I. La società classista e lo Stato
1. Lo Stato, prodotto
dell'antagonismo inconciliabile tra le classi
Accade oggi alla dottrina di
Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori
rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione.
Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la
loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta
con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti
campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli
in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa
aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e mistificazione delle
classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina
rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli
opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il
marxismo a un tale "trattamento". Si dimentica, si respinge, si snatura il lato
rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo
piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia. Tutti i
socialsciovinisti - non ridete! - sono oggi "marxisti". E gli scienziati
borghesi tedeschi sino a ieri specializzati nello sterminio del marxismo,
parlano sempre più spesso di un Marx "nazionaltedesco" che avrebbe educato i
sindacati operai, così magnificamente organizzati per condurre una guerra di
rapina!
Così stando le cose, e dato che
le deformazioni del marxismo si sono diffuse in modo inaudito, compito nostro è,
innanzi tutto, ristabilire la vera dottrina di Marx sullo Stato. Dovremo
a tal fine fare lunghe citazioni dalle opere stesse di Marx e di Engels.
Naturalmente queste lunghe citazioni renderanno più pesante l' esposizione e non
contribuiranno affatto a renderla popolare. Ma è assolutamente impossibile farne
a meno. Tutti i passi, o almeno tutti i passi fondamentali di Marx e di Engels
sullo Stato, debbono essere riportati in maniera quanto più è possibile
completa, perchè il lettore possa farsi un'idea personale dell'insieme delle
concezioni dei fondatori del socialismo scientifico, dello sviluppo di queste
concezioni e anche per dimostrare, con le prove alla mano, in modo evidente, che
il "kautskismo" attualmente dominante le ha snaturate.
Cominciamo con l'opera più
diffusa di F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e
dello Stato, pubblicata già nella sesta edizione a Stoccarda nel 1894.
Dobbiamo tradurre dall'originale tedesco perchè le traduzioni russe, per quanto
numerose, sono nella maggior parte incomplete o molto difettose.
"Lo Stato dunque - dice Engels,
arrivando alle conclusioni della sua analisi storica - non è affatto una potenza
imposta alla società dall'esterno e nemmeno "la realtà dell'idea etica",
"l'immagine e la realtà della ragione", come afferma Hegel. Esso è piuttosto un
prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la
confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con
se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a
eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici
in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge
la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che
attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell'"ordine"; e questa potenza che
emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre
più da essa, è lo Stato" (pp. 177-178, sesta edizione tedesca).
Qui è espressa, in modo
perfettamente chiaro, l'idea fondamentale del marxismo sulla funzione storica e
sul significato dello Stato. Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli
antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento
e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non
possono essere oggettivamente conciliati. E, per converso, l'esistenza dello
Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili.
E' precisamente su questo punto
di capitale e fondamentale importanza che comincia la deformazione deI marxismo,
deformazione che segue due linee principali.
Da un lato gli ideologi
borghesi, e soprattutto piccolo-borghesi, costretti a riconoscere, sotto la
pressione di fatti storici incontestabili, che lo Stato esiste soltanto dove
esistono antagonismi di classe e la lotta di classe, "correggono" Marx in modo
tale che lo Stato appare come l'organo della conciliazione delle classi.
Per Marx, se la conciliazione delle classi fosse possibile, lo Stato non avrebbe
potuto né sorgere né continuare ad esistere. Secondo i professori e pubblicisti
piccolo-borghesi e filistei - che molto spesso si riferiscono con compiacimento
a Marx - è proprio lo Stato a conciliare le classi. Per Marx lo Stato è l'organo
del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da
parte di un'altra; è la creazione di un "ordine" che legalizza e consolida
questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi. Per gli uomini
politici piccolo-borghesi l'ordine è precisamente la conciliazione delle classi
e non l'oppressione di una classe da parte di un'altra; attenuare il conflitto
vuol dire per essi conciliare e non già privare le classi oppresse di
determinati strumenti e mezzi di lotta per rovesciare gli oppressori.
Così nella rivoluzione del 1917,
quando la questione del significato e della funzione dello Stato si pose in
tutta la sua ampiezza, si pose praticamente come un problema di azione
immediata, e, per di più, di azione di massa, tutti i socialisti-rivoluzionari e
i menscevichi caddero subito e pienamente nella teoria piccolo-borghese della
"conciliazione" delle classi "per opera dello Stato". Innumerevoli risoluzioni e
articoli di uomini politici di quei due partiti sono profondamente impregnati di
questa teoria piccolo-borghese e filistea della "conciliazione". Che lo Stato
sia l'organo di dominio di una classe determinata, che non può essere
conciliata col suo antipode (la classe che è al polo opposto), la democrazia
piccolo-borghese non sarà mai in grado di capirlo. L'atteggiamento dei nostri
socialistirivoluzionari e dei nostri menscevichi verso lo Stato è una delle
prove più evidenti che essi non sono affatto dei socialisti (ciò che noi,
bolscevichi, abbiamo sempre dimostrato), ma dei democratici piccolo-borghesi che
usano una fraseologia quasi socialista.
D'altra parte, la deformazione "kautskiana"
del marxismo è molto più sottile. "Teoricamente" non si contesta che lo Stato
sia l'organo del dominio di classe, né che gli antagonismi di classe siano
inconciliabili. Ma si trascura o attenua quanto segue: se lo Stato è un prodotto
dell'inconciliabilità degli antagonismi di classe, se esso è una forza che sta
al di sopra della società e che "si estranea sempre più dalla
società", è evidente che la liberazione della classe oppressa è impossibile non
soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione
dell'apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante e nel
quale questa "estraneazione" si è materializzata. Questa conclusione,
teoricamente di per sé chiara, è stata tratta da Marx con perfetta precisione,
come vedremo più tardi, dall' analisi storica concreta dei compiti della
rivoluzione. Kautsky ha... "dimenticato" e travisato appunto questa conclusione,
come dimostreremo particolareggiatamente nel seguito della nostra esposizione.
2. Distaccamenti speciali di
uomini armati, prigioni, ecc.
"...Nei confronti dell'antica
organizzazione gentilizia [della tribù o del clan] - continua Engels - il primo
segno distintivo dello Stato è la divisione dei cittadini..."
Questa divisione a noi sembra
"naturale", ma essa richiese una lunga lotta con l'antica organizzazione per
clan o per stirpi.
"...Il secondo punto è
l'istituzione di una forza pubblica che non coincide più direttamente con
la popolazione che organizza se stessa come potere armato. Questa forza pubblica
particolare è necessaria perchè un'organizzazione armata autonoma della
popolazione è divenuta impossibile dopo la divisione in classi... Questa forza
pubblica esiste in ogni Stato e non consta semplicemente di uomini armati, ma
anche di appendici reali, prigioni e istituti di pena di ogni genere, di cui
nulla sapeva la società gentilizia... ".
Engels sviluppa la nozione di
questa "forza", chiamata Stato, forza che è sorta dalla società ma che si pone
al di sopra di essa e se ne estranea sempre più. In che consiste principalmente
questa forza? Essa consiste anzitutto in distaccamenti speciali di uomini armati
che dispongono di prigioni, ecc.
Abbiamo il diritto di parlare di
distaccamenti speciali di uomini armati, perchè il potere pubblico proprio di
ogni Stato "non coincide più direttamente" con la popolazione armata, con la sua
"organizzazione armata autonoma".
Come tutti i grandi pensatori
rivoluzionari, Engels si sforza di attirare l'attenzione dei lavoratori
coscienti su ciò che il filisteismo dominante considera come meno degno
d'attenzione, come più usuale, come cosa consacrata da pregiudizi non solo
tenaci, ma, si potrebbe dire, fossilizzati. L'esercito permanente e la polizia
sono i principali strumenti di forza del potere statale. Ma potrebbe forse
essere altrimenti?
Per la gran maggioranza degli
europei della fine del secolo decimonono, a cui Engels si rivolgeva, e che non
avevano vissuto né osservato da vicino nessuna grande rivoluzione, non poteva
essere altrimenti. Essi non comprendevano assolutamente che cosa fosse questa
"organizzazione armata autonoma della popolazione". Perchè è apparsa la
necessità di distaccamenti speciali di uomini armati (polizia, esercito
permanente), posti al di sopra della società e che si estraneano da essa? A tale
domanda i filistei dell'Europa occidentale o della Russia sono inclini a
rispondere con una copia di frasi prese in prestito da Spencer o da Mikhailovski
e tirano in ballo la crescente complessità della vita sociale, la
differenziazione delle funzioni, ecc.
Questi argomenti sembrano
"scientifici" ed assopiscono meravigliosamente il buon pubblico, velando la cosa
principale, essenziale: la scissione della società in classi inconciliabilmente
nemiche.
Se non ci fosse questa
scissione, "l'organizzazione armata autonoma della popolazione" differirebbe per
la sua complessità, per la sua tecnica progredita, ecc. dall'organizzazione
primitiva d'un branco di scimmie armate di bastoni, o da quella di uomini
primitivi o associati in clan, ma tuttavia sarebbe possibile.
Essa è impossibile perchè la
società civile è divisa in classi ostili, e per di più inconciliabilmente
ostili, il cui armamento "autonomo" determinerebbe una lotta armata fra di esse.
Lo Stato si forma; si crea una forza distinta, si creano distaccamenti speciali
di uomini armati; e ogni rivoluzione, distruggendo l'apparato statale, ci
dimostra con tutta evidenza come la classe dominante si sforza di ricostruire
distaccamenti speciali di uomini armati che la servano, e come la classe
oppressa si sforza di creare una nuova organizzazione dello stesso genere,
capace di servire non più gli sfruttatori, ma gli sfruttati.
Nel passo citato, Engels pone
teoricamente lo stesso problema che ogni grande rivoluzione pone praticamente
davanti a noi con evidenza, e, inoltre, nell'ampiezza di una azione di massa, e
precisamente: il problema del rapporto tra i distaccamenti "speciali" di uomini
armati e l' "organizzazione armata autonoma della popolazione". Vedremo come
questo problema è concretamente illustrato dalla esperienza delle rivoluzioni
europee e russe.
Ma torniamo all' esposizione di
Engels.
Egli mostra che talvolta, per
esempio in certe regioni dell'America del Nord, il potere pubblico è debole (si
tratta di un'eccezione assai rara nella società capitalistica e delle regioni
dell' America del Nord in cui, nel periodo preimperialistico, predominava il
colono libero), ma che, in generale, esso va rafforzandosi:
[ La forza pubblica] "...si
rafforza nella misura in cui gli antagonismi di classe all'interno dello Stato
si acuiscono e gli Stati tra loro confinanti diventano più grandi e popolosi.
Basta guardare la nostra Europa di oggi, in cui la lotta di classe e la
concorrenza nelle conquiste ha portato il potere pubblico a un'altezza da cui
minaccia di inghiottire l'intera società e perfino lo Stato".
Queste righe furono scritte poco
dopo il 1890, non più tardi. L'ultima prefazione di Engels ha la data del 16
giugno 1891. L'evoluzione verso l'imperialismo - sia nel senso del dominio
assoluto dei trust che dell'onnipotenza delle grandi banche e della politica
coloniale in grande, ecc. - era in quel tempo appena ai primi albori in Francia;
ed ancora più debole era in America e in Germania. Da allora la "concorrenza
nelle conquiste" ha fatto passi da gigante, tanto più che il globo terrestre si
era trovato all'inizio del decennio 1910-1920 definitivamente spartito fra
questi "concorrenti nelle conquiste", cioè fra le grandi potenze predatrici. Da
allora gli armamenti di terra e di mare si sono accresciuti in proporzioni
incredibili, e la guerra di rapina del 1914-1917, per il dominio sul mondo
dell'Inghilterra o della Germania e per una ripartizione del bottino, ha
avvicinato a una catastrofe completa il processo grazie al quale un potere
statale vorace "minaccia di inghiottire" tutte le forze della società.
Sin dal 1891 Engels aveva saputo
denunciare la "concorrenza nelle Conquiste" come una delle più importanti
caratteristiche della politica estera delle grandi potenze, mentre i mascalzoni
del socialsciovinismo, nel 1914-1917, quando appunto questa rivalità, diventata
ancora più acuta, ha generato la guerra imperialista, coprono la loro difesa
degli interessi predatori della "loro" borghesia con frasi sulla "difesa della
patria", sulla "difesa della repubblica e della rivoluzione", ecc.!
3. Lo Stato, strumento di
sfruttamento della classe oppressa
Per mantenere un potere pubblico
speciale, posto al di sopra della società, sono necessarie delle imposte e un
debito pubblico.
"...In possesso della forza
pubblica e del diritto di riscuotere imposte, - scrive Engels - i funzionari
appaiono ora come organi della società al di sopra della società. La
libera, volontaria stima che veniva tributata agli organi della costituzione
gentilizia non basta loro, anche se potessero riscuoterla." Si fanno leggi
speciali sulla santità e sull'inviolabilità dei funzionari. Il "più misero
poliziotto" ha più "autorità" degli organi della società gentilizia, ma persino
...il capo dell'esercito di un paese civile potrebbe invidiare al capo
gentilizio la stima spontanea e incontestata che gli viene tributata"
Si pone qui la questione dei
privilegi dei funzionari quali organi del potere statale. Il punto essenziale è
questo: che cosa li pone al di sopra della società? Vedremo come questa
questione teorica sia stata risolta in pratica dalla Comune di Parigi nel 1871 e
come sia stata messa in ombra in modo reazionario da Kautsky nel 1912.
"...Lo Stato, poiché è nato dal
bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è
nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della
classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche
politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa
e per sfruttare la classe oppressa"...Non solo lo Stato antico e lo Stato
feudale erano organi deIlo sfruttamento degli schiavi e dei servi, ma anche "lo
Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro
salariato da parte del capitale. Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi
in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali, cosicchè il potere
statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa
autonomia di fronte ad entrambe". Così la monarchia assoluta dei secoli
decimosettimo e decimottavo, il bonapartismo del primo e del secondo Impero in
Francia, Bismarck in Germania.
Così aggiungiamo noi, il governo
di Kerenski nella Russia repubblicana, dopo ch'esso è passato alle persecuzioni
contro il proletariato rivoluzionario nel momento in cui i Soviet sono già
impotenti per causa dei loro dirigenti piccolo-borghesi, e la borghesia non è
ancora abbastanza forte per scioglierli senz'altro.
Nella repubblica democratica -
continua Engels - "la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in
maniera tanto più sicura", in primo luogo con la "corruzione diretta dei
funzionari" (America), in secondo luogo con "l'alleanza tra governo e Borsa"
(Francia e America).
Nel momento attuale,
l'imperialismo e il dominio delle banche "hanno sviluppato" sino a farne un'arte
raffinata, in qualsiasi repubblica democratica, questi due metodi di difesa e di
realizzazione dell'onnipotenza della ricchezza. Se, per esempio, fin dai primi
mesi della repubblica democratica in Russia, durante, per così dire, la luna di
miele del connubio dei "socialisti" - socialisti-rivoluzionari e menscevichi -
con la borghesia nel governo di coalizione, il signor Palcinski ha sabotato
tutti i provvedimenti tendenti a frenare i capitalisti e la loro speculazione,
il saccheggio da parte loro dell'erario mediante le forniture militari; se in
seguito il signor Palcinski, uscito dal ministero (e naturalmente sostituito da
una altro Palcinski del suo stesso stampo), è stato "gratificato" dai
capitalisti di una piccola sinecura con uno stipendio di centoventimila rubli
all'anno, - che cosa è questo? corruzione diretta o indiretta? alleanza del
governo con le organizzazioni dei capitalisti o "semplicemente" relazioni di
buona amicizia? Quale funzione hanno i Cernov e gli Tsereteli, gli Avksentiev e
gli Skobelev? Sono alleati "diretti", o soltanto indiretti, dei milionari
concussionari?
L'onnipotenza della "ricchezza"
è, in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende
da un cattivo involucro politico del capitalismo. La repubblica democratica è il
migliore involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il
capitale, dopo essersi impadronito (grazie ai Palcinski, ai Cernov, agli
Tsereteli e consorti) di questo involucro - che è il migliore - fonda il suo
potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento,
né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell'ambito della repubblica
democratica borghese può scuoterlo.
Bisogna ancora rilevare che
Engels definisce in modo categorico il suffragio universale come uno strumento
di dominio della borghesia. Il suffragio universale, egli dice, tenendo
evidentemente conto della lunga esperienza della socialdemocrazia tedesca, è
"la misura della maturità della
classe operaia. Più non può né potrà mai essere nello Stato odierno".
I democratici piccolo-borghesi,
sul tipo dei nostri socialistirivoluzionari e dei nostri menscevichi, come i
loro fratelli, tutti i socialsciovinisti e opportunisti dell'Europa occidentale,
aspettano dal suffragio universale proprio qualche cosa "di più". Essi
condividono e inculcano nel popolo la falsa concezione che il suffragio
universale possa "nello Stato odierno" esprimere realmente la volontà
della maggioranza dei lavoratori e assicurarne la realizzazione.
Noi possiamo qui soltanto
rilevare che questa concezione è falsa e far notare che l'affermazione chiara,
precisa e concreta di Engels è ad ogni passo travisata nella propaganda e
nell'agitazione dei partiti socialisti "ufficiali" (cioè opportunisti).
Dimostreremo in modo particolareggiato quanto sia falsa la concezione che Engels
qui respinge, esponendo più avanti le teorie di Marx e di Engels sullo Stato
odierno.
Nella sua opera più popolare,
Engels dà un riassunto conclusivo delle sue concezioni con le parole seguenti:
"Lo Stato non esiste dunque
dall'eternità. Vi sono state società che ne hanno fatto a meno e che non avevano
alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado dello sviluppo
economico, necessariamente legato alla divisione della società in classi,
proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato una necessità. Ci
avviciniamo ora, a rapidi passi, ad uno stadio di sviluppo della produzione nel
quale la esistenza di queste classi non solo ha cessato di essere una necessità
ma diventa un ostacolo effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così
ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente lo Stato. La
società, che riorganizza la produzione in base a una libera ed eguale
associazione di produttori, relega l'intera macchina statale nel posto che da
quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per
filare e all'ascia di bronzo".
Questa citazione non accade di
incontrarla spesso nella letteratura di propaganda e di agitazione della
socialdemocrazia contemporanea. E quando la si ricorda, lo si fa per lo più come
se ci si volesse genuflettere davanti a un'icona, per rendere cioè ufficialmente
omaggio a Engels, senza il minimo tentativo di riflettere sull'ampiezza e la
profondità della rivoluzione che è presupposta in questo "relegare l'intera
macchina statale nel museo delle antichità". Il più delle volte non si arriva
neppure a comprendere ciò che Engels intende per macchina dello Stato.
4. L'"estinzione" dello Stato e la
rivoluzione violenta
Le parole di Engels
sull'"estinzione" dello Stato godono di una così larga notorietà, sono così
spesso citate, mettono così bene in rilievo l'essenza stessa della
falsificazione abituale del marxismo acconciato alla maniera opportunista, che è
necessario soffermarsi su di esse in modo particolare. Citiamo tutto il passo da
cui sono tratte:
"Il proletariato si
impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione
in proprietà dello Stato. Ma così sopprime se stesso come proletariato,
sopprime ogni differenza di classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche
lo Stato come Stato. La società esistita sinora, muoventesi sul piano degli
antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè di una organizzazione
della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le condizioni esterne
della sua produzione e quindi specialmente per tener con la forza la classe
sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione
(schiavitù, servitù della gleba, semiservitù feudale, lavoro salariato). Lo
Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua sintesi in un
corpo visibile, ma lo era in quanto era lo Stato di quella classe che per il suo
tempo rappresentava, essa stessa, tutta quanta la società: nell'antichità era lo
Stato dei cittadini padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della nobiltà
feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia. Ma, diventando alla fine
effettivamente il rappresentante di tutta la società, si rende, esso stesso,
superfluo. Non appena non ci sono più classi sociali da mantenere
nell'oppressione, non appena con l'eliminazione del dominio di classe e della
lotta per l'esistenza individuale fondata sull'anarchia della produzione sinora
esistente, saranno eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da
tutto ciò, non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria una
forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo Stato si
presenta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di
possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società, è ad un tempo
l'ultimo suo atto indipendente in quanto Stato. L'intervento di una forza
statale nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni campo e
poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle persone appare
l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato
non viene " abolito": esso si estingue. Questo è l'apprezzamento che deve
farsi della frase "Stato popolare libero", tanto quindi per la sua
giustificazione temporanea in sede di agitazione, quanto per la sua definitiva
insufficienza in sede scientifica; e questo è del pari l'apprezzamento che deve
farsi dell'esigenza dei cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere abolito
dall'oggi al domani" ( Antidühring. [La scienza sovvertita dal signor
Eugenio Dühring], pp. 302-303, terza ed. tedesca, 1894).
Si può dire senza timore di
sbagliare che di tutto questo ragionamento di Engels, straordinariamente ricco
di idee, i partiti socialisti di oggi non hanno veramente acquisito nel loro
pensiero che la formula secondo cui, per Marx, lo Stato "si estingue", in
contrapposizione alla dottrina anarchica dell'"abolizione" dello Stato. Amputare
in tal modo il marxismo vuol dire ridurlo all'opportunismo, poichè, dopo una
tale "interpretazione" non rimane che il concetto vago di un cambiamento lento,
uguale, graduale, senza sussulti né tempeste, senza rivoluzione. La "estinzione"
dello Stato nel concetto corrente, generalmente diffuso, di massa, se così si
può dire, è senza dubbio la scomparsa, se non la negazione, della rivoluzione.
Ebbene, questa "interpretazione"
è la piu grossolana deformazione del marxismo, utile solo alla borghesia, ed è
teoricamente possibile solo se si trascurano i principali elementi e, per
esempio, gli argomenti indicati nello stesso ragionamento "conclusivo" di Engels
che abbiamo citato per esteso.
Primo. Proprio al principio del
suo ragionamento Engels dice che il proletariato, impadronendosi del potere
sopprime con ciò "Lo Stato in quanto Stato". Riflettere sul significato di
questa frase è cosa che "non entra nelle abitudini". Per lo più o si trascura
completamente questo pensiero o vi si vede una specie di "debolezza hegeliana"
di Engels. In realtà, in queste parole è espressa in forma incisiva l'esperienza
di una delle più grandi rivoluzioni proletarie, l'esperienza della Comune di
Parigi del 1871, di cui parleremo a lungo più avanti. In realtà, Engels parla
qui di "soppressione" dello Stato della borghesia per opera della
rivoluzione proletaria, mentre ciò ch'egli dice sull'estinzione dello Stato
riguarda i resti dello Stato proletario che sussisteranno dopo la
rivoluzione socialista. Lo Stato borghese, secondo Engels, non "si estingue";
esso viene "soppresso" dal proletariato nel corso della rivoluzione. Ciò
che si estingue dopo questa rivoluzione, è lo Stato proletario o semi-Stato.
Secondo. Lo Stato è una "forza
repressiva particolare". Questa definizione di Engels, meravigliosa e in sommo
grado profonda, è qui enunciata con perfetta chiarezza. E ne deriva che questa
"forza repressiva particolare" del proletariato da parte della borghesia, di
milioni di lavoratori da parte di un pugno di ricchi, deve essere sostituita da
una "forza repressiva particolare" della borghesia da parte del proletariato
(dittatura del proletariato). In ciò appunto consiste "la soppressione dello
Stato in quanto Stato". In ciò consiste 1'"atto" della presa di possesso dei
mezzi di produzione in nome della società. E' ovvio che questa
sostituzione di una "forza particolare" (quella della borghesia) con un'altra
"forza particolare" (quella del proletariato), non può avvenire nella forma di
"estinzione".
Terzo. Questa "estinzione", o,
per parlare con più risalto e più colore, questo "assopimento", Engels lo
riferisce in modo chiaro ed evidente al periodo che segue "la presa di
possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società", cioè al periodo
che segue la rivoluzione socialista. E' noto a tutti noi che la forma
politica dello "Stato" in tale momento è la democrazia più completa. Ma a
nessuno degli opportunisti che snaturano sfrontatamente il marxismo viene in
mente che qui si tratta quindi, in Engels, dell'"assopimento" e
dell'"estinzione" della democrazia. A prima vista ciò pare molto strano;
ma è "incomprensibile" soltanto per chi non ricordi che anche la democrazia è
uno Stato e che anch'essa, quindi, scompare quando scompare lo Stato. Solo la
rivoluzione può "sopprimere" lo Stato borghese. Lo Stato in generale, cioè la
democrazia più completa, non può che "estinguersi".
Quarto. Enunciando la sua
celebre tesi: "Lo Stato si estingue", Engels si affretta a precisare che essa è
diretta e contro gli opportunisti e contro gli anarchici. Inoltre da Engels è
posta in primo piano quella conclusione dalla tesi sull'"estinzione dello Stato"
che è diretta contro gli opportunisti.
Si può scommettere che su
diecimila persone che hanno letto o hanno sentito parlare dell'"estinzione"
dello Stato, novemilanovecentonovanta ignorano assolutamente o hanno dimenticato
che Engels dirigeva le conclusioni di questa tesi non soltanto contro gli
anarchici. E sulle dieci che restano, ce ne sono certamente nove che non sanno
che cosa sia "lo Stato popolare libero", e perchè mai nell'attacco contro questa
parola d'ordine è contenuto un attacco contro gli opportunisti. Così si scrive
la storia! Così si altera in sordina la grande dottrina rivoluzionaria
accomodandola alla maniera del filisteismo dominante. La conclusione contro gli
anarchici è stata mille volte ripetuta, banalizzata, conficcata nel modo più
semplicista nei cervelli e ha acquistato la tenacia di un pregiudizio. E la
conclusione contro gli opportunisti è stata messa in ombra e "dimenticata "!
Lo "Stato popolare libero" era
una rivendicazione programmatica, una parola d'ordine corrente dei
socialdemocratici tedeschi degli anni 1870-1880. In questa parola d'ordine non
v'è alcun contenuto politico salvo una pomposa enunciazione piccolo-borghese
della nozione di democrazia. In quanto essa faceva legalmente allusione alla
repubblica democratica, Engels era disposto a "giustificarla" "temporaneamente"
dal punto di vista dell'agitazione. Ma questa parola d'ordine era opportunista,
non soltanto perchè imbelliva la democrazia borghese, ma anche perchè esprimeva
l'incomprensione della critica socialista di ogni Stato in generale. Noi siamo
per la repubblica democratica, in quanto essa è, in regime capitalista, la forma
migliore di Stato per il proletariato, ma non abbiamo il diritto di dimenticare
che la sorte riservata al popolo, anche nella più democratica delle repubbliche
borghesi, è la schiavitù salariata. Proseguiamo. Ogni Stato è una "forza
repressiva particolare" della classe oppressa. Quindi uno Stato, qualunque
esso sia, non è libero e non è popolare. Marx ed Engels l'hanno
spiegato cento volte ai loro compagni di partito negli anni 1870-1880.
Quinto. La stessa opera di
Engels, in cui si trova il ragionamento sull'estinzione dello Stato che tutti
ricordano, contiene anche una considerazione sul significato della rivoluzione
violenta. La valutazione storica della sua funzione si trasforma in Engels in un
vero panegirico della rivoluzione violenta. Nessuno "se ne ricorda"; nei partiti
socialisti contemporanei non usa parlare dell'importanza di questa idea e
nemmeno pensarvi; nella propaganda e nell'agitazione quotidiana fra le masse
queste idee non trovano nessun posto. Eppure esse sono indissolubilmente legate
all'idea dell'"estinzione" dello Stato, con la quale formano un tutto.
Ecco questa considerazione di
Engels:
"...che la violenza abbia nella
società ancora un'altra funzione [oltre al male che essa produce], una funzione
rivoluzionaria, che essa, secondo le parole di Marx, sia la levatrice di ogni
vecchia società gravida di una nuova, che essa sia lo strumento con cui si
compie il movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e
morte, di tutto questo nel sig. Dühring non si trova neanche una parola. Solo
con sospiri e con gemiti egli ammette la possibilità che per abbattere
l'economia dello sfruttamento sarà forse necessaria la violenza...purtroppo!
Infatti [secondo Dühring] ogni uso di violenza demoralizza colui che la usa. E
questo di fronte all'elevato slancio morale e intellettuale che è stato il
risultato di ogni rivoluzione vittoriosa! E questo in Germania, dove una
violenta collisione, che potrebbe anche essere imposta al popolo, avrebbe almeno
il vantaggio di estirpare lo spirito servile che, a causa dell' avvilimento
conseguente alla guerra dei trenta anni, ha permeato la coscienza nazionale. E
questa mentalità da predicatore, fiacca, insipida e impotente, ha la pretesa di
imporsi al partito più rivoluzionario che la storia conosca?" (p. 193, terza ed.
tedesca, fine del 4° capitolo, II parte).
Come unire nella stessa dottrina
questo panegirico della rivoluzione violenta, tenacemente presentato da Engels
ai socialdemocratici tedeschi dal 1878 al 1894, cioè fino alla sua morte , e la
teoria dell' "estinzione" dello Stato?
Di solito li si unisce con un
procedimento eclettico, ricorrendo senza criterio e in modo sofistico,
arbitrariamente (o per compiacere ai detentori del potere), ora all'uno, ora
all'altro di questi ragionamenti, e novantanove volte su cento, se non di più, è
precisamente 1'"estinzione" che è messa in primo piano. L'eclettismo è
sostituito alla dialettica; nei confronti del marxismo questa è la cosa più
consueta, più frequente nella letteratura socialdemocratica ufficiale dei nostri
giorni. Questa sostituzione non è certo una novità; si potè osservarla persino
nella storia della filosofia greca classica. Nella falsificazione opportunista
del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più
facilità le masse, dà loro una apparente soddisfazione, finge di tener conto di
tutti gli aspetti del processo di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le
influenze contraddittorie ecc., ma in realtà non dà alcuna nozione completa e
rivoluzionaria del processo di sviluppo della società.
Abbiamo già detto prima, e lo
dimostreremo in modo più particolareggiato nel seguito della nostra
argomentazione, che la dottrina di Marx e di Engels sulla necessità della
rivoluzione violenta si riferisce allo Stato borghese. Questo non può
essere sostituito dallo Stato proletario (dittatura del proletariato) per via di
"estinzione"; può esserlo unicamente, come regola generale, per mezzo della
rivoluzione violenta. Il panegirico con cui Engels esalta la rivoluzione
violenta concorda pienamente con le numerose dichiarazioni di Marx (ricordiamo
la conclusione della Miseria della filosofia e del Manifesto del
Partito comunista che proclama fieramente e categoricamente l'ineluttabilità
della rivoluzione violenta; ricordiamo la critica del programma di Gotha nel
1875, circa trent'anni più tardi, dove Marx flagella implacabilmente
l'opportunismo di questo programma). Questo panegirico non è per nulla effetto
di una "infatuazione", né una declamazione, né una trovata polemica. La
necessità di educare sistematicamente le masse in questa - e precisamente
in questa - idea della rivoluzione violenta, è alla base di tutta la
dottrina di Marx e di Engels. Il tradimento della loro dottrina perpetrato dalle
tendenze socialsciovinista e kautskiana oggi dominanti si esprime con
particolare rilievo nell'oblio di questa propaganda, di questa agitazione
da parte dell'una e dell'altra.
La sostituzione dello Stato
proletario allo Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta. La
soppressione dello Stato proletario, cioè la soppressione di ogni Stato, non è
possibile che per via di "estinzione".
Marx ed Engels svilupparono
queste concezioni in modo particolareggiato e concreto, studiando ogni
situazione rivoluzionaria particolare, analizzando gli insegnamenti forniti
dall'esperienza di ogni rivoluzione. Passiamo a questa parte, - indubbiamente la
più importante, - della loro dottrina.
II. Lo Stato e la rivoluzione.
L'esperienza del 1848-1851
1. La vigilia della rivoluzione
Le prime opere del marxismo
giunto a maturità, la Miseria della filosofia e il Manifesto del
Partito comunista, appartengono appunto al periodo che precede
immediatamente la rivoluzione del 1848. Grazie a questa circostanza, noi
troviamo in esse, in una certa misura, accanto all'esposizione dei princípi
generali del marxismo, un riflesso della situazione rivoluzionaria concreta di
quel tempo; conviene quindi, io credo, studiare ciò che gli autori di queste
opere dicono dello Stato, immediatamente prima di esporre le loro conclusioni
sull'esperienza degli anni 1848-1851.
" ...La classe lavoratrice
scrive Marx nella Miseria della filosofia - sostituirà, nel corso del suo
sviluppo, all'antica società civile un'associazione che escluderà le classi e il
loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché
il potere politico è precisamente il riassunto ufficiale dell'antagonismo [delle
classi] nella società civile" (p. 182, ed. tedesca, 1885).
E' istruttivo mettere a
confronto questa esposizione generale dell'idea della scomparsa dello Stato dopo
l'abolizione delle classi con l'esposizione fattane nel Manifesto del Partito
comunista, scritto da Marx e da Engels alcuni mesi più tardi, cioè nel
novembre del 1847.
"...Tratteggiando le fasi più
generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o
meno occulta entro la società attuale fino al momento in cui essa esplode in una
rivoluzione aperta, e col rovesciamento violento della borghesia il proletariato
stabilisce il suo dominio...
"...Abbiamo già visto sopra come
il primo passo nella rivoluzione operaia sia l'elevarsi del proletariato a
classe dominante, la conquista della democrazia.
"Il proletariato si servirà
della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto
il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello
Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e
per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze
produttive" (pp. 31 e 37, settima edizione tedesca, 1906).
Vediamo qui formulata una delle
più notevoli e importanti idee del marxismo a proposito dello Stato, l'idea
della "dittatura del proletariato" ( espressione che Marx ed Engels cominciano
ad usare dopo la Comune di Parigi) vi troviamo in seguito una definizione dello
Stato del più alto interesse e che fa anch'essa parte delle "parole dimenticate"
del marxismo: "lo Stato, vale a dire il proletariato organizzato come classe
dominante".
Questa definizione dello Stato
non solo non è mai stata commentata nella letteratura di propaganda e di
agitazione che predomina nei partiti socialdemocratici ufficiali. Peggio ancora,
essa è stata dimenticata appunto perché è assolutamente inconciliabile col
riformismo e perché contrasta in modo irriducibile con i pregiudizi
opportunistici abituali e con le illusioni piccolo-borghesi sullo "sviluppo
pacifico della democrazia".
Il proletariato ha bisogno di
uno Stato, ripetono tutti gli opportunisti, i socialsciovinisti e i kautskiani,
assicurando che questa è la dottrina di Marx, ma "dimenticando" di aggiungere
che innanzi tutto il proletariato, secondo Marx, ha bisogno unicamente di uno
Stato in via di estinzione, organizzato cioè in modo tale che cominci subito ad
estinguersi, e non possa non estinguersi. E, in secondo luogo, che i lavoratori
hanno bisogno dello "Stato", "cioè del proletariato organizzato come classe
dominante".
Lo Stato è un'organizzazione
particolare della forza, è l'organizzazione della violenza destinata a reprimere
una certa classe. Qual è, dunque, la classe che il proletariato deve reprimere?
Evidentemente una sola: la classe degli sfruttatori, vale a dire la borghesia. I
lavoratori hanno bisogno dello Stato solo per reprimere la resistenza degli
sfruttatori, e solo il proletariato è in grado di dirigere e di attuare questa
repressione, perché il proletariato è la sola classe rivoluzionaria fino in
fondo, la sola classe capace di unire tutti i lavoratori e tutti gli sfruttati
nella lotta contro la borghesia, per soppiantarla completamente.
Le classi sfruttatrici hanno
bisogno del dominio politico per il mantenimento dello sfruttamento, vale a dire
nell'interesse egoistico di un'infima minoranza contro l'immensa maggioranza del
popolo. Le classi sfruttate hanno bisogno del dominio politico per sopprimere
completamente ogni sfruttamento, vale a dire nell'interesse dell'immensa
maggioranza del popolo, contro l'infima minoranza dei moderni schiavisti: i
proprietari fondiari e i capitalisti.
I democratici piccolo-borghesi,
questi sedicenti socialisti che hanno sostituito alla lotta delle classi le loro
fantasticherie sull'intesa fra le classi, si sono rappresentati anche la
trasformazione socialista come una fantasticheria; non come l'abbattimento del
dominio della classe sfruttatrice, ma come la sottomissione pacifica della
minoranza alla maggioranza, consapevole dei propri compiti. Questa utopia
piccolo-borghese, indissolubilmente legata al riconoscimento di uno Stato al di
sopra delle classi, praticamente non ha portato ad altro che al tradimento degli
interessi delle classi lavoratrici, come è stato provato, per esempio, dalla
storia delle rivoluzioni francesi del 1848 e del 1871, come è stato provato
dall'esperienza della partecipazione "socialista" ai ministeri borghesi in
Inghilterra, in Francia, in Italia e altrove alla fine del secolo decimonono e
all'inizio del secolo ventesimo.
Marx lottò tutta la vita contro
un tale socialismo piccolo-borghese, risuscitato oggi in Russia dai partiti
socialista-rivoluzionario e menscevico. Marx sviluppò la dottrina della lotta di
classe in modo coerente, ricavando da essa la dottrina del potere politico,
dello Stato.
L'abbattimento del dominio
borghese è possibile soltanto ad opera del proletariato, come classe
particolare, preparata a questo rovesciamento dalle proprie condizioni
economiche di esistenza che gli danno la possibilità e la forza di compierlo.
Mentre la borghesia fraziona, disperde la classe contadina e tutti gli strati
piccolo-borghesi, essa concentra, raggruppa e organizza il proletariato. Grazie
alla sua funzione economica nella grande produzione, solo il proletariato è
capace di essere la guida di tutti i lavoratori e di tutte le
masse sfruttate, che la borghesia spesso sfrutta, opprime, schiaccia non meno e
anche più dei proletari, ma che sono incapaci di lottare indipendentemente
per la loro emancipazione.
La dottrina della lotta di
classe, applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, porta
necessariamente a riconoscere il dominio politico del
proletariato, la sua dittatura, il potere cioè ch'esso non divide con nessuno e
che si appoggia direttamente sulla forza armata delle masse. L'abbattimento
della borghesia non è realizzabile se non attraverso la trasformazione del
proletariato in classe dominante, capace di reprimere la resistenza
inevitabile, disperata della borghesia, di organizzare per un nuovo regime
economico tutte le masse lavoratrici e sfruttate.
Il potere statale,
l'organizzazione centralizzata della forza, l'organizzazione della violenza,
sono necessari al proletariato sia per reprimere la resistenza degli
sfruttatori, sia per dirigere l'immensa massa della popolazione -
contadini, piccola borghesia, semiproletariato - nell' opera di "avviamento"
dell'economia socialista.
Educando il partito operaio, il
marxismo educa una avanguardia del proletariato, capace di prendere il potere e
di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e di
organizzare il nuovo regime, d'essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti
i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell'organizzazione della loro vita
sociale senza la borghesia e contro la borghesia. L'opportunismo oggi dominante
educa invece il partito operaio in modo da farne il rappresentante dei
lavoratori meglio retribuiti, che si staccano dalle masse, "si sistemano"
abbastanza comodamente nel regime capitalistico e vendono per un piatto di
lenticchie il loro diritto di primogenitura, rinunciando cioè alla loro funzione
di guida rivoluzionaria del popolo nella lotta contro la borghesia.
"Lo Stato, vale a dire il
proletariato organizzato come classe dominante", - questa teoria di Marx è
indissolubilmente legata a tutta la sua dottrina sulla funzione rivoluzionaria
del proletariato nella storia. Questa funzione culmina nella dittatura
proletaria, nel dominio politico del proletariato.
Ma se il proletariato ha bisogno
dello Stato in quanto organizzazione particolare della violenza contro la
borghesia, ne scaturisce spontaneamente la conclusione: la creazione di una tale
organizzazione è concepibile senza che sia prima annientata, distrutta la
macchina dello Stato che la borghesia ha creato per sé? Il Manifesto
del Partito comunista conduce direttamente a questa conclusione, ed è di
questa conclusione che Marx parla quando fa il bilancio dell'esperienza della
rivoluzione del 1848-l851.
2. Il bilancio di una rivoluzione
Sul problema dello Stato che ci
interessa, Marx, nella sua opera Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, fa con
questo ragionamento il bilancio dei risultati della rivoluzione del 1848-l851.
"...Ma la rivoluzione va fino al
fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo.
Fino al 2 dicembre [1851]" (data del colpo di Stato di Luigi Bonaparte) "non ha
condotto a termine che la prima metà della sua preparazione; ora sta compiendo
l'altra metà. Prima ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per
poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla
perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura,
lo isola, si leva di fronte ad esso come l'unico ostacolo, per concentrare
contro di esso tutte le sue forze di distruzione" ( il corsivo è nostro). "E
quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro
preparatorio, l'Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia
talpa!
"Questo potere esecutivo, con la
sua enorme organizzazione burocratica e militare, col suo meccanismo statale
complicato e artificiale, con un esercito di impiegati di mezzo milione accanto
a un altro esercito di mezzo milione di soldati, questo spaventoso corpo
parassitario che avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne
ostruisce tutti i pori, si costituì nel periodo della monarchia assoluta, al
cadere del sistema feudale, la cui caduta aiutò a rendere più rapida." La prima
rivoluzione francese sviluppò la centraIizzazione, "e in pari tempo dovette
sviluppare l'ampiezza, gli attributi e gli strumenti del potere governativo.
Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo delIo Stato. La monarchia
legittima e la monarchia di luglio non vi aggiunsero nulla, eccetto una più
grande divisione del lavoro...
" ...La repubblica parlamentare,
infine, si vide costretta a rafforzare nella sua lotta contro la rivoluzione,
assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del
potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che
perfezionare questa macchina, invece di spezzarla" (il corsivo è nostro). "I
partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il possesso di
questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore" (Il
18 Brumaio di Luigi Bonaparte, pp. 98-99, quarta ed. tedesca, Amburgo,
1907).
In questo ammirevole
ragionamento il marxismo fa un grandissimo passo in avanti in confronto al
Manifesto del Partito comunista. Il problema dello Stato nel Manifesto
era posto in modo ancora troppo astratto, in nozioni e termini dei più generici.
Qui il problema è posto concretamente e la conclusione è estremamente precisa,
ben definita, praticamente tangibile: tutte le rivoluzioni precedenti non fecero
che perfezionare la macchina dello Stato, mentre bisogna spezzarla, demolirla.
Questa conclusione è la cosa
principale, essenziale della dottrina marxista sullo Stato. E appunto questa
cosa essenziale non solo è stata completamente dimenticata dai partiti
socialdemocratici ufficiali dominanti, ma è stata perfino snaturata (come
vedremo) dal più eminente teorico della Seconda Internazionale, K. Kautsky.
Nel Manifesto del Partito
comunista si ricavano gli insegnamenti generali della storia; questi
insegnamenti ci mostrano lo Stato come l'organo del dominio di una classe e ci
portano a questa necessaria conclusione: il proletariato non potrebbe rovesciare
la borghesia senza aver prima conquistato il potere politico, senza essersi
assicurato il dominio politico, senza trasformare lo Stato in "proletariato
organizzato come classe dominante"; e questo Stato proletario comincerà ad
estinguersi subito dopo la sua vittoria, poichè lo Stato è inutile ed
impossibile in una società senza antagonismi di classe. Il problema di
determinare in che cosa consista - dal punto di vista dello sviluppo storico -
questa sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese qui non è posto.
Proprio questo è il problema che
Marx pone e risolve nel 1852. Fedele alla sua filosofia, il materialismo
dialettico, Marx prende come base l'esperienza storica dei grandi anni
rivoluzionari 1848-l851. Qui, come sempre, la dottrina di Marx è il bilancio
di un'esperienza, bilancio illuminato da una profonda concezione filosofica
del mondo e da una vasta conoscenza della storia.
Il problema dello Stato si pone
in modo concreto: come è sorto storicamente lo Stato borghese, la macchina
statale necessaria al dominio della borghesia ? Quali trasformazioni, quali
evoluzioni ha subito nel corso delle rivoluzioni borghesi e di fronte ai
movimenti autonomi delle classi oppresse? Quali sono i compiti del proletariato
rispetto a questa macchina statale ?
Il potere statale centralizzato,
proprio della società borghese, apparve nel periodo della caduta
dell'assolutismo. Le due istituzioni più caratteristiche di questa macchina
statale sono: la burocrazia e l'esercito permanente. Marx ed Engels parlano
molte volte, nelle loro opere, dei mille legami che collegano queste istituzioni
appunto con la borghesia. L'esperienza acquisita da ogni lavoratore gli spiega
in modo estremamente evidente e convincente questi legami. La classe operaia
impara a conoscerli a proprie spese. Per questo essa afferra con tanta facilità
ed assimila così bene la scienza che afferma l'ineluttabilità di questi legami,
scienza che i democratici piccolo-borghesi negano per ignoranza o per
leggerezza, quando non abbiano la leggerezza ancora maggiore di ammetterla "in
generale", trascurando però di trarne le corrispondenti conclusioni pratiche.
La burocrazia e l'esercito
permanente sono dei "parassiti" sul corpo della società borghese, parassiti
generati dalle contraddizioni interne che dilaniano questa società, ma parassiti
appunto che ne "ostruiscono" i pori vitali. L'opportunismo kautskiano, oggi
prevalente nella socialdemocrazia ufficiale, ritiene che questa concezione dello
Stato, considerato come organismo parassitario, sia propria degli
anarchici, ed esclusivamente degli anarchici. Questa deformazione del marxismo è
certo, estremamente vantaggiosa ai piccoli borghesi che hanno portato il
socialismo all'inaudita vergogna di giustificare e di imbellire la guerra
imperialistica applicandole il concetto di "difesa della patria", ma rimane
tuttavia una deformazione incontestabile.
Questo apparato burocratico e
militare si sviluppa, si perfeziona e si rafforza attraverso le numerose
rivoluzioni borghesi di cui l'Europa è stata teatro dalla caduta del feudalesimo
in poi. Tra l'altro, la piccola borghesia si lascia attrarre dalla parte della
grande borghesia, ed è sottomessa a quest'ultima, in misura notevole proprio per
mezzo di questo apparato che dà agli strati superiori dei contadini, dei piccoli
artigiani, dei commercianti, ecc. impieghi relativamente comodi, tranquilli ed
onorifici e che pongono i loro titolari al di sopra del popolo. Si pensi
a quello che è avvenuto in sei mesi, dopo il 27 febbraio 1917, in Russia: i
posti di funzionari, una volta riservati di preferenza agli ultrareazionari,
sono divenuti il bottino dei cadetti, dei menscevichi e dei
socialisti-rivoluzionari. Non si è pensato, in fondo, a nessuna riforma seria;
si è cercato di rinviare le riforme "fino all'Assemblea costituente", e di
rinviare a poco a poco l'Assemblea costituente fino alla fine della guerra! Ma
per la divisione del bottino, per l'attribuzione di sinecure ministeriali, di
sottosegretariati di Stato, di posti di governatori generali, ecc. ecc. non si è
perso tempo e non si è aspettata nessuna Assemblea costituente! Il giuoco delle
combinazioni ministeriali non è stato, in fondo, che l'espressione di questa
divisione e nuova spartizione del "bottino" alla quale si procede, dall'alto al
basso, in tutto il paese, in tutte le amministrazioni centrali e locali. E'
chiaro il risultato, il risultato obiettivo, dopo sei mesi - dal 27 febbraio al
27 agosto 1917 - di tutto ciò: le riforme sono rinviate, la spartizione degli
impieghi è compiuta e gli "errori" commessi in questa spartizione sono stati
corretti con qualche nuova spartizione.
Ma più si procede a "nuove
spartizioni" dell'apparato amministrativo fra i diversi partiti borghesi e
piccolo-borghesi (cadetti. socialisti-rivoluzionari e menscevichi, se si prende
l'esempio della Russia), e con maggiore evidenza appare alle classi oppresse, e
al proletariato che ne è il capo, la loro ostilità irreducibile alla società
borghese nel suo insieme. Di qui la necessità per tutti i partiti
borghesi, anche i più democratici e "democratici rivoluzionari", di accentuare
la repressione contro il proletariato rivoluzionario, di rafforzare l'apparato
di coercizione, cioè questa stessa macchina statale. Questo corso degli
avvenimenti obbliga perciò la rivoluzione a "concentrare tutte le sue forze
di distruzione" contro il potere dello Stato; le impone il compito non di
migliorare la macchina statale, ma di demolirla, di distruggerla.
Non le deduzioni logiche, ma il
corso reale degli avvenimenti, l'esperienza vissuta del 1848-1851, hanno
condotto a porre il problema in questi termini. Fino a che punto Marx si attenga
strettamente alla base reale della esperienza storica, è dimostrato dal fatto
che nel 1852 egli non si domanda ancora in concreto che cosa si debba
sostituire a questa macchina dello Stato che deve essere distrutta. L'esperienza
non aveva allora fornito degli esempi che potessero far sorgere questa
questione, che solo più tardi, nel 1871, la storia mise all'ordine del giorno.
Nel 1852 si poteva unicamente
constatare, con la precisione propria delle scienze naturali, che la rivoluzione
proletaria affrontava il compito di "concentrare tutte le sue forze di
distruzione" contro il potere dello Stato, il compito di "spezzare" la macchina
statale.
Si potrebbe a questo punto porre
la domanda se sia giusto generalizzare l'esperienza, le osservazioni e le
conclusioni Marx e applicarle a un campo più vasto della storia di tre anni
della Francia: daI 1848 al 1851. Ricordiamo innanzi tutto, per analizzare la
questione, un'osservazione di Engels. Passeremo poi all'esame dei fatti.
"...La Francia - scriveva Engels
nella prefazione alla terza edizione del 18 Brumaio - è il paese in cui
le lotte di classe della storia vennero combattute sino alla soluzione decisiva
più che in qualsiasi altro luogo; e in cui quindi anche le mutevoli forme
politiche, dentro alle quali quelle lotte si svolgono e in cui si riassumono i
loro risultati, prendono i contorni più netti. Centro del feudalesimo nel
medioevo, paese classico, a partire dal Rinascimento, della monarchia unitaria a
poteri limitati, la Francia ha, con La Grande Rivoluzione, distrutto il
feudalesimo e fondato il puro dominio della borghesia, in forma classica come
nessun altro paese europeo. Anche la lotta del proletariato in ascesa contro la
borghesia dominante assume qui una forma acuta, che altrove è sconosciuta" (p.
4, edizione del 1907).
Quest'ultima osservazione è
invecchiata, poichè dopo il 1871 la lotta rivoluzionaria del proletariato
francese ha subíto una interruzione; interruzione però che, per quanto lunga,
non esclude affatto che la Francia possa, nel corso della futura rivoluzione
proletaria, rivelarsi ancora una volta come il paese classico della lotta delle
classi condotta risolutamente fino in fondo.
Ma gettiamo uno sguardo
d'insieme sulla storia dei paesi avanzati alla fine del secolo decimonono e al
principio del secolo ventesimo. Vedremo come, più lentamente, in forme più
varie, su un'area molto più estesa, si sia svolto lo stesso processo: da un
lato, l'elaborazione di un "potere parlamentare", tanto nei paesi repubblicani
(Francia, America, Svizzera), quanto in quelli monarchici (Inghilterra,
Germania, fino a un certo punto, Italia, paesi scandinavi, ecc.); dall'altro, la
lotta per il potere dei diversi partiti borghesi e piccolo-borghesi che si
dividono e si ridistribuiscono il "bottino" degli incarichi statali, mentre
immutate restano le basi del regime borghese; finalmente un processo di
perfezionamento e di rafforzamento del "potere esecutivo", del suo apparato
burocratico e militare.
Non v'è alcun dubbio che questi
sono i caratteri comuni a tutta l'evoluzione moderna degli Stati capitalistici
in generale. In tre anni, dal 1848 al 1851, la Francia mostrò, in una forma
rapida, netta e concentrata, i processi di sviluppo propri dell'insieme del
mondo capitalistico.
L'imperialismo - epoca del
capitale bancario e dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il
capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato -
mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della "macchina
statale", l'inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per
accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi monarchici che
nei più liberi paesi repubblicani.
La storia universale pone oggi,
senza alcun dubbio, e su scala incomparabilmente più ampia che neI 1852, il
compito della "concentrazione di tutte le forze" della rivoluzione proletaria
per la "distruzione" della macchina statale.
Con che cosa il proletariato la
sostituirà? La Comune di Parigi ci ha fornito a questo proposito gli esempi più
istruttivi.
3. Come Marx poneva la questione
nel 1852
Mehring pubblicava nel 1907
nella Neue Zeit ( XXV, 2, 164 ) alcuni estratti di una lettera di Marx a
Weydemeyer, del 5 marzo 1852. Questa lettera contiene fra l'altro il seguente
importantissimo passo:
"Per quello che mi riguarda, a
me non appartiene né il merito di aver scoperto l'esistenza delle classi nella
società moderna né quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo
prima di me degli storici borghesi avevano esposto la evoluzione storica di
questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto
l'anatomia economica delle classi. Quel che io ho fatto di nuovo è stato di
dimostrare: l. che l'esistenza delle classi è soltanto legata a
determinate fasi di sviluppo storico della produzione [historische
Entwicklungsphasen der Produktion]; 2. che la lotta di classe
necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. che questa
dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte
le classi e a una società senza classi...".
In queste righe Marx è riuscito
in primo luogo a esprimere con una impressionante nitidezza l'elemento
essenziale e fondamentale che distingue la sua dottrina dalle dottrine dei più
profondi e avanzati pensatori della borghesia. In secondo luogo, egli ha qui
indicato la sostanza della sua dottrina dello Stato.
L'elemento essenziale della
dottrina di Marx è la lotta di classe. Cosí si dice e si scrive molto spesso. Ma
questo non è vero e da questa affermazione errata deriva, di solito, una
deformazione opportunista del marxismo, un travestimento del marxismo nel senso
di renderlo accettabile alla borghesia. Perchè la dottrina della lotta di classe
non è stata creata da Marx, ma dalla borghesia prima di Marx. e può, in
generale, essere accettata dalla borghesia. Colui che si accontenta
di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi
benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica
borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire
mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare.
Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle
classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato. In questo
consiste la differenza più profonda tra il marxista e il banale piccolo-borghese
(e anche il grande). E' questo il punto attorno al quale bisogna mettere alla
prova la comprensione e il riconoscimento effettivi del marxismo. E non
vi è da meravigliarsi che, nel momento in cui la storia dell'Europa ha condotto
la classe operaia a porsi praticamente questa questione, non solo tutti
gli opportunisti e i riformisti, ma anche tutti i "kautskiani" (gente che
oscilla tra il riformismo e il marxismo) abbiano rivelato di essere dei
miserabili filistei e dei democratici piccolo-borghesi che negano la
dittatura del proletariato. L'opuscolo di Kautsky La dittatura del
proletariato, uscito nell'agosto 1918, cioè molto tempo dopo la
pubblicazione della prima edizione del presente libro, è un modello di
deformazione piccolo-borghese del marxismo e di vile rinuncia ad esso nei
fatti, unite a un riconoscimento ipocrita di esso a parole (si veda
il mio opuscolo: La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky,
Pietrogrado e Mosca 1918).
L'opportunismo contemporaneo,
personificato dal suo maggiore rappresentante, l'ex marxista K. Kautsky, rientra
completamente nella caratteristica attribuita da Marx alla posizione borghese,
perchè esso riconosce la lotta di classe soltanto nei limiti dei rapporti
borghesi. (Ma entro questi limiti, nel quadro di questi rapporti, nessun
liberale colto si rifiuta di riconoscere "in linea di principio" la lotta di
classe!) L'opportunismo non porta il riconoscimento della lotta di classe
sino al punto precisamente essenziale, sino al periodo del passaggio dal
capitalismo al comunismo, sino al periodo dell'abbattimento della
borghesia e del suo annientamento completo. In realtà, questo periodo è
inevitabilmente un periodo di lotta di classe di un'asprezza inaudita, un
periodo in cui le forme di questa lotta diventano quanto mai acute, e quindi
anche lo Stato di questo periodo deve essere uno Stato democratico in modo
nuovo (per i proletari e i non possidenti in generale), e dittatoriale in
modo nuovo (contro la borghesia).
Ancora. L'essenza della dottrina
dello Stato di Marx può essere compresa fino in fondo soltanto da colui che
comprende che la dittatura di una sola classe è necessaria non solo per
ogni società classista in generale, non solo per il proletariato dopo
aver abbattuto la borghesia, ma per un intero periodo storico, che separa
il capitalismo della "società senza classi", dal comunismo. Le forme degli Stati
borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti
questi Stati sono in un modo o nell'altro, ma in ultima analisi,
necessariamente, una dittatura della borghesia. Il passaggio dal
capitalismo al comunismo, naturalmente, non può non produrre un'enorme
abbondanza e varietà di forme politiche, ma la sostanza sarà inevitabilmente una
sola: la dittatura del proletariato.
III. Lo Stato e la rivoluzione.
L' esperienza della Comune di Parigi (1871).
L'analisi di Marx
1. In che cosa consiste l'eroismo
del tentativo dei comunardi?
E' noto che alcuni mesi prima
della Comune, nell' autunno del 1870, Marx metteva in guardia gli operai
parigini, mostrando loro che ogni tentativo di rovesciare il governo sarebbe
stato una sciocchezza dettata dalla disperazione . Ma quando, nel marzo 1871, la
battaglia decisiva fu imposta agli operai, ed essi l'accettarono cosicchè
l'insurrezione divenne un fatto compiuto, Marx, nonostante i cattivi presagi,
salutò con entusiasmo la rivoluzione proletaria. Egli non si ostinò a condannare
per pedanteria un movimento "inopportuno", come fece Plekhanov, il tristemente
celebre rinnegato russo del marxismo, che nei suoi scritti del novembre 1905
incoraggiava gli operai e i contadini alla lotta e, dopo il dicembre 1905,
gridava alla maniera dei liberali: "Non bisognava prendere le armi".
Marx non si limitò tuttavia ad
entusiasmarsi per l'eroismo dei comunardi che, com'egli diceva, "davano
l'assalto al cielo". Nel movimento rivoluzionario delle masse, benchè esso non
avesse raggiunto il suo scopo, Marx vide una esperienza storica di enorme
importanza, un sicuro passo in avanti della rivoluzione proletaria mondiale, un
tentativo pratico più importante di centinaia di programmi e di ragionamenti.
Analizzare questa esperienza, ricavarne delle lezioni di tattica, rivedere,
sulla base di questa esperienza, la sua teoria - questo fu il compito che Marx
si pose.
L'unico "emendamento" che Marx
giudicò necessario apportare al Manifesto del Partito comunista, lo fece
sulla base dell'esperienza rivoluzionaria dei comunardi di Parigi.
L'ultima prefazione a una nuova
edizione tedesca del Manifesto del Partito comunista firmata insieme dai
due autori porta la data del 24 giugno 1872. In questa prefazione Karl Marx e
Friedrich Engels dicono che il programma del Manifesto del Partito comunista
"è oggi qua e là invecchiato".
"...La Comune, specialmente, -
essi aggiungono, - ha fornito la prova che "la classe operaia non può
impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e
metterla in moto per i suoi propri fini"..." .
Le ultime parole, fra
virgolette, di questa citazione sono prese dagli autori dall'opera di Marx:
La guerra civile in Francia. Così, a questo insegnamento principale e
fondamentale della Comune di Parigi, venne attribuita da Marx ed Engels
un'importanza talmente grande da trarne un emendamento sostanziale al
Manifesto del Partito comunista.
E' estremamente caratteristico
che gli opportunisti abbiano snaturato proprio questo emendamento sostanziale; e
i nove decimi, se non i novantanove centesimi, dei lettori del Manifesto del
Partito comunista non ne afferrano certamente la portata. Su questa
deformazione parleremo in particolare, in un capitolo successivo dedicato in
modo speciale alle deformazioni. Qui basta rilevare che l'"interpretazione"
corrente, volgare, della famosa formula di Marx, da noi citata, è che Marx vi
avrebbe sottolineato l'idea dell'evoluzione lenta, in contrapposizione con la
conquista del potere, ecc.
In realtà, è proprio il
contrario. L'idea di Marx è che la classe operaia deve spezzare, demolire
la "macchina statale già pronta", e non limitarsi semplicemente ad
impossessarsene.
Il 12 aprile 1871, vale a dire
precisamente durante la Comune, Marx scriveva a Kugelmann:
"...Se tu rileggi l'ultimo
capitolo del mio 18 Brumaio troverai che io affermo che il prossimo
tentativo della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano
ad un'altra la macchina militare e burocratica, come è avvenuto fino ad ora, ma
nello spezzarla" (il corsivo è di Marx; zerbrechen nell'originale)
"e che tale è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul
Continente. In questo consiste pure il tentativo dei nostri eroici compagni
parigini" (Neue Zeit, XX, I, 1901-1902. p. 709). (Le lettere di Marx a
Kugelmann sono state pubblicate in russo almeno in due edizioni, una delle quali
da me curata e preceduta da una mia prefazione.)
"Spezzare la macchina
burocratica e militare": in queste parole è espresso in modo incisivo
l'insegnamento principale del marxismo sui compiti del proletariato nella
rivoluzione per ciò che riguarda lo Stato. E proprio questo è l'insegnamento che
non solo è stato assolutamente dimenticato, ma addirittura deformato
dall'"interpretazione" dominante, kautskiana, del marxismo!
Quanto al passo del 18
Brumaio al quale Marx si riferisce, l'abbiamo citato più sopra
integralmente.
E' interessante segnalare
soprattutto due punti del passo citato da Marx. Anzitutto Marx limita la sua
conclusione al Continente. Questo era comprensibile nel 1871, quando
l'Inghilterra era ancora il modello d'un paese capitalistico puro, ma senza
militarismo e in misura notevole senza burocrazia. Perciò Marx escludeva
l'Inghilterra, dove la rivoluzione, e anche una rivoluzione popolare, si
presentava ed era allora possibile senza la condizione preliminare della
distruzione della "macchina statale già pronta".
Attualmente, nel 1917,
nell'epoca della prima grande guerra imperialista, questa riserva di Marx cade:
l'Inghilterra e l'America, che erano, in tutto il mondo, le maggiori e le ultime
rappresentanti della "libertà" anglosassone per quanto riguarda l'assenza di
militarismo e di burocrazia, sono precipitate interamente nel lurido, sanguinoso
pantano, comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e burocratiche che
tutto sottomettono a sé e tutto comprimono. Oggi, in Inghilterra e in America,
la "condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare" è la rottura,
la distruzione della "macchina statale già pronta" (portata in questi
paesi nel 1914-1917 a una perfezione "europea", imperialistica).
In secondo luogo, merita un'
attenzione particolare la osservazione straordinariamente profonda di Marx che
la distruzione della macchina burocratica e militare dello Stato è "la
condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare". Questo
concetto di rivoluzione "popolare" sembra strano in bocca a Marx, e i
plekhanovisti e i menscevichi russi, questi seguaci di Struve che vogliono farsi
passare per marxisti, potrebbero dire che questa espressione di Marx è un
"lapsus". Essi hanno deformato il marxismo in modo così piattamente liberale che
nulla esiste per loro all'infuori dell'antitesi: rivoluzione borghese o
rivoluzione proletaria, e anche quest'antitesi è da essi concepita nel modo più
scolastico che si possa immaginare.
Se si prendono come esempio le
rivoluzioni del ventesimo secolo, bisogna ben riconoscere che sia la rivoluzione
portoghese che la rivoluzione turca furono rivoluzioni borghesi. Ma né l'una né
l'altra furono "popolari"; né nell'una né nell'altra, infatti, la massa del
popolo, la sua stragrande maggioranza, agì in modo attivo, indipendente, con le
sue particolari esigenze economiche e politiche. La rivoluzione borghese russa
del 1905-1907, invece, pur non avendo ottenuto i "brillanti" successi riportati
in certi momenti dalle rivoluzioni portoghese e turca, fu incontestabilmente una
rivoluzione "veramente popolare", poichè la massa del popolo, la sua
maggioranza, i suoi strati sociali "inferiori", più profondi, oppressi dal giogo
e dallo sfruttamento, si sollevarono in modo indipendente e lasciarono su tutta
la rivoluzione l'impronta delle loro esigenze, dei loro tentativi
di costruire a modo loro una nuova società al posto dell'antica ch'essi
distruggevano.
Nell'Europa del 1871, il
proletariato non formava la maggioranza del popolo in nessun paese del
Continente. Una rivoluzione poteva essere "popolare", mettere in movimento la
maggioranza effettiva soltanto a condizione di abbracciare il proletariato e i
contadini. Queste due classi costituivano allora il "popolo". Queste due classi
sono unite dal fatto che la "macchina burocratica e militare dello Stato" le
opprime, le schiaccia, le sfrutta. Spezzare questa macchina, demolirla,
ecco il vero interesse del "popolo", della maggioranza del popolo, degli operai
e della maggioranza dei contadini, ecco la "condizione preliminare" della libera
alleanza dei contadini poveri con i proletari. Senza quest'alleanza non è
possibile una democrazia salda, non è possibile una trasformazione socialista.
E' noto che la Comune di Parigi
si era aperta una strada verso questa alleanza, ma non raggiunse il suo scopo
per ragioni di ordine interno ed esterno.
Parlando quindi di una "reale
rivoluzione popolare", senza dimenticare affatto le particolarità della piccola
borghesia (delle quali parlò molto e spesso), Marx teneva dunque rigorosamente
conto dei reali rapporti di forza fra le classi della maggior parte degli Stati
continentali dell'Europa del 1871. D'altra parte egli costatava che gli operai e
i contadini sono egualmente interessati a spezzare la macchina statale,
che ciò li unisce e pone di fronte a loro il compito comune di sopprimere il
"parassita" e di sostituirlo con qualche cosa di nuovo.
Con che cosa precisamente ?
2. Con che cosa sostituire la
macchina statale spezzata?
A questa domanda Marx non dava
ancora, nel 1847, nel Manifesto del Partito comunista, che una risposta
puramente astratta; per meglio dire indicava i problemi e non i mezzi per
risolverli. Sostituire la macchina dello Stato spezzata con 1'"organizzazione
del proletariato come classe dominante", con la "conquista della democrazia":
questa era la risposta del Manifesto del Partito comunista.
Senza cadere nell'utopia, Marx
aspettava dall'esperienza di un movimento di massa la risposta alla
questione: quali forme concrete avrebbe assunto questa organizzazione del
proletariato come classe dominante e in che modo precisamente questa
organizzazione avrebbe coinciso con la più completa e conseguente "conquista
della democrazia".
Nella Guerra civile in
Francia Marx sottopone l'esperienza della Comune, per quanto breve essa sia
stata, a un'analisi attentissima. Citiamo i passi principali di questo scritto:
Nel secolo decimonono, trasmesso
dal medioevo, si sviluppava "il potere statale centralizzato, con i suoi organi
dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e
magistratura". A misura che l'antagonismo di classe tra capitale e lavoro si
accentuava, "il potere dello Stato assumeva sempre più il carattere [...] di
forza pubblica organizzata per l'asservimento sociale, di uno strumento di
dispotismo di classe. Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo avanti nella
lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato
risaltava in modo sempre più evidente". Dopo la rivoluzione del 1848-1849 il
potere dello Stato diviene uno "strumento pubblico di guerra del capitale contro
il lavoro". Il Secondo Impero non fa che consolidarlo.
"La Comune fu l'antitesi diretta
dell'Impero." "Fu la forma positiva" di "una repubblica che non avrebbe dovuto
eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso
dominio di classe...".
In che cosa consisteva questa
forma "positiva" di repubblica proletaria, socialista? Quale era lo Stato
ch'essa aveva cominciato a creare?
"...Il primo decreto della
Comune fu la soppressione dell'esercito permanente, e la sostituzione ad esso
del popolo armato..."
Questa rivendicazione figura
oggi nel programma di tutti i partiti che desiderano chiamarsi socialisti. Ma
quel che valgono i loro programmi, lo dimostra nel modo migliore la condotta dei
nostri socialisti-rivoluzionari e dei nostri menscevichi che, appunto dopo la
rivoluzione del 27 febbraio, di fatto si rifiutarono di attuare questa
rivendicazione!
"...La Comune fu composta dei
consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di
Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi
membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti della classe
operaia... Invece di continuare ad essere agente del governo centrale, la
polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e
trasformata in strumento responsabile della Comune revocabile in qualunque
momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche
dell'amministrazione. Dai membri della Comune in giù, il servizio pubblico
doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le
indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello Stato scomparvero insieme
coi dignitari stessi... Sbarazzatisi dell'esercito permanente e della polizia,
elementi della forza fisica del vecchio governo, la Comune si preoccupò di
spezzare la forza di repressione spirituale, il "potere dei preti"... I
funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza...
dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili...".
La Comune avrebbe dunque
"semplicemente" sostituito la macchina statale spezzata con una democrazia più
completa: soppressione dell'esercito permanente, assoluta eleggibilità e
revocabilità di tutti i funzionari. In realtà ciò significa "semplicemente"
sostituire - opera gigantesca - a istituzioni di un certo tipo altre istituzioni
basate su princípi diversi. E' questo precisamente un caso di "trasformazione
della quantità in qualità": da borghese che era, la democrazia, realizzata
quanto più pienamente e conseguentemente sia concepibile, è diventata
proletaria; lo Stato (forza particolare destinata a opprimere una classe
determinata) s'è trasformato in qualche cosa che non è più propriamente uno
Stato.
Ma la necessità di reprimere la
borghesia e di spezzarne la resistenza permane. Per la Comune era
particolarmente necessario affrontare questo compito, e il non averlo fatto con
sufficiente risolutezza è una delle cause della sua sconfitta. Ma qui l'organo
di repressione è la maggioranza della popolazione, e non più la minoranza, come
era sempre stato nel regime della schiavitù, del servaggio e della schiavitù
salariata. E dal momento che è la maggioranza stessa del popolo che
reprime i suoi oppressori, non c'è più bisogno di una "forza particolare"
di repressione! In questo senso lo Stato comincia ad estinguersi. Invece
delle istituzioni speciali di una minoranza privilegiata ( funzionari
privilegiati, capi dell'esercito permanente), la maggioranza stessa può compiere
direttamente le loro funzioni, e quanto più il popolo stesso assume le funzioni
del potere statale, tanto meno si farà sentire la necessità di questo potere.
A questo proposito è da notare
in particolar modo un provvedimento preso dalla Comune e che Marx sottolinea: la
soppressione di tutte le indennità di rappresentanza, la soppressione dei
privilegi pecuniari dei funzionari, la riduzione degli stipendi assegnati a
tutti i funzionari dello Stato al livello di "salari da operai". Qui
appunto si fa sentire con speciale rilievo la svolta dalla democrazia
borghese alla democrazia proletaria, dalla democrazia degli oppressori alla
democrazia delle classi oppresse, dallo Stato come "forza particolare"
destinata a reprimere una classe determinata, alla repressione degli oppressori
ad opera della forza generale della maggioranza del popolo, degli operai
e dei contadini. Ed è precisamente su questo punto particolarmente evidente - il
più importante forse nella questione dello Stato - che gli insegnamenti di Marx
sono stati più dimenticati! Gli innumerevoli commenti dei volgarizzatori non ne
fanno cenno! E' "consuetudine" tacere su questo punto, come su di una
"ingenuità" che ha fatto il suo tempo, esattamente come i cristiani
"dimenticarono", quando il loro culto divenne religione di Stato, le "ingenuità"
del cristianesimo primitivo e il suo spirito democratico rivoluzionario.
La riduzione delle retribuzioni
degli alti funzionari pare "semplicemente" l'esigenza di un democratismo
ingenuo, primitivo. Uno dei "fondatori" del moderno opportunismo, l'ex
socialdemocratico Ed. Bernstein, s'è molte volte esercitato a ripetere banali
motteggi borghesi a proposito del democratismo "primitivo". Come tutti gli
opportunisti, come i kautskiani dei nostri giorni, Bernstein non ha
assolutamente compreso che, in primo luogo, il passaggio dal capitalismo al
socialismo è impossibile senza un certo "ritorno" al democratismo
"primitivo" (come si potrebbe altrimenti far compiere alla maggioranza della
popolazione, e poi alla intera popolazione, le funzioni dello Stato?); in
secondo luogo, che il "democratismo primitivo" sulla base del capitalismo e
della civiltà capitalistica non è il democratismo primitivo delle epoche
patriarcali e precapitalistiche. La civiltà capitalistica ha creato la
grande produzione, le officine, le ferrovie, la posta, il telefono, ecc.; e
su questa base, l'immensa maggioranza delle funzioni del vecchio "potere
statale" si sono a tal punto semplificate e possono essere ridotte a così
semplici operazioni di registrazione, d'iscrizione, di controllo, da poter
essere benissimo compiute da tutti i cittadini con un minimo di istruzione e per
un normale "salario da operai"; si può (e si deve) quindi togliere a queste
funzioni ogni minima ombra che dia loro qualsiasi carattere di privilegio e di
"gerarchia".
Eleggibilità assoluta,
revocabilità in qualsiasi momento di tutti i funzionari senza alcuna
eccezione, riduzione dei loro stipendi al livello abituale del "salario da
operaio": questi semplici e "naturali" provvedimenti democratici, mentre
stringono pienamente in una comunità di interessi gli operai e la maggioranza
dei contadini, servono in pari tempo da passerella tra il capitalismo e il
socialismo. Questi provvedimenti concernono la riorganizzazione statale,
puramente politica, della società; ma essi, naturalmente, assumono tutto il loro
significato e tutta la loro importanza solo in legame con la "espropriazione
degli espropriatori" realizzata o preparata; in legame cioè con la
trasformazione della proprietà privata capitalistica dei mezzi di produzione in
proprietà sociale.
"La Comune - scriveva Marx -
fece una realtà della frase pubblicitaria delle rivoluzioni borghesi, il governo
a buon mercato, distruggendo le due maggiori fonti di spese, l'esercito
permanente e il funzionarismo statale".
Fra i contadini, come fra le
altre categorie della piccola borghesia, solo un'infima minoranza "si eleva",
"arriva" nel senso borghese della parola; solo alcuni individui divengono cioè
delle persone agiate, dei borghesi o dei funzionari con posizione sicura e
privilegiata. L'immensa maggioranza dei contadini, in tutti i paesi
capitalistici in cui esistono dei contadini (e questi paesi sono la
maggioranza), è oppressa dal governo e aspira a rovesciarlo, aspira ad un
governo "a buon mercato". Solo il proletariato può assolvere questo
compito, e assolvendolo egli fa in pari tempo un passo verso la riorganizzazione
socialista dello Stato.
3. La soppressione del
parlamentarismo
"La Comune - scrisse Marx - non
doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo
allo stesso tempo...
"...Invece di decidere un volta
ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal
rappresentare [ver- und zertreten] il popolo nel Parlamento, il suffragio
universale doveva servire al popolo costituito in comuni così come il suffragio
individuale serve ad ogni altro imprenditore privato per cercare gli operai e
gli organizzatori della sua azienda."
Questa mirabile critica del
parlamentarismo, fatta nel 1871, appartiene oggi anch'essa, grazie al dominio
del socialsciovinismo e dell'opportunismo, alle "parole dimenticate" del
marxismo. Ministri e parlamentari di professione, traditori del proletariato e
socialisti "d'affari" dei nostri tempi hanno abbandonato agli anarchici il
monopolio della critica del parlamentarismo e per questa ragione, di eccezionale
saviezza, hanno qualificato di "anarchismo" qualsiasi critica del
parlamentarismo! Nulla di strano quindi che il proletariato dei paesi
parlamentari "progrediti", disgustato dalla vista di "socialisti" come gli
Scheidemann, i David, i Legien, i Sembat, i Renaudel, gli Henderson, i
Vandervelde, gli Staunig, i Branting, i Bissolati e compagnia, abbia riversato
sempre più spesso le sue simpatie sull'anarco-sindacalismo, per quanto questo
sia fratello dell'opportunismo.
Ma per Marx la dialettica
rivoluzionaria non fu mai quella vuota fraseologia alla moda, quel gingillo in
cui la trasformarono Plekhanov, Kautsky e altri. Marx seppe romperla
implacabilmente con l'anarchismo per la sua incapacità di utilizzare anche la
"stalla" del parlamentarismo borghese. soprattutto quando è evidente che la
situazione non è rivoluzionaria; ma egli seppe in pari tempo dare una critica
veramente proletaria e rivoluzionaria del parlamentarismo.
Decidere una volta ogni qualche
anno qual membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo
nel Parlamento: - ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, non solo
nelle monarchie parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche le più
democratiche.
Ma se si pone la questione dello
Stato, se si considera il parlamentarismo come una delle istituzioni dello
Stato, dal punto di vista dei compiti del proletariato in questo campo,
dove è la via per uscire dal parlamentarismo? Come si può farne a meno?
Siamo costretti a ripeterlo
ancora: gli insegnamenti di Marx, basati sullo studio della Comune, sono stati
dimenticati così bene che il "socialdemocratico" contemporaneo (si legga: il
rinnegato contemporaneo del socialismo) è veramente incapace di concepire altra
critica del parlamentarismo che non sia quella degli anarchici o dei reazionari.
Senza dubbio la via per uscire
dal parlamentarismo non è nel distruggere le istituzioni rappresentative e il
principio dell'eleggibilità, ma nel trasformare queste istituzioni
rappresentative da mulini di parole in organismi che "lavorino" realmente. "La
Comune non doveva essere un organismo parlamentare. ma di lavoro, esecutivo e
legislativo allo stesso tempo."
Un organismo "non parlamentare,
ma di lavoro": questo colpisce direttamente voi, moderni parlamentari e
"cagnolini" parlamentari della socialdemocrazia! Considerate qualsiasi paese
parlamentare, dall'America alla Svizzera, dalla Francia all'Inghilterra, alla
Norvegia, ecc.: il vero lavoro "di Stato" si compie fra le quinte, e sono i
ministeri, le cancellerie, gli stati maggiori che lo compiono. Nei Parlamenti
non si fa che chiacchierare, con lo scopo determinato di turlupinare il
"popolino". Questo è talmente vero che anche nella repubblica russa, repubblica
democratica borghese, tutte queste magagne del parlamentarismo si fanno già
sentire ancor prima che essa sia riuscita a darsi un vero Parlamento. Gli eroi
del putrido fi1isteismo, gli Skobelev e gli Tsereteli, i Cernov e gli Avksentiev,
sono riusciti a incancrenire persino i Soviet, trasformandoli in mulini di
parole sul tipo del parlamentarismo borghese più rivoltante. Nei Soviet i
signori ministri "socialisti" ingannano con la loro fraseologia e le loro
risoluzioni i fiduciosi mugik. Nel governo si balla una quadriglia
permanente, da un lato, per sistemare a turno attorno alla "torta" dei posticini
remunerativi e onorifici il più gran numero possibile di
socialisti-rivoluzionari e di menscevichi; d'altro lato, per "occupare l'
attenzione" del popolo, E nelle cancellerie, negli stati maggiori "si sbrigano"
le faccende "dello Stato".
In un articolo di fondo, il
Dielo Naroda, organo dei "socialisti rivoluzionari", partito al governo,
confessava recentemente, con l'impareggiabile franchezza propria della gente
della "buona società", in cui "tutti" si abbandonano alla prostituzione
politica, che anche nei ministeri appartenenti ai "socialisti" (si passi la
parola!), persino in essi tutto l'apparato amministrativo rimane in fondo lo
stesso, funziona come per il passato e sabota in piena "libertà" le riforme
rivoluzionarie! Ma, anche senza questa confessione, la storia effettiva della
partecipazione dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi al governo non è
forse la migliore prova di ciò? L'unica cosa caratteristica è qui che,
trovandosi al governo in compagnia dei cadetti, i signori Cernov, Russanov,
Zenzinov e altri redattori del Dielo Naroda abbiano perduto a tal punto
il senso del pudore da raccontare pubblicamente e senza arrossire, come se si
trattasse di un affare da nulla, che "da loro", nei loro ministeri, tutto
procede come prima!! Fraseologia democratica rivoluzionaria per abbindolare i
sempliciotti di campagna e trafila burocratica per "farsi ben volere" dai
capitalisti: ecco il fondo di questa "onesta" coalizione.
La Comune sostituisce questo
parlamentarismo venale e corrotto della società borghese con istituzioni in cui
la libertà di opinione e di discussione non degenera in inganno; poichè i
parlamentari debbono essi stessi lavorare, applicare essi stessi le loro leggi,
verificarne essi stessi i risultati, risponderne essi stessi direttamente
davanti ai loro elettori. Le istituzioni rappresentative rimangono, ma il
parlamentarismo, come sistema speciale, come divisione del lavoro legislativo ed
esecutivo, come situazione privilegiata per i deputati, non esiste più.
Noi non possiamo concepire una democrazia, sia pur una democrazia proletaria,
senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo concepirla
senza parlamentarismo, se la critica della società borghese non è per noi una
parola vuota di senso, se il nostro sforzo per abbattere il dominio della
borghesia è uno sforzo serio e sincero e non una frase "elettorale" destinata a
scroccare voti degli operai, come lo è per i menscevichi e i
socialisti-rivoluzionari, per gli Scheidemann e i Legien, i Sembat e i
Vandervelde.
E' molto significativo che Marx,
parlando delle funzioni di questo personale amministrativo necessario
alla Comune e alla democrazia proletaria, scelga come termine di paragone il
personale di "ogni altro imprenditore", cioè un'ordinaria impresa capitalistica
con "operai, sorveglianti e contabili".
In Marx non v'è un briciolo di
utopismo; egli non inventa, non immagina una società "nuova". No, egli studia,
come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che
sorge dall'antica, le forme di transizione tra l'una e l' altra. Egli si
basa sui fatti, sull' esperienza del movimento proletario di massa e cerca di
trarne insegnamenti pratici. Egli "si mette alla scuola" della Comune, come
tutti i grandi pensatori rivoluzionari non esitavano a mettersi alla scuola dei
grandi movimenti della classe oppressa, senza mai far loro pedantemente la
"morale" (come faceva Plekhanov dicendo: "Non bisognava prendere le armi", o
Tsereteli: "Una classe deve sapersi autolimitare").
Non sarebbe possibile
distruggere di punto in bianco, dappertutto, completamente, la burocrazia.
Sarebbe utopia. Ma spezzare subito la vecchia macchina amministrativa per
cominciare immediatamente a costruirne una nuova, che permetta la graduale
soppressione di ogni burocrazia, non è utopia, è l'esperienza della
Comune, è il compito primordiale e immediato del proletariato rivoluzionario.
Il capitalismo semplifica i
metodi d'amministrazione "dello Stato", permette di eliminare la "gerarchia" e
di ridurre tutto a un'organizzazione dei proletari (in quanto classe dominante)
che assume, in nome di tutta la società, "operai, sorveglianti e contabili".
Noi non siamo degli utopisti.
Non "sogniamo" di fare a meno, dall' oggi al domani, di ogni
amministrazione, di ogni subordinazione; questi sono sogni anarchici, fondati
sull'incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato, sogni che
nulla hanno di comune con il marxismo e che di fatto servono unicamente a
rinviare la rivoluzione socialista fino al giorno in cui gli uomini saranno
cambiati. No, noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono
oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né
di "sorveglianti, né di contabili".
Ma bisogna subordinarsi
all'avanguardia armata di tutti gli sfruttati e di tutti i lavoratori: al
proletariato. Si può e si deve subito, dall'oggi al domani, cominciare a
sostituire la specifica "gerarchia" dei funzionari statali con le semplici
funzioni "di sorveglianti e di contabili", funzioni che sono sin da ora
perfettamente accessibili al livello generale di sviluppo degli abitanti delle
città e possono facilmente essere compiute per "salari da operai".
Organizziamo la grande industria
partendo da ciò che il capitalismo ha già creato; organizziamola noi stessi,
noi operai, forti della nostra esperienza operaia, imponendo una rigorosa
disciplina, una disciplina di ferro, mantenuta per mezzo del potere statale dei
lavoratori armati; riduciamo i funzionari dello Stato alla funzione di semplici
esecutori dei nostri incarichi, alla funzione di "sorveglianti e ai contabili",
modestamente retribuiti, responsabili e revocabili (conservando naturalmente i
tecnici di ogni specie e di ogni grado): è questo il nostro compito
proletario; è da questo che si può e si deve cominciare facendo la
rivoluzione proletaria. Questo inizio, fondato sulla grande produzione, porta da
se alla graduale "estinzione" di ogni burocrazia, alla graduale instaurazione di
un ordine - ordine senza virgolette, ordine diverso dalla schiavitù salariata -
in cui le funzioni, sempre più semplificate, di sorveglianza e di contabilità
saranno adempiute a turno, da tutti, diverrano poi un'abitudine e finalmente
scompariranno in quanto funzioni speciali di una speciale categoria di
persone.
Verso il 1870 un arguto
socialdemocratico tedesco considerava la posta come un modello di impresa
socialista, Giustissimo. La posta è attualmente un'azienda organizzata sul
modello del monopolio capitalistico di Stato. A poco a poco
l'imperialismo trasforma tutti i trust in organizzazioni di questo tipo. I
"semplici" lavoratori, carichi di lavoro e affamati, restano sempre sottomessi
alla stessa burocrazia borghese. Ma il meccanismo della gestione sociale è già
pronto. Una volta abbattuti i capitalisti, spezzata con la mano di ferro degli
operai armati la resistenza di questi sfruttatori, demolita la macchina
burocratica dello Stato attuale, avremo davanti a noi un meccanismo mirabilmente
attrezzato dal punto di vista tecnico, sbarazzato dal "parassita", e che i
lavoratori uniti possono essi stessi benissimo far funzionare assumendo tecnici,
sorveglianti, contabili e pagando il lavoro di tutti costoro, come quelli
di tutti i funzionari "dello Stato" in generale, con un salario da
operaio. E' questo il compito concreto, pratico, immediatamente realizzabile nei
confronti di tutti i trust e che libererà dallo sfruttamento i lavoratori,
tenendo conto dell'esperienza praticamente iniziata (soprattutto nel campo
dell'organizzazione dello Stato) dalla Comune.
Tutta
l'economia nazionale organizzata come la posta; i tecnici, i sorveglianti, i
contabili, come tutti i funzionari dello Stato, retribuiti con uno
stipendio non superiore al "salario da operaio", sotto il controllo e la
direzione del proletariato armato: ecco il nostro fine immediato. Ecco lo Stato,
ecco la base economica dello Stato di cui abbiamo bisogno. Ecco ciò che ci darà
la distruzione del parlamentarismo e il mantenimento delle istituzioni
rappresentative, ecco ciò che sbarazzerà le classi lavoratrici della
prostituzione di queste istituzioni da parte della borghesia.
4. L'organizzazione dell'unità
nazionale
"...In un abbozzo sommario di
organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare è detto
chiaramente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo
borgo..." Le comuni avrebbero eletto la "delegazione nazionale" di Parigi.
"...Le poche ma importanti
funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale, non sarebbero
state soppresse, come venne affermato falsamente in mala fede, ma adempiute da
funzionari comunali, e quindi strettamente responsabili...
"L'unità della nazione non
doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla costituzione
comunale, e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere
statale che pretendeva essere l'incarnazione di questa unità, indipendente e
persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che un'escrescenza
parassitaria. Mentre gli organi puramente repressivi del vecchio potere
governativo dovevano essere amputati, le sue funzioni legittime dovevano essere
strappate a una autorità che usurpava una posizione predominante sulla società
stessa, e restituite agli agenti responsabili della società.!
Sino a qual punto gli
opportunisti della socialdemocrazia contemporanea non abbiano capito, o per
meglio dire, non abbiano voluto capire queste considerazioni di Marx, è provato
nel modo migliore dal libro Le premesse del socialismo e i compiti della
socialdemocrazia, col quale il rinnegato Bernstein si è acquistato una fama
alla maniera di Erostrato. Proprio a proposito di questo passo di Marx,
Bernstein scrisse che questo programma "per il suo contenuto politico, rivela,
in tutti i suoi tratti essenziali, una straordinaria affinità col federalismo di
Proudhon... Nonostante tutte le altre divergenze tra Marx e il
"piccolo-borghese" Proudhon [Bernstein scrive "piccolo-borghese" tra virgolette,
le quali, secondo lui, dovrebbero dare alle sue parole un senso ironico], il
loro modo di vedere, è sotto questo aspetto, il più possibile simile". Certo,
continua Bernstein, l'importanza delle municipalità aumenta, ma "mi pare cosa
dubbia che il primo compito della democrazia sia l'abolizione [Auflösung,
letteralmente: scioglimento, dissoluzione] degli Stati moderni e un cambiamento
[Umwandlung, metamorfosi] così completo della loro organizzazione come lo
raffigurano Marx e Proudhon: formazione di un'assemblea nazionale di delegati
delle assemblee provinciali o dipartimentali, che a loro volta sarebbero
composte di delegati delle comuni, in modo che le rappresentanze nazionali nella
loro forma attuale scomparirebbero completamente" (Bernstein, Le premesse,
pp. 134 e 136, edizione tedesca del 1899).
E' semplicemente mostruoso!
Confondere le concezioni di Marx sulla "soppressione del potere dello Stato
parassita" col federalismo di Proudhon! Ma non è per caso, giacchè
all'opportunista non viene nemmeno in mente che Marx qui non parla affatto del
federalismo in opposizione al centralismo, ma della demolizione della vecchia
macchina dello Stato borghese esistente in tutti i paesi borghesi.
All'opportunista viene in mente
soltanto ciò che egli vede attorno a se, nel suo ambiente di filisteismo
piccolo-borghese e di stagnazione "riformista", vale a dire le sole
"municipalità"! Quanto alla rivoluzione del proletariato, l'opportunista ha
disimparato persino a pensarci.
E' ridicolo. Ma è degno di nota
che, su questo punto, nessuno abbia contraddetto Bernstein. Molti hanno
confutato Bernstein, in particolare Plekhanov nella letteratura russa e Kautsky
in quella europea, ma nessuno dei due ha mai detto niente di questa
deformazione di Marx ad opera di Bernstein.
L'opportunista ha disimparato
così bene a pensare da rivoluzionario e a riflettere sulla rivoluzione, ch'egli
attribuisce del "federalismo" a Marx, confondendolo così con Proudhon, fondatore
dell'anarchismo. E Kautsky e Plekhanov, che pretendono di essere marxisti
ortodossi e di difendere la dottrina del marxismo rivoluzionario, tacciono su
questo punto! Ecco una delle ragioni essenziali del modo estremamente banale,
proprio tanto dei kautskiani quanto degli opportunisti, su cui dovremo
ritornare, di considerare la differenza esistente tra il marxismo e
l'anarchismo.
Nelle considerazioni di Marx già
citate sull' esperienza della Comune non c'è la minima traccia di federalismo.
Marx è d'accordo con Proudhon proprio su un punto che l'opportunista Bernstein
non vede; Marx dissente da Proudhon proprio là dove Bernstein vede la
concordanza.
Marx è d' accordo con Proudhon
in quanto entrambi sono per la "demolizione" dell'attuale macchina statale.
Questa concordanza del marxismo con l' anarchismo (sia con Proudhon che con
Bakunin) non vogliono vederla né gli opportunisti né i kautskiani, perchè su
questo punto essi si sono allontanati dal marxismo.
Marx dissente sia da Proudhon
che da Bakunin appunto a proposito del federalismo (per non parlare poi della
dittatura del proletariato). In linea di principio, il federalismo deriva dalle
vedute piccolo-borghesi dell'anarchismo. Marx è centralista. E in tutti i passi
citati non si troverà la minima rinuncia al centralismo. Soltanto gente imbevuta
di una volgare "fede superstiziosa" nello Stato può scambiare la distruzione
della macchina borghese con la distruzione del centralismo!
Ma se il proletariato e i
contadini poveri si impadroniscono del potere statale, si organizzano in piena
libertà nelle comuni e coordinano l'azione di tutte le comuni per colpire il
capitale, spezzare la resistenza dei capitalisti, rimettere a tutta la
nazione, a tutta la società la proprietà privata delle ferrovie, delle officine,
della terra, ecc, non è questo forse centralismo? Non è forse il centralismo
democratico più conseguente, e, con ciò, un centralismo proletario?
Bernstein è semplicemente
incapace di concepire la possibilità di un centralismo volontario, di un'unione
volontaria delle comuni in nazione, di una volontaria fusione delle comuni
proletarie nell'opera di distruzione del dominio borghese e della macchina
statale borghese. Bernstein, come ogni filisteo, si rappresenta il centralismo
come un qualcosa che, venendo unicamente dall'alto, non può essere imposto e
mantenuto se non dalla burocrazia e dal militarismo.
Marx, quasi avesse previsto che
le sue idee potevano essere travisate, sottolinea intenzionalmente che accusare
la Comune di aver voluto distruggere l'unità nazionale e sopprimere il potere
centrale equivale a commettere scientemente un falso. Marx adopera
intenzionalmente l'espressione "organizzare l'unità della nazione" per
contrapporre il centralismo proletario cosciente, democratico, al centralismo
borghese, militare, burocratico.
Ma... non c'è peggior sordo di
chi non vuol sentire. Gli opportunisti della socialdemocrazia contemporanea non
vogliono appunto sentir parlare di distruggere il potere dello Stato, di
amputare questo parassita.
5. La distruzione dello Stato
parassita
Abbiamo già citato, su questo
punto, i passi corrispondenti di Marx; dobbiamo ora completarli.
"...E' comunemente destino di
tutte le creazioni storiche completamente nuove di essere prese a torto per
riproduzione di vecchie e anche di defunte forme di vita sociale, con le quali
possono avere una certa rassomiglianza. Così questa nuova Comune, che spezza [bricht]
il moderno potere statale, venne presa a torto per una riproduzione dei comuni
medioevali... una federazione di piccoli Stati, come era stata sognata da
Montesquieu e dai Girondini... una forma esagerata della vecchia lotta contro
l'eccesso di centralizzazione...
"...La costituzione della Comune
avrebbe invece restituito al corpo sociale tutte le energie sino allora
assorbite dallo Stato parassita, che si nutre alle spalle della società e ne
intralcia i liberi movimenti. Con questo solo atto avrebbe iniziato la
rigenerazione della Francia..
"...In realtà, la costituzione
della Comune metteva i produttori rurali sotto la direzione intellettuale dei
capoluoghi dei loro distretti, e quivi garantiva loro, negli operai, i naturali
tutori dei loro interessi. L'esistenza stessa della Comune portava con se, come
conseguenza naturale, la libertà municipale locale, ma non più come un
contrappeso al potere dello Stato ormai diventato superfluo..."
"Distruzione del potere totale",
questa "escrescenza parassitaria", "amputazione", "demolizione" di questo
potere, "il potere dello Stato ormai diventato superfluo": è in questi termini
che Marx parla dello Stato, giudicando e analizzando l' esperienza della Comune.
Tutto ciò è stato scritto circa
mezzo secolo fa; ed oggi bisogna ricorrere quasi a degli scavi archeologici per
far penetrare nella coscienza delle grandi masse questo marxismo non deformato.
Le conclusioni che Marx trasse dall'ultima grande rivoluzione ch'egli visse,
sono state dimenticate proprio quando è giunta l'ora di nuove grandi rivoluzioni
del proletariato.
" ...La molteplicità delle
interpretazioni che si danno della Comune e la molteplicità degli interessi che
nella Comune hanno trovato la loro espressione, mostrano che essa fu una forma
politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo
erano state unilateralmente repressive. Il suo vero segreto fu questo: che essa
fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della
lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma
politica finalmente scoperta. nella quale si poteva compiere la emancipazione
economica del lavoro...
"...Senza quest'ultima
condizione, la costituzione della Comune sarebbe stata una cosa impossibile e un
inganno..."
Gli utopisti si sono sempre
sforzati di "scoprire" le forme politiche nelle quali doveva prodursi la
trasformazione socialista della società. Gli anarchici si sono disinteressati
della questione delle forme politiche in generale. Gli opportunisti dell'odierna
socialdemocrazia hanno accettato le forme politiche borghesi dello Stato
democratico parlamentare come un limite al di là del quale è impossibile andare;
si sono rotta la testa a furia di prosternarsi davanti a questo "modello" e
hanno tacciato come anarchico ogni tentativo di demolire queste forme.
Da tutta la storia del
socialismo e della lotta politica Marx trasse la conclusione che lo Stato è
condannato a scomparire e che la forma transitoria dello Stato in via di
sparizione (transizione dallo Stato al non-Stato) sarà "il proletariato
organizzato come classe dominante". In quanto alle forme politiche di
questo avvenire, Marx non si preoccupò di scoprirle. Si limitò
all'osservazione esatta della storia francese, alla sua analisi e alla
conclusione che scaturiva dall' anno 1851: le cose marciano verso la
distruzione della macchina dello Stato borghese.
E quando il movimento
rivoluzionario di massa del proletariato scoppiò, Marx, nonostante l'insuccesso
del movimento, nonostante la sua breve durata e la sua impressionante debolezza,
si mise a studiare le forme ch'esso aveva rivelato.
La Comune è la forma "finalmente
scoperta" dalla rivoluzione proletaria sotto la quale poteva prodursi la
emancipazione economica del lavoro.
La Comune è il primo tentativo
della rivoluzione proletaria di spezzare la macchina dello Stato
borghese; è la forma politica "finalmente scoperta" che può e deve sostituire
quel che è stato spezzato.
Vedremo più avanti che le
rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 continuano, in una situazione differente,
in altre condizioni, l'opera della Comune e confermano la geniale analisi
storica di Marx.
IV. Seguito. Spiegazioni
complementari di Engels
Marx ha detto ciò che è
essenziale sull'importanza dell'esperienza della Comune. Engels è ritornato più
volte su questo tema, interpretando l'analisi e le conclusioni di Marx e
spiegando talvolta altri aspetti della questione con tale vigore e con
tale rilievo che è necessario soffermarsi in modo particolare su queste
spiegazioni.
1. "La questione delle abitazioni"
Nella sua opera sulla questione
delle abitazioni (1872) Engels si basa già sull'esperienza della Comune quando,
a più riprese, si sofferma sui compiti della rivoluzione nei confronti dello
Stato. E' interessante vedere come in questo tema concreto appaiano con
chiarezza, da un lato, i tratti di affinità tra lo Stato proletario e lo Stato
attuale, - tratti che permettono in entrambi i casi di parlare di Stato - e,
dall'altro lato, i tratti che li distinguono l'uno dall'altro, o il passaggio
alla soppressione dello Stato.
"Come risolvere dunque la
questione delle abitazioni? Nell'odierna società, esattamente come si risolve
qualsiasi altra questione sociale: mediante la graduale perequazione economica
di domanda ed offerta, soluzione che crea sempre nuovamente la stessa questione,
e che quindi non è una soluzione. La soluzione che darebbe alla questione una
rivoluzione sociale non dipende soltanto dalle condizioni del momento, ma anche
è connessa ad una serie di questioni di molto maggior ampiezza, fra le quali una
delle più importanti è quella dell'eliminazione dell'antitesi fra città e
campagna. Dato che noialtri non siamo di quelli che creano dei sistemi
utopistici per l'instaurazione della società futura, dilungarci in proposito
sarebbe superfluo. Però un fatto è sicuro fin da adesso, e cioè che nelle grandi
città vi sono già sufficienti edifici di abitazioni da permettere di porre
immediato riparo, con una utilizzazione razionale delle abitazioni medesime, ad
ogni reale "insufficienza di abitazioni". Ciò può naturalmente farsi solo a
condizione che siano espropriati gli attuali proprietari o siano occupate le
loro case da parte dei senza tetto o degli operai che in precedenza vivevano
ammassati in numero eccessivo nelle loro abitazioni; e non appena il
proletariato avrà conquistato il potere politico. una tale misura - prescritta
dal bene pubblico - sarà facile a compiere esattamente quanto sono facili oggi
altre espropriazioni ed occupazioni da parte dell' attuale Stato" (p. 22,
edizione tedesca del 1887).
Non si prende qui in
considerazione il cambiamento di forma del potere statale, ma soltanto il
contenuto della sua attività. Anche per ordine dello Stato attuale si procede ad
espropriazioni e a requisizioni di alloggi. Dal punto di vista formale, lo Stato
proletario "ordinerà" esso pure delle requisizioni di alloggi e delle
espropriazioni di case. Ma è evidente che il vecchio apparato esecutivo, la
burocrazia legata alla borghesia, sarebbe semplicemente incapace di applicare le
decisioni dello Stato proletario.
"...D'altronde si deve costatare
che la "effettiva presa di possesso" di tutti gli strumenti di lavoro, la presa
di possesso di tutta l'industria da parte del popolo lavoratore, sono
esattamente il contrario del "riscatto" proudhoniano. Col riscatto il singolo
lavoratore diviene proprietario dell'abitazione, della cascina, degli
strumenti di lavoro; con l'espropriazione il "popolo lavoratore" rimane
proprietario in toto delle case, delle fabbriche e degli attrezzi, e -
almeno nel periodo di trapasso - sarà difficile che ne conceda l'usufrutto a
singoli o a società senza corresponsione delle spese. Proprio come l'abolizione
della proprietà fondiaria non è l'abolizione della rendita fondiaria, ma il suo
trasferimento, sia pure in forma modificata, alla società. La presa di possesso
effettiva di tutti gli strumenti di lavoro da parte del popolo lavoratore non
esclude dunque affatto il permanere dei rapporti di affittanza." (p. 69).
Esamineremo nel capitolo
seguente la questione qui accennata, e cioè quella delle basi economiche
dell'estinzione dello Stato. Engels si esprime con estrema prudenza dicendo che
lo Stato proletario "probabilmente", "almeno nel periodo transitorio", non
distribuirà gli alloggi gratuitamente. L'affitto degli alloggi, proprietà di
tutto il popolo, a queste o quelle famiglie col corrispettivo di una certa
pigione, suppone dunque la percezione di questa pigione, un certo controllo e
l'istituzione di certe norme di ripartizione degli alloggi. Tutto ciò esige una
certa forma di Stato, ma non rende affatto necessario uno speciale apparato
militare e burocratico, con funzionari che godano d'una situazione privilegiata.
Il passaggio a uno stato di cose tale in cui gli alloggi possono essere
assegnati gratuitamente è connesso alla totale "estinzione" dello Stato.
Parlando dei blanquisti che,
dopo la Comune e influenzati dalla sua esperienza, aderirono alle posizioni di
principio del marxismo, Engels così definisce di sfuggita la loro posizione:
"...necessità dell'azione
politica del proletariato e della sua dittatura, come fase di transizione verso
l'abolizione delle classi e, con esse, dello Stato..." (p. 55).
Dilettanti di critica letterale
o borghesi "distruttori del marxismo" vedranno forse una contraddizione tra
questo riconoscimento dell'"abolizione dello Stato" e la negazione di
questa stessa formula, considerata come anarchica, nel passo da noi già citato
dell'Antidühring. Non ci sarebbe di che meravigliarsi nel vedere gli
opportunisti classificare anche Engels fra gli "anarchici": accusare gli
internazionalisti di anarchismo è un'abitudine oggi sempre più diffusa fra i
socialsciovinisti.
Il marxismo ha sempre insegnato
che con l'abolizione delle classi si compie anche l'abolizione dello Stato. Il
passo a tutti noto dell'Antidühring sull'"estinzione dello Stato"
rimprovera gli anarchici non tanto di essere per l'abolizione dello Stato,
quanto di pretendere che sia possibile abolire lo Stato "dall'oggi al domani".
Poichè la dottrina
"socialdemocratica" oggi dominante ha completamente deformato l'atteggiamento
del marxismo verso l'anarchismo circa la questione della soppressione dello
Stato, sarà particolarmente utile ricordare una polemica di Marx e di Engels con
gli anarchici.
2. Polemica con gli anarchici
Questa polemica risale al 1873.
Marx ed Engels avevano pubblicato, in una raccolta socialista italiana,degli
articoli contro i proudhoniani, "autonomisti" o "anti-autoritari", articoli che
solo nel 1913 comparvero in traduzione tedesca nella Neue Zeit.
"...Se la lotta politica della
classe operaia - scriveva Marx deridendo gli anarchici e la loro negazione della
politica - assume forme violente, se gli operai sostituiscono la loro dittatura
rivoluzionaria alla dittatura della classe borghese, essi commettono il
terribile delitto di leso-principio, perché per soddisfare i loro miserabili
bisogni profani di tutti i giorni, per schiacciare la resistenza della classe
borghese, invece di abbassare le armi e di abolire lo Stato, essi gli dànno una
forma rivoluzionaria e transitoria..." (Neue Zeit, 1913-1914, A. XXXII,
vol. I, p. 40).
E' contro questa "abolizione"
dello Stato, - e solo contro questa, - che Marx si levava nella sua polemica
contro gli anarchici! Non contro I'idea che lo Stato scompare con la scomparsa
delIe classi, o sarà abolito con la abolizione delIe classi, ma contro la
rinuncia degli operai a fare uso delle armi, della violenza organizzata, vale
a dire dello Stato, che deve servire a "schiacciare la resistenza deIla
classe borghese".
Perchè non si travisi il vero
significato della sua lotta contro l'anarchismo. Marx sottolinea
intenzionalmente "la forma rivoluzionaria e transitoria"dello Stato
necessario al proletariato. Il proletariato ha bisogno dello Stato solo per un
certo periodo di tempo. Quanto all'abolizione dello Stato, come fine, noi
non siamo affatto in disaccordo con gli anarchici. Affermiamo che per
raggiungere questo fine è indispensabile utilizzare temporaneamente, contro
gli sfruttatori, gli strumenti, i mezzi e i metodi del potere statale, così
com'è indispensabile, per sopprimere le classi, stabilire la dittatura
temporanea della classe oppressa. Nel porre la questione contro gli anarchici,
Marx sceglie il modo più incisivo e più chiaro: abbattendo il giogo dei
capitalisti, gli operai debbono "deporre le armi" o rivolgerle contro i
capitalisti per spezzare la loro resistenza? E se una classe fa sistematicamente
uso delle armi contro un'altra classe, che cosa è questo se non una "forma
transitoria" di Stato?
Si domandi quindi ogni
socialdemocratico: è così che egli ha posto il problema dello Stato nella
polemica contro gli anarchici? è così che il problema è stato posto dall'immensa
maggioranza dei partiti socialisti ufficiali della Seconda Internazionale?
Engels sviluppa le stesse idee
in modo ancor più particolareggiato e popolare. Egli deride innanzi tutto la
confusione di idee dei proudhoniani che si chiamavano "anti-autoritari",
negavano cioè ogni autorità, ogni subordinazione, ogni potere. Prendete una
fabbrica, una ferrovia, un piroscafo in alto mare, - dice Engels, - non è
evidente che senza una certa subordinazione, e quindi senza una certa autorità o
un certo potere, non è possibile far funzionare nemmeno uno di questi complicati
apparati tecnici, fondati sull'impiego delle macchine e la metodica
collaborazione di un gran numero di persone?
"...Allorchè io sottoposi simili
argomenti ai più furiosi anti-autoritari, - scrive Engels, - essi non seppero
rispondermi che questo: " Ah! Ciò vero, ma qui non si tratta di un'autorità che
noi diamo ai delegati, ma di un incarico!". Questi signori credono
aver cambiato le cose quando ne hanno cambiato i nomi..."
Dopo aver così dimostrato che
autorità ed autonomia sono nozioni re1ative, che il campo della loro
applicazione varia secondo le differenti fasi dello sviluppo sociale, e che è
assurdo considerarle come qualcosa
di assoluto; dopo aver aggiunto
che il campo di applicazione delle macchine e della grande industria va sempre
più estendendosi, Engels passa dalle considerazioni generali sull'autorità al
problema dello Stato.
" ...Se gli autonomisti - egli
scrive - si limitassero a dire che l'organizzazione sociale dell'avvenire
restringerà l'autorità ai soli limiti nei quali le condizioni della produzione
la rendono inevitabile, si potrebbe intendersi; invece, essi sono ciechi per
tutti i fatti che rendono necessaria la cosa, e si avventano contro la parola.
"Perchè gli anti-autoritari non
si limitano a gridare contro l'autorità politica, lo Stato? Tutti i socialisti
sono d'accordo in ciò, che lo Stato politico e con lui l'autorità politica
scompariranno in conseguenza della prossima rivoluzione sociale, e cioè che le
funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico, e si cangieranno in
semplici funzioni amministrative veglianti ai veri interessi sociali. Ma gli
anti-autoritari domandano che lo Stato politico autoritario sia abolito d'un
tratto, prima ancora che si abbiano distrutte le condizioni sociali, che l'hanno
fatto nascere. Eglino domandano che il primo atto della rivoluzione sociale sia
l'abolizione dell'autorità. Non hanno mai veduto una rivoluzione questi signori?
Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; è l'atto per il
quale una parte della popolazione impone la sua volontà all'altra parte col
mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari, se ce ne sono; e il
partito vittorioso, se non vuol avere combattuto invano, deve continuare questo
dominio col terrore che le sue armi ispirano ai reazionari. La Comune di Parigi
sarebbe durata un sol giorno, se non si fosse servita di questa autorità di
popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può al contrario rimproverarle di
non essersene servita abbastanza largamente?
"Dunque, delle due cose l'una: o
gli anti-autoritari non sanno ciò che si dicono, e in questo caso non seminano
che la confusione; o essi lo sanno, e in questo caso tradiscono il movimento del
proletariato. Nell'un caso e nell'altro essi servono la reazione" (p. 39).
In questo passo si fa accenno a
questioni che devono essere esaminate in connessione con il problema dei
rapporti fra la politica e l'economia nel periodo dell'estinzione dello Stato.
(Il capitolo seguente è dedicato a questo tema.) Tali sono i problemi relativi
alla trasformazione delle funzioni pubbliche da funzioni politiche in semplici
funzioni amministrative; tale è il problema dello "Stato politico". Quest'ultima
espressione, particolarmente suscettibile di far sorgere malintesi, mostra il
processo dell'estinzione dello Stato: lo Stato che si estingue, a un certo punto
dalla sua estinzione, può essere chiamato uno Stato non politico.
La cosa più notevole in questo
passo di Engels è ancora una volta il modo con cui egli imposta la questione
contro gli anarchici. I socialdemocratici, che pretendono di essere allievi di
Engels, hanno polemizzato milioni di volte con gli anarchici dopo il 1873, ma
non hanno discusso come i marxisti possono e debbono fare. L'idea che si
fanno gli anarchici dell'abolizione dello Stato è confusa e non
rivoluzionaria: ecco come Engels impostò la questione. E' proprio la
rivoluzione, nel suo sorgere e nel suo sviluppo, nei suoi compiti specifici
rispetto alla violenza, all'autorità, al potere, allo Stato, che gli anarchici
si rifiutano di vedere.
Per i socialdemocratici
contemporanei la critica dell'anarchismo si riduce abitualmente a questa pura
banalità piccolo-borghese: "Noi ammettiamo lo Stato, gli anarchici no!".
Naturalmente una tale banalità non può non suscitare l'avversione degli operai
con un minimo di raziocinio e rivoluzionari. Ben altro è ciò che dice Engels:
egli sottolinea che tutti i socialisti riconoscono che la scomparsa dello Stato
è una conseguenza della rivoluzione socialista. In seguito egli pone in modo
concreto la questione della rivoluzione, la questione appunto che i
socialdemocratici, per il loro opportunismo, generalmente eludono, abbandonando
agli anarchici il monopolio della pseudo "elaborazione" di questo problema. E
ponendo tale questione, Engels prende il toro per le corna: la Comune non
avrebbe dovuto forse servirsi maggiormente del potere rivoluzionario
dello Stato, vale a dire del proletariato armato, organizzato come classe
dominante?
La socialdemocrazia ufficiale e
dominante ha eluso di solito il problema dei compiti concreti del proletariato
nella rivoluzione, o con un semplice sarcasmo da filisteo, o, nel migliore dei
casi, con questa battuta sofistica ed evasiva: "Si vedrà poi!". Gli anarchici
erano in diritto di rimproverare, a una tale socialdemocrazia, di venir meno al
suo dovere di educare in uno spirito rivoluzionario gli operai. Engels mette a
profitto l'esperienza dell'ultima rivoluzione proletaria appunto per studiare
nel modo più concreto quello che il proletariato deve fare per ciò che riguarda
sia le banche che lo Stato, e come deve farlo.
3. Una lettera a Bebel
Una delle considerazioni più
notevoli, se non la più notevole, che troviamo negli scritti di Marx e di Engels
sullo Stato, è nel seguente passo di una lettera di Engels a Bebel del 18-28
marzo 1875. Notiamo tra parentesi che questa lettera è stata pubblicata per la
prima volta, per quanto mi è noto, nel secondo volume delle memorie di Bebel (Ricordi
della mia vita), apparse nel 1911, cioè trentasei anni dopo che era stata
scritta e inviata.
Engels aveva scritto a Bebel
criticando il progetto del programma di Gotha, che anche Marx aveva criticato
nella sua nota lettera a W. Bracke. Parlando in particolare del problema dello
Stato, Engels scrive :
" ...Lo Stato popolare libero si
è trasformato in Stato libero. Secondo il senso grammaticale di queste parole,
uno Stato libero è quello che è libero verso i suoi cittadini, cioè è uno Stato
con un governo dispotico. Sarebbe ora di farla finita con tutte queste
chiacchiere sullo Stato, specialmente dopo la Comune che non era più uno Stato
nel senso proprio della parola. Gli anarchici ci hanno abbastanza rinfacciato lo
"Stato popolare", benchè già il libro di Marx contro Proudhon e in
seguito il Manifesto del Partito comunista dicano esplicitamente che con
l'instaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé [sich
auflöst] e scompare. Non essendo lo Stato altro che un'istituzione
temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tener
soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno "Stato popolare libero"
è pura assurdità: finchè il proletariato ha ancora bisogno dello Stato,
ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse
dell'assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di
libertà allora lo Stato come tale cessa di esistere. Noi proporremo quindi di
mettere ovunque invece della parola Stato la parola Gemeinwesen,
una vecchia eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese
Commune" (p. 322 dell'originale tedesco).
Bisogna ricordare che questa
lettera si riferisce al programma del partito, criticato in una lettera di Marx
scritta solo poche settimane dopo questa (la lettera di Marx è del 5 maggio
1875), e che Engels viveva allora con Marx a Londra. E' dunque certo che Engels,
dicendo nella sua ultima frase "noi", propone, a nome suo e di Marx, al capo del
partito operaio tedesco di sopprimere nel programma la parola "Stato" e
di sostituirla con la parola "Comune".
Come griderebbero all'
"anarchia" i capi del moderno "marxismo" adattato alle comodità degli
opportunisti, se si proponesse loro un simile emendamento del programma!
Gridino pure! La borghesia li
loderà.
Noi, da parte nostra,
continueremo la nostra opera. Nel rivedere il programma del nostro partito
dovremmo assolutamente tener conto del consiglio di Engels e di Marx, per
accostarci alla verità, per ristabilire il marxismo, purificandolo da tutte le
deformazioni, per meglio dirigere la classe operaia nella lotta per la sua
liberazione. E' certo che la raccomandazione di Engels e di Marx non troverà
oppositori tra i bolscevichi. Non ci sarà, crediamo, che una difficoltà: la
scelta del termine. In tedesco vi sono due parole che significano "Comune";
Engels scelse quella che indica non una singola comune, ma un insieme, un
sistema di comuni. In russo non esiste una parola simile e bisognerà forse
ricorrere alla parola francese "Commune", quantunque presenti anch'essa certi
inconvenienti.
"La Comune non era più uno Stato
nel senso proprio della parola": ecco l'affermazione di Engels, fondamentale dal
punto di vista teorico. Dopo l'esposizione che precede, questa affermazione è
perfettamente comprensibile. La Comune cessava di essere uno Stato nella
misura in cui essa non doveva più opprimere la maggioranza della popolazione, ma
una minoranza (gli sfruttatori); essa aveva spezzato la macchina dello Stato
borghese; invece di una forza particolare di oppressione, era la
popolazione stessa che entrava in campo. Tutto ciò non corrisponde più allo
Stato nel senso proprio della parola. Se la Comune si fosse consolidata, le
tracce dello Stato si sarebbero "estinte" da sé: la Comune non avrebbe avuto
bisogno di "abolire" le sue istituzioni: queste avrebbero cessato di funzionare
a mano a mano che non avrebbero più avuto nulla da fare.
"Gli anarchici ci rinfacciano lo
"Stato popolare"." Così dicendo Engels allude soprattutto a Bakunin e ai suoi
attacchi contro i socialdemocratici tedeschi. Engels riconosce che questi
attacchi sono in qualche modo giusti in quanto lo "Stato popolare" è un
nonsenso e una deviazione dal socialismo, come lo è lo "Stato popolare libero".
Engels si sforza di correggere la lotta dei socialdemocratici tedeschi contro
gli anarchici, di farne una lotta giusta nei principi, di sbarazzarla dai
pregiudizi opportunisti sullo "Stato". Ahimè! La lettera di Engels è rimasta per
ben trentasei anni in un cassetto. Vedremo più avanti che, anche dopo la
pubblicazione di questa lettera, Kautsky si ostina a ripetere in sostanza i
medesimi errori contro i quali Engels aveva messo in guardia.
Bebel rispose a Engels il 21
settembre 1875, con una lettera nella quale dichiarava tra l'altro di essere
"completamente d'accordo" con il giudizio da lui esposto sul progetto del
programma e di aver rimproverato a Liebknecht di essere stato troppo accomodante
(p. 304 dell'ed. tedesca delle memorie di Bebel, vol. II). Ma se prendiamo
l'opuscolo di Bebel intitolato I nostri scopi vi troveremo delle
considerazioni sullo Stato completamente sbagliate:
"Lo Stato fondato sulla
dominazione di una classe deve essere trasformato in uno Stato popolare"
(Unsere Ziele, ed. tedesca, 1886, p. 14).
E questo è pubblicato nella
nona (nona!) edizione dell'opuscolo di Bebel! Non c'è da meravigliarsi che
la socialdemocrazia tedesca si sia imbevuta di concezioni opportunistiche sullo
Stato così ostinatamente ripetute, tanto più quando i commenti rivoluzionari di
Engels giacevano in un cassetto e le circostanze della vita facevano
"disimparare" per lungo tempo la rivoluzione.
4. Critica del progetto del
programma di Erfurt
Non si può, in un'analisi della
dottrina marxista sullo Stato, trascurare la critica del progetto del programma
di Erfurt inviata da Engels a Kautsky il 29 giugno 1891 ,e pubblicata solo dieci
anni dopo nella Neue Zeit, perchè essa è soprattutto dedicata alla
critica delle concezioni opportuniste della socialdemocrazia sui problemi
dell'organizzazione dello Stato.
Rileviamo di sfuggita che Engels
dà anche, sulle questioni economiche, una indicazione estremamente preziosa, che
mostra con quale attenzione e quale profondità di pensiero egli seguisse le
trasformazioni del capitalismo moderno, e come sapesse quindi, in una certa
misura, presentire i problemi della nostra epoca imperialista. Ecco questa
indicazione: a proposito della parola Planlosigkeit (assenza di piano)
adoperata nel progetto di programma per caratterizzare il capitalismo, Engels
scrive:
"...Se poi dalle società per
azioni passiamo ai trust, che dominano e monopolizzano intere branche
dell'industria, non soltanto non esiste più produzione privata, ma non possiamo
parlare più neppure di assenza di un piano" (Neue Zeit, A. XX, vol. I,
1901-1902, p. 8).
Nella valutazione teorica del
capitalismo moderno, cioè dell'imperialismo, è colto qui l'essenziale, vale a
dire che il capitalismo si trasforma in capitalismo monopolistico. E da
sottolineare capitalismo perchè uno degli errori più diffusi è l'affermazione
riformista borghese, secondo la quale il capitalismo monopolistico o
monopolistico di Stato non è già più capitalismo e può essere chiamato
"socialismo di Stato", ecc. Naturalmente i trust non hanno mai dato, non danno
sinora e non possono dare la regolamentazione di tutta l'economia secondo un
piano. Ma per quanto essi stabiliscano un piano, per quanto i magnati del
capitale calcolino in anticipo il volume della produzione su scala nazionale e
persino internazionale, per quanto essi regolino questa produzione in base a un
piano, rimaniamo tuttavia in regime capitalistico, benchè in una sua
nuova fase, ma, indubbiamente, in regime capitalistico. La "vicinanza" di
tale capitalismo al socialismo deve essere per i veri rappresentanti del
proletariato un argomento in favore della vicinanza, della facilità, della
possibilità, dell'urgenza della rivoluzione socialista, e non già un argomento
per mostrarsi tolleranti verso la negazione di questa rivoluzione e verso
l'abbellimento del capitalismo, nella qual cosa sono impegnati tutti i
riformisti.
Ma ritorniamo al problema dello
Stato. Engels ci dà qui indicazioni particolarmente preziose su tre punti:
primo, sul problema della repubblica; secondo, sul legame esistente tra la
questione nazionale e l'organizzazione dello Stato; terzo, sull'amministrazione
autonoma locale.
Engels fa della questione della
repubblica il punto cruciale della sua critica nel programma di Erfurt. Se
ricordiamo quale importanza il programma di Erfurt aveva assunto per tutta la
socialdemocrazia internazionale, come era servito di modello a tutta la Seconda
Internazionale, si potrà dire, senza timore di esagerare, che Engels critica qui
l'opportunismo di tutta la Seconda Internazionale.
"Le rivendicazioni politiche del
progetto - egli scrive - hanno un grosso difetto. In esse manca proprio ciò
che invece doveva essere detto" (il corsivo è di Engels).
E più avanti dimostra che la
Costituzione tedesca è, in sostanza, una copia ricalcata della Costituzione
ultrareazionaria del 1850; che il Reichstag non è altro, come diceva Wilhelm
Liebknecht, che "la foglia di fico dell'assolutismo", e che voler realizzare -
sulla base di una Costituzione che consacra l' esistenza di piccoli Stati
tedeschi e della confederazione di questi piccoli Stati - la "trasformazione dei
mezzi di lavoro in proprietà comune" è "manifestamente privo di senso".
"E' pericoloso toccare questo
tasto", - aggiunge Engels, il quale sa benissimo che non si può, in Germania,
enunciare legalmente in un programma la rivendicazione della repubblica.
Tuttavia Engels non si adatta puramente e semplicemente a questa considerazione
evidente di cui "tutti" si accontentano. Egli continua: "Ma l'argomento, in un
modo o nell'altro, va affrontato. Quanto sia necessario lo sta dimostrando
proprio ora l'opportunismo che è penetrato [einreissende] in una grande
parte della stampa socialdemocratica. Per timore di una ripresa delle leggi
antisocialiste, a causa del ricordo di tutte le varie dichiarazioni
prematuramente espresse quando quelle leggi erano in vigore, all'improvviso
l'attuale situazione legale in Germania dovrebbe essere sufficiente al partito
per attuare per via pacifica tutte le sue rivendicazioni..."
I socialdemocratici tedeschi
hanno agito per paura di un rinnovo delle leggi eccezionali: - è questo il fatto
essenziale che Engels pone in primo piano e definisce, senza mezzi termini,
opportunismo, dichiarando che, appunto perchè in Germania non v'è repubblica e
non v'è libertà, sognare una via "pacifica" è cosa insensata. Engels è
abbastanza prudente per non legarsi le mani. Egli riconosce che nei paesi retti
a repubblica o che godono di una grandissima libertà "si può concepire"
(soltanto "concepire"!) un'evoluzione pacifica verso il socialismo, ma in
Germania, egli ripete,
"...in Germania, dove il governo
è quasi onnipotente e il Reichstag e gli altri organismi rappresentativi sono
privi di reale potere, e per di più proclamarlo senza necessità, significa
togliere all'assolutismo la foglia di fico e servirsene per coprire le proprie
nudità...".
A fare da copertura
all'assolutismo furono infatti, nella loro grande maggioranza, i capi ufficiali
della socialdemocrazia tedesca, che aveva messo "nel dimenticatoio" gli
avvertimenti di Engels.
"...Una simile politica, alla
lunga, non può non indurre in errore il partito. Si pongono in prima linea
questioni politiche astratte, generali, e si celano così le questioni concrete e
più urgenti, quelle questioni che al primo grande avvenimento, alla prima crisi
politica, si pongono da sé all'ordine del giorno. Che altro può derivarne, se
non il fatto che al momento decisivo il partito si trovi improvvisamente
perplesso, che sui punti decisivi regnino la confusione e la discordia perchè
questi punti non sono mai stati discussi?...
"Questo dimenticare i grandi
principi fondamentali di fronte agli interessi passeggeri del momento, questo
lottare e tendere al successo momentaneo senza preoccuparsi delle conseguenze
che ne scaturiranno, questo sacrificare il futuro del movimento per il presente
del movimento, può essere considerato onorevole, ma è e rimane opportunismo, e
l'opportunismo "onorevole" è forse il peggiore di tutti...
"Se vi è qualcosa di certo, è
proprio il fatto che il nostro partito e la classe operaia possono giungere al
potere soltanto sotto la forma della repubblica democratica. Anzi, questa è la
forma specifica per la dittatura del proletariato, come già ha dimostrato la
Grande Rivoluzione francese..."
Engels ripete qui, mettendola
particolarmente in rilievo, l'idea fondamentale che attraversa, come un filo
ininterrotto, tutte le opere di Marx: la repubblica democratica è la via più
breve che conduce alla dittatura del proletariato. Questa repubblica, infatti,
benchè non sopprima affatto il dominio del capitale, e quindi l'oppressione
delle masse e la lotta di classe, porta inevitabilmente questa lotta a
un'estensione, a uno sviluppo, a uno slancio e ad un'ampiezza tale che, una
volta apparsa la possibilità di soddisfare gli interessi essenziali delle masse
oppresse, questa possibilità si realizza necessariamente e unicamente con la
dittatura del proletariato, con la direzione di queste masse da parte del
proletariato. Per tutta la Seconda Internazionale anche queste sono state
"parole dimenticate" del marxismo, e questa dimenticanza si è manifestata con
particolare evidenza nella storia del partito menscevico durante i primi sei
mesi della rivoluzione russa del 1917.
Sul problema della repubblica
federativa in relazione con la composizione nazionale della popolazione, Engels
scriveva:
"Che cosa dovrebbe subentrare al
loro posto?" (al posto della costituzione monarchica reazionaria dell'attuale
Germania e della sua non meno reazionaria suddivisione in piccoli Stati, che
perpetua le caratteristiche specifiche del "prussianesimo" anziché dissolverle
in una Germania come un tutto unico). "A mio giudizio, il proletariato può
utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile. La repubblica
federale ancora oggi, nel complesso, è una necessità, data la gigantesca
estensione territoriale degli Stati Uniti, sebbene nella loro parte orientale
costituisca già un impedimento. Sarebbe un progresso in Inghilterra, dove sulle
due isole vivono quattro nazioni, e dove nonostante un Parlamento unico
sussistono già oggi, uno accanto all'altro, tre tipi di sistemi legislativi. Già
da tempo essa è divenuta un ostacolo nella piccola Svizzera, sopportabile
soltanto perché la Svizzera si accontenta di essere un membro puramente passivo
del sistema degli Stati europei. Per la Germania una imitazione del federalismo
svizzero sarebbe un enorme passo indietro. Due punti dividono lo Stato federale
dallo Stato unitario, cioè il fatto che ogni singolo Stato federato, ogni
Cantone, ha la propria legislazione civile e penale e la propria organizzazione
giudiziaria, e il fatto che accanto al Parlamento del popolo (Volkshaus)
esiste un Parlamento degli Stati (Staatenhaus), nel quale ogni Cantone,
grande o piccolo, vota come tale."
In Germania lo Stato federale
rappresenta una forma di transizione verso uno Stato completamente unitario; non
si deve far retrocedere la "rivoluzione dall'alto", compiuta nel 1866 e nel
1870, ma si deve completarla con un "movimento dal basso" .
Ben lontano dal disinteressarsi
delle forme dello Stato, Engels si sforza al contrario di analizzare con la
massima attenzione proprio le forme transitorie, per determinare in ogni caso
specifico, in base alle particolarità storiche concrete, quale passaggio, da
che cosa e verso che cosa, rappresenti la forma transitoria esaminata
Come Marx, Engels difende, dal
punto di vista del proletariato e della rivoluzione proletaria, il centralismo
democratico, la repubblica una e indivisibile. Egli considera la repubblica
federale o come un'eccezione alla regola e un ostacolo allo sviluppo, o come una
transizione tra la monarchia e la repubblica centralizzata, come un "passo
avanti", in certe condizioni particolari. E fra queste condizioni particolari,
mette in evidenza la questione nazionale.
Sia in Engels che in Marx,
benché essi abbiano criticato implacabilmente il carattere reazionario degli
staterelli in quanto tali e l'utilizzazione, in casi concreti, della questione
nazionale per mascherare questo carattere reazionario, non si troverà, in
nessuno dei loro scritti, neppur l'ombra della tendenza ad eludere la questione
nazionale, tendenza di cui parlano spesso i marxisti olandesi e polacchi, pur
partendo dalla lotta del tutto legittima contro il nazionalismo angustamente
piccolo-borghese dei "loro" piccoli Stati.
Persino in Inghilterra, dove le
condizioni geografiche, la comunanza della lingua e una storia multisecolare
sembrerebbero "aver messo fine" alla questione nazionale per singole piccole
suddivisioni del paese, - persino qui Engels tiene conto del fatto evidente che
la questione nazionale non è ancora superata e riconosce perciò che la
repubblica federale costituirebbe un "passo in avanti". Ma non vi è qui neppur
l'ombra della rinuncia a criticare i difetti della repubblica federale e a
condurre la propaganda e la lotta più decisa in favore della repubblica
unitaria, democratica, centralizzata.
Ma Engels non concepisce affatto
il centralismo democratico nel senso burocratico dato a questa nozione dagli
ideologi borghesi e piccolo-borghesi, compresi, fra questi ultimi, gli
anarchici. Per Engels il centralismo non esclude affatto una larga autonomia
amministrativa locale, la quale, mantenendo le "comuni" e le regioni
volontariamente l'unità dello Stato, sopprime recisamente ogni burocrazia e ogni
"comando" dall'alto.
"...Dunque repubblica unitaria,
- scrive Engels sviluppando le concezioni programmatiche del marxismo a
proposito dello Stato. - Ma non nel senso di quella francese odierna, che non è
altro se non l'impero senza imperatore, fondato nel 1798. Dal 1792 al 1798 ogni
dipartimento francese, ogni comune (Gemeinde) godettero di una
amministrazione completamente autonoma, secondo il modello americano, e anche
noi dobbiamo averla.
L' America e la prima repubblica
francese mostrarono a noi tutti in che modo si debba istituire l'amministrazione
autonoma e come si possa fare a meno della burocrazia, e ancor oggi ce lo
dimostrano l'Australia, il Canadà e le altre colonie inglesi. Tale
amministrazione autonoma provinciale e comunale è assai più libera che, ad
esempio, il federalismo svizzero, dove il Cantone è bensì assai indipendente
rispetto alla Confederazione, ma lo è anche rispetto al distretto e al comune. I
governi cantonali nominano governatori distrettuali e prefetti, mentre di tutto
questo non si ha traccia nei paesi di lingua inglese, e anche noi in futuro
vorremmo garbatamente fare a meno di essi come dei presidenti distrettuali e dei
consiglieri di prefettura prussiana."
Engels propone quindi di
formulare nel modo seguente l'articolo del programma relativo all'autonomia
amministrativa: "Amministrazione completamente autonoma nella provincia,"
(governatorato o regione) "nei distretti e nei comuni, da parte di impiegati
eletti con suffragio universale. Abolizione di ogni autorità locale e
provinciale nominata dallo Stato".
Nella Pravda (n. 68, 28
maggio 1917), proibita dal governo di Kerenski e dagli altri ministri
"socialisti", ho già avuto occasione di mostrare che, su questo punto, - il
quale evidentemente è tutt'altro che il solo, - i nostri rappresentanti
pseudosocialisti di una pseudodemocrazia pseudorivoluzionaria si allontanano in
modo clamoroso dai princípi democratici. Si comprende come questa gente,
legata dalla sua "coalizione" con la borghesia imperialista, sia rimasta sorda a
queste considerazioni.
E' molto importante rilevare che
Engels, prove alla mano, smentisce con il più preciso degli esempi il
pregiudizio straordinariamente diffuso - specie nella democrazia
piccolo-borghese, - secondo il quale una repubblica federale significhi
necessariamente maggiore libertà di quanto non si abbia in una repubblica
centralizzata. E' falso. I fatti citati da Engels relativi alla repubblica
francese centralizzata del 1792-l798 e alla repubblica federale svizzera
confutano questa affermazione. In realtà la repubblica centralizzata,
effettivamente democratica, diede maggiore libertà che non la repubblica
federale. In altri termini: la maggiore libertà locale, regionale, ecc.,
che la storia abbia conosciuta è stata data dalla repubblica centralizzata
e non dalla repubblica federale.
La nostra propaganda e la nostra
agitazione di partito hanno dedicato e dedicano tuttora una insufficiente
attenzione a questo fatto, come, in generale, a tutto il problema della
repubblica federale e centralizzata e della autonomia amministrativa locale.
5. La prefazione del 1891 alla
"Guerra civile" di Marx
Nella sua prefazione alla terza
edizione della Guerra civile in Francia - prefazione in data del 18 marzo 1891,
pubblicata per la prima volta nella rivista Neue Zeit -, accanto ad
alcune interessanti riflessioni incidentali sui problemi connessi
all'atteggiamento nei confronti dello Stato, Engels dà un riassunto
meravigliosamente incisivo degli insegnamenti della Comune. Questo riassunto, -
arricchito di tutta l'esperienza del periodo di vent'anni che separa il suo
autore dalla Comune, e in particolar modo rivolto contro la "fede superstiziosa
nello Stato" tanto diffusa in Germania, - può a buon diritto essere considerato
come l'ultima parola del marxismo sulla questione in esame.
In Francia, dopo ogni
rivoluzione, - osserva Engels, - gli operai erano armati; "per i borghesi che si
trovavano ancora al governo dello Stato il disarmo degli operai era quindi il
primo comandamento. Ecco quindi sorgere dopo ogni rivoluzione vinta dagli operai
una nuova lotta, la quale finisce con la disfatta degli operai".
Questo bilancio dell'esperienza
delle rivoluzioni borghesi è tanto succinto quanto eloquente. Il fondo del
problema - come, fra l'altro, nella questione dello Stato (la classe oppressa
dispone di armi?) - è individuato in modo ammirevole. Ed è proprio questo
fondo che tanto i professori influenzati dall'ideologia borghese quanto i
democratici della piccola borghesia eludono cosí spesso. Nella rivoluzione russa
del 1917 fu al "menscevico" Tsereteli, "marxista anche lui", che toccò l'onore
(l'onore d'un Cavaignac) di svelare inavvertitamente questo segreto delle
rivoluzioni borghesi. Nel suo "storico" discorso dell'11 giugno, Tsereteli ebbe
l'imprudenza di annunziare che la borghesia era decisa a disarmare gli operai di
Pietrogrado, decisione ch'egli naturalmente presentò anche come propria e, in
generale, come una necessità "di Stato"!
Lo storico discorso di Tsereteli,
pronunciato l'11 giugno, sarà certamente per tutti gli storici della rivoluzione
del 1917 una delle migliori illustrazioni del passaggio del blocco dei
socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi, con a capo il signor Tsereteli,
dalla parte della borghesia, contro il proletariato rivoluzionario.
Un'altra riflessione incidentale
di Engels, anch'essa legata al problema dello Stato, riguarda la religione. E'
noto che la socialdemocrazia tedesca, a mano a mano che si incancreniva e
diventava sempre più opportunista, scivolava con sempre maggiore frequenza verso
una interpretazione erronea e filistea della celebre formula: "La religione è un
affare privato". Questa formula infatti era interpretata come se, anche per
il partito del proletariato rivoluzionario, la questione della religione
fosse un affare privato!! Contro questo completo tradimento del programma
rivoluzionario del proletariato si levò Engels, che, non potendo ancora, nel
1891, osservare nel suo partito se non dei debolissimi germi di
opportunismo, si esprimeva quindi con grande prudenza:
"Come nella Comune vi erano
quasi solo operai o rappresentanti riconosciuti degli operai, così anche le sue
deliberazioni avevano una decisa impronta proletaria. O decretavano riforme che
la borghesia repubblicana aveva trascurato soltanto per viltà, ma che
rappresentavano una base necessaria per la libertà d'azione della classe
operaia, come l'attuazione del principio che di fronte allo Stato la
religione non è che un semplice affare privato; oppure emettevano deliberazioni
nell'interesse diretto della classe operaia, che talvolta incidevano anche
profondamente sull'antico ordinamento sociale..."
E' con intenzione che Engels ha
sottolineato le parole "di fronte allo Stato"; in tal modo egli attaccava in
pieno l'opportunismo tedesco che dichiarava la religione un affare privato di
fronte al partito e abbassava così il partito del proletariato
rivoluzionario al livello del più volgare piccolo-borghese "libero pensatore",
che è disposto ad ammettere che si possa rimanere fuori della religione, ma
rinnega il compito del partito di lottare contro la religione, quest'oppio che
inebetisce il popolo.
Il futuro storico della
socialdemocrazia tedesca, ricercando le prime fonti della sua vergognosa
bancarotta nel 1914, troverà numerosi documenti interessanti su questa
questione, a cominciare dalle dichiarazioni evasive fatte nei suoi articoli dal
capo ideologico del partito, Kautsky, dichiarazioni che spalancavano le porte
all'opportunismo, per finire con l'atteggiamento del partito verso il
Los-von-Kirche-Bewegung (movimento per la separazione dalla Chiesa) nel
1913.
Ma vediamo come, vent' anni dopo
la Comune, Engels riassumeva gli insegnamenti ch'essa - aveva dato al
proletariato in lotta.
Ecco gli insegnamenti che Engels
poneva in primo piano:
"...Proprio l'opprimente potere
del precedente governo centralizzato, il potere dell' esercito della polizia
politica, della burocrazia, che Napoleone aveva creato nel 1798 e che da allora
in poi ogni nuovo governo aveva accettato come uno strumento ben accetto e aveva
sfruttato contro i suoi avversari, proprio quel potere doveva cadere
dappertutto, come già era caduto a Parigi.
"La Comune dovette riconoscere
sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può
continuare ad amministrare con la vecchia macchina statale; che la classe
operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte
deve eliminare tutto il vecchio macchinario repressivo già sfruttato contro di
essa, e dall'altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati,
dichiarandoli revocabili senza alcuna eccezione e in ogni momento...".
Engels sottolinea ancora una
volta che non solo in una monarchia, ma anche nella repubblica democratica,
lo Stato rimane lo Stato; conserva cioè la sua caratteristica fondamentale:
trasformare i funzionari, da "servitori della società" e suoi organi, in
padroni della società.
"...Contro questa
trasformazione, inevitabile finora in tutti gli Stati, dello Stato e degli
organi dello Stato da servitori della società in padroni della società, la
Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo, assegnò elettivamente
tutti gli impieghi amministrativi, giudiziari, educativi, per suffragio generale
degli interessati e con diritto costante di revoca da parte di questi. In
secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, pagò solo lo stipendio che
ricevevano gli altri lavoratori. Il più alto assegno che essa pagava era di
6.000 franchi . In questo modo era posto un freno sicuro alla caccia agli
impieghi e al carrierismo, anche senza i mandati imperativi per i delegati ai
Corpi rappresentativi, che furono aggiunti per soprappiù..."
Engels affronta qui
l'interessante limite, passato il quale la democrazia conseguente da un lato
si trasforma in socialismo, e dall'altro richiede il socialismo. Infatti,
per sopprimere lo Stato è necessario trasformare le funzioni del servizio
statale in operazioni di controllo e di registrazione, talmente semplici da
essere alla portata dell'immensa maggioranza della popolazione e, in seguito, di
tutta la popolazione. Ma per sopprimere completamente il carrierismo, bisogna
che un impiego statale "onorifico", anche se non retribuito, non possa
servire di passerella per raggiungere impieghi molto lucrativi nelle banche e
nelle società anonime, come sistematicamente avviene in tutti i paesi
capitalistici, anche i più liberi.
Engels non cade però nell'errore
che commettono, ad esempio, certi marxisti a proposito del diritto delle nazioni
all'autodecisione: in regime capitalistico, essi dicono, questo diritto è
irrealizzabile, e in regime socialista diventa superfluo. Questo ragionamento,
che vorrebbe essere spiritoso, ma è soltanto sbagliato, potrebbe essere
applicato a qualsiasi istituzione democratica, compreso il modesto
stipendio assegnato ai funzionari, poichè un sistema democratico rigorosamente
conseguente non è possibile in regime capitalistico, e in regime socialista ogni
democrazia finirà per estinguersi.
E' un sofisma del genere della
vecchia barzelletta: in quel momento l'uomo che perde ad uno ad uno i suoi
capelli può essere considerato calvo?.
Sviluppare la democrazia fino
in fondo, ricercare le forme di questo sviluppo, metterle alla prova
della pratica, ecc.: tutto ciò costituisce uno dei problemi
fondamentali della lotta per la rivoluzione sociale. Preso a sé, nessun sistema
democratico, qualunque esso sia, darà il socialismo; ma nella vita il sistema
democratico non sarà mai "preso a sé", sarà "preso nell'insieme" ed eserciterà
la sua influenza anche sull'economia di cui stimolerà la trasformazione,
mentre esso stesso subirà l'influenza dello sviluppo economico, ecc. E' questa
la dialettica della storia viva.
Engels continua:
"...Questa distruzione violenta
[Sprengung] del potere dello Stato esistente e la sostituzione ad esso di
un nuovo potere veramente democratico, è descritta esaurientemente nel terzo
capitolo della Guerra civile. Era però necessario ritornar qui brevemente
sopra alcuni tratti di essa, perchè proprio in Germania la fede superstiziosa
nello Stato si è trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della
borghesia e perfino di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato
è "la realizzazione dell'Idea" ovvero il regno di Dio in terra tradotto in
linguaggio filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia eterne si
realizzano o si devono realizzare. Di qui una superstiziosa venerazione dello
Stato e di tutto ciò che ha relazione con lo Stato, che subentra tanto più
facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari
comuni a tutta la società non possono venir curati altrimenti che come sono
stati curati fino a quel momento cioè per mezzo dello Stato e dei suoi ben
pagati funzionari. E si crede è liberati dalla fede nella monarchia ereditata e
si giura nella repubblica democratica. Però lo Stato non è in realtà che una
macchina per l'oppressione di una classe da parte di un' altra, nella repubblica
democratica non meno che nella monarchia; e nel migliore dei casi è un male che
viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per il
dominio di classe i cui lati peggiori il proletariato non potrà fare a meno di
amputare subito, nella misura del possibile come fece la Comune, finchè una
generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di
scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale".
Engels metteva in guardia i
tedeschi perchè non dimenticassero, nell'eventualità della sostituzione della
monarchia con la repubblica, i princípi del socialismo sul problema dello Stato
in generale. Questi suoi avvertimenti appaiono oggi come una lezione impartita
direttamente ai signori Tsereteli e Cernov, che hanno manifestato, nella loro
pratica di "coalizione", la loro fede superstiziosa nello Stato e la loro
superstiziosa venerazione verso di esso!
Ancora due osservazioni: 1)
Quando Engels dice che nella repubblica democratica "non meno" che nella
monarchia, lo Stato rimane "una macchina per l'oppressione di una classe da
parte di un'altra", ciò non significa affatto che la forma d'oppressione
sia indifferente per il proletariato, come "insegnano" certi anarchici. Una
forma più larga, più libera, più aperta, di lotta di classe e di oppressione
di classe facilita immensamente al proletariato la sua lotta per la soppressione
delle classi in generale. 2) Perchè soltanto una nuova generazione sarà in grado
di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale? Questo problema è connesso
a quello del superamento della democrazia, del quale parleremo ora.
6. Engels sul superamento della
democrazia
Engels ha avuto modo di
pronunciarsi su questo punto trattando della inesattezza scientifica
della denominazione "socialdemocratico".
Nella prefazione alla raccolta
dei suoi articoli degli anni 1870 su diversi temi, dedicati in prevalenza ad
argomenti "internazionali" (Internatiolanes aus dem Volkstaat ), -
prefazione in data 3 gennaio 1894, cioè scritta un anno e mezzo prima della sua
morte, - Engels scrive che in tutti i suoi articoli egli ha impiegato la parola
"comunista" e non "socialdemocratico", perchè a quell'epoca si chiamavano
socialdemocratici i proudhoniani in Francia e i lassalliani in Germania.
"...Per Marx come per me,
continua Engels, - era dunque assolutamente impossibile adoperare un'espressione
così elastica per definire la nostra posizione. Oggi la cosa è diversa, e questa
parola" ("socialdemocratico") "può forse andare [mag passieren] per
quanto rimanga imprecisa [unpassend, impropria] per un partito il cui
programma economico non è semplicemente socialista in generale, ma veramente
comunista; per un partito il cui scopo politico finale è la soppressione di ogni
Stato e, quindi, di ogni democrazia. Del resto, i veri (il corsivo è di
Engels) partiti politici non hanno mai una denominazione che loro convenga
perfettamente; il partito si sviluppa, la denominazione rimane."
Il dialettico Engels nel declino
dei suoi giorni rimane fedele alla dialettica. Marx ed io, egli dice, avevamo
per il partito un nome eccellente, scientificamente esatto, ma allora non c'era
un vero partito, cioè un partito proletario di massa. Ora (fine del secolo
decimonono) esiste un vero partito, ma la sua denominazione è scientificamente
inesatta. Non importa, essa "può andare" purchè il partito si sviluppi,
purchè l'inesattezza scientifica del suo nome non gli sfugga e non gli impedisca
di svilupparsi in una giusta direzione!
Qualche burlone potrebbe forse
venirci a consolare, noi bolscevichi, alla maniera di Engels: noi abbiamo un
vero partito; esso si sviluppa nel migliore dei modi: dunque il nome assurdo e
barbaro di "bolscevico", che non esprime assolutamente nulla se non il fatto
puramente accidentale che al congresso di Bruxelles-Londra del 1903 avemmo la
maggioranza, può anch'esso "andare"... Forse, ora che le persecuzioni del nostro
partito da parte dei repubblicani e della democrazia piccolo-borghese
"rivoluzionaria" nel luglio-agosto 1917, hanno reso così popolare, così
onorevole il titolo di bolscevico e hanno inoltre confermato l'immenso progresso
storico del nostro partito nel corso del suo sviluppo reale, io stesso
esiterei forse a proporre, come in aprile, di cambiare il nome del nostro
partito. Proporrei forse ai compagni un "compromesso": chiamarci Partito
comunista, conservando, fra parentesi, la parola "bolscevico"...
Ma la questione del nome del
partito è infinitamente meno importante di quella dell'atteggiamento del
proletariato rivoluzionario verso lo Stato.
Discutendo sullo Stato si cade
abitualmente nell'errore contro il quale Engels mette qui in guardia e che noi
abbiamo già prima segnalato di sfuggita: si dimentica cioè che la soppressione
dello Stato è anche la soppressione della democrazia, e che l'estinzione dello
Stato è l'estinzione della democrazia.
A prima vista questa
affermazione pare del tutto strana e incomprensibile: alcuni potrebbero forse
persino temere che noi auspichiamo l'avvento di un ordinamento sociale in cui
non verrebbe osservato il principio della sottomissione della minoranza alla
maggioranza; perché in definitiva che cos'è la democrazia se non il
riconoscimento di questo principio?
No! La democrazia non si
identifica con la sottomissione della minoranza alla maggioranza. La democrazia
è uno Stato che riconosce la sottomissione della minoranza alla
maggioranza, cioè l'organizzazione della violenza sistematicamente
esercitata da una classe contro un'altra, da una parte della popolazione contro
l'altra.
Noi ci assegniamo come scopo
finale la soppressione dello Stato, cioè di ogni violenza organizzata e
sistematica, di ogni violenza esercitata contro gli uomini in generale. Noi non
auspichiamo l'avvento di un ordinamento sociale in cui non venga osservato il
principio della sottomissione della minoranza alla maggioranza. Ma, aspirando al
socialismo, noi abbiamo la convinzione che esso si trasformerà in comunismo, e
che scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza
contro gli uomini, alla sottomissione di un uomo a un altro, di una parte
della popolazione a un'altra, perchè gli uomini si abitueranno a
osservare le condizioni elementari della convivenza sociale, senza violenza
e senza sottomissione.
Per mettere in risalto questo
elemento di consuetudine, Engels parla della nuova generazione,
"cresciuta in condizioni sociali nuove, libere" e che sarà "in grado di
scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale", ogni forma di Stato,
compresa la repubblica democratica.
Per chiarire questo punto
dobbiamo analizzare le basi economiche dell'estinzione dello Stato.
V. Le basi economiche
dell'estinzione dello Stato
Lo studio più approfondito di
questo problema lo troviamo in Marx, nella sua Critica del programma di Gotha
(lettera a Bracke del 5 maggio 1875, pubblicata soltanto nel 1891 nella Neue
Zeit, IX, l, e di cui apparve una edizione separata in russo). La parte
polemica di questa importante opera, che contiene la critica del lassallismo, ha
lasciato per così dire nell'ombra la parte positiva, cioè l'analisi della
connessione tra lo sviluppo del comunismo e l'estinzione dello Stato.
l. L'impostazione della questione
in Marx
Se si sottopongono a un
superficiale confronto la lettera di Marx a Bracke del 5 maggio 1875 e la
lettera del 28 marzo 1875 di Engels a Bebel, esaminata più sopra, può sembrare
che Marx sia molto più "statalista" di Engels e che la differenza fra le
concezioni dei due scrittori sullo Stato sia molto notevole.
Engels invita Bebel a smetterla
con le chiacchiere sullo Stato, a bandire completamente dal programma la parola
"Stato" e a sostituirla con la parola "Comune"; Engels dichiara persino che la
Comune non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Marx invece parla
del "futuro Stato della società comunista", cioè sembra ammettere la necessità
dello Stato anche in regime comunista.
Ma una tale interpretazione
sarebbe profondamente errata. Un più attento esame mostra che le idee di Marx e
di Engels sullo Stato e sull'estinzione dello Stato coincidono perfettamente e
che l'espressione di Marx citata si riferisce appunto all'organizzazione statale
in via di estinzione.
Non è possibile evidentemente
determinare il momento in cui avverrà questa futura "estinzione",
soprattutto perchè essa sarà inevitabilmente un processo di lunga durata.
L'apparente differenza tra Marx ed Engels si spiega con la differenza degli
argomenti trattati e degli scopi da essi perseguiti. Engels si propone di
dimostrare a Bebel, in modo clamoroso, incisivo, a grandi linee, tutta
l'assurdità dei pregiudizi correnti (condivisi in gran parte da Lassalle) sullo
Stato. Marx sfiora soltanto questo problema; un altro argomento
l'interessa: lo sviluppo della società comunista.
Tutta la teoria di Marx è
l'applicazione al capitalismo contemporaneo della teoria dell'evoluzione, nella
sua forma più conseguente e completa, meditata e ricca di contenuto. Si
comprende quindi che Marx abbia visto il problema dell'applicazione di questa
teoria all'imminente fallimento del capitalismo e al futuro
sviluppo del futuro comunismo.
Su quali dati ci si può
dunque basare nel porre la questione del futuro sviluppo del futuro comunismo?
Sul fatto che il comunismo è
generato dal capitalismo, si sviluppa storicamente dal capitalismo, è il
risultato dell'azione di una forza sociale prodotta dal capitalismo. In
Marx non vi è traccia del tentativo di inventare delle utopie, di fare vane
congetture su quel che non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo
come un naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell'evoluzione di una
nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la linea precisa
della sua evoluzione.
Marx respinge innanzitutto la
confusione in cui cade il programma di Gotha nella questione dei rapporti tra lo
Stato e la società.
"...La "società odierna" - egli
scrive, - è la società capitalistica, che esiste in tutti i paesi civili, più o
meno libera di aggiunte medioevali, più o meno modificata dallo speciale
svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo "Stato odierno",
invece, muta con il confine di ogni paese. Nel Reich tedesco-prussiano esso è
diverso che in Svizzera; in Inghilterra è diverso che negli Stati Uniti. Lo
"Stato odierno " è dunque una finzione. "
Tuttavia i diversi Stati dei
diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno
tutti in comune il fatto che stanno sul terreno della moderna società borghese,
che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno
perciò in comune anche alcuni caratteri essenziali. In questo senso si può
parlare di uno "Stato odierno", in contrapposto al futuro, in cui la presente
radice dello Stato, la società borghese, sarà perita.
"Si domanda quindi: quale
trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali
funzioni sociali persisteranno ivi ancora. che siano analoghe alle odierne
funzioni statali? A questa questione si può rispondere solo scientificamente, e
componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si
avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna..."
Avendo così ridicolizzato tutte
le chiacchiere sullo "Stato popolare", Marx mostra come si deve impostare la
questione, e avverte che non le si può dare in qualche modo una risposta
scientifica se non basandosi su dati scientifici solidamente stabiliti.
Il primo punto, stabilito con la
massima precisione da tutta la teoria dell'evoluzione e, in generale, da tutta
la scienza - punto che gli utopisti dimenticavano e che dimenticano gli
opportunisti odierni, i quali temono la rivoluzione sociale - è il seguente: è
storicamente certo che fra il capitalismo e il comunismo dovrà necessariamente
esserci uno stadio particolare o una tappa particolare di transizione.
2. La transizione dal capitalismo
al comunismo
"...Tra la società capitalistica
e la società comunista, - prosegue Marx, - vi è il periodo della trasformazione
rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo
politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura
rivoluzionaria del proletariato..."
Questa conclusione si basa, in
Marx, sull'analisi della funzione che il proletariato ha nella società
capitalistica odierna, sui dati dello sviluppo di questa società e sulla
inconciliabilità degli opposti interessi del proletariato e della borghesia.
Prima la questione veniva posta
in tal modo: per ottenere la sua emancipazione il proletariato deve rovesciare
la borghesia, conquistare il potere politico, stabilire la sua dittatura
rivoluzionaria.
Ora la questione si pone in modo
un po' diverso: il passaggio dalla società capitalistica, che si sviluppa in
direzione del comunismo, alla società comunista è impossibile senza un "periodo
politico di transizione", e lo Stato di questo periodo non può esser altro che
la dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Ma qual è l'atteggiamento di
questa dittatura verso la democrazia?
Abbiamo visto che il
Manifesto del Partito comunista pone semplicemente uno accanto all'altro i
due concetti: "trasformazione del proletariato in classe dominante" e "conquista
della democrazia". Tutto ciò che precede permette di determinare nel modo più
preciso le modificazioni che subirà la democrazia nella transizione dal
capitalismo al comunismo.
La società capitalistica,
considerata nelle sue condizioni di sviluppo più favorevoli, ci offre nella
repubblica democratica una democrazia più o meno completa. Ma questa democrazia
è sempre limitata nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e
rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi
possidenti, per i soli ricchi. La libertà, nella società capitalistica, rimane
sempre più o meno quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà
per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati. in conseguenza
dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla
miseria, che "hanno altro pel capo che la democrazia", "che la politica", sicchè,
nel corso ordinario e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della
popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale.
L'esattezza di questa
affermazione è confermata. forse con la maggiore evidenza, dall'esempio della
Germania, perchè è proprio in questo paese che la legalità costituzionale si
mantenne, per quasi mezzo secolo (1871-1914), con una costanza e una durata
sorprendenti. e durante questo periodo la socialdemocrazia seppe, molto più che
negli altri paesi, "usufruire della legalità" e organizzare in un partito
politico una parte di operai molto più grande che in qualsiasi altro paese del
mondo.
Quale è dunque questa parte - la
più elevata fra quelle che si osservano nella società capitalistica - degli
schiavi salariati politicamente coscienti e attivi? Un milione di membri del
partito socialdemocratico su 15 milioni di operai salariati! Tre milioni di
operai organizzati nei sindacati su 15 milioni di operai!
Democrazia per un'infima
minoranza, democrazia per i ricchi: questo è il sistema democratico della
società capitalistica. Se osserviamo più da vicino il meccanismo della
democrazia capitalistica, si vedranno sempre dovunque - sia nei "piccoli" (i
pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale (durata della
residenza, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle
istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli di fatto al diritto di riunione
(gli edifici pubblici non sono per i "poveri"!), sia nell' organizzazione
puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. - si vedranno restrizioni
su restrizioni al sistema democratico. Queste restrizioni, eliminazioni,
esclusioni, intralci per i poveri sembrano piccoli soprattutto a coloro che non
hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né
la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i
novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma,
sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla
partecipazione attiva alla democrazia.
Marx afferrò perfettamente
questa caratteristica essenziale della democrazia capitalistica, quando,
nella sua analisi dell'esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso
di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della
classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!
Ma l'evoluzione da questa
democrazia capitalistica - inevitabilmente ristretta, che respinge in modo
dissimulato i poveri, e quindi profondamente ipocrita e bugiarda - "a una
democrazia sempre più perfetta", non avviene così semplicemente, direttamente e
senza scosse come immaginano i professori liberali e gli opportunisti
piccolo-borghesi. No. Lo sviluppo progressivo, cioè l'evoluzione verso il
comunismo, avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire
altrimenti, poichè non v'è nessun'altra classe e nessun altro mezzo che possa
spezzare la resistenza dei capitalisti sfruttatori.
Ora, la dittatura del
proletariato, vale a dire l'organizzazione dell'avanguardia degli oppressi in
classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e
semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo
allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia
per i poveri, per il popolo, e non una democrazia per i ricchi, la dittatura del
proletariato apporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori,
degli sfruttatori, dei capitalisti. Costoro noi li dobbiamo reprimere, per
liberare l'umanità dalla schiavitù salariata; si deve spezzare con la forza la
loro resistenza; ed è chiaro che dove c'è repressione, dove c'è violenza, non
c'è libertà, non c'è democrazia.
Engels lo ha espresso in modo
mirabile nella sua lettera a Bebel scrivendo, come il lettore ricorda, che "finchè
il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse
della libertà, ma nell'interesse dell'assoggettamento dei suoi avversari, e
quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di
esistere".
Democrazia per l'immensa
maggioranza del popolo e repressione con la forza, vale a dire esclusione dalla
democrazia, per gli sfruttatori, gli oppressori del popolo: tale è la
trasformazione che subisce la democrazia nella transizione dal
capitalismo al comunismo.
Soltanto nella società
comunista, quando la resistenza dei capitalisti è definitivamente spezzata,
quando i capitalisti sono scomparsi e non esistono più classi (non v'è cioè più
distinzione fra i membri della società secondo i loro rapporti coi mezzi sociali
di produzione), soltanto allora "lo Stato cessa di esistere e diventa
possibile parlare di libertà". Soltanto allora diventa possibile e si attua
una democrazia realmente completa, realmente senza alcuna eccezione. Soltanto
allora la democrazia comincia a estinguersi, per la semplice ragione che,
liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie,
assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano
a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da
tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a
osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza
quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato.
L'espressione: "lo Stato si
estingue" è molto felice in quanto esprime al tempo stesso la gradualità del
processo e la sua spontaneità. Soltanto l'abitudine può produrre un tale
effetto, e senza dubbio lo produrrà, poichè noi osserviamo attorno a noi milioni
di volte con quale facilità gli uomini si abituano a osservare le regole per
loro indispensabili della convivenza sociale, quando non vi è sfruttamento e
quando nulla provoca l'indignazione, la protesta, la rivolta e rende necessaria
la repressione.
La società capitalistica non ci
offre dunque che una democrazia tronca, miserabile, falsificata, una democrazia
per i soli ricchi, per la sola minoranza. La dittatura del proletariato, periodo
di transizione verso il comunismo, istituirà per la prima volta una democrazia
per il popolo, per la maggioranza, accanto alla repressione necessaria della
minoranza, degli sfruttatori. Solo il comunismo è in grado di dare una
democrazia realmente completa; e quanto più sarà completa, tanto più rapidamente
diventerà superflua e si estinguerà da sé.
In altri termini: noi abbiamo,
nel regime capitalistico, lo Stato nel vero senso della parola, una macchina
speciale per la repressione di una classe da parte di un'altra e per di più
della maggioranza da parte della minoranza. Si comprende come per realizzare un
simile compito - la sistematica repressione della maggioranza degli sfruttati da
parte di una minoranza di sfruttatori - siano necessarie una crudeltà e una
ferocia di repressione estreme: fiumi di sangue attraverso cui l'umanità
prosegue il suo cammino, sotto il regime della schiavitù, della servitù della
gleba e del lavoro salariato.
In seguito, nel periodo di
transizione dal capitalismo al comunismo, la repressione è ancora
necessaria, ma è già esercitata da una maggioranza di sfruttati contro una
minoranza di sfruttatori. Lo speciale apparato, la macchina speciale di
repressione, lo "Stato", è ancora necessario, ma è già uno Stato
transitorio, non più lo Stato propriamente detto, perchè la repressione di una
minoranza di sfruttatori da parte della maggioranza degli schiavi salariati
di ieri è cosa relativamente così facile, semplice e naturale, che costerà
molto meno sangue di quello che è costata la repressione delle rivolte di
schiavi, di servi e di operai salariati, costerà molto meno caro all'umanità. Ed
essa è compatibile con una democrazia che abbraccia una maggioranza della
popolazione così grande che comincia a scomparire il bisogno di una macchina
speciale di repressione. Gli sfruttatori non sono naturalmente in grado di
reprimere il popolo senza una macchina molto complicata destinata a questo
compito; il popolo, invece, può reprimere gli sfruttatori anche con una
"macchina" molto semplice, quasi senza "macchina", senza apparato speciale,
mediante la semplice organizzazione delle masse in armi (come - diremo
anticipando - i Soviet dei deputati operai e soldati).
Infine, solo il comunismo rende
lo Stato completamente superfluo, perchè non c'è da reprimere nessuno,
"nessuno" nel senso di classe, nel senso di lotta sistematica contro una
parte determinata della popolazione. Noi non siamo utopisti e non escludiamo
affatto che siano possibili e inevitabili eccessi individuali, come non
escludiamo la necessità di reprimere tali eccessi. Ma anzitutto, per
questo non c'è bisogno d'una macchina speciale, di uno speciale apparato di
repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di questa faccenda con la
stessa semplicità, con la stessa facilità con cui una qualsiasi folla di persone
civili, anche nella società attuale, separa delle persone in rissa o non
permette che venga usata la violenza contro una donna. Sappiamo inoltre che la
principale causa sociale degli eccessi che costituiscono infrazioni alle regole
della convivenza sociale è lo sfruttamento delle masse, la loro povertà, la loro
miseria. Eliminata questa causa principale, gli eccessi cominceranno
infallibilmente a "estinguersi". Non sappiamo con quale ritmo e quale
gradualità, ma sappiamo che si estingueranno. E con essi si estinguerà
anche lo Stato.
Marx, senza abbandonarsi
all'utopia, definì più in particolare ciò che è ora possibile definire di
questo avvenire, e precisamente ciò che distingue la fase (gradino, tappa)
inferiore dalla fase superiore della società comunista.
3. La prima fase della società
comunista
Nella Critica del programma
di Gotha Marx confuta minuziosamente l'idea di Lassalle che l'operaio debba
ricevere in regime socialista il reddito "non ridotto" o il "reddito integrale
del suo lavoro". Marx dimostra che dal prodotto sociale complessivo di tutta la
società bisogna detrarre: un fondo di riserva, un fondo per l'allargamento della
produzione, un fondo destinato a reintegrare il macchinario "consumato", ecc.;
inoltre bisogna detrarre dagli oggetti di consumo un fondo per le spese di
amministrazione, per le scuole, per gli ospedali, gli ospizi per i vecchi, ecc.
Invece della formula nebulosa,
oscura e generica di Lassalle ("all'operaio il frutto integrale del suo
lavoro"), Marx stabilisce lucidamente come deve essere la gestione di una
società socialista. Egli affronta l'analisi concreta delle condizioni di
vita di una società in cui non esisterà il capitalismo, e aggiunge:
"Quella con cui abbiamo da far
qui" (analizzando il programma del partito operaio) "è una società comunista.
non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma, viceversa, come
emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni
rapporto. economico, morale, spirituale, le "macchie" della vecchia società dal
cui seno essa è uscita".
E' questa società comunista
appena uscita dal seno del capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto
le impronte della vecchia società, che Marx chiama "la prima fase" o fase
inferiore della società comunista.
I mezzi di produzione non sono
già più proprietà privata individuale. Essi appartengono a tutta la società.
Ogni membro della società, eseguendo una certa parte del lavoro socialmente
necessario, riceve dalla società uno scontrino da cui risulta ch'egli ha
prestato tanto lavoro. Con questo scontrino egli ritira dai magazzini pubblici
di oggetti di consumo una corrispondente quantità di prodotti. Detratta la
quantità di lavoro versata ai fondi sociali, ogni operaio riceve quindi dalla
società tanto quanto le ha dato.
Si direbbe il regno
dell'"uguaglianza".
Ma quando, a proposito di
quest'ordinamento sociale (abitualmente chiamato socialismo, e che Marx chiama
prima fase del comunismo), Lassalle dice che c'è in esso "giusta ripartizione",
"uguale diritto di ciascuno all'uguale prodotto del lavoro", egli si sbaglia e
Marx spiega perchè.
Un "uguale diritto", - dice
Marx, - qui effettivamente l'abbiamo, ma è ancora il "diritto borghese",
che, come ogni diritto, presuppone la disuguaglianza. Ogni diritto
consiste nell' applicazione di un'unica norma a persone diverse, a
persone che non sono, in realtà, né identiche, né uguali. L'"uguale diritto"
equivale quindi a una violazione dell'uguaglianza e della giustizia. Infatti,
per una parte uguale di lavoro sociale fornito, ognuno riceve un'uguale parte
della produzione sociale (con le detrazioni indicate più sopra).
Gli individui però non sono
uguali: uno è più forte, l'altro è più debole, uno è ammogliato, l'altro no, uno
ha più figli, l'altro meno, ecc.
"...Supposti uguali il
rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, - conclude
Marx, - l'uno riceve dunque più dell'altro, l'uno è più ricco dell'altro e così
via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere
uguale, dovrebbe essere disuguale.."
La prima fase del comunismo non
può dunque ancora realizzare la giustizia e l'uguaglianza; rimarranno differenze
di ricchezze e differenze ingiuste; ma non sarà più possibile lo sfruttamento
dell'uomo da parte dell'uomo, poichè non sarà più possibile impadronirsi, a
titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche,
macchine, terreni, ecc. Demolendo la formula confusa e piccolo-borghese di
Lassalle sulla "uguaglianza" e la "giustizia" in generale, Marx indica il
corso dello sviluppo della società comunista, costretta da
principio a distruggere solo l'"ingiustizia" costituita
dall'accaparramento dei mezzi di produzione da parte di singoli individui, ma
incapace di distruggere di punto in bianco l'altra ingiustizia: la
ripartizione dei beni di consumo "secondo il lavoro" (e non secondo i bisogni).
Gli economisti volgari, e fra
essi i professori borghesi, compreso il "nostro" Tugan, rimproverano
continuamente ai socialisti di dimenticare la disuguaglianza degli individui e
di "sognare" la soppressione di questa disuguaglianza. Questi rimproveri, come
si vede, dimostrano soltanto l'estrema ignoranza dei signori ideologi borghesi.
Non solo Marx tiene conto con
molta precisione di questa inevitabile disuguaglianza delle persone, ma non
trascura nemmeno il fatto che, da sola, la socializzazione dei mezzi ai
produzione ("socialismo" nel senso abituale della parola) non elimina gli
inconvenienti della distribuzione e la disuguaglianza del "diritto borghese" che
continua a dominare fino a quando i prodotti sono divisi "secondo il
lavoro".
"...Ma questi inconvenienti -
continua Marx - sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale
è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il
diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello
sviluppo culturale, da essa condizionato, della società..."
Così, nella prima fase della
società comunista (comunemente chiamata socialismo), il "diritto borghese"
non è completamente abolito, ma solo in parte, soltanto nella misura in cui
la rivoluzione economica è compiuta, cioè unicamente per quanto riguarda i mezzi
di produzione. Il "diritto borghese" riconosce la proprietà privata su questi
ultimi a individui singoli. Il socialismo ne fa una proprietà comune.
In questa misura - e soltanto in questa misura - il "diritto borghese" è
abolito.
Ma esso sussiste nell'altra sua
parte, sussiste quale regolatore (fattore determinante) della distribuzione dei
prodotti e del lavoro fra i membri della società. "Chi non lavora non mangia":
questo principio socialista è già realizzato; "a uguale quantità di
lavoro, uguale quantità di prodotti": quest'altro principio socialista è
anche esso già realizzato. Tuttavia ciò non è ancora il comunismo, non
abolisce ancora il "diritto borghese" che attribuisce a persone disuguali e per
una quantità di lavoro disuguale (di fatto disuguale) una quantità uguale di
prodotti.
E' un "inconveniente", dice
Marx, ma esso è inevitabile nella prima fase del comunismo, in quanto non si può
pensare, senza cadere nell'utopia, che appena rovesciato il capitalismo gli
uomini imparino, dall'oggi al domani, a lavorare per la società senza alcuna
norma giuridica; d'altra parte, l'abolizione del capitalismo non dà
subito le premesse economiche per un tale cambiamento.
E non vi sono altre norme,
all'infuori di quelle del "diritto borghese". Rimane perciò la necessità di uno
Stato che, mantenendo comune la proprietà dei mezzi di produzione, mantenga
l'uguaglianza del lavoro e l'uguaglianza della distribuzione dei prodotti.
Lo Stato si estingue nella
misura in cui non ci sono più capitalisti, non ci sono più e quindi non è più
possibile reprimere alcuna classe.
Ma lo Stato non si è ancora
estinto completamente, poichè rimane la salvaguardia del "diritto borghese" che
consacra la disuguaglianza di fatto. Perchè lo Stato si estingua completamente
occorre il comunismo integrale.
4. La fase superiore della società
comunista
Marx continua:
"...In una fase più elevata
della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice
degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro
intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di
vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo
onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le
sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo
allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società
può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno
secondo i suoi bisogni!".
Ora soltanto possiamo apprezzare
tutta la giustezza delle osservazioni di Engels, che colpisce implacabilmente
con i suoi sarcasmi l'assurdo accoppiamento delle parole "libertà" e "Stato".
Finchè esiste lo Stato non vi è libertà; quando si avrà la libertà non vi sarà
più Stato.
La condizione economica della
completa estinzione dello Stato è che il comunismo giunga a un grado così
elevato di sviluppo che ogni contrasto di lavoro intellettuale e fisico
scompaia, e che scompaia quindi una delle principali fonti della disuguaglianza
sociale contemporanea, fonte che la sola socializzazione dei mezzi di
produzione, la sola espropriazione dei capitalisti non può inaridire di colpo.
Questa espropriazione renderà
possibile uno sviluppo gigantesco delle forze produttive. E vedendo come,
già ora, il capitalismo intralci in modo assurdo questo sviluppo, e quali
progressi potrebbero essere realizzati grazie alla tecnica moderna già
acquisita, abbiamo il diritto di affermare con assoluta certezza che
l'espropriazione dei capitalisti darà necessariamente un gigantesco impulso alle
forze produttive della società umana. Ma non sappiamo e non possiamo
sapere quale sarà la rapidità di questo sviluppo, quando esso giungerà a una
rottura con la divisione del lavoro, alla soppressione del contrasto fra il
lavoro intellettuale e fisico, alla trasformazione del lavoro nel "primo bisogno
della vita".
Abbiamo perciò diritto di
parlare unicamente dell'inevitabile estinzione dello Stato, sottolineando la
durata di questo processo, la sua dipendenza dalla rapidità di sviluppo della
fase più elevata del comunismo, lasciando assolutamente in sospeso la
questione del momento in cui avverrà e delle forme concrete che questa
estinzione assumerà, poichè non abbiamo dati che ci permettano di
risolvere simili questioni.
Lo Stato potrà estinguersi
completamente quando la società avrà realizzato il principio. "Ognuno secondo le
sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni", cioè quando gli uomini si
saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza
sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo ch'essi lavoreranno
volontariamente secondo le loro capacità. "L'angusto orizzonte giuridico
borghese", che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock: - non avrò
per caso lavorato mezz'ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario
inferiore a un altro? -, questo ristretto orizzonte sarà allora sorpassato. La
distribuzione dei prodotti non renderà più necessario che la società razioni i
prodotti a ciascuno: ciascuno sarà libero di attingere "secondo i suoi bisogni".
Dal punto di vista borghese è
facile dichiarare che un tale regime sociale è "pura utopia" e coprire di
sarcasmi i socialisti che promettono a ogni cittadino di ricevere dalla società,
senza alcun controllo del suo lavoro, tutti i tartufi, tutte le automobili,
tutti i pianoforti che desidera. Ancor oggi la maggior parte degli "scienziati"
borghesi se la cavano con sarcasmi del genere rivelando in tal modo sia la loro
ignoranza che la loro interessata difesa del capitalismo.
Ignoranza, perchè non a un solo
socialista è mai venuto in mente di "promettere" l'avvento della fase superiore
del comunismo; in quanto alla previsione dei grandi socialisti sul suo
avvento, essa presuppone una produttività del lavoro diversa da quella attuale e
non l'attuale borghese, capace, come i seminaristi di Pomialovski , di
sperperare "a destra e a sinistra" le ricchezze pubbliche e di pretendere
l'impossibile.
Fino all'avvento della fase "più
elevata" del comunismo, i socialisti reclamano dalla società e dallo Stato
che sia esercitato il più rigoroso controllo della misura del lavoro,
e della misura del consumo; ma questo controllo deve cominciare con
l'espropriazione dei capitalisti, con il controllo degli operai sui capitalisti,
e deve essere esercitato non dallo Stato dei funzionari, ma dallo Stato degli
operai armati.
La difesa interessata del
capitalismo da parte degli ideologi borghesi (e dei loro reggicoda del tipo di
Tsereteli, Cernov e consorti) consiste precisamente nell'eludere con
discussioni e frasi su un lontano avvenire, la questione urgente e di scottante
attualità della politica d'oggi: l'espropriazione dei capitalisti, la
trasformazione di tutti i cittadini in lavoratori e impiegati di un
unico e grande "cartello", vale a dire lo Stato intero, e la completa
subordinazione di tutto il lavoro di tutto questo cartello a uno Stato veramente
democratico, allo Stato dei Soviet dei deputati operai e soldati.
In fondo quando un dotto
professore, e dopo di lui il filisteo, e dopo di lui i signori Tsereteli e i
signori Cernov parlano delle utopie insensate, delle promesse demagogiche dei
bolscevichi, della impossibilità di "introdurre" il socialismo essi alludono
appunto a questo stadio o a questa fase superiore del comunismo, che non solo
nessuno ha mai promesso, ma non ha neppure mai pensato di "introdurre", per la
sola ragione che è impossibile "introdurla".
Ci troviamo qui di fronte al
problema della distinzione scientifica tra socialismo e comunismo, problema
toccato da Engels nel brano precedentemente citato sulla denominazione non
esatta di "socialdemocratico". Dal punto di vista politico, la differenza fra la
prima fase o fase inferiore e la fase superiore del comunismo probabilmente
diventerà col tempo molto notevole, ma oggi, in regime capitalistico, sarebbe
ridicolo farne caso, e forse solo certi anarchici potrebbero metterla in primo
piano (se ci sono ancora fra gli anarchici uomini a cui la metamorfosi "plekhanoviana"
dei Kropotkin, dei Grave, dei Cornelissen e di altre "stelle" dell'anarchismo in
socialsciovinisti o anarchici delle trincee - per usare l'espressione di Gay,
uno dei pochi anarchici che abbiano conservato l'onore e la coscienza - non ha
insegnato nulla).
Ma la differenza scientifica fra
socialismo e comunismo è chiara. Marx chiama "prima" fase o fase inferiore della
società comunista ciò che comunemente viene chiamato socialismo. La parola
"comunismo" può essere anche qui usata nella misura in cui i mezzi di produzione
divengono proprietà comune, purchè non si dimentichi che non è un
comunismo completo. Ciò che conferisce un grande pregio all'esposizione di Marx
è ch'egli applica conseguentemente anche qui la dialettica materialistica, la
teoria dell'evoluzione, e considera il comunismo come un qualcosa che si
sviluppa dal capitalismo. Anziché attenersi a definizioni "escogitate",
scolastiche e artificiali, a sterili dispute su parole (che cos'è il socialismo?
che cos'è il comunismo?), Marx analizza quelli che si potrebbero chiamare i
gradi della maturità economica del comunismo.
Nella sua prima fase, nel suo
primo grado, il comunismo non può essere, dal punto di vista economico,
completamente maturo, completamente libero dalle tradizioni e dalle vestigia del
capitalismo. Di qui il fenomeno interessante qual è il mantenimento
dell'"augusto orizzonte giuridico borghese" nella prima fase del regime
comunista. Certo, il diritto borghese, per quel che concerne la distribuzione
dei beni di consumo, suppone pure necessariamente uno Stato borghese,
poichè il diritto è nulla senza un apparato capace di costringere
all'osservanza delle sue norme.
Ne consegue che in regime
comunista sussistono, per un certo tempo, non solo il diritto borghese ma anche
lo Stato borghese, senza borghesia!
Ciò può sembrare un paradosso o
un giuoco dialettico del pensiero e questo rimprovero è stato spesso mosso al
marxismo da gente che non si è mai data la minima pena di studiarne la sostanza
estremamente profonda.
Ma in realtà la vita ci mostra a
ogni passo, nella natura e nella società, che vestigia del passato sopravvivono
nel presente. Marx non introdusse arbitrariamente nel comunismo una particella
del diritto "borghese"; egli si rese conto soltanto di ciò che, economicamente e
politicamente, è inevitabile nella società uscita dal seno del
capitalismo.
La democrazia ha una grandissima
importanza nella lotta della classe operaia contro i capitalisti per la sua
emancipazione. Ma la democrazia non è affatto un limite, un limite insuperabile;
è semplicemente una tappa sulla strada che va dal feudalesimo al capitalismo e
dal capitalismo al comunismo.
Democrazia vuol dire
uguaglianza. Si arriva a concepire quale grande importanza hanno la lotta del
proletariato per l'uguaglianza e la parola d'ordine dell'uguaglianza se si
comprende quest'ultima in modo giusto, nel senso della soppressione delle
classi. Ma democrazia significa soltanto uguaglianza formale. E
appena realizzata l'uguaglianza di tutti i membri della società per ciò che
concerne il possesso dei mezzi di produzione, vale a dire l'uguaglianza del
lavoro, l'uguaglianza del salario, sorgerà inevitabilmente davanti all'umanità
la questione di compiere un successivo passo in avanti, di passare
dall'uguaglianza formale all'uguaglianza reale, cioè alla realizzazione del
principio: "Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni".
Noi non sappiamo né possiamo sapere per quali tappe, attraverso quali
provvedimenti pratici l'umanità andrà verso questo fine supremo. Ma quel che
importa è vedere quanto sia falsa l'idea borghese corrente che il socialismo sia
qualche cosa di morto, di fisso, di dato una volta per sempre, mentre in realtà
soltanto col socialismo incomincerà, in tutti i campi della vita sociale
e privata, un rapido, vero, movimento progressivo, effettivamente di massa, a
cui parteciperà la maggioranza della popolazione prima, e tutta la
popolazione poi.
La democrazia è una forma dello
Stato, una delle sue varietà. Essa è quindi. come ogni Stato, l'applicazione
organizzata, sistematica, della costrizione agli uomini. Questo, da un lato. Ma
dall'altro lato, la democrazia è il riconoscimento formale dell'uguaglianza fra
i cittadini, del diritto uguale per tutti di determinare la forma dello Stato e
di amministrarlo. Ne deriva che, a un certo grado del suo sviluppo, la
democrazia in primo luogo unisce contro il capitalismo la classe rivoluzionaria,
il proletariato, e gli dà la possibilità di spezzare, di ridurre in frantumi, di
far sparire dalla faccia della terra la macchina dello Stato borghese, anche se
borghese repubblicano, l'esercito permanente, la polizia, la burocrazia. e di
sostituirli con una macchina più democratica, ma che rimane tuttavia una
macchina statale, costituita dalle masse operaie armate, e poi da tutto il
popolo che partecipa alla milizia.
Qui la "quantità si trasforma in
qualità"; arrivata a questo grado, il sistema democratico esce dal quadro
della società borghese e comincia a svilupparsi verso il socialismo. Se tutti
gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato, il capitalismo non
può più mantenersi. E lo sviluppo del capitalismo crea a sua volta le
premesse necessarie a che "tutti" effettivamente possano partecipare
alla gestione dello Stato. Queste premesse sono, tra l'altro, l'istruzione
generale, già realizzata in molti paesi capitalistici più avanzati, poi
l'"educazione e l'abitudine alla disciplina" di milioni di operai per opera
dell'enorme e complesso apparato socializzato delle poste, delle ferrovie, delle
grandi officine, del grande commercio, delle banche, ecc.
Con tali premesse economiche,
è perfettamente possibile, dopo aver rovesciato i capitalisti e i funzionari,
sostituirli immediatamente dall'oggi al domani, - per il controllo della
produzione e della distribuzione, per la registrazione del lavoro e dei
prodotti, - con gli operai armati, con tutto il popolo in armi. (Non bisogna
confondere la questione del controllo e della registrazione con quella del
personale tecnico scientificamente preparato, ingegneri, agronomi, ecc.; questi
signori lavorano oggi agli ordini dei capitalisti, lavoreranno ancor meglio
domani agli ordini degli operai armati.)
Registrazione e controllo: ecco
l'essenziale, ciò che è necessario per l'"avviamento" e il funzionamento
regolare della società comunista nella sua prima fase. Tutti i
cittadini si trasformano qui in impiegati salariati dello Stato, costituito
dagli operai armati. Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli
operai d'un solo "cartello" di tutto il popolo, dello Stato. Tutto sta
nell'ottenere che essi lavorino nella stessa misura, osservino la stessa misura
di lavoro e ricevano nella stessa misura. La registrazione e il controllo in
tutti questi campi sono stati semplificati all'estremo dal capitalismo
che li ha ridotti a operazioni straordinariamente semplici di sorveglianza e di
conteggio, e al rilascio di ricevute, cose tutte accessibili a chiunque sappia
leggere e scrivere e fare le quattro operazioni.
Quando la maggioranza del
popolo procederà ovunque essa stessa a questa registrazione e a questo controllo
dei capitalisti (trasformati allora in impiegati) e dei signori intellettuali
che avranno conservato ancora delle abitudini capitaliste, questo controllo
diventerà veramente universale, generale, nazionale, e nessuno potrà in alcun
modo sottrarvisi, "non saprà dove cacciarsi" per sfuggirvi.
L'intera società sarà un grande
ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di
salario.
Ma questa disciplina "di
fabbrica" che il proletariato, vinti i capitalisti e rovesciati gli sfruttatori,
estenderà a tutta la società, non è affatto il nostro ideale né la nostra meta
finale: essa è soltanto la tappa necessaria per ripulire radicalmente la
società dalle brutture e dalle ignominie dello sfruttamento capitalistico e
assicurare l'ulteriore marcia in avanti.
Dal momento in cui tutti i
membri della società, o almeno l'immensa maggioranza di essi, hanno appreso a
gestire essi stessi lo Stato, si sono messi essi stessi all'opera, hanno
"organizzato" il loro controllo sull'infima minoranza dei capitalisti, sui
signori desiderosi di conservare le loro abitudini capitaliste e sugli operai
profondamente corrotti del capitalismo, - da quel momento la necessità di
qualsiasi amministrazione comincia a scomparire. Quanto più la democrazia è
completa, tanto più vicino è il momento in cui essa diventa superflua. Quanto
più democratico è lo "Stato" composto dagli operai armati, che "non è più uno
Stato nel senso proprio della parola", tanto più rapidamente incomincia ad
estinguersi ogni Stato.
Infatti quando tutti
avranno imparato ad amministrare ed amministreranno realmente essi stessi la
produzione sociale, quando tutti procederanno essi stessi alla registrazione e
al controllo dei parassiti, dei figli di papà, dei furfanti e simili "guardiani
delle tradizioni del capitalismo", ogni tentativo di sfuggire a questa
registrazione e a questo controllo esercitato da tutto il popolo diventerà una
cosa talmente difficile, un'eccezione così rara, provocherà verosimilmente un
castigo così pronto e così esemplare (poichè gli operai armati sono gente che
hanno il senso pratico della vita e non dei piccoli intellettuali sentimentali;
non permetteranno che si scherzi con loro), che la necessità di osservare
le regole semplici e fondamentali di ogni società umana diventerà ben presto un
costume.
Si spalancheranno allora le
porte che permetteranno di passare dalla prima fase alla fase superiore della
società comunista e, quindi, alla completa estinzione dello Stato.
VI. La degradazione del marxismo
negli opportunisti
Il problema dell'atteggiamento
dello Stato nei confronti della rivoluzione sociale e della rivoluzione sociale
nei confronti dello Stato, come del resto il problema della rivoluzione
generale, ha preoccupato assai poco i teorici e i pubblicisti più in vista della
Seconda Internazionale (1889-1914). Ma ciò che è più caratteristico nel processo
dello sviluppo graduale dell'opportunismo, processo che è sboccato nel
fallimento della Seconda Internazionale nel 1914, è che, persino nei momenti in
cui il problema si imponeva con maggior acutezza, ci si sforzava di evitarlo
o di non vederlo.
Si può dire in generale che la
tendenza a eludere il problema dell'atteggiamento della rivoluzione
proletaria verso lo Stato, tendenza vantaggiosa per l'opportunismo ch'essa
alimentava, ha portato al travisamento del marxismo e alla sua completa
degradazione.
Per caratterizzare, sia pure
brevemente, questo deplorevole processo, consideriamo i teorici più in vista del
marxismo: Plekhanov e Kautsky.
1. La polemica di Plekhanov con
gli anarchici
Plekhanov dedicò al problema
dell'atteggiamento dell'anarchismo verso il socialismo un opuscolo speciale:
Anarchismo e socialismo , uscito in tedesco nel 1894.
Plekhanov si ingegnò a trattar
questo tema eludendo completamente la questione più attuale, più scottante e,
politicamente, più essenziale nella lotta contro l'anarchismo, e precisamente
l'atteggiamento della rivoluzione nei confronti dello Stato e la questione dello
Stato in generale! lI suo opuscolo comprende due parti: una storico-letteraria,
ricca di preziosi documenti sulla storia delle idee di Stirner, di Proudhon,
ecc.; l'altra filistea, con grossolane considerazioni su temi come quello che un
anarchico non si distingue da un bandito.
Questa combinazione di temi è
molto spassosa e caratterizza perfettamente tutta l'attività di Plekhanov alla
vigilia della rivoluzione e nel corso di tutto il periodo rivoluzionario in
Russia: semi-dottrinario, semi-filisteo, a rimorchio della borghesia in
politica, tale si mostrò Plekhanov nel periodo 1905- l 917.
Abbiamo visto come, nelle loro
polemiche con gli anarchici, Marx ed Engels avessero chiarito con la massima
cura i loro punti di vista sull'atteggiamento della rivoluzione nei confronti
dello Stato. Pubblicando nel 1891 la Critica del programma di Gotha di
Marx, Engels scriveva: "Noi [cioè Engels e Marx] eravamo impegnati allora,
appena due anni dopo il Congresso dell'Aja della [Prima] Internazionale, in una
violentissima lotta contro Bakunin e i suoi anarchici".
Gli anarchici tentarono appunto
di presentare la Comune di Parigi come una cosa per così dire "loro", che
confermava la loro dottrina, ma non capirono niente degli insegnamenti della
Comune e dell'analisi che Marx ne fece. Sulle questioni politiche concrete:
bisogna spezzare la vecchia macchina dello Stato? e con che cosa
sostituirla? l'anarchia non ha dato nulla che si avvicini, sia pur
approssimativamente, alla verità.
Ma parlare di "anarchismo e
socialismo" eludendo totalmente la questione dello Stato, senza vedere
tutto lo sviluppo del marxismo prima e dopo la Comune, voleva dire cadere
inevitabilmente nell'opportunismo. Ciò che infatti occorre all'opportunismo è
che le due questioni che noi abbiamo qui indicate non siano affatto
poste. Ciò costituisce di per sé una vittoria dell'opportunismo.
2. La polemica di Kautsky con gli
opportunisti
La letteratura russa possiede
certamente assai più traduzioni di Kautsky che non qualsiasi altra. Non è senza
ragione che alcuni socialdemocratici tedeschi dicono scherzando che Kautsky è
molto più letto in Russia che in Germania. (C'è in questa battuta, sia detto tra
parentesi, un fondamento storico molto più profondo di quanto non sospettino
quelli che l'hanno lanciata; cioè gli operai russi. avendo presentato nel 1905
una richiesta straordinariamente elevata, mai vista, delle migliori opere della
migliore letteratura socialdemocratica del mondo e avendo ricevuto traduzioni e
edizioni di queste opere in quantità non conosciuta negli altri paesi, hanno,
per così dire, trapiantato a un ritmo accelerato, nella giovane terra del nostro
movimento proletario, la notevole esperienza di un paese vicino più avanzato.)
Oltre che per la sua esposizione
popolare del marxismo, Kautsky è conosciuto da noi soprattutto per la sua
polemica con gli opportunisti, capeggiati da Bernstein. Ma c'è un fatto quasi
ignorato e che non si può passare sotto silenzio se si vuole studiare come
Kautsky abbia potuto perdere così vergognosamente la testa e cadere, durante la
grande crisi del 1914-1915, nella difesa del social-sciovinismo. Questo fatto è
che prima della sua campagna contro i rappresentanti più in vista
dell'opportunismo in Francia (Millerand e Jaurès) e in Germania (Bernstein),
Kautsky aveva manifestato grandi esitazioni. La rivista marxista Zarià,
che usciva a Stoccarda nel 1901-l902 e difendeva le idee proletarie
rivoluzionarie, aveva dovuto polemizzare con Kautsky e qualificare come
risoluzione "di caucciù" la risoluzione mitigata, evasiva, conciliante verso gli
opportunisti, da lui proposta al Congresso socialista internazionale di Parigi
del 1900. Nella stampa tedesca furono pubblicate lettere di Kautsky che rivelano
esitazioni non meno rilevanti prima della sua campagna contro Bernstein.
Una importanza molto maggiore ha
tuttavia il fatto che nella stessa polemica di Kautsky con gli opportunisti, nel
suo modo di porre e di trattare la questione, noi costatiamo ora, studiando la
storia del suo recente tradimento verso il marxismo, una deviazione
sistematica verso l'opportunismo proprio sul problema dello Stato.
Prendiamo la prima opera
importante di Kautsky contro l'opportunismo, il suo libro Bernstein e il
programma socialdemocratico . Qui egli confuta minutamente Bernstein, ma
ecco ciò che vi è di caratteristico.
Nelle sue Premesse del
socialismo, che gli hanno fruttato una fama alla maniera di Erostrato,
Bernstein accusa il marxismo di "blanquismo" (accusa in seguito mille
volte ripetuta dagli opportunisti e dai borghesi liberali in Russia contro i
bolscevichi, rappresentanti del marxismo rivoluzionario). Bernstein si sofferma
qui specialmente sulla Guerra civile in Francia di Marx e tenta molto
infelicemente, come abbiamo visto, di identificare il modo di vedere di Marx
sugli insegnamenti della Comune con quello di Proudhon. Ciò che attrae
soprattutto l'attenzione di Bernstein è la conclusione che Marx sottolineò nella
prefazione del 1872 al Manifesto del Partito comunista, dove è
detto: "La classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una
macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini".
Questa espressione è talmente
"piaciuta" a Bernstein ch'egli la ripete non meno di tre volte nel suo libro,
interpretandola nel senso, più deformato, più opportunistico.
Come abbiamo visto, Marx vuol
dire che la classe operaia deve spezzare, demolire, far saltare (Sprengung,
esplosione. Il termine è di Engels) tutta la macchina dello Stato. Ora, secondo
Bernstein, Marx avrebbe con ciò messo in guardia la classe operaia contro
un ardore troppo rivoluzionario nel momento della presa del potere.
Non si può immaginare una
falsificazione più grossolana e più mostruosa del pensiero di Marx.
Come ha proceduto dunque Kautsky
nella sua minuziosissima confutazione del bernsteinismo?
Egli si è ben guardato
dall'analizzare in tutta la sua profondità la falsificazione del marxismo da
parte degli opportunisti su questo punto. Egli ha riprodotto il brano già citato
nella prefazione di Engels alla Guerra civile di Marx dicendo che,
secondo Marx, la classe operaia non può impadronirsi puramente e
semplicemente della macchina statale già pronta, ma che, in generale,
essa può impadronirsene, e nient'altro. Che Bernstein attribuisse a Marx
esattamente il contrario del suo vero pensiero e che, fin dal 1852, Marx
avesse assegnato alla rivoluzione proletaria il compito di "spezzare" la
macchina statale, di tutto ciò in Kautsky non vi è nemmeno una parola.
Ne risulta che ciò che distingue
in modo radicale il marxismo dall'opportunismo nella questione dei compiti della
rivoluzione proletaria è da Kautsky fatto sparire!
"Possiamo in tutta tranquillità,
- scrive Kautsky "contro" Bernstein, - lasciare all'avvenire la cura di
risolvere il problema della dittatura del proletariato" (p. 172, ed. tedesca).
Questa non è una polemica
contro Bernstein, ma, in sostanza, una concessione a Bernstein, una
capitolazione di fronte all'opportunismo, perchè gli opportunisti non domandano
di meglio che di "lasciare in tutta tranquillità all'avvenire" tutte le
questioni capitali relative ai compiti della rivoluzione proletaria.
Per quarant'anni, dal 1852 al
1891, Marx ed Engels insegnarono al proletariato che esso deve spezzare la
macchina dello Stato. E Kautsky nel 1899, di fronte al completo tradimento del
marxismo da parte degli opportunisti su questo punto, sostituisce con un
giochetto il problema se si debba spezzare questa macchina, con il problema
delle forme concrete di questa demolizione e si trincera dietro questa
"incontestabile" (e sterile) verità filistea: non possiamo conoscere in anticipo
queste forme concrete!
Fra Marx e Kautsky c'è un abisso
nell'atteggiamento verso il compito del partito del proletariato, che è di
preparare la classe operaia alla rivoluzione.
Prendiamo l'opera successiva,
più matura, di Kautsky, dedicata essa pure in notevole misura alla confutazione
degli errori dell'opportunismo. E' l'opuscolo sulla Rivoluzione sociale .
Qui l'autore ha scelto come tema specifico il problema della "rivoluzione
proletaria" e del "regime proletario". Egli enuncia molte idee estremamente
preziose ma tralascia proprio il problema dello Stato. Nell'opuscolo si parla
sempre della conquista del potere statale, e basta; viene scelta cioè una
formula che è una concessione agli opportunisti, poiché essa ammette la
conquista del potere senza la distruzione della macchina dello Stato. Nel
1902 Kautsky risuscita appunto ciò che Marx nel 1872 dichiarava
"sorpassato" nel programma del Manifesto del Partito comunista.
L'opuscolo dedica un particolare
paragrafo "alle forme e alle armi della rivoluzione sociale". Vi si parla e
dello sciopero politico di massa, e della guerra civile, e di quegli "strumenti
di dominio di un grande Stato moderno quali sono la burocrazia e l'esercito"; ma
degli insegnamenti che la Comune ha già fornito ai lavoratori non una parola.
Evidentemente Engels aveva ragione di mettere in guardia soprattutto i
socialisti tedeschi contro la "venerazione superstiziosa" dello Stato.
Kautsky presenta la cosa in
questi termini: il proletariato vittorioso "realizzerà il programma
democratico", e ne espone i paragrafi. Di ciò che l'anno 1871 ha fornito di
nuovo circa la sostituzione della democrazia proletaria alla democrazia
borghese, non un cenno! Kautsky se la cava con alcune banalità dall'apparenza
"seria", come questa:
"E' ovvio che non arriveremo al
potere nell'attuale regime. La rivoluzione stessa presuppone una lotta
prolungata, che vada in profondità e avrà quindi il tempo di modificare la
nostra attuale struttura politica e sociale".
Certo, ciò è "ovvio", come è
sicuro che i cavalli mangiano l'avena e che il Volga si getta nel Caspio. C'è
solo da rimpiangere il fatto che con una frase vuota e reboante sulla lotta "che
va in profondità" si eluda la questione capitale per il proletariato
rivoluzionario, quella di sapere in che cosa consista la "profondità"
della sua rivoluzione nei confronti dello Stato, nei confronti della
democrazia, a differenza delle precedenti rivoluzioni non proletarie.
Eludendo questa questione,
Kautsky fa in realtà, su questo punto capitale, una concessione
all'opportunismo, al quale dichiara a parole una guerra minacciosa
sottolineando l'importanza dell'"idea di rivoluzione" (ma che cosa può valere
quest'"idea" quando si ha paura di diffondere fra gli operai gli insegnamenti
concreti della rivoluzione?) o dicendo: "l'idealismo rivoluzionario innanzi
tutto", o dichiarando che gli operai inglesi non sono oggi "gran che meglio dei
piccoli borghesi".
"Nella società socialista, -
scrive Kautsky, - possono esistere l'una accanto all'altra... le più svariate
forme di imprese: burocratiche [??], sindacali, cooperative, individuali..." "Ci
sono, per esempio, imprese che non possono fare a meno di un'organizzazione
burocratica [??], come le ferrovie. L'organizzazione democratica può qui
assumere la seguente forma: gli operai eleggono dei delegati che formano una
specie di parlamento, e questo parlamento stabilisce il regime del lavoro e
sorveglia la direzione dell'apparato burocratico. Altre imprese possono essere
affidate ai sindacati; altre infine possono essere organizzate secondo i
princípi della cooperazione" (pp. 148 e 115 della traduzione russa, pubblicata a
Ginevra nel 1903).
Questo ragionamento è sbagliato,
è un passo indietro rispetto ai chiarimenti che Marx ed Engels davano negli anni
'70 sulla base dell'esperienza della comune.
Per quanto riguarda la presunta
necessità di una organizzazione "burocratica", le ferrovie non si distinguono in
nulla da qualsiasi altra azienda della grande industria meccanizzata, da
qualsiasi officina, grande magazzino o grande azienda agricola capitalista. In
tutte queste aziende, la tecnica impone la più rigorosa disciplina, la più
grande puntualità nell'adempimento della parte di lavoro assegnata a ciascuno,
pena l'arresto di tutta l'impresa o il deterioramento del meccanismo o delle
merci. In tutte queste aziende naturalmente gli operai "eleggeranno delegati che
formeranno una specie di parlamento".
Ma il punto centrale è qui che
questa "specie di parlamento" non sarà un parlamento nel senso delle
istituzioni parlamentari borhesi. Il punto centrale è che questa "specie di
parlamento" non si accontenterà di "stabilire il regime del lavoro e di
sorvegliare la direzione dell'apparato burocratico" come immagina Kautsky, il
cui pensiero non esce dal quadro del parlamentarismo borghese. Nella società
socialista "una specie di parlamento" di deputati operai, naturalmente
"stabilirà il regime del lavoro e sorveglierà il funzionamento" dell'"apparato",
ma quest'apparato non sarà "burocratico". Gli operai, dopo aver
conquistato il potere politico, spezzeranno il vecchio apparato burocratico, lo
demoliranno dalle fondamenta, non ne lasceranno pietra su pietra e lo
sostituiranno con un nuovo apparato, che sarà composto dagli stessi operai e
dagli stessi impiegati; e contro il pericolo che anch'essi diventino dei
burocrati, saranno immediatamente prese le misure minuziosamente studiate da
Marx e da Engels: 1) non soltanto eleggibilità ma anche revocabilità ad ogni
istante; 2) stipendio non superiore al salario di un operaio; 3) passaggio
immediato a una situazione in cui tutti assumano le funzioni di controllo
e di sorveglianza, in cui tutti diventino temporaneamente dei
"burocrati", e quindi nessuno possa diventare un "burocrate".
Kautsky non ha affatto
riflettuto sul senso delle parole di Marx: "La Comune doveva essere non un
organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso
tempo".
Kautsky non ha affatto capito la
differenza fra il parlamentarismo borghese, che unisce la democrazia (non per
il popolo) alla burocrazia (contro il popolo) e il sistema
democratico proletario che prenderà immediatamente le misure necessarie per
tagliare alle radici il burocratismo e sarà in grado di applicarle sino in
fondo, sino alla completa distruzione della burocrazia, sino all'instaurazione
di una completa democrazia per il popolo.
Kautsky ha qui dato prova della
solita "venerazione superstiziosa" dello Stato, della solita "fede
superstiziosa" nel burocratismo.
Passiamo all'ultima e migliore
opera di Kautsky contro gli opportunisti, il suo opuscolo La via del potere
(non tradotto, mi sembra, in russo, perchè apparso nel 1909, quando da noi la
reazione era al culmine). Questo opuscolo segna un grande passo avanti in quanto
non tratta né del programma rivoluzionario in generale, come l'opera del 1899
contro Bernstein, né dei compiti della rivoluzione sociale indipendentemente
dall'epoca del suo avvento, come l'opuscolo La rivoluzione sociale del
1902, ma delle condizioni concrete che ci costringono a riconoscere che "l'èra
delle rivoluzioni" comincia.
L'autore parla chiaramente
dell'acuirsi degli antagonismi di classe in generale, e dell'imperialismo che
ha, sotto questo rapporto, una funzione particolarmente importante. Dopo il
"periodo rivoluzionario del 1789-1871" per l'Europa occidentale, l'anno 1905 ha
inaugurato un periodo analogo per l'Oriente. La guerra mondiale si avvicina con
una paurosa rapidità. "Il proletariato non può più parlare di rivoluzione
prematura", "Siamo entrati nel periodo rivoluzionario", "L'èra rivoluzionaria
comincia".
Queste dichiarazioni sono
chiarissime. Quest'opuscolo di Kautsky può servire come utile termine di
confronto per vedere ciò che la socialdemocrazia tedesca prometteva di essere
prima della guerra imperialistica e quanto in basso essa (e Kautsky con essa)
sia caduta allo scoppio della guerra. "La situazione attuale - scriverà Kautsky
nell'opuscolo citato - comporta il pericolo che ci si possa facilmente prendere
[noi, socialdemocratici tedeschi] per più moderati di quel che in realtà siamo."
E' risultato che il partito socialdemocratico tedesco in realtà era
incomparabilmente più moderato e più opportunista di quanto non sembrasse!
Tanto più caratteristico è il
fatto che dopo aver proclamato in modo così categorico che l'èra delle
rivoluzioni incominciava, Kautsky, in un opuscolo dedicato, secondo le sue
stesse parole, proprio all'analisi del problema della "rivoluzione politica",
abbia ancora una volta completamente trascurato la questione dello Stato.
Dalla somma di queste omissioni,
silenzi, reticenze, non poteva alla fin fine risultare che quel completo
passaggio all'opportunismo, di cui parleremo subito.
La socialdemocrazia tedesca
aveva l'aria di proclamare, per bocca di Kautsky: Io conservo le mie idee
rivoluzionarie (1899). Riconosco in particolar modo l'ineluttabilità della
rivoluzione sociale del proletariato (1902). Riconosco che una nuova èra di
rivoluzioni comincia (1909). Ma tuttavia, nel momento in cui si pone la
questione dei compiti della rivoluzione proletaria verso lo Stato (1912), vado
indietro in confronto a ciò che Marx disse già nel 1852.
Così appunto fu posta la
questione nella polemica di Kautsky con Pannekoek.
3. La polemica di Kautsky con
Pannekoek
Pannekoek, quando entrò in
polemica con Kautsky, era uno dei rappresentanti della tendenza "radicale di
sinistra", che contava nelle sue file Rosa Luxemburg, Karl Radek e altri, i
quali, difendendo la tattica rivoluzionaria, concordavano nel riconoscere che
Kautsky stava passando a una posizione di "centro", priva di princípi,
oscillante tra il marxismo e l'opportunismo. L'esattezza di questa valutazione è
stata pienamente dimostrata dalla guerra, nel corso della quale la tendenza
detta di "centro" (falsamente chiamata marxista) o "kautskiana" si è rivelata in
tutta la sua rivoltante meschinità.
In un articolo, in cui si occupa
del problema dello Stato, L'azione di massa e la rivoluzione (Neue
Zeit, 1912, XXX, 2), Pannekoek definiva la posizione di Kautsky come un
"radicalismo passivo", un "teoria dell'attesa inerte". "Kautsky non vuol vedere
il processo della rivoluzione" (p. 616). Ponendo in tal modo la questione
Pannekoek affronta l'argomento che ci interessa sui compiti della rivoluzione
proletaria nei confronti dello Stato.
"La lotta del proletariato -
egli scriveva - non è soltanto una lotta contro la borghesia per il
potere dello Stato; è anche una lotta contro il potere dello Stato... La
rivoluzione proletaria consiste nell'annientare gli strumenti di forza dello
Stato e nell'eliminarli [letteralmente: dissolverli, Auflösung] mediante
gli strumenti di forza del proletariato... La lotta cessa soltanto quando,
raggiunto il risultato finale, l'organizzazione dello Stato è completamente
distrutta. L'organizzazione della maggioranza prova la sua superiorità
annientando l'organizzazione della minoranza dominante" (p. 548).
Le formule con cui Pannekoek
riveste le sue idee sono piene di gravi difetti. Ma l'idea è tuttavia chiara ed
è interessante vedere in che modo Kautsky ha cercato di confutarla.
"Finora, egli dice,
l'opposizione tra i socialdemocratici e gli anarchici consisteva nel fatto che i
primi volevano conquistare il potere dello Stato, i secondi distruggerlo.
Pannekoek vuole l'uno e l'altro" (p. 724).
Se l'esposizione di Pannekoek
difetta di chiarezza e di concretezza (per non parlare degli altri difetti del
suo articolo che non si riferiscono al tema qui discusso), Kautsky da parte sua
affronta proprio il principio essenziale del problema accennato da Pannekoek e
in questa questione essenziale di principio egli abbandona completamente
le posizioni del marxismo per passare del tutto all'opportunismo. La distinzione
che egli stabilisce tra socialdemocratici e anarchici è totalmente sbagliata; il
marxismo è qui assolutamente snaturato e degradato.
I marxisti si distinguono dagli
anarchici in questo: 1) i primi, pur ponendosi l'obiettivo della soppressione
completa dello Stato, non lo ritengono realizzabile se non dopo la soppressione
delle classi per opera della rivoluzione socialista, come risultato
dell'instaurazione del socialismo che porta all'estinzione dello Stato; i
secondi vogliono la completa soppressione dello Stato dall'oggi al domani, senza
comprendere quali condizioni la rendano possibile; 2) i primi proclamano la
necessità per il proletariato, dopo ch'esso avrà conquistato il potere politico,
di distruggere completamente la vecchia macchina statale e di sostituirla con
una nuova, che consiste nell'organizzazione degli operai armati, sul tipo della
Comune; i secondi, pur reclamando la distruzione della macchina statale, si
rappresentano in modo molto confuso con che cosa il proletariato la
sostituirà e come utilizzerà il potere rivoluzionario; gli anarchici
rinnegano persino qualsiasi utilizzazione del potere dello Stato da parte del
proletariato rivoluzionario, la sua dittatura rivoluzionaria; 3) i primi
vogliono che il proletariato si prepari alla rivoluzione utilizzando lo Stato
moderno; gli anarchici sono di parere contrario.
In questa discussione è
Pannekoek che rappresenta il marxismo, contro Kautsky, proprio Marx infatti ha
insegnato che il proletariato non può conquistare puramente e semplicemente il
potere statale, - nel senso che il vecchio apparato dello Stato passi in nuove
mani, - ma deve spezzare, demolire questo apparato e sostituirlo con uno nuovo.
Kautsky abbandona il marxismo
per l'opportunismo; nei suoi scritti infatti scompare appunto questa distruzione
della macchina statale, cosa assolutamente inammissibile per gli opportunisti;
egli lascia a questi ultimi una scappatoia che permette loro di interpretare la
"conquista" del potere come un semplice conseguimento della maggioranza.
Per nascondere questa sua
deformazione del marxismo, Kautsky si comporta da scolastico e ricorre a una
"citazione" dello stesso Marx. Nel 1850 Marx parlava della necessità di una
"decisissima centralizzazione del potere nelle mani dello Stato" .E Kautsky
trionfante domanda: vuole forse Pannekoek distruggere il "centralismo"?
E' un semplice giuoco di
prestigio che ricorda quello di Bernstein, con la sua identificazione di
marxismo e proudhonismo a proposito dell'idea della federazione da opporre al
centralismo.
La "citazione" di Kautsky cade a
proposito come i cavoli a merenda. Il centralismo è possibile sia con la vecchia
macchina dello Stato, che con la nuova. Se gli operai uniscono volontariamente
le loro forze armate, si avrà del centralismo, ma questo centralismo sarà
fondato sulla "completa distruzione" dell'apparato statale centralista,
dell'esercito permanente, della polizia, della burocrazia. Kautsky si comporta
in modo assolutamente disonesto eludendo le osservazioni ben note di Marx e di
Engels sulla Comune per andare a cercare una citazione che non ha niente a che
fare con la questione.
"...Vuol forse Pannekoek
sopprimere le funzioni statali dei funzionari? - continua Kautsky. - Ma noi non
possiamo fare a meno dei funzionari né nel partito né nei sindacati, senza
parlare delle amministrazioni dello Stato. Il nostro programma richiede non
l'eliminazione dei funzionari dello Stato, ma la loro elezione da parte del
popolo... Non si tratta ora per noi di sapere quale forma assumerà l'apparato
amministrativo nello "Stato futuro", ma di sapere se la nostra lotta politica
distruggerà [letteralmente: dissolverà, auflöst] il potere statale
prima che noi l'abbiamo conquistato... [il corsivo è di Kautsky]. Quale
ministro coi suoi funzionari potrebbe essere distrutto?" Ed enumera i ministri
dell'Istruzione pubblica, della Giustizia, delle Finanze, della Guerra. "No,
nessuno dei ministeri attuali sarà soppresso dalla nostra lotta politica contro
il governo... Lo ripeto, per evitare malintesi: non si tratta di sapere quale
forma la socialdemocrazia vittoriosa darà allo "Stato futuro", ma come la nostra
opposizione trasforma lo Stato attuale" (p. 725).
E' un vero giuoco dei
bussolotti. Pannekoek poneva precisamente il problema della rivoluzione.
Il titolo del suo articolo e i brani citati lo dicevano chiaramente. Saltando
alla questione dell'"opposizione" Kautsky non fa che sostituire al punto di
vista rivoluzionario il punto di vista opportunista. Ne risulta quindi: adesso,
opposizione; in quanto a ciò che bisognerà fare dopo la conquista del
potere, si vedrà poi. La rivoluzione scompare... E' proprio quello che
occorre agli opportunisti.
Non è dell'opposizione né della
lotta politica in generale che si tratta: si tratta della rivoluzione. La
rivoluzione consiste nel fatto che il proletariato distrugge l'"apparato
amministrativo" e tutto l'apparato dello Stato per sostituirlo con uno
nuovo, costituito dagli operai armati. Kautsky rivela una "venerazione
superstiziosa" per i "ministeri"; ma perché questi non potrebbero essere
sostituiti, per esempio, da commissioni di specialisti presso i Soviet, sovrani
e con pieni poteri, dei deputati operai e soldati?
L'essenziale non è affatto di
sapere se rimarranno i "ministeri" o se saranno sostituiti da "commissioni di
specialisti" o da altre istituzioni: questo non ha assolutamente nessuna
importanza. La questione essenziale è di sapere se la vecchia macchina statale
(legata con mille fili alla borghesia e impregnata di spirito burocratico e
conservatore) sarà mantenuta oppure distrutta e sostituita con una
nuova. La rivoluzione non deve consistere nel fatto che la nuova classe
comandi o governi per mezzo della vecchia macchina statale, ma che, dopo
averla spezzata, comandi e governi per mezzo di una macchina nuova:
è questa l'idea fondamentale del marxismo che Kautsky fa sparire o non ha
assolutamente capito.
La sua domanda a proposito dei
funzionari mostra in modo evidente ch'egli non ha capito né gli insegnamenti
della Comune né la dottrina di Marx. "Noi non possiamo fare a meno dei
funzionari né nel partito né nei sindacati"...
Non possiamo fare a meno dei
funzionari in regime capitalistico, sotto il dominio della borghesia.
Il proletariato è oppresso e le masse lavoratrici sono asservite dal
capitalismo. In regime capitalistico, la democrazia è ristretta, compressa,
monca, mutilata, da tutto l'ambiente creato dalla schiavitù del salario, dal
bisogno e dalla miseria delle masse. Per questo, e solo per questo, nelle nostre
organizzazioni politiche e sindacali i funzionari sono corrotti (o, più
esattamente, hanno tendenza a esserlo) dall'ambiente capitalistico e manifestano
l'inclinazione a trasformarsi in burocrati, cioè in persone privilegiate,
staccate dalle masse e poste al di sopra di esse.
Qui è l'essenza del
burocratismo; e fino a quando i capitalisti non saranno stati espropriati, fino
a quando la borghesia non sarà stata rovesciata, una certa "burocratizzazione"
degli stessi funzionari del proletariato è inevitabile.
Secondo Kautsky risulta dunque
che, poichè vi saranno impiegati eletti, vuol dire che anche in regime
socialista ci saranno dei funzionari, ci sarà la burocrazia! Ma è proprio questo
che è falso. Attraverso appunto l'esempio della Comune, Marx dimostrò che i
detentori di funzioni pubbliche cessano, in regime socialista, di essere dei
"burocrati" dei "funzionari" nella misura in cui viene introdotta, oltre
all'eleggibilità, anche la loro revocabilità in ogni momento, e ancora,
si riduce il loro stipendio al salario medio di un operaio e ancora si
sostituiscono gl'istituti parlamentari con istituti "di lavoro, cioè esecutivi e
legislativi allo stesso tempo".
In fondo tutta l'argomentazione
di Kautsky contro Pannekoek, e particolarmente il suo magnifico argomento sulla
necessità dei funzionari nelle organizzazioni sindacali e di partito, provano
che Kautsky ripete i vecchi "argomenti" di Bernstein contro il marxismo in
generale. Nel suo libro Le premesse del socialismo, il rinnegato
Bernstein si scaglia contro l'idea della democrazia "primitiva", contro quello
ch'egli chiama "democratismo dottrinario": mandati imperativi, funzionari non
rimunerati, rappresentanza centrale senza poteri, ecc.
Per provare l'inconsistenza di
questo sistema democratico "primitivo", Bernstein invoca l'esperienza delle
trade-unions inglesi, quale è interpretata dai coniugi Webb. Nei settant'anni
del loro sviluppo, le trade-unions, che si sarebbero sviluppate "in piena
libertà" (p. 137 ed. tedesca), si sarebbero convinte appunto della inefficacia
del sistema democratico primitivo e l'avrebbero sostituito con quello abituale:
il parlamentarismo unito al burocratismo.
In realtà le trade-unions non si
sono sviluppate "in piena libertà", ma in piena schiavitù capitalistica,
nella quale, certo, "non si può fare a meno" di una serie di concessioni al male
imperante, alla violenza, alla menzogna, all'esclusione dei poveri dagli affari
di amministrazione "superiore". In regime socialista rivivranno necessariamente
molti aspetti della democrazia "primitiva", perchè per la prima volta nella
storia delle società civili la massa della popolazione si eleverà a una
partecipazione indipendente, non solo nelle votazioni e nelle elezioni,
ma nell'amministrazione quotidiana. In regime socialista tutti
governeranno, a turno, e tutti si abitueranno ben presto a far sí che nessuno
governi.
Col suo geniale spirito critico
e analitico Marx vide nei provvedimenti pratici della Comune quella svolta
che gli opportunisti temono tanto e, per viltà, si rifiutano di riconoscere
perchè rifuggono dal rompere definitivamente con la borghesia, e che anche gli
anarchici si rifiutano di vedere, o perchè sono troppo imprudenti, o in generale
perchè non comprendono le condizioni delle trasformazioni sociali di massa. "Non
bisogna nemmeno pensare a distruggere la vecchia macchina statale; che cosa
diverremmo senza ministeri e senza funzionari": così ragiona l'opportunista
imbevuto di spirito filisteo e che, in fondo, non solo non crede alla
rivoluzione e alla sua potenza creatrice, ma ha di essa una paura mortale (come
i nostri menscevichi e i nostri socialisti-rivoluzionari).
"Bisogna pensare unicamente
alla distruzione della vecchia macchina statale; è inutile approfondire gli
insegnamenti concreti delle rivoluzioni proletarie passate e analizzare
con che cosa e come sostituire ciò che si distrugge": così ragiona
l'anarchico (il migliore degli anarchici, naturalmente, e non quello che, al
seguito dei signori Kropotkin e compagni, si trascina dietro la borghesia); e
l'anarchico arriva in tal modo alla tattica della disperazione, e non al
lavoro rivoluzionario risoluto, inesorabile, che però al tempo stesso si pone
dei compiti concreti e tiene conto delle condizioni pratiche del movimento delle
masse.
Marx ci insegna ad evitare
questi due errori; ci insegna a dar prova di illimitato coraggio nel distruggere
tutta la vecchia macchina statale e ci insegna al tempo stesso a porre il
problema in modo concreto: in poche settimane, la Comune potè incominciare
a costruire una nuova macchina statale proletaria; ed ecco i
provvedimenti da essa presi per realizzare una democrazia più perfetta e
sradicare la burocrazia. Impariamo dunque dai comunardi l'audacia
rivoluzionaria, cerchiamo di vedere nei loro provvedimenti pratici un abbozzo
dei provvedimenti praticamente urgenti e immediatamente realizzabili e
arriveremo allora, seguendo questa strada, alla completa distruzione
della burocrazia.
La possibilità di questa
distruzione ci è garantita dal fatto che il socialismo ridurrà la giornata di
lavoro, eleverà le masse a una vita nuova e metterà la maggioranza
della popolazione in condizioni tali da permettere a tutti, senza
eccezione, di adempiere le "funzioni statali", ciò che porta in ultima analisi
alla completa estinzione di qualsiasi Stato in generale.
"...Il compito dello sciopero di
massa continua Kautsky non può essere di distruggere il potere statale,
ma soltanto di indurre il governo a fare delle concessioni su una determinata
questione o di sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che
gli vada incontro [entgegenkommende] ...Ma mai, in nessun caso, ciò"
(cioè la vittoria del proletariato su un governo ostile) "può portare alla
distruzione del potere statale, il risultato non può essere che un certo
spostamento [Verschiebung] nel rapporto delle forze all'interno
del potere statale... L'obiettivo della nostra lotta politica rimane dunque,
come per il passato, la conquista del potere statale mediante il conseguimento
della maggioranza in Parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone
del governo" (pp. 726, 727, 732).
Questo è già purissimo e
banalissimo opportunismo, la rinuncia di fatto alla rivoluzione, pur
riconoscendola a parole. Il pensiero di Kautsky non va oltre un "governo che
vada incontro al proletariato", ed è un passo indietro verso il filisteismo in
rapporto al 1847, anno in cui il Manifesto del Partito comunista
proclamava "l'organizzazione del proletariato in classe dominante".
Kautsky sarà costretto a
realizzare l'" unità", che gli sta tanto a cuore, con gli Scheidemann, i
Plekhanov, i Vandervelde, tutti unanimi nel lottare per un governo "che vada
incontro al proletariato".
Quanto a noi, noi romperemo con
questi rinnegati del socialismo e lotteremo per la distruzione di tutta la
vecchia macchina dello Stato affinchè il proletariato armato diventi esso
stesso il governo. Sono due cose del tutto diverse.
Kautsky sarà costretto a
rimanere nella piacevole compagnia dei Legien e dei David, dei Plekhanov, dei
Potresov, degli Tsereteli e dei Cernov, che sono pienamente d'accordo nel
lottare per uno "spostamento nel rapporto delle forze all'interno del potere
dello Stato", per il "conseguimento della maggioranza in Parlamento e della
trasformazione del Parlamento in padrone del governo", nobilissimo obiettivo che
può essere completamente accettato dagli opportunisti e che non esce per nulla
dal quadro della repubblica borghese parlamentare.
Quanto a noi, noi romperemo con
gli opportunisti; e il proletariato cosciente sarà tutto con noi nella lotta,
non per uno "spostamento nel rapporto delle forze", ma per il rovesciamento
della borghesia, per la distruzione del parlamentarismo borghese, per
una repubblica democratica sul tipo della Comune o della repubblica dei Soviet
dei deputati operai e soldati, per la dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Nel socialismo internazionale vi
sono tendenze ancora più a destra di quella di Kautsky: la Rivista mensile
socialista in Germania (Legien, David, Kolb e molti altri, compresi gli
scandinavi Stauning e Branting); i jauressisti e Vandervelde in Francia e nel
Belgio; Turati, Treves e gli altri rappresentanti della destra nel Partito
socialista italiano; i fabiani e gli "indipendenti" (il "partito operaio
indipendente" è sempre stato, in realtà, dipendente dai liberali) in Inghilterra
e tutti gli altri. Tutti questi signori, che hanno una parte assai notevole e
molto spesso preponderante nell'attività parlamentare e nella stampa del
partito, respingono apertamente la dittatura del proletariato e rivelano un
evidente opportunismo. Per essi la "dittatura" del proletariato è "in
contraddizione" con la democrazia! In fondo niente di serio li distingue dai
democratici piccolo-borghesi.
Abbiamo quindi diritto di
concludere che la Seconda Internazionale, nell'immensa maggioranza dei suoi
rappresentanti ufficiali, è completamente caduta nell'opportunismo. L'esperienza
della Comune è stata non soltanto dimenticata ma travisata. Invece di infondere
nelle masse operaie la convinzione che si avvicina il momento in cui esse
dovranno agire e spezzare la vecchia macchina statale, sostituirla con una nuova
e fare del loro dominio politico la base della trasformazione socialista della
società, si è inculcato in esse la convinzione contraria, e la "conquista del
potere" è stata presentata in modo tale che mille brecce rimanevano aperte
all'opportunismo.
La
deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema dell'atteggiamento
della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato non potevano mancare di
esercitare un'immensa influenza, in un momento in cui gli Stati, muniti di un
apparato militare rafforzato dalle competizioni imperialiste, sono diventati dei
mostri militari che mandano allo sterminio milioni di uomini per decidere chi,
tra l'Inghilterra e la Germania, tra questo o quel capitale finanziario,
dominerà il mondo.
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