Le altisonanti dichiarazioni di Sergio Segio, già militante
di Prima Linea, poi "dissociato" ed infine riciclato nel cosiddetto (assai
malamente!) movimento dei movimenti, hanno scatenato un baccano mediatico,
alimentato dai soliti più o meno impresentabili addetti ai lavori, cui hanno
dovuto rispondere svariati esponenti del "movimento".
In merito alle "premurose" esternazioni di Segio, replichiamo
anzitutto che ai media NON si deve concedere mai l’opportunità di
spettacolarizzare singoli aspetti delle dinamiche implicite nei movimenti
sociali. Una simile generosità d’animo, alla fine, diviene immancabilmente
occasione per strumentali mistificazioni, direttamente funzionali alla
criminalizzazione che puntualmente lo stato tende, per sua natura, a scatenare
contro l’eresia, per esso insopportabile, di una pratica diretta di massa.
In ogni caso, al di là dei suoi intenti specifici più o meno
consapevoli (e/o eterodiretti) e comunque difficilmente "spendibili" sul
versante del movimento, Segio ha fatto delle affermazioni che, malgrado lui,
impongono un approfondito ragionamento e non possono essere semplicemente
cestinate.
E’ stato infatti toccato un nervo scoperto, non a caso quasi
mai emerso nella riflessione collettiva degli ultimi anni: il rapporto tra
movimento e l’uso della forza. Una simile questione può essere rimossa soltanto
da chi rinuncia alla radicale trasformazione dell’esistente, o da chi si illude
che un uso, per di più stravolto, del gandhismo possa non condurre di fatto al
"disarmo" unilaterale e preventivo della critica anticapitalistica. Purtroppo
non deve sorprendere che tale ordine di problemi sia stato rimosso: per
sciogliere nodi di tale portata occorrerebbe definire in modo sufficientemente
chiaro quale sia l’opzione strategica complessiva del nostro agire politico, la
natura del nostro avversario e, conseguentemente, i mezzi necessari per
raggiungere i nostri fini.
Ovviamente non ci occuperemo di tutto ciò in questa sede.
Cercheremo piuttosto di fare chiarezza su alcuni punti, in certo senso
preliminari.
In primo luogo rifiutiamo il ragionamento per cui in passato
l’opzione lottarmatista sarebbe stata, se non giusta, almeno giustificabile,
mentre solo oggi sarebbe diventata una follia perché "tutto è cambiato". Cosa
mai sarebbe cambiato, infatti? Il dominio capitalistico è in realtà rimasto,
nella sostanza, identico, sebbene gli aspetti fenomenici di esso abbiano subìto
rilevanti modificazioni, nel senso di un ulteriore restringimento degli spazi di
agibilità politica, sindacale, sociale ecc. Da questo punto di vista, dunque,
nessuna conferma può venire alla tesi che stiamo criticando.
Ma c’è un altro aspetto che va considerato: l’espressione
soggettiva dell’antagonismo. In questo senso "la sconfitta storica di tutta
un’ipotesi rivoluzionaria" (per usare le parole di Barbara Balzerani) avrebbe
creato una cesura netta, non più recuperabile, tra i passati movimenti e quelli
presenti. Su questo punto, magari giustificandolo in modo diverso, finiscono per
convergere in molti. Tanto Bertinotti quanto Casarini sostengono, infatti, che
questo movimento sarebbe totalmente estraneo alla storia della tradizione
rivoluzionaria novecentesca.
Ma, in fin dei conti, in cosa consisterebbe questa cesura?
Riteniamo che, in sostanza, essa sia la testimonianza di un’arbitraria
convinzione o di una maliziosa speranza: in estrema sintesi, sarebbe venuta
meno, rispetto al passato, la possibilità che il sociale esprima autonomamente e
consapevolmente, al di fuori della mediazione astrattizzante della politica,
un’opzione strategica, di complessiva e radicale alterità rispetto allo stato di
cose presenti, ineluttabilmente destinata a scontrarsi con quelle istituzioni
che presiedono alla tutela dell’ordine costituito.
Nessun dubbio che il "movimento" sospinto dal vento di
Seattle non abbia fin qui espresso tale opzione strategica. Ma ciò non significa
ch’esso non possa giungere a farlo. Riteniamo, anzi, che un simile salto di
qualità sia necessario, benché non scontato, se esso vorrà superare l’attuale
situazione di impasse e recuperare la capacità di incidere nell’attuale
contesto, segnato da una feroce offensiva capitalistica su scala globale.
Se ciò accadrà, si riproporrà fatalmente ed in modo
dispiegato il problema del rapporto tra conflittualità sociale, pratiche di
piazza e uso della forza, in un’oggettiva intersecazione con l’area tematica
delineata dal pur delirante discorso del lottarmatismo. Quest’ultimo, infatti, è
comunque "ascrivibile" alla sfera della conflittualità sociale, pur
costituendone una perversa deriva degenerativa. Esso prescinde dal materiale
esprimersi dello scontro di classe, ma oggettivamente vi allude e in qualche
modo lo implicita, del tutto strumentalmente, come fonte di legittimazione
virtuale per la propria stessa autodefinizione in chiave politico-progettuale.
D’altronde, riteniamo che, per orientarsi in tale coacervo di
problematiche, vada preventivamente ribadito un punto assolutamente centrale,
che troppo spesso viene dato sbrigativamente per scontato e/o tendenzialmente
rimosso tout court: ogni volta che la critica pratico-teorica di massa
pone in questione gli equilibri di potere fra le classi, normativizzati negli
istituti statuali del comando, si palesa un’implicita ma sostanziale messa in
mora del ciclo della rappresentanza. Su di questo si fonda la legittimità stessa
del cosiddetto stato di diritto, basata sulla delega "democratica" all’esercizio
della "sovranità popolare", e proprio l’uso di tale delega viene contestata nei
momenti in cui i "cittadini" non agiscono più singolarmente, attraverso la
dinamica del voto, ma scelgono di attivarsi direttamente, in una ripresa di
parola dal basso e di massa, al di fuori della mediazione
politico-istituzionale.
In situazioni siffatte, il "sociale" riprende forma
direttamente, fuori dalla mediazione astrattizzante e disciplinatrice della
politica: la monade isolata del "cittadino" si dissolve e riemerge la
materialità delle determinazioni specifiche di classe degli individui. E in tale
momento di autentica "catastrofe", il proletariato tende ad autodeterminarsi in
un processo fusionale di ricomposizione del soggetto collettivo rivoluzionario:
tale nuovo soggetto si riconosce come antitesi dell’esistente, come sua
dirompente eccezione, e nell’articolare il proprio percorso di lotta, è
inevitabile che esso "pratichi la piazza", ponendo in essere anche azioni di
attacco, contro oggetti ad alta valenza simbolica, in cui riconfermare l’autopercezione
di sé e, a maggior ragione, giunga a mettere in atto comportamenti di autodifesa
contro la scontata reazione statuale, più o meno "teppistica" che sia.
In tale processo non può che riemergere la fitta trama di
violenza che impregna l’intera formazione storico-sociale capitalistica: quando
la finzione della mediazione astrattizzante della politica lascia il passo alla
reale valenza dispotica del dominio di classe, inverato nella forma-stato, non
può che riemergere la violenza incistata nel cuore stesso dei rapporti sociali
di produzione del capitale ed intrinseca al rapporto capitale-lavoro . E tale
rapporto, sul versante capitalistico, infatti, tende immediatamente a
dispiegarsi sotto le forme dell’opzione militaresca, posta a fondamento dello
stato stesso, da sempre autodefinitosi come detentore del monopolio dell’uso
della forza.
Ed è qui che, appunto, si biforcano le strade fra i seguaci
dell’autonomia del politico e quelli dell’autonomia di classe. Laddove i primi
pretendono di surrogare quelle che considerano deficienze costitutivamente
intrinseche al sociale, autoerigendosi a rappresentanti del proletariato e
impegnandosi come una élite d’avanguardia iperspecializzata nell’"arte
della politica". E in tal senso essi hanno due alternative: o la
socialdemocratica via del compromesso, abilmente contrattato con l’avversario, o
l’opzione pseudorivoluzionaria che porta fino agli estremi esiti il
"proseguimento della politica con altri mezzi", di clausewitziana memoria.
Dall’autonomia della politica all’autonomia del militare il passaggio è solo
formalistico, dal momento che nella "sostanza" permane l’astrattizzazione della
società della merce e la conseguente drastica negazione di qualsivoglia capacità
di autodeterminazione da parte di quel proletariato oggi fattosi infine
universale, in forza della stessa globalizzazione del capitale.
Purtroppo, anche oggi questo passaggio può di nuovo indurre
in tentazione. La ristrutturazione dei processi produttivi, incessantemente
attuata dal capitale da più di un ventennio, ha scomposto la classe e l’ha
gettata in una condizione di atomismo forse mai così diffuso e penetrante. Oggi
più di ieri, quindi, le deficienze soggettive del proletariato possono apparire
insormontabili e bisognose di un intervento "esterno" da parte degli specialisti
della politica e del militare. Altro che "tutto è cambiato" !
Non ci possiamo dunque esimere da un’aspra battaglia contro
l’avventurismo ipersoggettivistico degli specialisti dell’autonomia del
politico, così come del militare. Ma tale battaglia NON deve mai in alcun modo
"servirsi" delatoriamente della repressione statuale, per eliminare dalla scena
della conflittualità sociale quelli che risultano, oggettivamente, avversari
dell’autonomia di classe. La necessaria conseguenza sarebbe infatti un
rafforzamento oggettivo dello stato, dal quale non si potrebbe poi certo sperare
di ottenere in cambio una qualche assurda "legittimazione" al proprio preteso
antagonismo, rispetto ad esso e al suo vero padrone, il capitale.
Lo stato infatti pretende l’abiura, non già delle metodologie
adottate dai lottarmatisti, ad esso sostanzialmente omologhe, ma della critica
pratico-teorica di massa cui l’opzione comunista tende, dentro i processi di
autodeterminazione del soggetto collettivo rivoluzionario, fuori e contro la
mediazione alienante della politica, laddove davvero si gioca la partita storica
per l’estinzione dell’astrattizzazione della merce e dello stato stesso.
A questo punto un’ultima considerazione si impone, sebbene
assai scomoda, quasi indicibile.
Fermo restando che lo stato sempre e comunque, per chi si
pretenda comunista, NON ha legittimità alcuna ad incarcerare e reprimere
chicchessia, rimane il fatto che la solidarietà a tutti i costi, "senza se e
senza ma", con chiunque si autodefinisca "compagno rivoluzionario", è un
retaggio mistificante da abbandonare: esso è infatti sostanzialmente omologo al
perverso strumentalismo per cui "il nemico del nostro nemico ha da essere
comunque nostro amico" !
Rimaniamo invece convinti che i compagni di strada si debbano
scegliere sulla base di discriminanti saldamente ancorate alla definizione dei
fini e delle pratiche prescelte. Fini e pratiche che noi individuiamo
nell’opzione comunista libertaria e nell’autodeterminazione del soggetto
collettivo rivoluzionario. Coloro che propugnano di fatto un "socialismo da
caserma" e lo vogliono raggiungere espropriando l’autonoma decisionalità dei
movimenti sociali non possono che essere nostri avversari.
Quindi, pur di fronte alla ferocia repressiva dello stato,
non possiamo scordare il prezzo politico che costoro ci hanno fatto e ci faranno
pagare, e riserviamo loro esclusivamente la solidarietà dovuta a tutti gli
uomini e le donne privati della propria libertà in quella disumana istituzione
disciplinare chiamata carcere, del tutto indipendentemente dal motivo per cui ci
sono stati sbattuti dentro.
4 novembre 2003