Ultimo Aggiornamento : 16-04-2003 : Last Release
Nei segni che confondono la borghesia, la nobilità e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione! - KARL MARX -
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Le appendici di "Nè pace nè guerra, rivoluzione"

 

Nè pace, nè guerra, rivoluzione! I comunisti e la guerra (da Marx ai giorni nostri). (pp.40. 2,50 euro) è richiedibile a giovanetalpa@tiscali.it oppure è acquistabile presso la libreria Calusca a Milano.

Presentiamo qui tre testi “classici”, che aiutano a inquadrare dal punto di vista comunista le questioni del disfattismo, del pacifismo, dell’internazionalismo.

Il primo testo, La situazione e i compiti dell’Internazionale Socialista, redatto da Lenin nell’autunno del 1914 e pubblicato sul giornale bolscevico Social-Demokrat nel fascicolo del 1 novembre 1914 (n.33), è uno dei primi scritti di Lenin dopo il crollo della II Internazionale. Il testo era già stato pubblicato in varie raccolte degli scritti del rivoluzionario russo. Viene qui riproposto perché in modo sintetico e sferzante si affronta la questione del passaggio dall’ opposizione alla guerra alla necessità di trasformare la guerra imperialista in guerra civile. L’opposizione alla guerra per Lenin, infatti, ha un qualche senso prima dello scoppio dei conflitti e mai dopo. Per Lenin, a questo punto, per dirla con una parola d’ordine, non è più questione né di pace né di guerra ma di rivoluzione: non è più questione di bloccare la macchina bellica imperialista, quanto di farla saltare.

Il secondo testo, Dichiarazione al Congresso contro la guerra di Amsterdam di Lev Trotsky è del 25 luglio 1932 e viene pubblicato per la prima volta in lingua italiana dalla GiovaneTalpa. Malgrado il testo risenta qua e là dei limiti e delle illusioni dell’impostazione trotskiana sulla questione russa, ci è parso meritevole di pubblicazione per la sua inconciliabile denuncia del pacifismo in ogni sua forma, in ogni sua variopinta colorazione e tonalità.

Infine riproponiamo un testo che, anche recentemente, è stato al centro di vivaci polemiche. Auschwitz, ovvero il grande alibi apparso per la prima volta nel numero 11 di Programme Communiste del 1960, assieme ad altri testi sempre collegati ai temi dell’Olocausto apparsi sulla stampa del Partito Comunista Internazionale nello stesso periodo, è stato utilizzato (e interpretato) sia dai fautori che dagli oppositori di una sorta di “neo-negazionismo di sinistra” (che in Italia ha fatto riferimento alla casa editrice Graphos) come “precursore”, appunto, di tali tendenze negazioniste. Lasciando che a tale proposito il lettore possa giudicare da sé, noi facciamoinvece rilevare come questo articolo rappresenti una portentosa denuncia del sistema capitalista in quanto tale: sia di quello antisemita e fascista che di quello filosionista o democratico. Non sfuggirà al lettore attento, che l’anonimo autore utilizzi nel testo citazioni e richiami a quell’umanesimo comunista, i cui afflati sono considerati solitamente estranei alla tradizione bordighiana.

Appendice

 

Presentiamo qui tre testi “classici”, che aiutano a inquadrare dal punto di vista comunista le questioni del disfattismo, del pacifismo, dell’internazionalismo.

Il primo testo, La situazione e i compiti dell’Internazionale Socialista, redatto da Lenin nell’autunno del 1914 e pubblicato sul giornale bolscevico Social-Demokrat nel fascicolo del 1 novembre 1914 (n.33), è uno dei primi scritti di Lenin dopo il crollo della II Internazionale. Il testo era già stato pubblicato in varie raccolte degli scritti del rivoluzionario russo. Viene qui riproposto perché in modo sintetico e sferzante si affronta la questione del passaggio dall’ opposizione alla guerra alla necessità di trasformare la guerra imperialista in guerra civile. L’opposizione alla guerra per Lenin, infatti, ha un qualche senso prima dello scoppio dei conflitti e mai dopo. Per Lenin, a questo punto, per dirla con una parola d’ordine, non è più questione né di pace né di guerra ma di rivoluzione: non è più questione di bloccare la macchina bellica imperialista, quanto di farla saltare.

Il secondo testo, Dichiarazione al Congresso contro la guerra di Amsterdam di Lev Trotsky è del 25 luglio 1932 e viene pubblicato per la prima volta in lingua italiana dalla GiovaneTalpa. Malgrado il testo risenta qua e là dei limiti e delle illusioni dell’impostazione trotskiana sulla questione russa, ci è parso meritevole di pubblicazione per la sua inconciliabile denuncia del pacifismo in ogni sua forma, in ogni sua variopinta colorazione e tonalità.

Infine riproponiamo un testo che, anche recentemente, è stato al centro di vivaci polemiche. Auschwitz, ovvero il grande alibi apparso per la prima volta nel numero 11 di Programme Communiste del 1960, assieme ad altri testi sempre collegati ai temi dell’Olocausto apparsi sulla stampa del Partito Comunista Internazionale nello stesso periodo, è stato utilizzato (e interpretato) sia dai fautori che dagli oppositori di una sorta di “neo-negazionismo di sinistra” (che in Italia ha fatto riferimento alla casa editrice Graphos) come “precursore”, appunto, di tali tendenze negazioniste. Lasciando che a tale proposito il lettore possa giudicare da sé, noi facciamoinvece rilevare come questo articolo rappresenti una portentosa denuncia del sistema capitalista in quanto tale: sia di quello antisemita e fascista che di quello filosionista o democratico. Non sfuggirà al lettore attento, che l’anonimo autore utilizzi nel testo citazioni e richiami a quell’umanesimo comunista, i cui afflati sono considerati solitamente estranei alla tradizione bordighiana.

 

LA SITUAZIONE E I COMPITI DELL'INTERNAZIONALE SOCIALISTA

La cosa più penosa nella crisi attuale è la vittoria del nazionalismo borghese, dello sciovinismo sulla maggioranza dei rappresentanti uffi­ciali del socialismo europeo. Non per niente i giornali borghesi di tutti i paesi ora si beffano di loro, ora li elogiano con condiscendenza. E non vi è compito più importante per chi voglia restare socialista, che quello di chiarire le cause della crisi socialista e di analizzare i compiti del­l’Internazionale.

C'è gente che ha paura di riconoscere questa verità, e cioè che la crisi, o più esattamente il fallimento della II Internazionale, è il falli­mento dell'opportunismo.

Essa si richiama, per esempio, all'unanimità dei socialisti francesi, al preteso completo spostamento delle vecchie frazioni del socialismo sulla questione dell'atteggiamento verso la guerra. Ma questi riferimenti sono inesatti,                                

La difesa della collaborazione delle classi, il ripudio dell'idea della rivoluzione socialista e dei metodi rivoluzionari di lotta, l'adattamento al nazionalismo borghese, il dimenticare il carattere storicamente tran­sitorio delle frontiere di una nazionalità o della patria, la trasformazione in feticcio della legalità borghese, la rinunzia al punto di vista di classe e alla lotta di classe per paura di allontanare da sé le “larghe masse della popolazione” (leggi piccola borghesia): queste sono, indubbia­mente, le basi ideologiche dell'opportunismo, Proprio su questo terreno è cresciuto l'attuale orientamento sciovinista, patriottico della maggior parte dei dirigenti della II Internazionale. La prevalenza di fatto, fra di loro, degli opportunisti è stata rilevata da tempo dalle più diverse parti, da diversi osservatori. La guerra ha soltanto rivelato con parti­colare rapidità e nettezza le reali proporzioni di questa prevalenza, Non può sorprendere che una crisi così straordinariamente acuta abbia pro­vocato una serie di nuovi schieramenti nelle vecchie frazioni. Ma in generale questi nuovi schieramenti riguardano solo gli individui. Le tendenze in seno al socialismo sono rimaste quelle di prima.

Non c'è piena unanimità fra i socialisti francesi. Lo stesso Vaillant, che segue la linea sciovinista insieme con Guesde, Plechanov, Hervé, ecc. deve riconoscere che riceve lettere da socialisti francesi i quali protestano dicendo che la guerra è una guerra imperialista e che la bor­ghesia francese ne è responsabile non meno delle altre. Non bisogna dimenticare che queste voci sono soffocate non solo dall'opportunismo trionfante, ma anche dalla censura militare. Fra gli inglesi, il gruppo Hyndman (i socialdemocratici inglesi, il Partito socialista britannico) è completamente caduto nello sciovinismo, come la maggioranza dei capi semiliberali delle Trade-Unions. Si oppongono allo sciovinismo MacDonald e Keir Hardie, del “Partito operaio indipendente” opportunista. È veramente un’eccezione alla regola. Ma alcuni socialdemocratici rivoluzionari, da molto tempo in lotta contro Hyndman, sono ora usciti dalle file del “Partito socialista britannico”. In Germania il quadro è chiaro; gli opportunisti hanno vinto, esultano, si trovano a loro agio. Il “centro”, con Kautsky alla testa, è ruzzolato verso l'opportunismo e lo difende con sofismi particolarmente ipocriti, volgari e presuntuosi. Dalle file dei socialdemocratici rivoluzionar! si fanno sentire le pro­teste di Mehring, di Pannekoek, di K. Liebknecht, di molte voci ano­nime in Germania e nella Svizzera tedesca. Anche in Italia i raggrup­pamenti sono chiari; gli ultraopportunisti, Bissolati e soci, sono per la “patria”, per Guesde, Vaillant, Plechanov, Hervé. I socialdemocratici rivoluzionari (“partito socialista”), con L’Avanti! alla testa, lottano, con l'appoggio della stragrande maggioranza degli operai più progrediti, con­tro lo sciovinismo, e denunciano gli interessi borghesi celati sotto gli appelli alla guerra. In Russia gli ultraopportunisti del campo dei li­quidatori hanno già fatto sentire la loro voce nelle conferenze e nella stampa per difendere Io sciovinismo. P. Maslov ed E. Smirnov difen­dono lo zarismo col pretesto di difendere la patria (la Germania, vedete un po’, minaccia di imporre “a noi”, “con la forza della spada”, dei trattati commerciali, mentre lo zarismo, certo, non ha soffocato e non soffoca, con la forza della spada, della frusta e della forca, la vita eco­nomica, politica e nazionale dei nove decimi della popolazione della Russia!), e giustificano l'entrata dei socialisti nei ministeri reazionari borghesi e il voto a favore dei crediti di guèrra oggi, a favore di nuovi armamenti domani!! Plechanov, che copre di francofilia il suo sciovi­nismo russo, e Aleksinskij sono ruzzolati anche loro nel nazionalismo. Martov, giudicando dal Golos di Parigi, ha l'atteggiamento piò corretto in questa compagnia, dato che combatte e lo sciovinismo tedesco e quello francese e si leva sia contro il Vorwärts che contro il signor Hyndman, e contro Maslov, ma ha paura, di dichiarare decisamente guerra all'opportunismo internazionale e al suo “più influente” difen­sore, il “centro” della socialdemocrazia tedesca. I tentativi di presen­tare il volontariato come l'attuazione dei compiti socialisti (cfr. la di­chiarazione del gruppo dei volontari russi a Parigi, socialdemocratici e socialisti-rivoluzionari, come pure dei socialdemocratici polacchi, di Le­der ecc.) hanno trovato un difensore solo in Plechanov, La maggior parte della sezione parigina del nostro partito ha condannato questi tentativi. I lettori possono vedere la posizione del CC del nostro partito dall'arti­colo di fondo di questo numero. Per quanto riguarda la storia della formulazione delle opinioni del nostro partito, dobbiamo, per evitare ma­lintesi, stabilire i seguenti fatti: un gruppo di mèmbri del nostro partito, superando immense difficoltà per ristabilire i legami organizzativi spez­zati dalla guerra, ha inizialmente elaborato delle “tesi” e le ha fatte circolare fra i compagni dal 6 all'8 settembre (nuovo calendario). Poi, per tramite dei socialdemocratici svizzeri, le ha fatte avere a due mèm­bri della Conferenza italo-svizzera di Lugano (27 settembre). Solo alla metà di ottobre si è riusciti a ristabilire legami e a formulare il punto di vista del Comitato centrale del partito. L'articolo di fondo di questo numero è la stesura definitiva delle “tesi”.                    

Questa è, in breve, la situazione nella socialdemocrazia europea e russa. Il fallimento dell'Intemazionale è evidente. La polemica di stampa fra socialisti francesi e tedeschi lo 'ha dimostrato definitivamente. Lo hanno riconosciuto non solo i socialdemocratici di sinistra (Mehring e la Bremer Bürger-Zeitung), ma anche gli organi moderati svizzeri (il Volksrecht). I tentativi di Kautsky di nascondere questo fallimento non sono che una vile scappatoia. E questo fallimento è precisamente il fal­limento dell'opportunismo, che si è rivelato prigioniero della borghesia.

La posizione della borghesia è chiara. Non meno chiaro è che gli opportunisti ripetono ciecamente i suoi argomenti. A quanto è detto nell'articolo di fondo si potrebbe forse ancora aggiungere la semplice menzione dei discorsi dileggiatori della Neue Zeit, secondo la quale l’internazionalismo sta proprio nel fatto che gli operai di un paese spa­rino contro gli operai di un altro in nome della difesa, della patria!

La questione della patria, risponderemo agli opportunisti non si può pone ignorando il carattere storico concreto della guerra attuale. È una guerra imperialistica, cioè una guerra dell'epoca del capitalismo sviluppatesi al massimo grado, dell'epoca della fine del capitalismo. La classe operaia deve inizialmente “costituirsi in nazione”, dice il Mani­festo comunista, indicando cosi in quali limiti e a quali condizioni noi riconosciamo la nazionalità e la patria come forme necessario del regime borghese e, di conseguenza, della patria borghese. Gli opportunisti tra­visano questa verità trasferendo ciò che è giusto per l’epoca del capi­talismo nascente all'epoca della fine del capitalismo. E a proposito di quest'epoca, dei compiti del proletariato nella lotta per l’abolizione non del feudalesimo, ma del capitalismo, il Manifesto comunista dice con chiarezza e precisione: “Gli operai non hanno patria”. Si capisce per­ché gli opportunisti abbiano paura di riconoscere questa verità del so­cialismo, abbiano perfino paura, nella maggior parte dei casi, di affron­tarla apertamente. Il movimento socialista non può vincere nei vecchi limiti della patria. Esso crea nuove forme superiori di convivenza umana, nelle quali le esigenze legittime e le aspirazioni progressive delle masse lavoratrici di ogni nazionalità saranno per la prima volta soddisfatte nell'unità internazionale, a condizione che vengano abolite le attuali fron­tiere nazionali. Ai tentativi della borghesia contemporanea di dividere e disunire gli operai richiamandosi ipocritamente alla “difesa della pa­tria”, gli operai coscienti risponderanno con nuovi e ripetuti sforzi per stabilire l’unità degli operai delle diverse nazioni nella lotta per abbat­tere il dominio della borghesia di tutte le nazioni.

La borghesia inganna le masse mascherando la rapina imperialista con la vecchia ideologia della “guerra nazionale”. Il proletariato sma­schera questo inganno proclamando la parola d’ordine della trasforma­zione della guerra imperialista in guerra civile. Proprio questa parola d’ordine è stata proposta dalle risoluzioni di Stoccarda e di Basilea che prevedevano appunto non una guerra in generale, ma la guerra attuale, e non parlavano della “difesa della patria”, ma del dovere di “affret­tare il crollo del capitalismo”, di utilizzare a questo scopo la crisi susci­tata dalla guerra, parlavano dell'esempio della Comune. La Comune è stata la trasformazione di una guerra tra popoli in guerra civile.

Tale trasformazione, certo, non è facile e non si può attuare “per desiderio” di qualche partito. Ma essa corrisponde proprio alle condi­zioni obiettive del capitalismo in generale, e dell’epoca della fine del capitalismo in particolare. E in questa direzione, solo in questa dire­zione, deve essere orientato il lavoro dei socialisti. Non votare i cre­diti militari, non incoraggiare lo sciovinismo del  “proprio” paese (e dei paesi alleati), combattere in primo luogo contro lo sciovinismo della “propria” borghesia, senza limitarsi alle forme legali di lotta quando sia sopraggiunta una crisi e la borghesia stessa abbia eliminato la lega­lità che aveva creato: ecco la linea d’azione che porta alla guerra civile e che condurrà ad essa in questo o quel momento dell'incendio di tutta l'Europa.

La guerra non scoppia per caso, non è un “peccato”, come pen­sano i preti cristiani (che predicano il patriottismo, l’umanitarismo e la pace non peggio degli opportunisti), ma una tappa inevitabile dd capi­talismo, una forma della vita capitalistica, legittima come la pace. Ai nostri giorni la guerra è una guerra di popoli. Da questa verità non con­segue che si debba seguire la corrente “popolare” dello sciovinismo, ma consegue che le contraddizioni di classe che lacerano i popoli conti­nuano a esistere e si manifesteranno anche in tempo di guerra, anche in guerra, anche in forma militare. Il rifiuto di prestare servizio militare, lo sciopero contro la guerra, ecc., sono una pura sciocchezza, un sogno misero e vile di una lotta disarmata contro la borghesia armata, l'illu­sione di distruggere il capitalismo senza un’accanita guerra civile, o una serie di tali guerre. La propaganda della lotta di classe è un dovere del socialista anche nell’esercito; il lavoro volto a trasformare la guerra tra i popoli in guerra civile è l'unico lavoro socialista nell'epoca del con­flitto imperialista armato delle borghesie di tutti i paesi. Abbasso i pii voti sentimentali e sciocchi sulla “pace a tutti i costi”! Leviamo la bandiera della guerra civile! L'imperialismo ha messo in gioco le sorti della civiltà europea: se non vi sarà una serie di rivoluzioni vittoriose, a questa guerra ne seguiranno presto altre; la favola dell’ “ultima guer­ra” è una favola vana e dannosa, è un “mito” piccolo-borghese (se­condo la giusta espressione del Golos). Se non è oggi, sarà domani, se non durante questa guerra, dopo la guerra, se non in questa guerra, nella prossima, la bandiera proletaria della guerra civile raccoglierà in­torno a sé non solo centinaia di migliala di operai coscienti, ma anche milioni di semiproletari e di piccoli borghesi ora ingannati dallo scio­vinismo, e che gli orrori della guerra non solo spaventano e abbruttiscono, ma illuminano, istruiscono, destano, organizzano, temprano e preparano alla guerra contro la borghesia del “proprio” paese e dei paesi “al­trui”.

La II Intemazionale è morta, vinta dall'opportunismo. Abbasso l'opportunismo e viva la III Internazionale, epurata non solo dei “tran­sfughi” (come si augura il Golos), ma anche dell'opportunismo.

Nell'ultimo terzo del secolo XIX e all'inizio del XX la II Interna­zionale ha compiuto la sua parte di utile lavoro preparatorio, di orga­nizzazione delle masse proletarie nel lungo periodo “pacifico” della più crudele schiavitù capitalistica e del più rapido progresso capitali­stico. Alla III Internazionale spetta il compito di organizzare le forze del proletariato per l'assalto rivoluzionario, contro i governi capitalistici, per la guerra civile contro la borghesia di tutti i paesi, per il potere politico, per la vittoria del socialismo!

 

 

DICHIARAZIONE AL CONGRESSO CONTRO LA GUERRA DI AMSTERDAM

25 luglio 1932

 

Il pericolo di una nuova guerra mondiale sta diventando sempre più evidente ogni giorno che passa. Le cause di questo pericolo sono state esposte in modo irrefutabile dal marxismo.

Le forze produttive dell’umanità hanno da lungo tempo superato i limiti della proprietà privata e i confini degli Stati-nazione. La salvezza dell’umanità è legata a un’economia socialista basata sulla divisione internazionale del lavoro. Sotto l’influenza di una leadership conservatrice, il proletariato ha fallito nel portare avanti i suoi compiti rivoluzionari. La guerra mondiale del 1914-1918 fu la ricompensa. I campioni democratici dello “sviluppo pacifico”, gli oppositori dei metodi rivoluzionari, hanno le maggiori responsabilità per le decine di milioni di persone ferite e uccise nel massacro imperialista.

Il mondo imperialista non ha imparato nulla e non ha dimenticato nulla nei quindici anni che ci separano da quegli eventi. Le sue contraddizioni interne sono diventate ancora più acute. La crisi attuale rivela uno spaventoso quadro della disintegrazione sociale della civiltà capitalista, con chiari segni di cancrena avanzante.

La salvezza dell’umanità è possibile solo attraverso l’operazione chirurgica della rivoluzione proletaria.

Le classi dominanti si dibattono in una situazione senza via d’uscita. Le loro difficoltà finanziarie e il loro timore del popolo le impone a cercare una soluzione in accordi di limitazione degli armamenti. D’altra parte, con l’innalzamento di barriere tariffarie e con le crescenti restrizioni alle importazioni, i governanti sono ancora più soffocati dal mercato mondiale, dall’approfondirsi della crisi, dall’acutizzazione degli antagonismi nazionali, e dalla preparazione di nuove guerre I partiti riformisti, oggi come ieri si oppongono a una soluzione rivoluzionaria socialista, ancora una volta si assumono la piena responsabilità per la miseria che produce la crisi e la guerra incombente.

La contraddizione tra forze produttive e confini degli stati nazionali ha assunto le forme più acute e più insopportabili nella culla del capitalismo: l’Europa. Dentro i suoi labirinti di frontiere e di barriere tariffarie, di eserciti giganteschi e mostruosi deficit nazionali, l’Europa di Versailles è una costante fonte di pericoli militari e di provocazioni belliche. Essa non potrà ora essere unificata dalla borghesia, e cioè da quella classe che l’ha svenata e balcanizzata. Per un simile compito sono necessarie altre forze e altri mezzi.

Solo nella Russia zarista il potere fu strappato dalle mani della borghesia. Grazie alla sua leadership rivoluzionaria, il giovane proletariato russo fu in grado, per la prima volta nella storia mondiale, di mostrare concretamente quali inesauribili possibilità sono insite in un sistema di dittatura proletaria e di economia pianificata. I giganteschi risultati economici e culturali di un paese arretrato, che è stato trasformato in un paese di operai e contadini, indica la via a una soluzione per tutta l’umanità.

Stiamo ora attendendo che il governo sovietico completi il suo secondo piano quinquennale, con un piano di estesa collaborazione economica con i paesi capitalisti avanzati, che aprirà gigantesche prospettive alle possibilità umane delle masse, che soffrono sotto il fardello della crisi e della disoccupazione. Quali che siano i risultati immediati pratici di tale piano, la sua forza di attrazione su milioni e milioni di lavoratori di tutto il mondo sarà immensa.

Il sistema sociale dell’Unione Sovietica oggi è certamente lungi dall’essere socialista. Ma la sua inestimabile importanza è collegata al fatto che esso si sia messo sulla strada del socialismo. Esso procederà rapidamente e sicuramente verso il socialismo quanto prima il proletariato dei paesi avanzati toglierà il potere dalle mani della propria borghesia e creerà le definitive premesse per una nuova società, che può essere raggiunta solo su base internazionale.

Il pericolo di una guerra mondiale è un percolo che minaccia l’esistenza del primo Stato operaio. Quali saranno le cause della guerra, quale sarà il luogo in cui scoppierà, essa, nel suo stadio finale, si volgerà contro l’URSS. La borghesia europea e mondiale non abbandonerà la scena senza tentare una trasfusione di sangue dalle arterie del giovane Stato operaio a quelle dell’imperialismo in agonia mortale.

Solo nell’ultimo anno, le fiamme della guerra hanno divampato alle frontiere dell’Unione Sovietica sia in Estremo Oriente che a Occidente. Allo stesso tempo si sta strangolando l’indipendenza della Cina, il Giappone sta costruendo una fortezza in Manciuria dalla quale potrà colpire l’Unione Sovietica. Gli antagonismi tra Giappone e Stati Uniti non possono dissuadere i militaristi di Tokyo da una guerra contro l’Unione Sovietica in un futuro in cui si essi si considereranno l’avanguardia dell’imperialismo mondiale. D’altra parte il colpo di Stato realizzato da Hindenburg su ordine di Hitler non solo spiana la strada a un regime fascista in Germania ma apre anche la strada a una lotta mortale tra una Germania fascista e l’Unione Sovietica. Avvenimenti giganteschi si stanno approssimando in Europa e nel mondo.

In queste condizioni la lotta contro la guerra è una lotta per salvare la vita di milioni di operai e di contadini della nuova generazione che sono cresciuti dopo il grande massacro, per preservare tutte le conquiste del lavoro e attraverso ciò salvare il primo Stato operaio e il futuro dell’umanità.

Quanto più grandi sono i compiti, quindi, e tanto più è necessaria chiarezza sui metodi della sua soluzione. La condanna della guerra è facile; vincerla però è difficile. La lotta contro la guerra è una lotta contro le classi che dominano la società e che tengono nelle loro mani sia le forze produttive che le armi di distruzione. Non è possibile impedire la guerra attraverso l’indignazione morale, attraverso le manifestazioni, le risoluzioni, gli articoli sui giornali, e i congressi. Fino a quando la borghesia controllerà le banche, le fabbriche, la stampa, la terra e l’apparato dello Stato, essa sarà sempre in grado di condurre la gente a combattere quando i suoi interessi lo richiederanno. Ma le classi proprietarie non hanno mai ceduto il potere senza combattere. Si veda la Germania. Quando i fondamentali interessi delle classi proprietarie sono minacciati, la democrazia lascia il posto alla violenza. Il rovesciamento della borghesia è possibile solo con le armi alla mano; la guerra imperialista può essere fermata solo dalla guerra civile.

Noi bolscevico-leninisti rigettiamo e denunciamo completamente l’ingannevole distinzione tra guerra “difensiva” e guerra “offensiva”. In una guerra tra Stati capitalisti una tale differenziazione rappresenta solo una copertura diplomatica per raggirare la gente. I briganti capitalisti hanno sempre condotto guerre “difensive”, anche quando il Giappone marcia su Shangai e la Francia combatte contro il Marocco o la Siria. Il proletariato rivoluzionario distingue solo tra guerre di oppressione e guerre di liberazione. Il carattere di una guerra è definito, non dalle falsificazioni diplomatiche ma dalle classi che le portano avanti, dagli scopi obiettivi che esse perseguono in queste guerre. Le guerre degli Stati imperialisti, se non si tiene conto della retorica politica, sono di carattere oppressivo, reazionario e ostile ai popoli. Solo le guerre del proletariato e delle nazioni oppresse possono essere caratterizzate come guerre di liberazione. Dopo la vittoria dell’insurrezione armata del proletariato contro gli i suoi oppressori, inevitabilmente esploderà una guerra rivoluzionaria dello Stato proletario per il consolidamento e l’estensione della sua vittoria. La politica del socialismo non ha e non può avere un carattere puramente “difensivo”. L’obiettivo del socialismo è la conquista del mondo.

Da ciò ne deriva la nostra posizione nei confronti di tutte le forme di pacifismo; il pacifismo puramente imperialista (Kellogg, Briand, Herriot, ecc.) e il pacifismo piccolo-borghese (Rolland, Briand, Herriot, e gli altri loro partigiani in tutto il mondo). L’essenza del pacifismo è la condanna, non importa se ipocrita o sincera, dell’uso della forza in generale. Questa condanna indebolendo la forza di volontà degli oppressi, serve la causa degli oppressori. Il pacifismo idealistico fronteggia la guerra con l’indignazione morale come la pecora affronta il coltello del macellaio con malinconici belati. Il problema invece è quello di far incrociare il coltello della borghesia con quello del proletariato.

La forza pacifista più influente è la socialdemocrazia. In periodi di pace essa non manca di profondere tirate a poco prezzo contro la guerra. Ma essa rimane legata alla “difesa nazionale”. Ciò è decisivo. Ogni guerra, comunque ne sia il prologo, minaccia ognuna delle nazioni coinvolte. Gli imperialisti sanno in anticipo che il pacifismo della socialdemocrazia al primo colpo di cannone si trasformerà nel più servile patriottismo e diventerà la più importante riserva del militarismo. Ecco perché la più intransigente lotta contro il pacifismo, lo smascheramento del suo carattere infido, è il primo passo sulla strada di una lotta rivoluzionaria contro la guerra.

La Lega delle Nazioni è la cittadella del pacifismo imperialista. Essa rappresenta una combinazione storica transitoria degli Stati capitalisti in cui il più forte e il più ricco corrompe il più debole, sia che strisci o resista all’America, una Lega in cui tutti – nessuno escluso - sono nemici dell’Unione Sovietica, e sono pronti a coprire ogni crimine del più potente e rapace tra di loro. Solo coloro i quali sono ciechi politicamente, solo coloro i quali hanno già perso tutte le speranze o che deliberatamente corrompono la coscienza della gente, possono considerare la Lega delle Nazioni – direttamente o indirettamente – uno strumento di pace.

Le richieste di “disarmo” non hanno nulla a che vedere con la prevenzione della guerra. I programmi di “disarmo” rappresentano solo un tentativo fatto sulla carta di ridurre le spese di questo di quel tipo di armamento. È soprattutto una questione di tecnica militare e di forzieri imperialisti. Gli arsenali, le fabbriche di munizioni, i laboratori, e prima di tutto, l’industria capitalista in quanto tale preserverà le proprie forze durante qualsiasi “programma di disarmo”. Gli Stati non combattono perché sono armati. Al contrario, forgiano armi quando hanno necessità di combattere. In caso di guerra tutte i limiti dei tempi di pace, cadranno come foglie in autunno. Già nel 1914-1918, gli Stati non combatterono più con gli armamenti di cui si erano muniti in tempo di pace, ma con quelli forgiati durante la guerra. Non sono gli arsenali ma la capacità produttiva di un paese a essere decisivi. Per gli Stati Uniti una limitazione degli armamenti in Europa in tempi di pace è molto vantaggiosa perché gli permette di imporre il suo dominio industriale ancora più nettamente nei periodi di guerra. La borghesia tedesca è incline a una riduzione degli armamenti al fine di livellare lo svantaggio in caso di un nuovo sanguinoso conflitto. Il “disarmo” generale ha lo stesso significato per la Germania quanto lo ha la parità navale per l’Italia nei confronti della Francia. Il valore di questi piani dipenderà dalla combinazione delle forze imperialiste, dallo stato dei loro budget, dai loro accordi finanziari, ecc. La questione del disarmo è una delle leve dell’imperialismo in cui le guerre vengono preparate. Solo dei ciarlatani possono tentare di distinguere tra macchine belliche, aeroplani, carri armati offensivi e difensivi. La politica americana è dettata anche da questo punto di vista dai particolari interessi del militarismo americano, il più terribile di tutti. La guerra non è un gioco che è condotto secondo le norme convenzionali. La guerra richiede che si producano armi che possano annichilire con successo il nemico. I pacifisti piccolo-borghesi che vedono in un 10%, 33% o 50% di proposte di disarmo il “primo passo” verso la prevenzione della guerra, sono più pericolosi di tutti gli esplosivi e gas asfissianti. Melinite e iprite possono svolgere la loro funzione solo perché la massa della popolazione in tempi di pace è avvelenata dai fumi del pacifismo.

Senza avere la più tenue fiducia nei programmi capitalisti di disarmo o di limitazione degli armamenti, i proletari rivoluzionari si pongono una singola domanda: in quali mani sono le armi? Ogni arma in mano agli imperialisti è un’arma diretta contro la classe operaia, contro le nazioni deboli, contro il socialismo, contro l’umanità. Le armi nelle mani degli operai e delle nazioni oppresse sono i soli strumenti per liberare il nostro pianeta dall’oppressione e dalla guerra.

La lotta per l’autodeterminazione delle nazioni, per tutti i popoli, per tutto coloro i quali sono oppressi e che aspirano all’indipendenza, è uno degli aspetti più importanti della lotta contro la guerra. Chiunque direttamente o indirettamente sostenga il sistema di coloniale e quello dei protettorati, la dominazione del capitale in India, la dominazione del Giappone in Corea o in Manciuria, della Francia in Indocina o in Africa, chiunque non combatta contro il sistema coloniale, chiunque non sostenga le sollevazioni delle nazioni oppresse e la loro indipendenza, chiunque difenda o idealizzi il ghandismo, che rappresenta la politica della resistenza passiva in una questione che può essere risolta solo dalla forza delle armi, a dispetto delle proprie buone o cattive intenzioni, è un lacchè, un servo, un’apologeta dell’imperialismo, degli schiavisti, dei militaristi, e li aiuta a preparare nuove guerre per perseguire i loro vecchi i nuovi scopi.

La forza principale contro la guerra è il proletariato. È solo attraverso il suo esempio e la sua direzione che i contadini e gli altri strati popolari potranno sollevarsi contro la guerra. All’interno del proletariato, due partiti lottano per l’egemonia: la socialdemocrazia e i partiti comunisti. I gruppi intermedi (la SAP in Germania, il PUP in Francia, il ILP in Gran Bretagna, ecc.) non potranno giocare alcun ruolo storico indipendente. Sulla questione della guerra, che è l’altra faccia della medaglia della questione della rivoluzione proletaria, l’inconciliabile opposizione tra comunismo e socialpatriottismo, raggiungerà una più acuta espressione.

Chiunque tenti di coagulare tutti i programmi, tutti i partiti, tutte le bandiere in un unico blocco in nome del pacifismo, e cioè l’unione in una lotta superficiale contro la guerra a chiacchiere, fornisce il miglior servizio all’imperialismo. Sulla questione della guerra, non meno che su altre questioni, il Partito Comunista, deve cercare di liberare le masse dei lavoratori dalla disintegrante e demoralizzante influenza del pacifismo.

Le Monde la rivista di Barbuse, di Gorkij e degli altri organizzatori del Congresso contro la guerra, sta continuando a sostenere la necessità della fusione dell’Internazionale Comunista con la Seconda Internazionale. Per la lotta contro la guerra, Barbusse si appella sia a Lenin che a Vandervelde. Ciò serve solo a falsificare Lenin e riabilitare Vandervelde. Noi rigettiamo la politica di Barbuse e dei suoi seguaci e la condanniamo come il più pericoloso veleno politico. Crediamo che l’Internazionale Comunista e l’Internazionale Rossa dei Sindacati commettano un grave errore lasciando l’iniziativa dell’indizione dell’iniziativa ai pacifisti impotenti e senza principi.

Noi pensiamo che l’URSS abbia preso una posizione corretta sia dal punto di vista tattico che dei principi non entrando nella Lega delle Nazioni. Ma è del tutto deplorevole che l’Unione Sovietica abbia fornito copertura al Patto Kellogg, il quale è una completa frode che ha solo il proposito di “giustificare” quelle guerre che corrispondono agli interessi americani.

Noi consideriamo inoltre sbagliata la tendenza della diplomazia sovietica a imbellettare la politica dell’imperialismo americano e il particolare le sue iniziative sul disarmo. Noi riconosciamo completamente l’importanza per l’URSS di normali relazioni politiche ed economiche con gli USA. Ma ciò non può essere ottenuto dalla capitolazioni verbali alle manovre dell’imperialismo americano, il più forte e rapace di tutti. Noi ci attendiamo dalla diplomazia sovietica una dichiarazione pubblica e chiara sul pericolo della guerra e della lotta contro di essa. È necessario allertare con forza la gente. Meno la diplomazia sovietica si adatta alle manovre degli imperialisti sulle questioni più “calde”, più coraggiosamente essa alza la voce, e più ardentemente risponderanno le masse lavoratrici del mondo intero, più strettamente esse si allineeranno all’URSS, e decisamente la difenderanno contro i pericoli crescenti.

Allo stesso tempo noi consideriamo nostro compito dichiarare qui apertamente: ora, di fronte al pericolo terribile che sta diventando sempre più reale, è necessario por fine ai crimini della burocrazia stalinista contro la rivoluzione e il comunismo; è necessario liberare migliaia di bolscevico-leninisti, gli organizzatori della rivoluzione d’Ottobre, i creatori dell’Armata Rossa, i partecipanti alla guerra civile, dalle prigioni e dall’esilio. Per la dittatura del proletariato e della rivoluzione mondiale, contro la guerra imperialista, essi vogliono combattere e combatteranno con energia incomparabilmente più intensa che tutti i chiacchieroni pacifisti e gli innumerevoli burocrati stalinisti.

La politica del fronte unico nella lotta contro la guerra richiede speciale attenzione e perseveranza rivoluzionaria. Il Partito Comunista può e deve proporre apertamente, senza dubbiosi intermediari, che tutte le organizzazioni della classe operaia coordinino i loro sforzi nella lotta contro la guerra. Da parte nostra i bolscevico-leninisti propongono i seguenti punti come base per un accordo possibile, mantenendo allo stesso tempo la più completa indipendenza delle proprie organizzazioni e delle proprie bandiere:

1.        rinuncia a tutte le illusioni nella Lega delle Nazioni e a tutte le altre illusioni pacifiste

2.        denuncia dei programmi capitalisti di “disarmo”, che servono a imbrogliare la gente

3.        rifiuto di votare i crediti di guerra e le chiamate alla coscrizione dei governi capitalisti: non un uomo, non un soldo

4.        denuncia della frode della “difesa nazionale”, perché le nazioni capitaliste difendono se stesse opprimendo e dividendo le nazioni più deboli

5.        una campagna per la collaborazione economica con l’URSS sulla base di un programma ampio, che coinvolga nella sua elaborazione ed esecuzione le organizzazioni di massa della classe operaia

6.        costante e continua denuncia degli intrighi imperialisti contro il primo e solo Stato operaio

7.        agitazione contro la guerra nelle fabbriche belliche, tra i soldati e i marinai. Preparazione dei punti rivoluzionari di sostegno nelle fabbriche belliche, nell’esercito, nella marina

8.        La preparazione dell’Armata Rossa non solo allo spirito della coraggiosa difesa della patria socialista ma anche allo spirito della costante prontezza a venire in aiuto alla rivoluzione proletaria e alle insurrezioni dei popoli oppressi in altre nazioni

9.        L’educazione sistematica delle masse lavoratrici dell’intero mondo allo spirito della più grande devozione al primo Stato operaio. Malgrado gli indiscutibili errori nella politica della fazione oggi al potere, l’URSS rimane la patria genuina del proletariato internazionale. La sua difesa è un dovere risoluto di ogni operaio onesto.

10.     l’instancabile spiegazione agli operai di tutto il mondo che la società socialista può essere instaurata solo su scala internazionale, e che il sostegno reale dell’URSS è legato all’estensione della rivoluzione proletaria mondiale.

AUSCHWITZ, OVVERO IL GRANDE ALIBI

 

La stampa di sinistra ci mostra nuovamente che il razzismo, ed essenzialmente l’antisemitismo, costituisce in un certo senso il Grande Alibi dell’antifascismo: è la sua bandiera favorita e al tempo stesso il suo ultimo rifugio nella discussione. Chi resiste all’evocazione dei campi di sterminio e dei forni crematori? Chi non si inchina davanti ai sei milioni di ebrei assassinati? Chi non freme davanti al sadismo dei nazisti? Tuttavia siamo di fronte a una delle più scandalose mistificazioni dell’antifascismo, e per questo dobbiamo smontarla.

Un recente manifesto del M.R.A.P. (Movimento contro il Razzismo, l'Antisemitismo e per la Pace) attribuisce al nazismo la responsabilità della morte di cinquanta milioni di esseri umani di cui sei milioni di ebrei. Questa posizione, identica a quella del “fascismo guerrafondaio” dei sedicenti comunisti, è tipicamente borghese.

Rifiutandosi di vedere nel capitalismo stesso la causa delle crisi e dei cataclismi che sconvolgono periodicamente il mondo, gli ideologi borghesi e riformisti hanno sempre preteso di spiegarli con la malvagità degli uni o degli altri. Si vede qui l’identità fondamentale tra le ideologie (se così si può dire) fasciste e antifasciste: entrambe proclamano che sono i pensieri, le idee, le volontà dei gruppi umani che determinano i fenomeni sociali.

Contro queste ideologie, che noi chiamiamo borghesi perché sono le ideologie di difesa del capitalismo, contro tutti questi “idealisti” passati, presenti e futuri, il marxismo ha dimostrato che sono, al contrario, i rapporti sociali che determinano i movimenti ideologici. È qui la base stessa del marxismo, e per rendersi conto di fino a che punto i nostri pretesi marxisti l’hanno rinnegato, è sufficiente vedere che per loro tutto passa attraverso le idee: il colonialismo, l’imperialismo, il capitalismo stesso, non sono che degli stati mentali.

Cosicché tutti i mali di cui soffre l’umanità sono dovuti a malvagi fomentatori: di miseria, d’oppressione, di guerra, ecc. Il marxismo ha dimostrato che, al contrario, la miseria, l’oppressione, le guerre e le distruzioni, ben lungi dall’essere dovute a volontà deliberate e malefiche, fanno parte del funzionamento “normale” del capitalismo. Ciò si applica in particolare alle guerre dell’epoca imperialista. Vi è un punto che svilupperemo più ampiamente a causa dell'importanza che presenta per il nostro argomento: è quello della distruzione.

Anche quando i nostri borghesi e riformisti riconoscono che le guerre imperialiste sono dovute a conflitti di interessi, essi restano largamente al di sotto della comprensione del capitalismo. Si veda la loro incomprensione del significato della distruzione. Per loro il fine della guerra è la Vittoria, e le distruzioni di uomini e di impianti dell'avversario non sono che mezzi per giungere a questo fine. Tanto che alcuni ingenui prevedono delle guerre fatte a colpi di sonnifero! Noi abbiamo dimostrato che la distruzione è, invece, il fine principale della guerra. Le rivalità imperialiste che sono la causa diretta delle guerre, non sono esse stesse che la conseguenza della sovrapproduzione sempre crescente.

Il motore della produzione capitalistica è in effetti costretto a “imballarsi” a causa della caduta del saggio di profitto e la crisi nasce dalla necessità di accrescere senza posa la produzione e dall'impossibilità di smaltire i prodotti. La guerra è la massima soluzione capitalistica della crisi; la distruzione massiccia d'impianti, di mezzi di produzione e di prodotti, permette alla produzione di riprendersi, e la distruzione massiccia di uomini rimedia alla “sovrappopolazione” periodica che va di pari passo con la sovrapproduzione.

Bisogna proprio essere un illuminato piccolo borghese per credere che i conflitti imperialistici potrebbero risolversi altrettanto bene con una partita a carte o attorno a una tavola rotonda, e che le enormi distruzioni e la morte di decine di milioni di uomini siano dovute soltanto all'ostinazione degli uni, alla malvagità degli altri e alla cupidigia di altri ancora.

Già nel 1844, Marx, rimproverava agli economisti borghesi di considerare la cupidigia come innata invece di spiegarla e dimostrava perché i cupidi erano costretti ad essere tali. Ed è fin dal 1844 che il marxismo ha dimostrato quali sono le cause della “sovrappopolazione”: “La domanda di uomini regola necessariamente la produzione di uomini, come di qualsiasi altra merce” (K. Marx, Manoscritti). “Se l’offerta supera largamente la domanda, una parte dei lavoratori cade nella mendicità o muore di fame”, scrive Marx. Ed Engels: “Non vi è sovrappopolazione che dove vi sono troppe forze produttive in generale” e “...[abbiamo visto] che la proprietà privata ha fatto dell’uomo una merce, la cui produzione e la cui distruzione dipendono unicamente dalla domanda; ché la concorrenza in questo modo ha assassinato e quotidianamente assassina milioni di uomini...” (F. Engels, Abbozzo di una critica dell'economia politica). L’ultima guerra imperialista, lungi dallo smentire il marxismo e da giustificare la sua “revisione”, ha confermato l’esattezza delle nostre analisi.

Era necessario ricordare questi punti prima di occuparci dello sterminio degli ebrei. Questo ha avuto luogo non in un periodo qualunque ma in piena crisi e guerra imperialiste. È dunque all’interno di questa gigantesca impresa di distruzione che bisogna spiegarlo. In questo modo il problema diventa chiaro; non dobbiamo più spiegare il “nichilismo distruttore” dei nazisti, ma perché la distruzione si è concentrata in parte sugli ebrei.

Su questo punto nazisti e antifascisti sono d’accordo: è il razzismo, l’odio per gli ebrei, è una “passione”, libera e feroce, che ha causato la loro morte. Ma noi marxisti sappiamo che non vi è passione sociale che sia libera, che nulla è più determinato di questi grandi movimenti di odio collettivo. Vedremo che lo studio dell'antisemitismo dell'epoca imperialista non fa che illustrare questa verità.

E' a ragion veduta che noi diciamo “antisemitismo dell'epoca imperialista”; poiché, nonostante gli idealisti di ogni tipo (dai nazisti ai teorici “ebraici”), considerino l’odio per gli ebrei uguale in tutti i tempi e luoghi, noi sappiamo che non è affatto vero.

L’antisemitismo dell’epoca attuale è totalmente differente da quello dell’epoca feudale. Non possiamo sviluppare qui la storia degli ebrei, che il marxismo ha interamente spiegato. Noi sappiamo perché la società feudale ha mantenuto gli ebrei come tali; noi sappiamo che se le borghesie più forti, quelle che hanno potuto fare presto la loro rivoluzione politica (Inghilterra, Stati Uniti, Francia) hanno quasi interamente assimilato i loro ebrei, le borghesie più deboli non hanno potuto farlo. Non dobbiamo spiegare qui la sopravvivenza degli “ebrei”, ma l’antisemitismo dell'epoca imperialista. E non sarà difficile spiegarlo se, invece di occuparci della natura degli ebrei o degli antisemiti, noi considereremo la loro posizione nella società.

In seguito alla loro storia gli ebrei si trovano oggi essenzialmente nella media e piccola borghesia. Ora questa classe è condannata dall’avanzata irresistibile della concentrazione del capitale. È questo fatto che ci spiega come essa sia all’origine dell'antisemitismo, il quale non è, come ha detto Engels, null’altro che una reazione di strati sociali feudali, votati a scomparire, contro la società moderna che si compone essenzialmente di capitalisti e di salariati. Serve soltanto a obiettivi reazionari sotto un velo apparentemente socialista.

La Germania del periodo tra le due guerre ci mostra questa situazione a uno stadio particolarmente acuto. Il capitalismo tedesco, scosso dalla guerra, dalla spinta rivoluzionaria del 1918-1928, sempre minacciato dalla lotta del proletariato, subisce profondamente la crisi mondiale del dopoguerra. Mentre le borghesie vittoriose più forti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia) furono colpite relativamente poco, e superarono facilmente la crisi del “riadattamento dell'economia alla pace”, il capitalismo tedesco cadde nel marasma completo. Si può dire che furono la piccola e la media borghesia a patirne maggiormente, come in tutte le crisi che conducono alla proletarizzazione delle classi medie e a una maggiore concentrazione del capitale, attraverso l'eliminazione di una parte delle piccole e medie imprese. Ma qui la situazione era tale che i piccolo-borghesi rovinati, falliti, espropriati, liquidati, non potevano neppure finire nel proletariato, colpito esso stesso duramente dalla disoccupazione (7 milioni di disoccupati al culmine della crisi): essi cadevano dunque direttamente nella condizione di miserabili, condannati a morire di fame appena esaurite le loro riserve. È per reazione a questa terribile minaccia che la piccola borghesia ha “inventato” l’antisemitismo. Non già, come dicono i metafisici, per spiegare le disgrazie che la colpiscono, quanto per tentare di preservarsene concentrandole su uno dei suoi gruppi.

All’orribile pressione economica, alla minaccia di distruzione estesa che rendevano incerta l’esistenza di ogni suo membro, la piccola borghesia reagiva sacrificando una delle sue parti, sperando così di salvare e di assicurare l'esistenza alle altre. L’antisemitismo non deriva né da un “piano machiavellico” né da “idee perverse”: scaturisce precisamente dalla costrizione economica. L’odio per gli ebrei è ben lontano dall’essere la causa prima della loro distruzione, non è che l’espressione del desiderio di delimitare e di concentrare su di loro la distruzione. Succede a volte che gli operai stessi giungano al razzismo. Ciò avviene quando, minacciati da una disoccupazione massiccia, essi tentano di farla concentrare su certi gruppi: italiani, polacchi o altri méteques (stranieri), bicots (arabi), negri, ecc. Ma nel proletariato queste tendenze hanno luogo solo nei peggiori momenti di demoralizzazione, e non durano. Nel momento in cui entra in lotta il proletariato vede chiaramente e concretamente dove è il suo nemico: il proletariato è una classe omogenea che ha una prospettiva e una missione storiche.

La piccola borghesia, al contrario, è una classe storicamente condannata. Nello stesso tempo essa è anche condannata a non poter comprendere nulla, a essere incapace di lottare: non può che dibattersi ciecamente nella macchina che la stritola. Il razzismo non è un'aberrazione dello spirito: è e sarà la reazione piccolo-borghese alla pressione del grande capitale. La scelta della “razza”, vale a dire del gruppo sul quale si cerca di concentrare l’opera di distruzione, dipende evidentemente dalle circostanze. In Germania gli ebrei presentavano i “requisiti” del caso ed erano i soli ad averli: essi erano quasi esclusivamente dei piccolo-borghesi, e, in questa piccola borghesia, il solo gruppo sufficientemente identificabile. Solamente su di loro la piccola borghesia poteva incanalare la catastrofe.

Era in effetti necessario che l’identificazione non presentasse difficoltà: bisognava potere definire esattamente chi sarebbe stato distrutto e chi risparmiato. Da ciò quella detrazione dal totale di coloro che avevano i nonni battezzati, che, in contraddizione flagrante con le teorie della razza e del sangue, sarebbe sufficiente a dimostrarne l’incoerenza. Si trattava proprio di logica! Il democratico che si accontenta di dimostrare l’assurdità e l’ignominia del razzismo come d’abitudine non coglie il problema reale.

Incalzata dal capitale, la piccola borghesia tedesca ha dunque gettato gli ebrei ai lupi per alleggerire la propria slitta e così salvarsi. Naturalmente non in maniera cosciente, ma era questo il significato del suo odio per gli ebrei e della sua soddisfazione per la chiusura e il saccheggio delle loro botteghe. Bisogna dire che per parte sua il grande capitale era felicissimo di quanto accadeva: esso poteva liquidare una parte della piccola borghesia con il consenso della piccola borghesia. Meglio ancora: era la stessa piccola borghesia che si incaricava di questa liquidazione. Ma questa maniera “personalizzata” di presentare il capitale non è che una cattiva immagine: come la piccola borghesia, il capitalismo non sa ciò che fa. Egli subisce la costrizione economica e segue passivamente le linee di minor resistenza.

Non abbiamo parlato del proletariato tedesco. Ciò perché non è intervenuto direttamente in questa faccenda. Esso era stato sconfitto e, ben inteso, la liquidazione degli ebrei non ha potuto essere realizzata che dopo la sua sconfitta. Ma le forze sociali che hanno condotto a questa liquidazione esistevano prima della disfatta del proletariato. Lasciando le mani libere al capitalismo, questa disfatta ha semplicemente permesso alle forze sociali di “realizzarsi”.

È allora che è iniziata la liquidazione economica degli ebrei: espropriazione in tutte le forme, interdizione dalle professioni liberali, dall’amministrazione, ecc. Poco a poco gli ebrei vengono privati di tutti i mezzi di esistenza: essi possono vivere solo con le riserve che hanno potuto salvare. Durante tutto questo periodo, che va fino alla vigilia della guerra, la politica nazista verso gli ebrei si riassume in due parole: Juden raus! Ebrei fuori! Si cerca con tutti i mezzi di favorirne l’emigrazione. Ma se i nazisti non cercavano che di sbarazzarsi degli ebrei non sapendo che farne, e se gli ebrei, dal canto loro, non domandavano altro che di andarsene dalla Germania, nessuno altrove li voleva accogliere. Ciò non è sorprendente, perché nessuno poteva accoglierli: non vi era un solo paese capace di assorbire e di mantenere diversi milioni di piccolo-borghesi rovinati. Solo una piccola parte di ebrei poté partire. I più rimasero, loro malgrado e malgrado i nazisti. In un modo o nell'altro, con l'esistenza in sospeso.

La guerra imperialista aggravò la situazione sia quantitativamente che qualitativamente. Quantitativamente perché il capitalismo tedesco, obbligato a ridurre la piccola borghesia per concentrare nelle sue mani il capitale europeo, intraprese la liquidazione degli ebrei di tutta l’Europa centrale. L’antisemitismo aveva fatto le sue prove: non c'era che da continuare. Ciò rispondeva, d’altronde, all’antisemitismo indigeno dell’Europa centrale benché quest'ultimo fosse più complesso (una orribile mistura di antisemitismo feudale e piccolo-borghese, nella cui analisi non possiamo qui entrare).

Al tempo stesso la situazione si era aggravata qualitativamente. Le condizioni di vita erano rese assai più dure dalla guerra; le riserve degli ebrei si esaurivano; essi erano condannati a morire di fame in breve tempo. In tempi “normali”, e quando si tratta di un piccolo numero, il capitalismo può lasciar crepare da soli gli uomini respinti dal processo di produzione. Ma era impossibile fare ciò in piena guerra e per milioni di uomini: un tale “disordine” avrebbe paralizzato tutto. Bisognava che il capitalismo organizzasse la loro morte.

D'altronde non li uccise di colpo. Per cominciare furono ritirati dalla circolazione, raggruppati, concentrati. E li fece lavorare sottoalimentandoli, cioè sovrasfruttandoli a morte. Uccidere l'uomo di lavoro è un vecchio metodo del capitale. Marx scriveva nel 1844: “Per essere condotta con successo, la guerra industriale esige numerose armate che si possano ammassare in un punto e abbondantemente decimare” (Manoscritti). Occorreva d'altronde che questa massa sostenesse le spese per la propria vita, finché viveva, e quelle per la morte in seguito. E che producesse plusvalore fino a che ne fosse in grado. Perché il capitalismo non può procedere all’esecuzione di uomini che ha condannato se non ne ricava profitto. Ma l’uomo è coriaceo. Anche se ridotti allo stato di scheletro gli ebrei non morivano abbastanza in fretta. Bisognava massacrare quelli che non potevano più lavorare, poi quelli di cui non si aveva più bisogno perché gli sviluppi della guerra rendevano la loro capacità di lavoro inutilizzabile.

Il capitalismo tedesco si è, d’altra parte, rassegnato a fatica all’assassinio puro e semplice. Non certo per umanitarismo, ma perché non ricavava nulla. È così che è nata la missione di Joël Brand di cui parleremo perché mette bene in luce la responsabilità del capitalismo mondiale. Joël Brand era uno dei dirigenti di un'organizzazione semiclandestina degli ebrei ungheresi. Quest’organizzazione cercava di salvare gli ebrei con tutti i mezzi: nascondigli, emigrazione clandestina, e anche corruzione di SS. Le SS del Juden-Kommando tolleravano queste organizzazioni che tentavano più o meno di utilizzare come “ausiliarie” per le operazioni di rastrellamento e di smistamento.

Nell’aprile del 1944, Joel Brand fu convocato al Juden-Kommando di Budapest per incontrare Eichmann, che era il capo dell’ufficio per le questioni ebraiche delle SS. Eichmann, con l’accordo di Himmler, l’incaricò di questa missione: recarsi presso gli anglo-americani per negoziare la vendita di un milione di ebrei. Le SS domandavano in cambio 10.000 autocarri, ma erano pronte a tutti i mercanteggiamenti, tanto sul tipo che sulla quantità delle merci. Di più proponevano la consegna immediata di 100.000 ebrei al momento dell’accordo per dimostrare la loro buona fede. Era un affare serio.

Disgraziatamente l’offerta esisteva ma non esisteva la domanda! Non solamente gli ebrei ma anche le SS si erano lasciate prendere dalla propaganda umanitaria degli Alleati. Gli Alleati non volevano questo milione di ebrei. Né per 10.000 autocarri, né per 5.000, né per altro.

Qui non possiamo entrare nei dettagli delle disavventure di Joël Brand. Egli partì per la Turchia e finì nelle prigioni inglesi del Medio Oriente. Gli Alleati rifiutarono di “prendere sul serio quest'affare”, facendo di tutto per screditarlo e soffocarlo. Finalmente Joël Brand incontrò al Cairo Lord Moyne, ministro di Stato britannico per il Medio Oriente. Egli lo supplicò di ottenere almeno un accordo scritto che, anche se non rispettato, avrebbe permesso almeno la salvezza delle 100.000 persone.

“E quale sarà il numero totale?”

“Eichmann ha parlato di un milione”.

“Come potere immaginare una cosa simile, signor Brand? Che farò di questo milione di ebrei? Dove li metterò? Chi li accoglierà?”

“Se la Terra non ha più posto per noi, non ci resta che lasciarci sterminare”, disse Brand disperato.

Le SS furono più lente a capire: esse credevano agli ideali dell’Occidente! Dopo lo scacco della missione di Joël Brand e durante lo sterminio, esse tentarono ancora di vendere degli ebrei al Joint (organizzazione degli ebrei americani), versando persino un “acconto” di 1.700 ebrei in Svizzera. Ma, a parte le SS, nessuno ci teneva a concludere questo affare.

Joël Brand aveva invece compreso, o quasi. Aveva compreso dove portava la situazione, ma non perché. Non era la Terra a respingerli ma la società capitalistica. Non in quanto ebrei, ma perché respinti dal processo di produzione, inutili alla produzione. Lord Moyne fu assassinato da due terroristi ebrei, e Joël Brand apprese più tardi che costui aveva sovente compatito il tragico destino degli ebrei: “La sua politica era dettata dall’amministrazione inumana di Londra”. Ma Brand, che citiamo per l'ultima volta, non aveva compreso che questa amministrazione inumana non è che l’amministrazione inumana del capitale, e che è il capitale ad essere inumano. Il capitale non sapeva che fare di questa gente. E non ha neppure saputo che fare dei rari sopravvissuti, condotti alla condizione di “esuli” che non si sapeva dove ricollocare.

Gli ebrei sopravvissuti sono riusciti finalmente a trovarsi un posto. Con la forza, e approfittando della congiuntura internazionale, lo Stato d’Israele è stato costituito. Ma anche ciò è stato possibile solo rendendo esuli altre popolazioni: centinaia di migliaia di rifugiati arabi conducono da allora un’esistenza precaria (perché inutile al capitale) nei campi di raccolta.

Abbiamo visto come il capitalismo abbia condannato a morte milioni di uomini respingendoli dalla produzione. Abbiamo visto come li ha massacrati estraendo da essi tutto il plusvalore possibile. Ci resta da vedere come li sfrutti ancora dopo la loro morte, come sfrutti la loro stessa morte.

Sono innanzitutto gli imperialisti del campo alleato che se ne sono serviti per giustificare la loro guerra e per giustificare dopo la vittoria il trattamento infame inflitto al popolo tedesco. Si sono precipitati sui campi e sui cadaveri diffondendone ovunque le raccappriccianti fotografie ed esclamando: guardate che porci sono questi Crucchi! Come abbiamo avuto ragione di combatterli! E come abbiamo ora ragione a fargli passare la voglia di ricominciare! Quando si pensa agli innumerevoli crimini dell'imperialismo, quando si pensa, ad esempio, che nello stesso momento (1945) in cui i nostri Thorez cantavano vittoria sul fascismo, 45.000 algerini (provocatori fascisti!) cadevano sotto i colpi della repressione; quando si pensa che è il capitalismo mondiale il responsabile di questi massacri, l’ignobile cinismo di questa soddisfatta campagna dà veramente la nausea.

Nello stesso tempo anche tutti i nostri bravi democratici antifascisti si sono gettati sui cadaveri degli ebrei. E li agitano sotto il naso del proletariato. Per fargli sentire l'infamia del capitalismo? No, al contrario: per fargli apprezzare, per contrasto, la vera democrazia, il vero progresso, il benessere di cui esso gode nella società capitalistica. Gli orrori della morte capitalistica devono far dimenticare gli orrori della vita capitalistica e il fatto che essi sono indissolubilmente negati fra di loro. Gli esperimenti dei medici SS dovevano far dimenticare che il capitalismo compie la sua gigantesca “sperimentazione” quotidiana con i prodotti concerogeni, gli effetti dell'alcolismo sull’ereditarietà, la radioattività delle bombe “democratiche”. Se si mostrano le abat-jour di pelle umana è per far dimenticare che il capitalismo ha trasformato l’uomo vivente in abat-jour. Le montagne di capelli, i denti d’oro, i cadaveri divenuti merce, devono far dimenticare che il capitalismo ha fatto dell’uomo vivente una merce. È il lavoro, la vita stessa dell’uomo, che nel capitalismo è merce.

Sta in ciò l'origine di tutti i mali. Utilizzare i cadaveri delle vittime del capitale per tentare di nascondere questa verità, servirsi di questi cadaveri per proteggere il capitale, è il modo più infame di sfruttarli fino in fondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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