

 

Proponiamo qui l'introduzione al volume Crimini invisibili. Storie e lotte proletarie (4 euro, 64 pp. copertina a colori) Per acquistare il volume clicca qui a sinistra sull' immagine "i nostri libri".

Immigrate che lavorano come colf e badanti; operai della Fiat di Cassino; inquilini del centro di Roma; precari delle biblioteche comunali; le diverse figure sociali presenti nei gradi cortei romani del 23 marzo e del 16 aprile 2002. Questo lo spaccato che emerge dal presente opuscolo. Suggerendo, nei limiti del possibile, il carattere multiforme del proletariato presente nelle nostre metropoli. E cercando di dare anche un'idea, certo parziale, dell'attività di Corrispondenze metropolitane. Cioè di un'esperienza che - sia pure in un cammino non privo di difficoltà- ha saputo interagire a vari livelli con significativi segmenti del mondo del lavoro e con varie lotte per i bisogni nel territorio di riferimento: Roma ed il suo hinterland, nonché i luoghi ad essa legati da specifici nessi, produttivi, amministrativi e culturali. Peraltro questo rapporto, ha avuto sempre la sua prima manifestazione nella raccolta di testimonianze legate alla condizione e alle rivendicazioni dei soggetti sociali raggiunti. Ora, siffatta attività si è realizzata nelle forme più diverse, quasi tutte prese in considerazione in questa pubblicazione. Dove troviamo il testo di una video-intervista, ma anche brani tratti da un giornale ("Corrispondenze metropolitane", appunto), nonché trascrizioni di trasmissioni radiofoniche. Nel nostro percorso abbiamo utilizzato tutti i possibili mezzi di comunicazione, cercando di valorizzarne le potenzialità documentarie e riflessive. Però in principio, giova ricordarlo per misurare un cammino che qui, nella parzialità dei materiali riprodotti, trova un'efficace esemplificazione, si dava maggior rilievo ad uno strumento piuttosto che ad altri. Corrispondenze metropolitane nasce come giornale, anzi, per usare la dicitura originaria, come Rivista di controinformazione e di inchiesta. Autodefinendosi, all'alba della sua attività e per un cospicuo tempo, come redazione e non, come accade attualmente, in quanto collettivo. Si è fatto dunque un salto in avanti di cui bisogna parlare, se ci si propone l'obiettivo di meglio collocare questa esperienza. Quel che va da subito rilevato è che il salto cui si allude non rimanda a nessuna cesura all'interno di un cammino semmai segnato dalla continuità. Mai, d'altra parte, in una realtà in continuo sommovimento, i percorsi, soprattutto collettivi, possono evitare repentini sbalzi o battute d'arresto. Il nostro s'è sempre legato ad una progettualità che le difficoltà incontrate sul campo hanno portato ad assumere in modo più problematico e che i successi ottenuti hanno spinto a riconfermare senza enfasi. Ciò significa che i mutamenti intercorsi nella attività che si va qui descrivendo, pur non segnalando fratture, non rimandano a mere questioni tecniche. La stessa alternanza di mezzi di comunicazione che ha connotato l'agire di CM, muove dalla precisa constatazione del loro non essere "neutrali", da una attenta valutazione delle specifiche prerogative di ognuno di essi. Una trasmissione radiofonica può essere il luogo dell'approfondimento fino ad un certo punto, ma ha la capacità di far entrare chi ascolta nel vivo di una lotta, con una immediatezza comunicativa non riscontrabile in altri medium. Un audiovisivo, soprattutto se elaborato, può ottenere un risultato notevole sul piano della narrazione di un vissuto proletario, restituendone la molteplicità di aspetti nella misura in cui ci fa giungere a un tempo voci e sguardi, parole e gesti. La varietà degli elementi significanti gli conferisce dunque grandi potenzialità. Se poi i soggetti sociali coinvolti controllano la realizzazione del video sino alla fine, dicendo la loro sulle immagini da selezionare, sulle scelte di montaggio, ci si inoltra sul proficuo terreno dell'autonarrazione. Non solo: l'esemplificazione circa le possibili finalizzazioni dei diversi mezzi di comunicazione potrebbe durare a lungo. Ma non proseguiremo su questo terreno, perché con tutta la sua importanza nel motivare le nostre scelte, non giustifica appieno il passaggio da redazione a collettivo. E se l'ordine di valutazioni appena accennato venisse considerato a sé stante, sganciato dai problemi di natura teorico-politica che a breve affronteremo, potrebbe indurre ad equivoci. Facendo pensare che dalle nostre parti ormai si svaluti quell'attività dello scrivere che dà pur sempre la possibilità di cogliere il senso ultimo di un avvenimento, di analizzare con precisione l'esito di una vertenza. O spingendo a credere che non vi fosse un'apertura verso altri strumenti già dal principio. Supposizione, questa, smentita dai fatti. Di uno spazio radiofonico (Crimini invisibili, su Radio Onda Rossa) si è disposto quasi dall'inizio, potendo comprendere presto, quindi, quanto possa essere avvolgente, per l'ascoltatore, una testimonianza di lotta resa via etere. La "multimedialità” ci è appartenuta dai primi passi, ma poi il tempo e l'esperienza l'hanno sospinta, rendendola coessenziale ad un processo che ha visto la progressiva assunzione di un ruolo sempre più marcatamente politico, il graduale profilarsi di un protagonismo che non ha mai tradito le originarie aspirazioni. Racchiuse in una definizione, o meglio autodefinizione, che può sorprendere. Noi, abbiamo già avuto modo di scriverlo, consideriamo la nostra struttura e l'attività da essa posta in essere, come "funzione della classe". Il che può spiazzare non solo per motivi di contenuto, ma perché colloca Corrispondenze metropolitane lontano dai codici linguistici in uso nel movimento, componenti radicali incluse. Qualcuno, forse,  scorgerà, in un modo di presentarsi così anomalo, l’influenza dell'elaborazione di un dirigente (e teorico) del PSI dei primi anni '50 del secolo scorso: Rodolfo Morandi. Ma a questa intuizione occorrerà aggiungere la comprensione del significato che diamo alla definizione di cui sopra, degli slittamenti di senso introdotti nell'originaria formulazione morandiana. La quale risulta tutta interna alla tematica del partito, anzi vede in esso la "funzione della classe" in grado di esprimerne ed accompagnarne i movimenti, le istanze[1]. Ora, si tratta di una posizione comunque avanzata nel tempo in cui si delineò e che si va a rielaborare nella consapevolezza di agire in un contesto diverso ed alla luce di precise esperienze storiche. Esperienze che spingono ad una riformulazione complessiva del nodo dell'organizzazione, muovendo dalla constatazione ch'esso non può più essere risolto con l'invocazione del partito. Si deve giungere a non considerare perennemente valida nessuna forma organizzativa, sempre interrogandosi sulla sua adeguatezza alla vigente situazione sociale e produttiva. In tal senso non basta più neanche l'illuminata proposta di Morandi. Essa, va sottolineato, aveva il merito di far vivere (solo teoricamente, data la concreta prassi del partito di riferimento) l'ipotesi allora controcorrente di un'organizzazione che si concepisse in un rapporto né di supremazia né di carattere pedagogico con i soggetti sociali di riferimento. Tutto il contrario del Partito nuovo togliattiano, l'educatore che non accettava di essere educato e che ergeva sé stesso al di sopra di ogni cosa, istanze di classe comprese. Tutto il contrario, quindi, di quel  primato della politica che,  applicato altrove, da quei "partiti fratelli" dell’est che detenevano per intero il potere dello Stato, assunse le mostruose sembianze di una dittatura sui bisogni. Certo, da noi non poté essere così. Ma, come si accennava, il diverso modo di intendere l’organizzazione cui qui si fa riferimento non ebbe concretizzazione. Rimase come stimolo riflessivo e come elemento della formazione di futuri innovatori della cultura del movimento operaio, quali Raniero Panzieri ed altri. Tuttavia oggi, sfrondato di alcuni elementi contingenti, come il richiamo al partito leninista, ritorna a noi rivelando la straordinaria attualità del suo movente ultimo. Movente che ci appartiene; non solo l'organizzazione che verrà -risultato di un lungo processo di aggregazione proletaria- sarà funzione della classe. Ma anche i militanti, anche le strutture che operano nell'oggi debbono essere e dirsi tali. Non si può dunque pensare sé stessi come "cellule" di futuri Partiti cui guadagnare settori di classe da coinvolgere in un progetto che né hanno definito né potranno modificare. Men che meno le strutture attualmente in piedi possono pretendere di sovrapporre il loro punto di vista a quello dei soggetti sociali. Essi ne esprimeranno il movimento, le istanze, i bisogni; cercando di creare le condizioni affinché gli sfruttati possano far emergere il loro punto di vista.

Tutto ciò implica l'abbandono del modo di percepirsi che, quasi sempre, contraddistingue i militanti, a prescindere dalle loro opzioni teoriche. Infatti, anche quando si professano libertari, essi tendono ad assolutizzare il proprio ruolo, di rado riconoscendolo nel creare le condizioni - mediante l'agitazione, l'attività di trasmissione della memoria - affinché un movimento, non appena sviluppato, assuma il più possibile certe caratteristiche, sospinga la lotta verso lidi di autentica radicalità. Purtroppo, il più delle volte i militanti si pensano come coloro che ai movimenti danno vita,  provando un senso di smarrimento ogni qualvolta scoppi qualcosa fuori dal loro controllo e dalle loro coordinate. In sostanza domina l'idea di sé come "facitori della storia" e non si avverte che non ci si può proporre in certi termini neanche quando si è interni ad una lotta dal principio. Anche in quel caso non si crea il movimento. Lo si accompagna, spingendolo in nuove direzioni, aspettando le verifiche fornite dai fatti per stimolare la riflessione collettiva. E, soprattutto, si cerca di mettere in comunicazione la propria lotta con quella di altri. È un imperativo, quest'ultimo. Lo è quando si vive dal di dentro un conflitto. Lo è, ancor di più, quando si agisce come struttura che ad esso si relaziona dall'esterno, senza attribuirsi il compito di portare la coscienza alle lotte. Ponendosi invece l'obiettivo di favorirne l'avanzamento attraverso la presa di contatto con esperienze simili, seppur legate a categorie o a figure sociali diverse. È essenziale che chi lotta capisca che non è solo, che la sua condizione lo accomuna a molti, anche a chi - dopo anni di scomposizione di classe - verrebbe "naturale" pensare come estraneo a sé, perché ha un altro contratto, un'altra collocazione produttiva. In tal senso, il militante ha un ruolo forte e di non secondaria importanza. Ma quanto si sta descrivendo rimanda ad una dimessa attività quotidiana, tale da concedere poco al personalismo deteriore, ancorato alla mentalità, come s’è detto, dominante. Non solo, la prassi di cui stiamo parlando ha anche la peculiarità di risultare lontana dal fragore mediatico di quei grandi eventi su cui solo sembra appuntarsi l'interesse delle forze organizzate della sinistra critica o antagonista. In realtà, dal nostro punto di vista, l'impegno costante e la presenza in momenti che sono - o che vengono percepiti - come cruciali, non dovrebbero escludersi a vicenda. Non casualmente, nella breve storia di Corrispondenze metropolitane non si riscontrano accenti moralistici nella considerazione dei grandi avvenimenti che portano masse enormi di persone a contestare l'esistente. Al limite, il nostro tentativo è sempre stato quello di analizzarli, di cogliere le specificità di ciascuno di essi. Per capire in quali forme e con quale impegno esservi presenti. Una valutazione, questa, fortemente legata al rapporto che con certe scadenze sviluppano i soggetti sociali di riferimento. Quindi, una valutazione complessa, che oltre a tenere conto della partecipazione reale, deve prendere in considerazione un altro aspetto. Deve, per meglio dire, comprendere per tempo il possibile impatto di un avvenimento sulla sfera dell'immaginario, il suo potenziale diventare oggetto di una rielaborazione collettiva che coinvolga -presente o meno ad esso - lo stesso proletariato metropolitano. È in quest'ottica che, pur nella lontananza dalla cultura delle principali realtà organizzate del movimento che si suole definire no global, non si è esitato a considerare assolutamente centrale Genova 2001. E ciò non rimanda solo alla distinzione tra le masse in piazza e la leadership. Tale distinzione, a rigore, viene fatta anche da gruppi di impianto teorico tradizionale ma desiderosi di conquistarsi un posto al sole, magari attraverso la più classica delle battaglie per l'egemonia. Ora, è vero che tali gruppi si rivelano più intelligenti di certi settori provenienti dall'area dell'ex Autonomia, che arrivano quasi ad ostentare disprezzo verso il movimento diffuso identificandolo tout court con i suoi "portavoce". E risulta evidente pure che gli attuali epigoni del marxismo-leninismo si collocano spesso una spanna al di sopra di componenti che in grado, fino a poco tempo fa, di rivendicare internità al sociale, ora, non avendo rinnovato prassi e analisi, non riescono più ad esprimere un punto di vista sulla realtà, né a dare vita a forme d'azione tali da appagare il bisogno di radicalità diffuso in un piccolo ma significativo settore dei no global. Ma se gli "emmelle", in questo contesto, rivelano sicuramente intelligenza, ciò non vuol dire che essi siano in grado di cogliere l'essenza del problema. Essi, a nostro avviso, rimangono al di qua di quell'ordine di valutazioni che ci ha permesso di prevedere che le giornate di Genova potessero risolversi in una rappresentazione simbolica della ricomposizione di classe. Ora, tale intuizione rivela che più che nell'adoperarci in una ragionevole ma ovvia distinzione tra il movimento diffuso e i suoi leader, il nostro tentativo consiste nel valorizzare certe scadenze intendendole, sulla scia di Raffaele Sbardella, in quanto appuntamenti metropolitani[2]. Momenti, cioè, in cui i diversi segmenti di un proletariato quanto mai frastagliato, possano giungere ad una vera e propria fusione e in cui le diversità - senza essere soppresse - siano ricondotte ad unità nell'azione. Momenti che rimandano, quindi, al definirsi di un autentico "soggetto collettivo" e proprio in un’accezione che, derivando anche dalla impostazione di Jean Paul Sartre,[3]  distingua tra  l'assemblea, luogo in cui si esprimono le differenze ed il passaggio di piazza, in cui il processo fusionale determina l'irrompere di una sola volontà. Di fronte ad eventi in cui la suddetta dinamica arrivi, in tutto o in parte, a svilupparsi, una realtà come la nostra non può che ribadire la sua filosofia. Il definirsi di un momento fusionale, deve spingere ad un agire che ne inveri nella quotidianità il carico di valenze simboliche, l'esplicita allusione ad una ricomposizione possibile. Si tratta di saldare il legame tra l'accadimento eccezionale e la dinamica sociale di tutti i giorni, con le sue mille vertenze nei luoghi di lavoro, con le sue mille battaglie territoriali sui bisogni. E qui entra ancora una volta in campo - ma con nuove implicazioni - l'attività di collegamento che sinora ha costituito uno degli oggetti del nostro discorso. Un'attività, dunque, che nelle grandi occasioni di piazza non trova un diversivo, un momento di distrazione dal proprio sforzo quotidiano o di autentico turismo politico, bensì un elemento di rafforzamento. La prova provata, da discutere con i proletari con i quali si è in contatto, che l'unità tra gli sfruttati non è impossibile, essendo stata già prefigurata in specifici momenti di piazza.

Questa, quindi, è stata la bussola che ci ha orientato di fronte a certi episodi. Di fronte, per rimanere all'esempio iniziale, a quel luglio 2001 a Genova, le cui potenzialità sono state colte anche dall'apparato repressivo dello Stato. Se si sono avute cruente manifestazioni di quella che chiamiamo "controrivoluzione preventiva" non è certo in virtù dei contenuti espliciti dei cortei, ancorati alle parole d'ordine di uno sviluppo ecocompatibile o, addirittura - in certi spezzoni - della riforma della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Quel che si è considerato, o anche semplicemente sentito, dall'altra parte della barricata, è che Genova costituiva una primissima rappresentazione dell'unità del proletariato universale. Altro che il commento sprezzante del vecchio militante che, nella piazza, non ritrova gli slogan cui è affezionato! Gli accadimenti di Genova dovrebbero stimolare le strutture effettivamente operanti a ripensare i propri atteggiamenti ed orientamenti di fondo. Soprattutto: se lo Stato, il potere costituito dimostrano di intuire le potenzialità di certi eventi, chi sente l'esigenza di una trasformazione radicale dell'esistente, deve giungere ad una comprensione profonda degli stessi. Così abbiamo ragionato in occasione di momenti di piazza successivi al luglio 2001 e da esso, a prima vista, distanti come il 23 marzo ed il 16 aprile 2002. Ed anzi, in quelle circostanze, da parte nostra, si è avuto modo di precisare le ragioni di un modo di fare che - risultando lontanissimo da ogni ecumenismo di comodo - vuol superare qualsiasi inutile steccato, qualsiasi ridicolo settarismo da micro-organizzazione politica e/o sociale paga dei propri piccoli raggiungimenti. Per farci capire, però, entriamo nel merito. Il 23 marzo ha visto: Roma invasa dai lavoratori, gli applausi scroscianti all'allora leader CGIL Cofferati, la diserzione della più parte del sindacalismo di base. Questo è risultato al primo sguardo dell'osservatore politicizzato, interno a certi "giri". Ma chi ha cercato di calarsi dentro a quell'avvenimento, per comprenderne appieno il senso, si è imbattuto in scoperte sorprendenti. Ne sono testimonianza eloquente, per quanto estremamente parziale, le interviste qui raccolte. Nella quali emerge, a tratti, una radicalità difficilmente sospettabile da chi abbia scambiato le posizioni realmente diffuse nella piazza con le proposte ufficiali della CGIL. Se è certo che il piccolo spaccato qui presentato non rivela, in modo diretto, che gli umori di una parte infinitesimale della piazza, è anche vero che esso può avere carattere emblematico. Lo può capire chi, anche nella più classica delle attività di diffusione dei propri materiali, si sia impegnato a percorrere in lungo e largo quel corteo, osservandolo senza pregiudizi legati alla propria appartenenza politico-organizzativa. Muovendo da una tale disposizione d'animo, infatti, è risultato facile registrare che nella piazza si rifiutava la precarietà in quanto tale, che non si lottava solo per difendere le proprie posizioni ma anche per estenderle ad altri. È stato un errore non da poco, dunque, quello di gran parte del sindacalismo di base, che - disertando il corteo del 23 marzo - ha perso la possibilità di interloquire con chi concretamente lo animava. Preparandosi il terreno per un successivo momento, puntualmente verificatosi, e non difficile da prevedere. Quello in cui Cofferati, dimessi i panni del rivoluzionario, è giunto a precisare la sua filosofia di fondo, rivelando la sua internità all'ipotesi  -già formulata da Bruno Trentin - di gestione da parte sindacale della modernità. Un'ipotesi che, nel frangente attuale, coincide integralmente col cosiddetto governo della flessibilità. Ora, essere in qualche modo interni al 23 marzo poteva rappresentare un tassello decisivo nella graduale costruzione di un'alternativa complessiva alla strategia della CGIL. Anche perché si sarebbe gettato un ponte tra diversi comparti del proletariato tanto più utile in un momento in cui il sindacalismo di base, magari senza averne piena coscienza, è riuscito a realizzare uno tra i suoi più rilevanti successi. È riuscito a far scendere in piazza per la prima volta - nei suoi grandi cortei del 2002, tra i quali quello del 16 aprile qui documentato-  i nuovi settori, le nuove figure sociali figlie di anni di riforma del mercato del lavoro: gli interinali, i co.co.co. Il che già di per sé non è poco, ma rimanda anche ad altro rispetto a quanto è immediatamente percepibile. A rappresentarsi come "precari in lotta" in quegli splendidi cortei, sono stati, spesso, gli stessi giovani che nei grandi raduni no global manifestano contro le regole del commercio internazionale e lo strapotere delle multinazionali, in solidarietà con gli indios latinoamericani o con i contadini filippini. In sostanza, si sono poste le basi di un significativo salto in avanti del movimento che contesta, periodicamente, i meeting dei "grandi". Le componenti proletarie ad esso interne, legate prevalentemente alle nuove figure sociali, hanno iniziato a percepirsi per quello che sono, smentendo peraltro quei gruppi che, poco informati sulla attuale composizione di classe, non vedendo operai nei cortei no global, li ritenevano frequentati esclusivamente da piccolo-borghesi. Ma non è dimostrare i limiti di certi settori militanti il principale traguardo raggiunto. Si sta iniziando a capire che con gli sfruttati di altre latitudini non basta essere genericamente solidali, perché - pur se ancor peggiori sono altrove le condizioni di lavoro e di vita - comune a tutti/e è il nemico.

La radicalizzazione, l'evoluzione del movimento diffuso o di suoi settori verso lidi di autentico anticapitalismo, non sono più scenari improbabili.

Valutazioni ardue, si dirà con qualche ragione. Ma anche valutazioni che non nascono da illazioni o da schemi astratti, non comprovati da una specifica prassi sociale. Sono le testimonianze raccolte, le corrispondenze che ci giungono dai luoghi dello sfruttamento che forniscono il materiale per le nostre generalizzazioni. Testimonianze e corrispondenze che non sono altro che le articolazioni quotidiane di quella che non si esita a definire inchiesta permanente. Volendo con ciò intendere un'inchiesta che usa altri strumenti rispetto a quello - comunque di notevole utilità, data la portata complessiva - del questionario. Certo, i mezzi in questione ottengono risultati più parziali rispetto a quelli dell'inchiesta con la i maiuscola, che peraltro non si esclude di portare avanti - nei prossimi anni - in alcuni luoghi di lavoro. Però gli strumenti "leggeri" di cui stiamo parlando, proprio perché di facile utilizzazione, consentono un contatto più costante con i soggetti sociali, una verifica continua dei dati. Il tutto nella piena fedeltà a due obiettivi ultimi a suo tempo specificati da Raniero Panzieri in "Uso socialista dell'inchiesta operaia". Il primo sostanzia la cosiddetta "inchiesta a caldo", svolta in un momento di conflitto, che risulta utile, per usare le parole dell'esponente dei Quaderni Rossi, per "studiare in che maniera cambia il sistema di valori che l'operaio esprime in periodi normali, quali valori si sostituiscono con consapevolezza di alternativa, quali scompaiono in quei momenti, perché ci sono dei valori che l'operaio possiede in periodi normali e che non possiede più in periodi di conflitto di classe e viceversa".

Di più, per Panzieri si trattava, in ultima analisi, di "studiare in che misura è possibile cogliere in concreto la dinamica attraverso la quale la classe operaia tende a passare dal conflitto all'antagonismo". Ora, se si raccolgono testimonianze di lotta da un luogo di lavoro ove si siano già sviluppati contatti in "tempi di pace", si riuscirà a registrare i salti di coscienza collettivi da una situazione all'altra. E - nell'evolversi del conflitto - si avrà modo di verificare come si risponde ai problemi che di volta in volta si vanno a presentare, attraverso quale di essi passi la spinta ad una maggiore radicalità o alla rottura vera e propria. E così abbiamo evidenziato il primo momento di vicinanza, pur nelle nostre forme, peraltro non definitive, con l'elaborazione di Panzieri. Ora si tratta di passare al secondo obiettivo che, tra gli altri individuati da questo grande teorico, condividiamo e cerchiamo -nei nostri limiti - di perseguire. Esso rimanda al tentativo di sfuggire, attraverso la conoscenza raggiunta con l'inchiesta, a qualsiasi visione mitica del proletariato. È ovvio che non si pretende di dire di aver superato qualsiasi velo ideologico si frapponga ad una autentica comprensione del reale. Si vuol semplicemente indicare un proposito, che non può rimanere nella sfera delle intenzioni, ma che va praticato, conquistato nel quotidiano. Sì, conquistato. Dentro un processo nel quale il militante, superando convinzioni poco fondate, modifica il suo punto di vista, arrivando a trasformarsi. Ma, a ben vedere, non solo il militante, nella dinamica presa in considerazione, giunge ad un diverso modo di concepire la realtà. Quella interazione costante tra soggetti che è, in ultima analisi, l'inchiesta, nel momento stesso in cui libera noi dai preconcetti, riesce a spingere gli sfruttati raggiunti da essa ad una maggiore attività autoriflessiva. Un'attività che ha una manifestazione importante già nell'atto stesso di fornire la testimonianza, che coincide col raccogliere e sistematizzare le impressioni sulla condizione che si vive. Ma il discorso va oltre. E, tra l'altro, richiamando ad una prassi di inchiesta che "lavori a fondo" sul tema della soggettività, rinvia ad apporti teorici diversi da quello di Panzieri. Ciò perché anche la singola testimonianza rimanda ad un contesto relazionale forte. A un prima e, soprattutto, a un dopo, in cui si sviluppa un dialogo tra chi la fornisce e chi l’ascolta in prima istanza. Tali intensi momenti di scambio raccolgono l'istanza di fondo della "conricerca", per come essa veniva intesa da Danilo Montaldi. Il militante che vi partecipa conosce dalla voce di chi la vive, una lotta in corso o la situazione in un determinato luogo di lavoro e, nello stesso tempo, inizia a fornire alle persone con le quali interloquisce elementi su altre realtà con le quali ha intessuto un rapporto. Si svolge in tal senso una funzione che va oltre il mettere in comunicazione due o più lotte. Perché quel ch'egli sviluppa assieme ai soggetti che gli raccontano la propria condizione, è una vera e propria comparazione tra esperienze. Come si vede, stiamo parlando di una attività che, per quanto semplice nel suo svolgersi, si fonda su un'operazione politico-teorica ambiziosa. Cioè sul tentativo di sintetizzare la lezione che viene da due "scuole": quella dei Quaderni Rossi e quella che si lega all'esperienza, cui diedero vita Montaldi ed altri, di Unità Proletaria di Cremona. Di più, l'idea di fondo è che si possa muovere da questa ottica per dare luogo ad una prassi duttile, capace di assumere qualsiasi curvatura, di aderire immediatamente alle pieghe del reale, ai diversi sentieri intrapresi dalle esplosioni conflittuali. Di qui l'uso di strumenti agili, di qui l'adozione dei più diversi mezzi di comunicazione: il giornale, la trasmissione radiofonica, da poco tempo anche l'audiovisivo…

Il tutto rimanda ad una esperienza multiforme, eppure avviata in un'unica direzione. Specificando la quale, si può tornare sul concetto, precedentemente sviluppato, di struttura politica come "funzione della classe", per ultimare un discorso ancora non totalmente sviscerato. Per evidenziare che la definizione in questione non esclude che la soggettività politica porti avanti un preciso punto di vista. Esso, però, che coincide con la "direzione" appena accennata, non nasce dalle "pensate geniali" dei compagni, ma dal loro rapporto con la storia. Il militante, come sosteneva Danilo Montaldi, vive una dimensione temporale particolare. Vive, cioè, in un "passato/futuro" che solo lui conosce, che soltanto a lui appartiene. E che rimanda al fatto che la sua tensione al futuro, al rovesciamento dell'ordine vigente, si nutre di memoria, fa riferimento anche ad essa quando occorre prendere posizione rispetto ai problemi del presente. E qui ci avviciniamo ad un nodo di assoluto rilievo e di una certa complessità; s'inizia a parlare, cioè, di quell'esperienza proletaria che proprio nel "passato/futuro" vissuto dai militanti riesce ad affiorare o ad irrompere con facilità. Producendosi in una spinta che non solo non va mai frenata, ma che va interrogata di continuo, perché -pur non fornendo soluzioni bell'e pronte ai problemi dell'oggi - può rischiarare il presente quanto agli orientamenti da seguire in certe circostanze. Per fare un esempio: è l'esperienza proletaria a dirci che il primo imperialismo da combattere è quello di casa propria. Ciò, nell'oggi, trova traduzione concreta nella campagna contro il nascente imperialismo europeo, nella certezza che esso sarà mosso non da un astratto ideale di giustizia planetaria, ma dalla volontà di contendere posizioni alla potenza dominante, a scapito dei proletari d'ogni dove, agnelli sacrificali del futuro scontro UE-USA. Ora, tale illuminante esempio, che rivela quanto la rielaborazione di una pluridecennale esperienza proletaria possa incidere sul nostro attuale punto di vista, non può però essere svilito. Non può spingere a credere che noi si faccia riferimento ad un campionario di precetti, solo da adattare un pochino ai diversi contesti. L'esperienza proletaria, per come qui la si intende, è anche - e si direbbe quasi soprattutto - retaggio, tradizione, momento di consapevolezza che può derivare da lotte passate delle quali non si è spenta l'eco. In questo senso, essa può non essere appannaggio esclusivo dei militanti. I quali, magari, sono portatori di una conoscenza complessiva della stessa, laddove realtà collettive di lavoratori risultano partecipi di una sua parte. Una parte, un segmento di memoria che non rendono lo sfruttato sempre e comunque in grado di sviluppare uno sguardo che vada oltre il presente, di costruirsi una propria dimensione temporale. Ma che gli aprono comunque possibilità infinite e lo rendono pienamente interno all'altra faccia dell'esperienza proletaria, quella che il più delle volte sfugge alle realtà organizzate. Perché il frammento di memoria effettivamente posseduto viene fatto agire immediatamente su un problema attuale, viene messo a confronto con le acquisizioni dovute all'andamento di una vertenza, diventa, con i suoi suggerimenti, parte di un armamentario che comprende gli strumenti di lotta affinati oggi e quelli definiti ieri. Di più, se ancora non fa possedere il futuro, spinge lo sfruttato, non più inerme di fronte al padrone perché dotato di un sapere elaborato da sé, a prepararlo.

È continua fonte di sorprese, dunque, l'esperienza proletaria. Alle volte fa uscire dal dimenticatoio modi della conflittualità sepolti sotto strati di compatibilità. In altre occasioni, integra strumenti del passato, della cui origine si ha un'idea parziale, con gli arnesi dell'odierna pratica quotidiana. È compito nostro favorire l'incontro tra questi saperi, comprendendo - di contro alla naturale superbia del militante - che non v'è ordine gerarchico tra di essi. Perché anzi non vi è nulla di più utile alla preparazione di un futuro diverso della continua rielaborazione di forme di lotta del passato svolta in conflitti attuali. Spesso nelle singole lotte si verificano commistioni tra passato e presente che sarebbe necessario trasformare in prassi generalizzate. E la conoscenza reciproca tra i diversi fronti rivendicativi, tra le pratiche e i frammenti di memoria che vi si esprimono, potenzia ognuno di essi. Lo salva dal rivendicazionismo puro. Invero, questo concetto lo abbiamo già accennato, si tratta ora di esplorarlo. Di legarlo al nostro nuovo oggetto: la memoria. Il collegamento tra le memorie è lo snodo attraverso il quale passa l'acquisizione collettiva della complessiva esperienza proletaria, intesa come storico patrimonio di lotte e di indicazioni. Un patrimonio che, finalmente, risulta pronto per dare linfa allo scontro sociale attuale, superando la dimensione ancora astratta in cui si colloca quando risulta compreso, nella sua interezza, solo da militanti e strutture. Che hanno dato un apporto significativo, trasmettendo memoria, facendo comunicare tra loro frammenti d'una tradizione. Ma in questo modo hanno permesso un superamento anche del loro approccio, anche della loro visione. Perché così collettivamente si è entrati in una nuova dimensione, dove non solo il passato e il futuro, ma anche la memoria ed il presente arrivano a completa fusione.

In Russia nel 1917, nel vivo di un fuoco rivoluzionario si ripresentarono i Soviet, nati dalla gloriosa esperienza di 12 anni prima. Un esperienza che era stata già in grado di modificare anche se purtroppo in modo parziale, il punto di vista dell'avanguardia spingendo a riconsiderare il ruolo dell'organizzazione politica, a relativizzare quei testi che, - come il "Che fare?" leniniano nel 1902 - avevano posto l'accento sulla necessità di portare la coscienza "dall'esterno della lotta". Nel futuro prossimo chissà quali forme di lotta, di organizzazione spontanea di classe affioreranno nelle espressioni conflittuali, sospingendole verso il vero e proprio antagonismo. E chissà come si modificherà il modo di sentire la realtà da parte del militante e attraverso quale dinamica sarà indotto ad abbandonare il suo ruolo abituale, agendo da elemento interno alla massa che lotta e, considerando tali pure le strutture cui fa riferimento. Quel che si sa è che le infinite possibilità dell'esperienza proletaria non possono cogliersi qualora non si tenga presente delle condizioni che offre il territorio in cui si agisce, ossia la metropoli. Soffermandoci un attimo su questo argomento, vogliamo partire da un aspetto che è ormai impossibile trascurare. Vogliamo cioè, muovere dalla constatazione che lo spazio metropolitano è ormai contraddistinto dalla presenza di un autentico proletariato universale, nel quale è forte la presenza di immigrati provenienti da ogni dove. Molti di loro sono portatori di precedenti esperienze di lotta. Tutti poi detengono saperi, culture che possono attraversare, permeare il conflitto che si dispiega nelle nostre grandi città.

Ora tenendo conto di ciò, si può comprendere qual è il senso che diamo al rapporto con gli/le immigrate, che per noi è sempre stato centrale, come risulta anche da questo opuscolo. In termini generali possiamo dire che nel relazionarci a questo soggetto sociale abbiamo cercato di evitare i pericoli insiti in due opposte ed altrettanto discutibili posizioni, molto diffuse nei settori militanti. La prima è quella che vede negli immigrati "oggetti" della nostra solidarietà, di cui sostenere le lotte per i diritti nell'ambito di una generica "battaglia di civiltà". La seconda, invece, risultando interna ad una ipotesi di ricomposizione di classe, può in linea di massima ritenersi condivisibile, ma ha il torto di peccare di schematismo e di scarsa concretezza. Gli/le immigrate in quest’ottica sono visti come un segmento della classe, ma senza prendere in considerazione i loro problemi specifici, quasi non ci fossero per loro questioni come il permesso di soggiorno. Dal nostro punto di vista considerare gli/le immigrate interni al proletariato, non significa non vedere quegli elementi che segnandone la quotidianità li scindono dal resto della classe. Né tanto meno negare le peculiarità organizzative e culturali intrinseche alle singola comunità. Non a caso spesso si va ad interloquire con associazioni costituite dagli immigrati stessi. Il detto "vieni con me che autorganizzo anche te", assai diffuso tra le strutture politiche, non ci appartiene. Piuttosto ci sentiamo interni alla logica del confronto, anche serrato, con ipotesi organizzative e tradizioni di lotta diverse. Uno scambio questo che risulta utile qualora si voglia favorire il superamento del particolarismo delle singole comunità. Che, invece rischia di mantenersi se viene contrastato verbalmente, sulla base di una negazione delle differenze che lascia tutto così com'è e svaluta un patrimonio culturale che invece dovrebbe essere per noi del massimo interesse.

A partire da queste considerazioni, possiamo meglio spiegare i termini del rapporto che si cerca di sviluppare con gli immigrati. Collegare le loro lotte con quelle di altri soggetti sociali significa, in buona sostanza, far parlare fra di loro mondi diversi, differenti visioni del conflitto. In sostanza, si tratta di arricchire l'esperienza proletaria, di farle assumere una connotazione ancora più complessiva, rendendola finalmente esperienza del proletariato universale. Ora, siffatta articolata trama di tradizioni conflittuali, una volta costruita, mediante il collegamento, lo scambio, il dialogo, può informare di sé le lotte che già i proletari immigrati sostengono con gli altri, ad esempio rispetto alla questione delle abitazioni. Se si pensa alle case occupate si arriva alla conclusione che esse sono già sperimentazione continua della coesistenza tra differenze. Quanto gioverebbe a situazioni del genere un contesto di proficua compenetrazione tra saperi provenienti da mondi diversi? E sin qui si è approfondito solo un aspetto di un possibile, nuovo rapporto con gli/le immigrati/e. Si prenda ora in considerazione il piano, strettamente collegato a quanto stiamo trattando, dell'internazionalismo. Esso non può più essere degradato a sostegno estemporaneo alla lotta di liberazione che va di moda in un dato periodo, con tanto di avvicendamento di miti (Marcos, Ocalan, Barghouti) che rimanderebbero a realtà da comprendere e che sono al più consumate, senza dare neanche una parvenza di senso a certo scadenzismo. Di contro a questa logica, si vuole qui affermare che sforzo internazionalista e attività volta all'unificazione delle lotte che si svolgono nel territorio metropolitano non possono che coincidere.

Ciò alla luce dell'attuale composizione del proletariato metropolitano. Infatti unificare i suoi segmenti, vuol dire dare un effettivo contributo alla ricomposizione di classe su scala planetaria. A ben vedere, un corteo che nella nostra metropoli coinvolga i proletari italiani e di tutte le altre nazionalità risulta essere già una raffigurazione, concreta e simbolica ad un tempo, della forza che potrebbe sprigionarsi in virtù di uno stabile collegamento tra gli sfruttati di ogni angolo del globo. Ed anche l'opposizione a certi episodi, come i probabili futuri momenti della guerra preventiva le nuove missioni coloniali yankee o - prendendo a riferimento il continente africano - francesi, deve tradursi in manifestazioni partecipate dal proletariato universale. Altrimenti non si sfruttano le nuove possibilità connesse all’attuale vissuto delle metropoli. Non si valorizza il fatto che  ormai tutte risultano essere un po' "il mondo intero". E non solo nei paesi a capitalismo avanzato, ma anche in quelli che si usa definire "in via di sviluppo". Lo si può vedere comparandole. Nelle metropoli dei cosiddetti paesi sviluppati, in seguito ad oltre un ventennio di ristrutturazione industriale, si disloca, permeandone l'intero territorio, la produzione di merci. In tali agglomerati urbani, un proletariato multietnico è diviso nelle mille articolazioni della produzione decentrata, segmentato in un incredibile molteplicità di forme contrattuali ed attraversato, infine, dalla netta linea di separazione tra chi è cittadino e chi non lo è, tra gli immigrati e gli altri. Ora tale frammentata classe crea diversi luoghi di incontro, uno per figura sociale, uno per nazionalità. Ma svolgere un attività di aggregazione che superi le divisioni, con tutte le difficoltà del caso, non riesce impossibile. E chiama in causa la sperimentazione. Nelle metropoli di quelli che vengono chiamati "paesi in via di sviluppo", segnati da una costante crescita demografica, l'esser presente "il mondo intero" vuol dire qualcosa di simile e di diverso rispetto a quanto poc'anzi evidenziato. Rimandando alla valutazione del ruolo che le stesse esercitano nel mercato mondiale. Stiamo parlando degli effetti di quella che suole definirsi, adottando un termine più valido sul piano descrittivo che su quello analitico, globalizzazione. In sostanza non stiamo affrontando una realtà del tutto inedita. Ciò che si ha di fronte non è che l'intensificazione di quei processi di costante internazionalizzazione del capitale che già Marx aveva saputo individuare e spiegare. E che ora sembrano ancor meno arrestabili che al tempo suo non limitandosi più a comprendere nell'universale mercato delle merci manufatti che, realizzati con tecniche produttive precapitalistiche, risultavano in passato legati alla mera autosussistenza di comunità isolate dal resto del pianeta. Ormai infatti, anche l'osservatore meno attento si rende conto del fatto che le parti più avanzate della produzione possono ritrovarsi anche in alcune delle aree "arretrate", sia pure nel contesto di economie dipendenti, sotto il controllo delle imprese multinazionali nostrane. Ciò, accanto al più tradizionale fenomeno della estrazione, anch'essa controllata da capitalisti stranieri, di risorse minerarie da far lavorare alle industrie di altri paesi, rafforza il rapporto fra i PVS ed il mercato mondiale. Un rapporto che - qui sta il punto - si serve di punti d'appoggio ben individuabili coincidenti con le metropoli. Le quali rappresentano un po' i satelliti del mercato mondiale , coinvolgendo in esso le aree più lontane, ponendo in comunicazione col mondo intero le lande più sperdute.

Certo l'internità alla complessa - ed in continuo sommovimento - realtà del capitalismo mondiale, si attua diversamente zona per zona dei paesi in via di sviluppo. Alcune mantengono comunque modalità produttive tradizionali. Altre risultano raggiunte da un processo che, introducendo la produzione capitalistica vera e propria, ne sconvolge l'originario assetto, ne distrugge il tessuto sociale. Tutte comunque sono, come si diceva, in rapporto con le metropoli dei PVS, le quali svolgendo coerentemente il loro ruolo raccolgono anche l'immigrazione interna, proveniente, cioè, dalle suddette aree. Si pensi ad Abidjan in Costa d'Avorio, colma delle genti di tutti i paesi circonvicini.

 Ma questi elementi, desunti dall'osservazione di una realtà globale, collocano di nuovo un piccolo intervento come il nostro, facendogli assumere ulteriori valenze. Si, perché è indubbio che lo sforzo di cui siamo portatori è volto al definirsi di un soggetto collettivo nella nostra metropoli. Ma è anche vero che le reti della comunicazione planetaria che collegano fra loro le grandi città da un lato ed il rapporto che si sviluppa qui con gli immigrati dall'altro, consentono di mettere le nostre fatiche in relazione con quelle di strutture che operano in altri contesti. Di più: è possibile che si costituisca un soggetto collettivo a livello mondiale, attraverso passaggi di piazza partecipati dal proletariato universale

Appuntamenti metropolitani tra loro collegati, volti ad un medesimo obiettivo, possono svolgersi quasi simultaneamente a Roma, New York, Kuala Lumpur, Delhi, Abidjan, Lagos, Buenos Aires, Quito. Tanti momenti di piazza possono cioè comporne uno solo, tale da alludere al compimento dell'unità tra gli sfruttati a livello planetario. In fondo lo stesso 15 febbraio 2003, si fosse svolto in una condizione di maggiore forza del proletariato universale, di una sua maggiore autonomia dalla sinistra istituzionale, avrebbe potuto rimandare allo scenario appena evocato. Ma così non è stato: lorsignori, forzandone il significato, approfittando di una debolezza che è anche quella dei militanti che la pensano diversamente, sono riusciti a farne l'atto costitutivo del popolo europeo, il momento di massimo sostegno di piazza all'UE contro gli States. Il che chiama tutti a prendere atto delle proprie mancanze e ad interrogarsi sui propri strumenti di lavoro.

Da parte nostra siamo coscienti del fatto che un'attività come quella di Corrispondenze metropolitane, non costituisce in ultima analisi più che un frammento. Che, se anche fosse meno sperso, rinviando alla prassi di migliaia di persone nelle metropoli di ogni angolo del globo, risulterebbe sempre parziale.

Perché le grandezze che abbiamo suggerito, gli ordini di problemi su cui abbiamo sollecitato la riflessione, impongono uno sforzo notevole alla creatività collettiva. Spingono, cioè, ad una costante attività di reinvenzione di un patrimonio e di valorizzazione delle scoperte dell'oggi. Ancora una volta si deve rinviare all'esperienza proletaria nella sua molteplicità, nel suo essere passato che non passa e storia che si fa nel quotidiano. Non è un caso se molti ritengono che per creare un ambito dove si stabilizzi un attività di collegamento come la nostra, occorra tornare ad un luogo vecchio quasi quanto il movimento operaio: la camera del lavoro, ora detta del lavoro metropolitano . Chissà se tale forma sarà idonea a fare da collettore delle spinte proprie alle diverse componenti della classe, chissà se coinciderà con la quotidiana assemblea in cui mille voci possono confrontarsi per dare vita a momenti di organizzazione, di fusione collettiva.

Vi è una sola certezza: essa sarà così simile al passato, ai primi tentativi di aggregazione di classe, da risultare inedita. Come ogni nuovo inizio. Come la spinta al superamento dell'esistente che, tra ostacoli e contrasti, si sta sviluppando nelle città del mondo.     


 

1 L'elaborazione di Rodolfo Morandi al riguardo, può essere in effetti sintetizzata –come è stato fatto-  con la definizione di "Partito-funzione".

[2] Tale significativo apporto di Raffaele Sbardella ha trovato modo di esprimersi compiutamente sulle pagine di "Vis-à-vis, quaderni per l'autonomia di classe".

[3] La elaborazione del filosofo francese al riguardo, si ritrova in “Critica della ragione dialettica. Volume primo: Teoria degli insiemi pratici”.

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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