La grande ondata planetaria del 15 febbraio
contro la guerra, di fronte alla feroce e incondizionabile determinatezza
avversaria, nonché la spiazzante insorgenza di un’autodifesa armata da parte di
un popolo aggredito, non ha saputo ritrovare nuovi spazi e nuova capacità di
mobilitazione. Certo, dopo questa data non sono mancati momenti mobilitativi,
ma si è trattato di iniziative che hanno coinvolto soprattutto soggettività
individuali o collettive afferenti la galassia di quel ceto politico che ha sin
qui costituito di fatto, nel bene e nel male, la struttura portante del
“movimento”: fanno eccezione le grandi mobilitazioni di Evian, di Cancun e di
Londra. Se così stanno le cose, una domanda sorge spontanea: dove sono finiti
quei cento e più milioni di uomini e donne sincronicamente mobilitatisi nelle
piazze di tutto il mondo?
Con questo interrogativo non intendiamo inferire
capziosamente che tutto ciò che è successo da Seattle in poi sia stato vano,
come fa e ha sempre fatto una certa sinistra nostalgica che è rimasta a
guardare, in attesa di un riproporsi sempre identico a se stesso delle modalità
mobilitative di massa dei passati cicli di lotta. Tutt’altro! Il vento di
Seattle ha definitivamente messo alla berlina l’ideologia dominante che
magnificava impunemente le virtù salvifiche ed irrinunciabili della cosiddetta
globalizzazione e delle sue “autoregolamentate” libertà di mercato. In questo
senso, il “movimento no-global” è stato l’espressione soggettiva delle
contraddizioni materiali che si andavano accumulando: non certo mero riflesso
passivo di esse, ma loro primo (sia pur parziale) disvelamento nella coscienza
collettiva, loro prima operante critica di massa.
Riteniamo però che si debba lucidamente prendere
atto che la delusione “post 15 febbraio”, di fronte all’irrefrenabile
avanzata della macchina bellica di Monsieur le Capital, è stata assai
cocente: mai nella storia si era manifestata un’opinione comune così ampia e
diffusa per tutto il globo, eppure la politica della morte ha proseguito il suo
sporco lavoro.
Approfittando di tale delusione, una parte della
sinistra e del pacifismo sta cercando di rilanciare l’autonomia della politica
(la politica delle alleanze con i propri avversari, la politica nelle
istituzioni). Al contrario, questo senso di frustrazione non può essere rimosso
tramite la sua strumentalizzazione politicistica. Se vogliamo contribuire a
rilanciare il “movimento”, la fase attuale non può più essere affrontata con
l’ingenua fede nella possibilità di costruire immediatamente un altro e alquanto
indeterminato mondo, senza fare i conti con la potenza reale dell’avversario.
Ed è perciò necessario contribuire alla comprensione del dato di fatto che molti
fenomeni, denunciati giustamente dal “movimento no global”, non sono
accidenti o distorsioni morali, semplici patologie eliminabili con una “cura
culturale” o altrettanto “morale”, ma affondano le loro radici nel sistema di
accumulazione capitalistico e nella sua crisi ormai più che trentennale.
Per un verso, non si tratta di spiegare questo
dato di fatto o di porlo in modo ultimativo, con il risultato, magari non
voluto, di delegittimare la parzialità e l’insufficienza del movimento reale
così come di volta in volta si esprime; per un altro verso, nondimeno, esso (di
sovente rilevato da una parte del “movimento” stesso) deve in questa fase
emergere, nella consapevolezza collettiva, con la massima chiarezza. E ciò, a
maggior ragione oggi, a fronte di posizioni che nella loro apparente genericità,
pur sembrando più affascinanti o inclusive a livello di massa, si rivelano però
assolutamente paralizzanti. In questo senso, va senz’altro inquadrata la
posizione di certo pacifismo assoluto ed ideologico (come quello, ad esempio, di
Emergency), con il suo appello al “cessate il fuoco”, invitante sul piano morale
ma nei fatti assolutamente “disarmante”. E’ incontestabile, del resto, che tale
area sia rimasta assente da qualsiasi iniziativa che, nella nuova situazione
data, si sarebbe per essa rivelata collusiva con la violenza della resistenza
irakena e, in fondo, come un oggettivo invito a scontrarsi con gli apparati
repressivi dei paesi aggressori.
D’altronde, un pacifismo siffatto non può che
riconoscersi come espressione della “società civile”, intesa nella sua effettiva
originaria accezione (marxiana) di agglomerato indistinto di singolarità
atomistiche, affatto opacizzante le specifiche antagonistiche determinazioni di
classe della “società del capitale”. E cos’altro può fare siffatta “società
civile” mondiale se non manifestare l’astratta volontà dei suoi astratti
componenti, su di un piano meramente etico ?
Ecco, il punto è proprio questo!
La “società civile” ancora una volta ha
dimostrato di essere nulla più di una mera rappresentazione ideologica, affatto
priva di fondamento materiale. Se il nostro mondo fosse davvero regolato da
qualcosa di simile ad una dialettica democratica tra politica e società reale,
quei cento milioni di persone avrebbero dovuto riportare una schiacciante ed
immediata vittoria. E invece l’appello di alcune componenti del movimento
(peraltro enfatizzate ad arte dai media) alle regole della pacifica
convivenza tra i popoli e al diritto internazionale, e un’acritica perdurante
fiducia nella democrazia rappresentativa borghese si sono rivelati fatalmente
impotenti: nell’impossibilità di costruire immediatamente un altro mondo, ci si
è così incancreniti nel tentativo di rimescolare gli imputriditi ingredienti di
quello vecchio.
La guerra infinita e le aporie dei pacifisti
La guerra infinita non è, dunque, un mero
accidente della storia. Per scongiurarla, a poco vale fare appello - a mò della
vecchia socialdemocrazia - ad una regolazione statuale dell’accumulazione, in
grado di temperare le dinamiche dell’internazionalizzazione selvaggia del
capitale. Se esiste, infatti, una capacità di regolazione del sistema economico
finalizzata al sostenimento dell’accumulazione da parte dello stato, essa si
deve basare su una capacità impositiva nei confronti dei singoli capitali di cui
possa beneficiare il “capitale collettivo”. Ma, in assenza di un’autorità
politica “al di sopra” degli interessi particolari, nessuno può essere
disponibile a rinunciare, nell’immediato, ad una parte dei suoi profitti per
poter godere, in un secondo tempo, di un’eventuale ripresa dell’accumulazione.
Ed è questa la situazione in cui ci troviamo, dopo anni di
internazionalizzazione del capitale, di liberalizzazioni e di privatizzazioni.
In realtà ritornare ad una regolazione su scala nazionale dell’accumulazione è
assolutamente improponibile per le multinazionali dei paesi avanzati, perché
questo significherebbe ripristinare barriere esiziali per il loro sviluppo.
Tale esito sarebbe immaginabile solo nell’ambito di un aperto scontro tra entità
statuali, tale da preludere, presumibilmente, ad un diretto confronto bellico.
L’alternativa è una regolazione a livello
internazionale che però presupporrebbe la definizione di un’esplicita gerarchia
tra capitali egemoni e capitali subordinati: proprio ciò che è in gioco
nell’attuale fase di guerra economica, con il suo portato di aspri conflitti
politici.
Certo, si può ancora persistere nelle illusioni
keynesiane di un rilancio statuale della domanda aggregata di cui tutti quanti,
lavoratori e singoli capitali, possano beneficiare. Ma bisognerà prima o poi
prendere atto del fatto che non è stato l’abbandono delle politiche keynesiane,
negli anni Ottanta, a determinare l’attuale crisi, ma è stata quest’ultima,
iniziata negli anni Settanta, a provocare l’abbandono di un interventismo
statuale oramai inefficace per sostenere l’accumulazione. In realtà, ogni
intervento statuale è essenzialmente un intervento redistributivo finalizzato a
calmierare il conflitto sociale o ad indirizzare le risorse esistenti verso
quelle porzioni di capitale ritenute strategiche, perché minacciate dalla
concorrenza internazionale o perché in grado di sostenere il processo
accumulativo generale nel medio-lungo periodo.
Insomma, una regolazione internazionale della
valorizzazione capitalistica, oggi, richiederebbe l’affermazione incontrastata
di un soggetto egemone nell’agone mondiale e, in considerazione degli attuali
rapporti di forza, questo soggetto non potrebbe che incarnarsi negli Stati
Uniti. E allora ci imbattiamo in un paradosso: coloro che si sono opposti
all’impero Usa e al suo bellicismo, in nome di una gestione regolata del
capitalismo internazionale, si pongono, volendo essere fino in fondo coerenti, a
fare il tifo per l’instaurazione di una sorta di “new-deal imperiale” o,
in alternativa, a sostenere l’affermazione di imperialismi nazionali o
sovranazionali in competizione tra di loro, fino all’esito estremo della
guerra. E qui, al di là della già aspra competizione fra l’area valutaria del
dollaro e quella dell’euro, va rilevato l’altro profondo fattore di instabilità
conflittuale, ad alto rischio di diretta tracimazione su di un piano
definitivamente bellico, rispetto al colosso cinese, senz’altro finanziariamente
assai più debole di quello europeo, ma certamente meno malleabile sul piano
politico-militare.
Una parte del “movimento no global”
sembra aver scartato l’ipotesi suddetta, di regolazione statuale, pensando di
premere dal basso per imporre un’altra regolazione, magari attraverso poteri
diffusi e municipalismi più o meno conflittuali. Rispetto alla questione del
“potere”, essa non si è posta, né in termini di conquista, né in termini di
scontro reale: l’ha semplicemente evitata.
Non sottovalutiamo che uno dei presupposti della
diffusione di tale deriva ideologica è stato costituito dalla realtà di una
presa di parola diretta da parte di milioni di individui, mobilitatisi fuori (e
quindi potenzialmente contro) la mediazione della politica istituzionale.
Questo processo di autentica democrazia di base, sinora, non è riuscito però ad
esprimersi nella vita quotidiana e nei luoghi di lavoro, ma si è travasato solo
nelle grandi manifestazioni di piazza, sia pur con una continuità sicuramente
sorprendente. Da tale limite, è nato il vizio di non fare i conti con le radici
reali del sistema, riflesso e trasfigurato appunto in virtù, nel suddetto
impianto ideologico.
D’altronde, è incontestabile che il più ampio
movimento della storia sia, però, anche quello che ancora non ha colto neppure
un risultato in termini di cambiamenti del mondo o, se volete in termini più
volgari, in termini di riforme. Con un’aggravante: questa mancanza di
risultati viene esaltata da più parti come espressione di una lotta
post-comunista, come espressione di una fase in cui predominano obiettivi
immateriali.
Ma c’è ancora di più. Benché apparentemente
conflittuali e incomponibili, la richiesta di più stato e più politica ed il
vagheggiamento di un “esodo” dallo stato e dalla politica si pongono, nella
concretezza della pratica quotidiana, come imprescindibilmente complementari.
L’esodo, infatti, risulta operativamente impraticabile data la permanente e
pervasiva vigenza del potere politico ed economico, e si riduce dunque
all’occupazione del livello istituzionale più periferico. Tale occupazione,
però, necessita sempre e comunque di una sponda al livello più alto, che solo
una qualche espressione di governo in salsa “neo-post-cripto-socialdemocratica”
può offrire (per un edificante case study, si rimanda alla tragicomica
istoria dei rapporti fra Bertinotti e Casarini).
Sovversivi di tutto il mondo in gattabuia!
A fronte di queste indeterminatezze, non può
sorprendere che possa prevalere un senso di impotenza tale da portare ad una
sorta di afasia del “movimento”, che infatti, da lunghi mesi si è carsicamente
reinterrato, quasi a ridefinire gli ambiti della propria stessa capacità di
incidenza progettuale. E ciò, tanto più in forza del fatto che lo “stato
democratico” non sta certo a guardare, aspettando che i soggetti che hanno dato
vita alla grande ondata mobilitativa di questi ultimi anni si riprendano dal
loro disorientamento e rialzino la testa.
Se qualcuno nutrisse ancora qualche residua
illusione sulla natura super partes dello stato (o tanto più sulla sua
permeabilità a pressioni dal basso in tempi, come gli attuali, di crisi radicale
della rappresentanza), rispetto al conflitto sociale, è lo stato stesso a
smentirlo, dimostrando sempre più chiaramente la sua natura di gendarme
disciplinatore, in piena sintonia con la politica della morte attuata sul fronte
esterno. Le “amorose attenzioni” della magistratura italiana nei confronti del
“movimento” si sono in un primo momento concretizzate nelle accuse, da parte
delle procure di Genova e Cosenza, di associazione sovversiva, graziosa eredità
del codice fascista, non a caso mai abolito dalla “democratica repubblica
fondata sul lavoro”. E vale la pena ricordare che tale tipo di reato è
un’aberrazione anche da un punto di vista liberale. Con esso, infatti, si perde
la concatenazione temporale immediata tra azione (delitto) e reazione
(castigo). Il nuovo reato viene definito “di pericolo”, ma tale situazione di
pericolo, appunto, si pretende sia già configurabile in base alla sola
intenzione allo stato embrionale: anche due persone organizzate, quindi - dirà
la giurisprudenza -, possono realizzare l’ipotesi di reato di sovversione e
beccarsi, solo per questo, 15 anni di carcere, come altri 15 anni possono essere
rifilati per “devastazione e saccheggio”, anche con il solo “concorso
psichico”. In altre parole, si punisce in anticipo, “preventivamente”. A
supporto della guerra infinita scatenata su scala planetaria dal capitale
imperialistico, è iniziata di fatto la controrivoluzione preventiva sul fronte
interno delle sue singole specifiche componenti statuali.
In Italia, la normativa inerente i cosiddetti
“reati associativi”, già introdotta in epoca fascista, è rimasta dormiente per
molti anni, fino a che l’esplosione dei movimenti sociali dei sessanta/settanta
creò il contesto in cui essa fu puntualmente riutilizzata, in innumerevoli
occasioni, nell’evidenziazione della sua manifesta natura spudoratamente
classista. Per di più, all’art. 270 si aggiunse l’art. bis, il ter
e poi il quater, con pesantissime aggravanti di pene e di carcerazioni
preventive. Finita la cosiddetta emergenza, l’aberrazione giuridica rimase in
vigore, con tutte le aggravanti connesse, pronta per essere riutilizzata in
occasione di un qualsivoglia futuro inasprirsi del conflitto sociale; cosa che,
come stiamo vedendo, è puntualmente accaduta.
Tanto che abbiamo successivamente avuto un nuovo
salto di qualità nella spirale repressiva: le procure di Napoli e Roma hanno
avuto addirittura la faccia tosta di contestare i reati di “associazione per
delinquere”, rispettivamente finalizzata all’”estorsione di posti di lavoro” e
all’occupazione di edifici pubblici !?!
Tali episodi repressivi costituiscono una
limpida esemplificazione di quella linea di condotta che si va affermando nella
magistratura, tendente a ridurre il conflitto sociale a pura fenomenologia
criminale. Non si riconosce più alle lotte neppure la loro “legittimità”
sociale, dovuta alla soddisfazione di bisogni elementari come la casa o il
lavoro, ma le si declassa ad azione criminosa, sia per aggravarne lo statuto di
illegalità e poterle colpire con maggiore gravità, sia per creare consenso verso
l’azione repressiva, equiparando tout court le lotte sociali alla
criminalità organizzata.
Come se tutto ciò non bastasse, un ulteriore
colpo di scena è stato pianificato sul terreno del più drastico disciplinamento
sociale: l’azione antiterrorismo attuata in concomitanza con la manifestazione
sindacale contro la riforma delle pensioni del novembre scorso. Non può
sfuggire la strumentalità di questa operazione. A parte la più immediata
impressione che se ne poteva trarre - della serie: “c’è chi lavora per la
sicurezza dei cittadini, mentre altri perdono tempo in irresponsabili sfilate”
-, la sua più subdola finalità era quella di creare una sorta di automatica
omologante sovrapposizione tra conflitto sociale e “lottarmatismo”. Potrà
sorprendere che in questa operazione sia stato reiteramente coinvolto anche lo
stesso sindacalismo “triconfederale”, considerando le sue posizioni tutt’altro
che radicali. Ma il fatto è che nel contesto attuale appare totalmente
intollerabile anche la stessa esistenza di una rappresentanza sociale, qual è
quella sindacale. Essa, infatti, pur rientrando nel ciclo strutturalmente
astrattizzante della rappresentanza, mantiene comunque una più stretta relazione
con la materialità dei soggetti rappresentati. Ed è proprio per questo suo
connaturato statuto che la Cgil, per bocca del malcapitato Cofferati, fu
costretta a sterzare a sinistra sotto la spinta dell’incazzatura di tre milioni
di proletari scesi in piazza per difendere l’articolo 18. La stessa dinamica
che ha spinto la Fiom ad organizzare una lunga ondata di scioperi, tuttora
ininterrotta, che sta ormai di fatto invalidando la riforma Biagi, in ampi
comparti del settore metalmeccanico, e sta frenando un trend di caduta
dei salari monetari che vede oramai l’Italia come uno dei paesi europei con il
più basso costo del lavoro.
A conferma del fatto che è il conflitto in
quanto tale ad essere ormai considerato criminale, le associazioni padronali
dell’Emilia Romagna hanno accusato di incostituzionalità i precontratti fatti
firmare dalla Fiom, invocando l’intervento della magistratura e del legislatore,
per mettere fine alla “scandalosa” prassi degli scioperi. E soltanto “ieri”, di
fronte alla vera e propria rivolta dei lavoratori dei trasporti pubblici,
l’iniziativa antisindacale è infine passata direttamente nelle mani del governo,
con le scontate, immediate ricadute: precettazioni a raffica, invocazioni del
pugno duro da parte della magistratura, progetti di inasprimento della già
castratoria legislazione che regola/ingabbia lo sciopero.
Sotto la spinta di tale pressione e
approfittando della scusa offerta dalla presunta violazione del diritto alla
mobilità dei cittadini (quello stesso diritto quotidianamente negato dal
dissesto del servizio pubblico e non certo dagli scioperi selvaggi), la Cgil,
dal suo canto, ha già iniziato ad archiviare la breve stagione del suo
“radicalismo coatto”, assumendo atteggiamenti più consoni alla sua costitutiva
vocazione concertativa: con la firma del contratto, il maggiore sindacato
italiano ha svolto il solito ruolo di pompieraggio a mezzo del consueto accordo
al ribasso, dopo che nei giorni precedenti aveva più volte preso le distanze
dalle “poco opportune” forme della lotta e, in alcuni casi, aveva addirittura
boicottato attivamente gli scioperi, spargendo false voci di defezione da parte
di alcuni comparti di lavoratori.
Ma il fiorire di iniziative repressive non è
certo una prerogativa italiana. Una costante produzione di “politiche
securitarie” - all’insegna della “Tolleranza Zero” - suggella il moderno comando
del capitale mondializzato, a conferma del fatto che la politica di guerra non
riguarda più, esclusivamente, i paesi ed i popoli dipendenti dall’imperialismo,
ma diventa, progressivamente, la strategia politica prevalente (sia pure ancora
su di un piano di netta diversificazione) anche nei confronti del proletariato
metropolitano.
Quel pasticciaccio brutto di via dell’Anima (de li
mortacci sua!)
L’Italia dunque si inserisce pienamente in un
trend internazionale, per questo aspetto, ma anche per molti altri. Occorre
però aggiungere che il nostro paese rappresenta un caso estremo delle dinamiche
che si stanno affermando a livello internazionale. In Italia, in luogo dell’aziendalizzazione
dello stato, riscontrabile a livello internazionale, abbiamo una singola azienda
che si è fatta direttamente stato. L’aspetto eversivo del governo Berlusconi
non deriva dunque da una sua “cultura fascista”, ma da una ben specifica logica
imprenditoriale, ferocemente aliena da ogni preoccupazione di mediazione
sociale, applicata alla gestione dello stato.
A parte un minor rispetto per le “formalità”
democratiche (che comunque non è poca cosa), i due processi tendono ad un
medesimo risultato: appassisce la democrazia rappresentativa e germoglia la
rappresentazione democratico-spettacolare, in cui il citoyen si
appiattisce tendenzialmente sul bourgeois.
In tutto ciò non bisogna mai dimenticare che il
crinale del rapporto di forza tra le classi costituisce la vera posta in gioco:
ciò cui si tende in questa fase è la negazione di qualsivoglia forma di
riconoscimento politico dei bisogni proletari, fossero anche quelli più
immediati ed elementari. Le istituzioni, infatti, costituiscono la
concretizzazione, relativamente stabile, di un punto di equilibrio tra i diversi
interessi di cui sono portatrici le classi sociali e le molteplici fazioni in
cui ciascuna di esse si può dividere.
In altri termini, le istituzioni non sono altro
che espressione delle regole pattiziamente adottate dalla classe dominante e dal
mondo politico per risolvere/dissolvere, mediandolo o reprimendolo, il conflitto
di classe.
Quando gli interessi fino ad un certo punto
ritenuti legittimi, per il mutato contesto interno e internazionale, non possono
più essere conciliati, è fatale che siano le stesse istituzioni a diventare
terreno di scontro politico.
Il “senso comune di sinistra” che, dopo il
Social Forum di Firenze, ha cercato in Italia, pure tramite il
“girotondismo” (e in Francia tramite Attac), di contaminare anche il
“movimento”, ha invece riportato l’opera eversiva del governo di destra alla
specifica personalità e ai privati interessi del presidente del consiglio e
della losca Corte dei miracoli che lo contorna. In tal modo, in Italia, la
lotta contro il neoliberismo, già di per sé fuorviante rispetto al vero nemico
rappresentato dal capitalismo tout court, si è andata a sovrapporre
confusamente con la battaglia contro Berlusconi, identificato quale causa prima
di tutte le dinamiche implosive della cosiddetta dialettica democratica, che si
stanno affermando nel nostro paese con irrefutabile plateale evidenza. La
personificazione delle aberrazioni del sistema, nella figura di Berlusconi,
assunto come “male assoluto” ed inteso come eccezionalità deviante, ha
contribuito ulteriormente a far dimenticare che ad essere aberrante è il sistema
in se stesso. La necessità di disarcionare il cavaliere, obiettivo ovviamente
condivisibile e certamente non irrilevante, ha finito per appiattire/colonizzare
una parte del “movimento” sul versante di un asfittico “fronte democratico” e
per emarginarne, costringendola di fatto all’attuale “interramento”, la parte
restante che non voleva farsi stritolare da questo abbraccio. Purtroppo, basta
leggere le innumerevoli dichiarazioni degli esponenti del centrosinistra, a
proposito delle berlusconiane riforme delle pensioni, del mercato del lavoro,
dell’università ecc., per capire che l’Ulivo sta rassicurando il capitale circa
le sue intenzioni di non intaccare sostanzialmente le “conquiste” del
centro-destra nel caso di un prossimo cambio di governo.
Riposino in pace le ceneri dell’araba fenice
Tirando le somme, dobbiamo constatare che, da
diversi punti di vista, ci troviamo in un impasse abbastanza pesante,
perché non si è riuscito ancora a fare i conti fino in fondo con le dure
circostanze dell’odierna fase del capitale. L’evocazione di “altro mondo
possibile” non uscendo ancora dalla sua genericità, si è incrociata con il
lavorio di chi evoca un “altro capitale”, ormai impossibile. Non si può dunque
uscire da tale difficoltà radicalizzando i concetti di società civile,
democrazia formale, stato di diritto, keynesismo, cioè di tutte quelle
rappresentazioni ideologiche prese a prestito dal pensiero borghese sedicente
“progressista”. Tant’è che la stessa disobbedienza civile, in fin dei conti
(sebbene ci sia una parte di coloro che ad essa si ispirano, che si propone di
caratterizzarla come “disubbidienza sociale”), non è che la versione più
radicaleggiante di tale pensiero, in quanto essa si limita a contestare
specifiche norme in nome di una norma più alta, sia essa una costituzione
nazionale o la “dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino” dell’Onu.
Ma oggi ciò che è in gioco (come mostrano nel
modo più limpido la fetenzia del caso italiano, per un verso, e l’esautoramento
bellicistico dell’Onu, per un altro), sono proprio quelle impalcature
istituzionali, sia nazionali che sovranazionali, in nome delle quali alcuni
tardivi neofiti della disobbedienza civile pretenderebbero contestare le
concrete articolazioni dell’ordine esistente.
Oggi è il capitale che, costretto a presentarsi
con la sua faccia più feroce, fa implodere il castello ideologico da lui stesso
creato, facendo riemergere l’ostinata durezza delle contraddizioni di classe.
A fronte di ciò, il cittadino, già svilito e
omologato al borghese, deve finalmente riconoscersi nuovamente all’interno delle
proprie determinazioni materiali, come proletario. Ma è proprio questo
auto-riconoscimento che risulta difficile nell’attuale configurazione dello
spazio produttivo, caratterizzato da un’altissima frammentazione e da un intenso
processo di precarizzazione. In questo contesto è plausibile ipotizzare che
ampi settori di classe potranno organizzarsi ed esprimere una propria
vertenzialità anche sul piano sindacale, soprattutto se troveranno momenti di
espressione che travalichino la ristrettezza e la limitatezza del proprio
rapporto di lavoro immediato, in cui è oggettivamente assai difficile spezzare
le gabbie di un isolamento paralizzante, nonché l’eventuale ideologia
“partecipazionistica” tipica di certe microaziende a gestione “familiare”.
Questo salto mortale, dal proprio malessere personale al tentativo di risolvere
al livello più alto le contraddizioni materiali che lo ingenerano, è
potenzialmente foriero di una forte radicalità, a patto che le figure proletarie
si riconoscano in quanto tali nel loro aderire al “movimento”. Fin qui, invece,
è stata ancora diffusa, nonostante il positivo risveglio iniziato a Seattle, la
percezione di se stessi quali individui astratti, come cittadini eticamente
motivati.
Dovendo fare i conti con questa percezione,
certo non eliminabile tramite colpi di scopa propagandistici, siamo convinti,
insomma, che il “movimento” - quel fenomeno di ampia mobilitazione partecipativa
deflagrato col vento di Seattle e da noi interpretato come il primo segnale di
un nuovo soggetto collettivo in gestazione, il primo suo manifestarsi sul
terreno di un processo di ricomposizione necessariamente lungo e complesso -
difficilmente risorgerà dalle sue ceneri come l’araba fenice, sempre identica a
se stessa.
Con ciò non si vuole minimamente negare la sua
importanza, neppure quando ha saputo articolarsi sul terreno dell’opposizione
alla guerra, mobilitandovi immense maree umane. Oggi che la “quarta guerra
mondiale contro l’umanità” (per dirla insieme a Marcos) è definitivamente
passata dalle armi dell’economia all’economia delle armi, è più che mai
necessario cimentarsi su questo piano e, nel caso specifico dell’Iraq, ribadire
le nostre discriminanti fondamentali in faccia a tutti coloro che, dietro
esitanti equidistanze fra aggressori ed aggrediti, nascondono il desiderio di
tornare ai loro sporchi business, as usual. E queste discriminanti non
possono che essere il ritiro immediato delle “truppe alleate” e la piena
legittimità di qualsivoglia forma di effettiva autodeterminazione (compresa la
resistenza armata) contro l’occupazione neo-colonialistica, soprattutto, se si
tiene conto che il rilancio di un movimento mondiale dovrà necessariamente
coinvolgere la più grande maggioranza degli esseri umani, tutti potenzialmente
destinati a condividere l’attuale sorte degli irakeni. Obiettivi questi che
senz’altro - prima lo sappiamo meglio è - scandalizzerà molti soggetti
protagonisti della fase conclusasi il 15 febbraio, scatenando una dura polemica.
Ma tutto ciò non basta. Non è sufficiente fare
professione di un internazionalismo che, in questi termini, potrebbe risultare
troppo astratto. Oggi più che mai è necessario porre in primo piano, con forza,
la succitata connessione tra fronte esterno e fronte interno della guerra
permanente preventiva, ufficialmente scatenatasi dopo le Twin Towers! La guerra
non è infatti mero scontro di soli capitali, ma anche iniziativa contro i
lavoratori, contro i proletari: sicuramente nella fase della sua esplicazione,
con immani stragi tra i civili, non meno sicuramente nella fase della sua
preparazione.
Toh! Ci è parso di vedere una vecchia talpa
Siamo infatti convinti che il grande movimento
di massa espressosi fino al 15 febbraio, non solo non si trasformerà nel suo
contrario, come accadde invece alla vigilia della I guerra mondiale, ma, pur
attraverso le sue difficoltà e il suo attuale interramento, potrà consentire
alla vecchia talpa di scavare altri cunicoli e di riemergere da altri buchi. Le
contraddizioni materiali si stanno approfondendo e generalizzando. Limitandoci
alla situazione italiana, le mobilitazioni per l’art. 18 e per le pensioni, la
lunghissima serie di scioperi dei metalmeccanici per invalidare la riforma Biagi
e conquistare un contratto decente potrebbero essere le prime manifestazioni di
un diffuso scontro di classe. Una prima manifestazione di questo scenario si è
certamente concretizzata con lo sciopero dei lavoratori dei trasporti pubblici
che hanno di fatto invalidato la direzione sindacale della loro lotta, hanno
infranto la legislazione repressiva del (non più) diritto di sciopero e sono
infine giunti a rigettare gli ordini prefettizi di precettazione, proseguendo
tuttora nel loro cammino di autoricomposizione diretta, dentro la materialità
del conflitto capitale/lavoro.
Non può sfuggire il profondo significato di
questo evento.
Lo sciopero selvaggio è la negazione, anche se
in forma immediata, della regolazione giuridica del conflitto di classe:
l’opposizione tra il diritto del compratore della forza lavoro e il diritto del
suo venditore non trova più una conciliazione nei termini delle regole
codificate, ma si manifesta quale vera è propria antinomia tra due poli che si
fronteggiano, facendo affidamento sui meri diretti rapporti di forza.
Certo, questa lotta è stata determinata in primo
luogo dall’esasperazione dei lavoratori che hanno agito - si potrebbe dire - a
livello quasi istintivo. Ma, a ben vedere, è proprio il suo carattere
assolutamente spontaneo che la rende particolarmente significativa: date le
condizioni oggettive che oggi prevalgono, l’unica possibilità per i lavoratori
di difendere i propri diritti e interessi è stata quella di agire con estrema
radicalità. E in questa loro azione i lavoratori hanno dovuto riscoprire il
valore irrinunciabile dell’autorganizzazione, essendo in questo facilitati dalla
possibilità di utilizzare i reticoli organizzativi preesistenti, messi su grazie
ad anni di paziente lavorio da parte dei sindacati di base. Questi ultimi, da
parte loro, hanno assecondato l’autorganizzazione dal basso dei lavoratori,
rinunciando a qualsivoglia logica di parrocchia, senza cioè considerare la
mobilitazione quale occasione per estendere la propria influenza e
rappresentatività. Nel farsi strumento e nell’immergersi nel magma della
composizione di classe, afferente anche alla base confederale, i sindacati di
base hanno certo risposto pure alla sacrosanta esigenza di non offrire pretesti
alla criminalizzazione delle loro organizzazioni, ma resta il fatto che la
risultante di tale comportamento è stata un essenziale contributo ad un processo
di ricomposizione dell’autonomia di un comparto di lavoratori, manifestatosi in
una mobilitazione di massa assolutamente unitaria.
E’ sicuramente presto per dire se questo sarà
solo un episodio isolato o se le contraddizioni di cui questa insorgenza è
espressione esploderanno in modo diffuso. Quello che sappiamo è che nessuna
lotta può sviluppare tutte le sue potenzialità nell’isolamento. E siamo anche
convinti che, dal suo canto, il “movimento”, per superare la fase di
re/interramento (in cui, a nostro avviso, ha comunque espresso il proprio
rifiuto, rispetto alle derive e agli approdi su cui lo si pretendeva recuperare
alla logica dell’esistente), dovrà consapevolmente ancorarsi a queste
contraddizioni, per riconoscersi in forza di esse quale proletariato universale,
e come tale comprendere quindi fino in fondo che la sua non è né può limitarsi
ad essere una lotta di ordine solamente etico, ma deve sapersi riconfigurare
come lotta di classe, cimentandosi dunque sull’impervio crinale della
contraddizione capitale/lavoro.
Se vogliamo aiutare la vecchia talpa a
riemergere di nuovo, non possiamo dunque che ripartire dal senso strategico
progettuale dell’opzione comunista e, contemporaneamente, da una ricerca
collettiva di nuovi ambiti e forme per la ricomposizione che si riconferma come
fortemente ostacolata dall’attuale configurazione materiale del ciclo di
produzione/valorizzazione.
Il movimento di tutti i bisogni e il bisogno di un
solo movimento
Proprio in questo senso risulta necessario
ridefinire un visibile ambito anticapitalistico all’interno del “movimento”, se
vogliamo cercare, collettivamente, di dare una risposta all’enorme domanda
politica che dal “movimento” stesso nasce. Fin qui, l’esigenza di una
ridefinizione politico-strategica ha ricevuto soltanto pseudo-soluzioni, da
parte della multiforme paccottiglia delle ideologie progressiste, più o meno
verniciate a nuovo, e delle suggestioni di assai vecchio stampo evocanti grandi
e soffocanti apparati di “massa”. Il vuoto lasciato dalla debacle di
queste “dottrine” può rappresentare un salutare shock soltanto se non si
tradurrà in smarrimento e senso di impotenza.
Con ciò non vogliamo assolutamente perorare la
causa di sconsiderate strette organizzative in salsa più o meno avanguardistica.
Dove porti la logica “da apparato” lo conferma ancora una volta la vicenda di
Rifondazione, che ha cercato di cavalcare le mobilitazioni di questi ultimi
anni, esaltandole strumentalmente in modo sostanzialmente acritico, per poi
abbandonare repentinamente il suo opportunistico “movimentismo”, in vista
dell’ingresso nel futuro governo Prodi. E altrettanto evidente è l’esito
assolutamente annichilente - oltre che troppo spesso assurdamente “suicida” -,
cui conduce qualsivoglia minoritarismo autoreferenzialistico ed incentrato su di
un “comportamentalismo” formalisticamente assunto quale unica “discriminante” di
una qualche presunta purezza rivoluzionaria.
Al contrario, l’esempio da seguire e da
generalizzare, è semmai quello sin qui offerto dai sindacati di base nella
vertenza degli autoferrotranvieri: essi hanno utilizzato le loro organizzazioni
come strumento per far crescere il “movimento reale”, piuttosto che
strumentalizzare quest’ultimo cercando di sussumerlo sotto la direzione di una
struttura ipostatizzata. Bisogna essere comunque consapevoli che la logica di
apparato può in ogni momento riproporsi e interrompere la prassi virtuosa sin
qui seguita. Se questo accadesse la conquista di qualche tessera in più sarebbe
ben misera vittoria a fronte del danno inferto alla lotta in corso che, nella
giornata del 9 gennaio, ha segnato un’ulteriore grande successo e un ancor più
netto smarcamento nei confronti dei sindacati triconfederali.
Occorre insomma tenere insieme la necessaria
affermazione di una forte identità e un’altrettanto importante apertura nei
confronti delle differenti soggettività che in questi anni hanno dato vita al
“movimento”. Se sapremo collocarci nelle potenzialità della lotta
anticapitalista in questo modo trasparente ed orizzontale, potremo ritrovare al
nostro fianco anche una parte consistente di quelle “sensibilità autenticamente
democratiche” che nel “movimento” hanno ripetutamente deciso di mobilitarsi a
favore dei diritti e dei bisogni basilari degli esseri umani. Oggi, infatti,
questi diritti e bisogni non sono più riconosciuti né riconoscibili da parte di
un capitale che è divenuto oramai “incapace di sfamare i suoi stessi schiavi”.
Se si riconoscerà finalmente che il vero nemico
di tutte le lotte è un capitale oramai fattosi totale e sempre più necrogeno ed
affamato di sangue, si dovranno anche comprendere e superare le debilitanti
ingenuità che hanno contraddistinto questi anni di pur smisurate mobilitazioni.
Si dovrà cioè capire che la prospettiva politica da costruire non può essere
quella di tanti movimenti particolari, che si sommano meccanicamente per creare
momenti di unità astratta, in occasione di singole scadenze, per tornare subito
dopo nella loro sostanziale separazione e nell’isolamento dei luoghi di lavoro.
La capacità di incidere nei reali rapporti di
forza si darà soltanto se le determinazioni concrete specifiche - sin qui troppo
spesso astrattizzate nel cielo dell’etica e della cittadinanza - dei soggetti
che hanno dato vita al “movimento” potranno infine riconoscersi in
un’universalità concreta capace di trovare fondamento materiale nella comune
condizione proletaria e di costruire un’unità politico-progettuale in forza di
un irriducibile anticapitalismo, collettivamente e consapevolmente vissuto.
Non si tratta certo qui di una forzosa e
astratta reductio ad unum che lasci fuori di sé le particolarità delle
diverse soggettività. Il punto da capire è che le lotte per l’affermazione dei
più differenti bisogni, con tutto il portato delle loro specifiche ricchezze
propositive, possono e devono essere esplicitamente vissute per quello che già
materialmente sono, in potenza: le molteplici e concrete articolazioni, cioè,
di un unico radicale scontro, lo scontro di classe contro il dominio, di
Monsieur le Capital, contro il suo processo di valorizzazione
imprescindibilmente incentrato sullo sfruttamento e articolato sul ciclo
spettacolare dell’astrattizzazione universale della merce.
Né si tratta di uno scontro che evita per altra
via la questione del potere, che è diffuso, articolato, ma anche centrale. In
tutti i casi, non contaminabile, né deperibile. Per il resto, anche la vita
concreta, la viva esperienza delle masse in lotta, insegnerà molte cose, come è
sempre successo.
11 gennaio 2004
I/le compagni/e di
Red Link - email: redlink@Virgilio.it
back
|