1. Il periodo della
maturazione ideologica
1. CONSIDERAZIONI SULLA STORIA DEL MOVIMENTO
ANARCHICO IN ITALIA
a. Il socialismo in
Italia
(…) Quando Bakunin venne in
Italia, una profonda crisi travagliava il paese, e specialmente quella parte
eletta del paese che partecipava alla vita politica non per basso egoismo di
avventurieri ed arrivisti, ma per ragioni ideali ed amore sincero di bene
generale.
Il nuovo regno dei Savoia, cui aveva messo
capo la lotta per l’indipendenza d’Italia, non rispondeva punto alle
aspirazioni di coloro che prima e meglio di tutti avevano promosso e sostenuto
il movimento.
Per lunghi decenni schiere
di generosi avevano combattuto con insuperato eroismo per liberare l’Italia
dalla tirannide dell’Austria, del papa, dei Borboni e degli altri principotti
che se ne dividevano il territorio. Era il fiore della gioventù italiana che,
colle cospirazioni, gli attentati, le insurrezioni, affrontava il martirio; e
continuamente decimata dai massacri, dalle galere, dai patiboli, si
rinsanguava sempre con nuovi altrettanto eroici combattenti.
Le idealità che animavano
quegli uomini appaiono, a noi venuti dopo, insufficienti, vaghe, mistiche,
spesso contraddittorie, ma erano certamente nobili, disinteressate,
umanitarie.
In generale essi volevano
l’Italia libera dallo straniero e dai tiranni indigeni, libera dal dominio dei
preti e costituita in repubblica unitaria o federale; e per repubblica
intendevano un “governo di popolo” che assicurasse a tutti libertà, giustizia,
benessere e istituzione.
In conseguenza delle
tradizioni classiche e poi per la predicazione di Giuseppe Mazzini, essi
avevano bensì l’assurda pretesa che l’Italia fosse superiore a tutti gli altri
paesi e predestinata (da Dio, e dalla Natura, e dalla Storia) ad essere
maestra e guida di tutta (umanità. Ma il loro mistico patriottismo era lungi
dal significare desiderio di dominio sugli altri popoli. AI contrario, essi
affrettavano coi voti e coll’opera (emancipazione e la grandezza del popolo
italiano anche perché potesse compiere la sua missione civilizzatrice ed
aiutare a liberarsi tutti i popoli oppressi: a prova il fatto che i patrioti
italiani accorrevano a combattere e versare il loro sangue in qualunque parte
del mondo dove sorgeva un grido di libertà.
Ma malgrado tanto eroismo e
tanta nobiltà di propositi la causa italiana sembrò per lungo tempo una causa
disperata e trovava appoggio solo tra i “sognatori” assetati d’ideale e alieni
da ogni mira di vantaggio personale. La gente “pratica”, egoista e
pusillanime, subiva pazientemente l’oppressione e per calcolo acclamava i più
forti; ed i peggiori si mettevano al servizio degli oppressori quali buri e
carnefici. La gran massa, misera, ignorante, superstiziosa, restava come
sempre materia passiva, strumento docile ma infido di chi poteva e sapeva
servirsene.
Poi, quando per la costanza
ed il crescere dei ribelli, e per fortunate circostanze politiche europee i
servi di Casa Savoia trovarono opportuno di sfruttare le aspirazioni nazionali
per la sicurezza e (ingrandimento del regno sardo‑piemontese, agli apostoli ed
agli eroi si frammischiarono i trafficanti ed i profittatori, e l’intrigo
diplomatico sopraffece lo slancio rivoluzionario.
E così, tra i
patteggiamenti ed i mercati segreti, le alleanze tra monarchi, le guerre regie
cominciate con dubbia fede e vergognosamente stroncate per ragioni dinastiche,
le dedizione dei condottieri popolari, le illusioni degli ingenui ed il
tradimento dei furbi, si arrivò alla costituzione di un regno italico che era
la parodia, la negazione dell’Italia libera e grande sognata dai precursori.
Non si era raggiunta né l’unità né vera indipendenza.
L’Austria, padrona sempre
della Venezia, restava minacciosa al di qua dell’Alpi, e l’Italia sembrava
vivere solo per la protezione interessata e prepotente dell’imperatore dei
francesi. Il Papa continuava a tiranneggiare Roma ed il Lazio, pronto sempre a
chiamare lo straniero in suo soccorso. Il diritto della nazione a governarsi
da sé ridotto alla concessione di una Camera dei deputati eletta da un piccolo
numero di censiti e tenuta a freno dalla potestà suprema del re, nonché da un
Senato di nomina regia. Negata ogni autonomia di regioni e comuni, e tutta
l’Italia sottoposta all’egemonia delle caste burocratica e militaresca del
Piemonte. Le libertà cittadine sempre a discrezione della polizia. Le
condizioni economiche della massa (proletariato e piccola borghesia) a cui si
erano fatte tante promesse, generalmente peggiorate ed in certe regioni rese
addirittura miserabili per l’aumento delle imposte sulla produzione e sui
consumi. Quindi malcontento generale; e quando il malcontento scoppiava in
tumultuose proteste collettive, la forza pubblica ristabiliva l’ordine con
quei massacri di folle inermi, che restarono sempre una caratteristica del
sistema di governo della monarchia italiana.
Naturalmente sorsero in
abbondanza i patrioti dell’indomani che vollero prender parte al bottino,
senza essere stati alla battaglia; ed anche molti dei vecchi combattenti, per
motivi vari, onorevoli o meno, si adattano al nuovo regime e cercarono di
profittarne. Ma i più sinceri, i più ardenti e con essi i nuovi giovani che
per ragioni di età non avevano potuto prender parte alla riscossa nazionale,
ma n’avevano respirata l’atmosfera piena di entusiasmo e volevano emulare i
loro maggiori, rodevano il freno ed anelavano il momento di ricominciare la
rivoluzione e di completarla.
Ma cosa fare?
1 più influenti, i capi,
esitavano tra il desiderio di abbattere la monarchia e la paura di
compromettere quel tanto di unità e di indipendenza che si era raggiunto. La
gran maggioranza dei repubblicani devoti a Mazzini, pur predicando la
repubblica, mettevano al disopra di tutta l’unità della patria, e nonostante
l’avversione al sistema monarchico erano sempre pronti a mettersi agli ordini
del re quando egli li avesse chiamati a compiere il programma nazionale. Ed in
quanto ai garibaldini, più di tutti ardimentosi e battaglieri ma, al pari del
loro duce, senza idee chiare e programma determinato, salvo l’odio ai preti ed
al dominio straniero, la monarchia poteva sempre a sua posta fermarli o
trascinarli, come è più dei mazziniani, col solo darsi l’aria di voler fare la
guerra all’Austria o al papa.
In realtà non si faceva
nulla contro il regime, e forse date le circostanze era possibile fare qualche
cosa d’efficace; ma fra le aspirazioni contraddittorie persisteva, vivo,
insofferente, tormentoso il desiderio di fare.
D’altra parte un nuovo
fermento d’idee agitava le mani. . .
Vi erano stati bensì dei
pensatori poderosi e precursori geniali capaci di reggere il confronto con
qualunque straniero, ma essi erano restati senza grande influenza o totalmente
ignorati, come per esempio il Pisacane, tanto che occorse scoprirli dopo,
quando già le loro idee erano per altre vie divenute patrimonio comune.
Ma ora, dopo la
costituzione del regno, con una certa libertà di stampa, con la maggiore
facilità di muoversi e stabilire delle relazioni e per lo stesso sprone delle
disillusioni patite, la gioventù incominciava ad informarsi ed interessarsi
delle idee che agitavano l’Europa. Già il concetto dell’Italia nazione‑messia
appariva a molti fantastico ed assurdo ed era sostituito da una più realistica
concezione della storia e dei rapporti tra i popoli. La credenza in Dio e nel
soprannaturale, tanto cara a Mazzini, era buttata in breccia dal nuovo
indirizzo delle scienze naturali introdotto nelle università italiane per
opera principalmente di valenti professori stranieri. L’idea di patria e tutte
le istituzioni sociali ‑ proprietà, organizzazione statale, famiglia, diritto
civile e penale ‑ erano discusse e criticate con nuova larghezza di vedute. La
questione sociale, la questione dei ricchi e dei poveri, incominciava ad
attirare l’attenzione e pareva già destinata a svalorizzare e mettere in oblio
le questioni di nazionalità.
Mazzini e Garibaldi
continuavano ad essere idolatrati dalla gioventù più avanzata, che avrebbe
voluto averli come capi guide, ma trovava sempre più difficile il seguirli.
Poiché Mazzini di fronte all’irrompere delle nuove tendenze s’irrigidiva nel
suo dogmatismo teologico‑politico e scomunicava chi non credeva in Dio; e
Garibaldi, il quale voleva persuadere se stesso e gli altri di stare sempre
alla testa del progresso, diceva e disdiceva ed in fondo non capiva nulla.
Da ciò il disagio morale ed
intellettuale, che aggiunto all’incertezza ed all’impotenza politiche teneva
agitata e scontenta la migliore gioventù italiana.
In tale condizione degli
spiriti un uomo come Bakunin, con la fama di grande rivoluzionario europeo che
l’accompagnava, con la sua ricchezza e modernità d’idee, con la sua foga e la
forza avvincente della sua personalità, non poteva non fare forte impressione
su coloro che lo avvicinavano. Ma non poteva creare un movimento a larga base,
veramente popolare, causa dei pregiudizi patriottici e borghesi dell’ambiente
e per il fatto che molti, malgrado la mutata coscienza, si sentivano ancora
legati da giuramenti prestati alla vecchia setta; al che bisogna aggiungere le
difficoltà che gli venivano dall’essere straniero, poco pratico della lingua
italiana e soggetto sempre ad essere espulso dalla polizia.
Ed infatti egli riuscì
subito ad interessare degli uomini di valore, che credettero a prima giunta di
trovare nelle sue idee la soluzione dei dubbi che li tormentavano, ma non
potette far presa sulle masse. D’altronde il pensiero di Bakunin era allora in
continua evoluzione, e se egli, spinto dal suo temperamento e dalla logica
delle sue premesse, arrivò presto a conclusioni nettamente socialiste ed
anarchiche, molti dei suoi primi aderenti non potettero seguirlo e man mano si
ritrassero, sostituiti però sempre da nuovi più idonei elementi.
Dal 1864 al 1870, Bakunin,
colla propaganda personale in Italia, colla corrispondenza dalla Svizzera, coi
viaggi fatti o fatti fare e con le pubblicazioni proprie o da lui ispirate,
arrivò a selezionare un certo numero d’uomini che, organizzati intorno a lui
in circoli più o meno segreti, presero contatto con il movimento socialista,
internazionale, introdussero in Italia il socialismo e l’anarchismo e vi
fondarono la branca italiana del_ Associazione Internazionale Italiana dei
Lavoratori, di cui continuarono ad essere gli animatori durante tutta la sua
esistenza.
Ma insomma fino alla prima
metà del 1870 tutto si riduceva a pochi gruppi intimi ed a qualche piccola
associazione operaia. . .
Poi vennero la guerra
franco‑prussiana, la caduta dell’impero e la proclamazione della repubblica in
Francia, la spedizione gáribaldina nei Vosgi l’entrata delle truppe italiane a
Roma e la fine del potere temporale dei papi, le vicende dell’assedio di
Parigi, le elezioni francesi dell’assemblea dei “rurali”, la pace vergognosa,
la fondazione dell’impero germanico; tutte cose che agitarono e tennero gli
animi sospesi, alimentando negli uni le più audaci speranze e negli altri le
più folli paure.
Infine scoppiò
l’insurrezione parigina del 18 marzo 1871 la Comune di Parigi ‑, repressa due
mesi dopo dal governo repubblicano con una ferocia che indignò i più
temperati.
L’annunzio dei fatti di
Parigi mise la febbre addosso a tutta la gioventù politicamente attiva.
Veramente si sapeva poco
quello che la Comune fosse davvero, ma la stessa incertezza delle notizie dava
libero campo all’immaginazione, e ciascuno si foggiava il moto parigine
secondo i propri desideri. E siccome si attribuiva quel moto all’opera
dell’Internazionale, questa profittò di tutta la popolarità di cui godette la
Comune negli ambienti rivoluzionari italiani.
Le false notizie, le
esagerazioni, le stesse calunnie della stampa reazionaria servivano a
rinfocolare l’entusiasmo e ad esaltare le gesta della Comune e la potenza
dell’Internazionale le...
I primi e più numerosi
proseliti si trovarono tra i garibaldina sempre ardenti di battagliare per
qualunque idea sembrasse loro avanzata.
I giovani mazziniani, ai
quali i fatti di Francia avevano mostrato che la repubblica non significa
necessariamente libertà eguaglianza e fratellanza e che può benissimo
associarsi con il più retrivo clericalismo ed il più feroce militarismo, se
fossero stati lasciati al loro istinto avrebbero probabilmente seguito al pari
dei garibaldini l’impulso dato dai bakunisti.
Ed allora si sarebbe
costituito un fascio di tutte le forze rivoluzionarie italiane, che avrebbe
potuto mettere a mal partito la monarchia.
Ma Mazzini, offeso nei suoi
pregiudizi teologici, statali e borghesi e forse irritato dal vedersi sfuggire
quella specie di pontificato che aveva esercitato per tanti anni sul movimento
rivoluzionario italiano, attaccò violentemente la Comune e l’Internazionale e
trattenne i suoi dal passo che stavano per fare.
Bakunin rispose agli
attacchi di Mazzini, e la lotta scoppiò ardente tra mazziniani ed
internazionalisti: lotta che servì ad eccitare la discussione ed a precisare
le idee; ma presto degenerata in odio, mise l’un contro l’altro giovani
egualmente generosi ed entusiasti, e fu in definitiva la causa dell’impotenza
degli uni e degli altri.
In ogni modo
l’Internazionale si estese rapidamente nei centri più evoluti . . .
Dato l’ambiente italiano
ancora tutto vibrante dei ricordi delle cospirazioni mazziniane e delle
spedizioni garibaldine, data l’eccitazione prodotta dalla Comune di Parigi,
data l’influenza predominante di Bakunin, dati il temperamento e le
convinzioni dei primi iniziatori, l’Internazionale in Italia non poteva essere
una semplice federazione di leghe di resistenza operaia, sia pure a tendenze
radicali, come fu altrove. Essa assunse fin dal principio un carattere
decisamente sovvertitore, che trova un certo riscontro solo nella Spagna, dove
il carattere degli abitanti e la situazione politica erano quasi come in
Italia, e dove del resto il movimento internazionalista fu iniziato dal
Fanelli, mandato colà in missione dall’Alleanza bakunista.
L’Internazionale nacque in
Italia socialista, anarchica, rivoluzionaria, e per conseguenza
antiparlamentare. Ruppe subito con il “Consiglio generale”, il quale, ispirato
da Marx, voleva dirigere autoritariamente l’associazione ed imporle un
programma statalista; e fu essenzialmente un’associazione fatta collo scopo di
provocare un’insurrezione armata, la quale avrebbe dovuto d’un colpo solo
rovesciare il governo, abolire la proprietà privata, mettere a libera
disposizione dei lavoratori la terra, gli strumenti di lavoro e tutta la
ricchezza esistente e sostituire all’organizzazione statale e borghese la
libera federazione dei comuni e dei gruppi produttori autonomi.
Si accettava il principio
fondamentale dell’Associazione di lavoratori fondata a Londra nel settembre
1864, e cioè che “la dipendenza economica dei lavoratori dai possessori delle
materie prime e degli strumenti di lavoro è la causa prima della servitù in
tutte le sue forme, politica, morale e materiale”; e perciò si riteneva
necessario ed urgente abolire la proprietà privata fondiaria e capitalistica
mediante l’espropriazione senza indennità della classe borghese fatta
direttamente dalla massa sfruttata e soggetta. Si dichiarava il lavoro dovere
sociale per tutti, e quindi si considerava la condizione di lavoratore
superiore moralmente a qualunque altra posizione sociale, anzi la sola
compatibile con una morale veramente umana, e molti internazionalisti
provenienti dalla classe borghese, per essere coerenti colle loro idee e
meglio immedesimarsi col popolo, si mettevano ad apprendere un mestiere
manuale. Si vedeva nella classe operaia, nel proletariato dell’industria e
dell’agricoltura, il grande fattore della trasformazione sociale e la garanzia
ch’ essa si sarebbe fatta veramente a vantaggio di tutti e non avrebbe dato
origine ad una nuova classe privilegiata.
Ma però l’Internazionale
non fu mai in Italia propriamente una organizzazione di classe; ed in essa
sugl’interessi contingenti della classe operaia prevaleva sempre l’ideale
della rivoluzione come fatto che doveva iniziare una nuova civiltà per
l’elevazione morale ed il vantaggio materiale di tutta quanta l’umanità.
Nell’Internazionale in Italia, e del resto era così un po’ dappertutto, aveva
diritto di cittadinanza chiunque ne accettava i principi, da qualunque classe
provenisse. E quando per conciliare coi fatti il titolo di associazione di
lavoratori si cercava di determinare che cosa fosse un lavoratore, si
conchiudeva che, per l’Internazionale, era lavoratore, “chiunque lavorava alla
distruzione dell’ordine borghese”, frase che può sembrare un’arguzia, ma che
traduceva bene lo stato di fatto.
Ed invero l’Internazionale
era stata introdotta in Italia da borghesi che, per amor di giustizia, avevano
disertato la loro classe, ed ancora nel 1872 e dopo, in molti luoghi, la
maggioranza, almeno nella parte dirigente e più attiva, non era composta di
operai, ma di giovani provenienti dalla media e piccola borghesia.
Si faceva un po’ di lotta
economica, si provocava qualche sciopero, s’incitavano gli operai a domandare
e pretendere dai padroni ogni sorta di miglioramenti. Ma ciò si faceva senza
entusiasmo, senza darvi grande importanza, poiché si era convinti che i
padroni esistevano perché il governo li proteggeva ed esisterebbero e
trionferebbero sempre fino a che durerebbe il governo. “Non si arriva al
proprietario, si soleva dire, se non passando sul corpo del gendarme”. Forse
sarebbe stata la verità più completa il dire che è “il gendarme”, cioè chi
possiede la forza materiale, che s’impadronisce della ricchezza, si fa
proprietario, e poi assolda, tra le sue vittime, dei gendarmi per farsi
difendere e perpetuare in sé e nei suoi discendenti il privilegio usurpato; ma
allora, senza che nessuno di noi avesse letto Marx, si era ancora troppo
marxisti. Ma a parte ogni disquisizione teorica sulle origini della proprietà,
si era convinti che la prima cosa da fare era rovesciare il governo, e perciò
si pensava soprattutto alla insurrezione.
Certamente sperare allora
nella vittoria era una illusione.
Senza parlare delle vaste
plaghe d’Italia dove le nostre idee erano assolutamente sconosciute, anche
dove eravamo più forti e numerosi non eravamo in sostanza che un’infima
minoranza di fronte alla totalità della popolazione. E le masse erano ancora
del tutto disorganizzate ed ignare: salvo le nostre sezioni e qualche
associazione che pigliava il motto da Mazzini, le società operaie esistente
erano semplici società di mutuo soccorso sotto il patronato di grossi
proprietari o personaggi dei partiti borghesi, quando non avevano addirittura
il re ... o il questore.
Questa era per noi una
situazione paradossale, perché il nostro scopo non era di impossessarsi del
governo con un colpo di mano (il che sarebbe stato ben difficile per
l’esiguità delle nostre forze, ma forse non impossibile se fossimo riusciti a
trascinare con noi i repubblicani) per poi imporre il nostro programma
mediante la forza statale. Noi, già anarchici convinti, volevamo abbattere il
governo esistente, impedire che se ne formasse ‑un altro, e lasciare che le
masse liberate dalla pressione dell’esercito e della polizia pigliassero
possesso della ricchezza ed organizzassero da loro la nuova vita sociale.
Ma che sarebbe avvenuto se
le masse fossero restate assenti, o si fossero mostrate ansiose di
sottomettersi ad un nuovo governo ed attendere da esso il proprio bene?
Noi speravamo nel
malcontento generale, e poiché la miseria che affliggeva le masse era davvero
insopportabile, credevamo che bastasse dare un esempio, lanciare colle armi
alla mano il grido di “abbasso í signori”, perché le masse lavoratrici si
scagliassero contro la borghesia, e pigliassero possesso della terra, delle
fabbriche e di quanto esse avevano prodotto colle loro fatiche ed era stato
loro sottratto. E poi avevamo una fede mistica nella virtù del popolo, nella
sua capacità, nei suoi istinti ugualitari e libertari.
I fatti dimostrarono allora
e poi (e lo avevano già dimostrato nel passato) quanto eravamo lontani dal
vero. Purtroppo la fame, quando non vi è una coscienza del proprio diritto ed
un’idea che guida l’azione, non produce rivoluzioni: tutt’al più provoca delle
sommosse sporadiche che i signori, se hanno giudizio, possono domare, meglio
che colle fucilate dei carabinieri, col distribuire un po’ di pane e col
gettare dai balconi un po’ di soldi di rame alla folla tumultuante. E noi, se
il desiderio non avesse fatto velo alla nostra perspicacia, avremmo ben potuto
giudicare dell’effetto deprimente, e quindi antirivoluzionario, della miseria,
dal fatto che la propaganda riusciva meglio nelle regioni meno misere e tra
quei lavoratori, artigiani per la maggior parte, che si trovavano in
condizioni economiche meno disagiate.
Ed in quanto agli “istinti
egualitari e libertari” del popolo, ahimè, quanta fatica ci vuole per
risvegliarli! Per allora, ed anche adesso in quella grande parte della massa
non ancora tocca dalla propaganda, gli “istinti”, i quali sono stati formati
dai millenario servaggio, spingono i lavoratori piuttosto al timore e, quel
ch’è peggio, al rispetto ed all’ammirazione dei padroni, e quindi ad una
docile sottomissione.
Era dunque impossibile una
vittoria facile e rapida.
Ma, a parte la questione di
tempo, io ‑credo sempre dopo tutto quello che ho veduto, che le nostre
speranze non erano vane e la nostra tattica non era sbagliata.
In effetti, 1a nostra
propaganda, se non colla rapidità che avremmo voluto, portava pure i suoi
frutti: il numero dei con. vinti andava continuamente crescendo, ed intorno ad
essi si andava sempre allargando i1 cerchio di simpatizzanti, di quelli cioè
che pur non comprendendo e non accettando tutte le nostre idee, sentivano
l’ingiustizia del presente ordinamento sociale e volevano contribuire al suo
cambiamento. Ed i tentativi insurrezionali che facevamo e ci proponevamo di
fare, pur essendo allora condannati ad insuccesso sicuro, erano mezzo efficace
di propaganda, ed un giorno, a tempi più maturi (chi può giudicare prima del
fatto quando i tempi sono maturi, cioè quando un concorso di circostanze
determina il “momento psicologico” in cui un popolo è pronto ad insorgere?),
un giorno, dico, sarebbero stati la scintilla che provoca un grande incendio.
Se il nostro lavoro fosse
continuato concorde come durante i sette od otto anni dopo la fondazione a
Rimini della Federazione italiana (1872), ben altra, io credo, sarebbe oggi la
situazione italiana.
Ma sul più bello, lo
sviluppo del nostro movimento fu conturbato ed arrestato dall’introduzione in
Italia del partito socialdemocratico, legalitario e parlamentare secondo il
tipo tedesco.
L’esistenza di un altro
partito socialista con tendenze diverse di quelle che aveva l’Internazionale
italiana non sarebbe stato un gran male, anzi avrebbe potuto essere un bene,
poiché avrebbe attratti al socialismo molti elementi che, pur ammettendo la
necessità di una radicale riforma sociale, non potevano per temperamento e per
posizione essere rivoluzionari e con noi non ci sarebbero venuti mai.
Ma il guaio fu che chi
introdusse (almeno con risultati seri, poiché vi era stato qualche altro
tentativo senza successo) in Italia la nuova tendenza uscì proprio di mezzo a
noi.
Alcuni degli
internazionalisti tra i più influenti ed amati (non posso qui fare a meno di
nominare l’Andrea Costa), impressionati dagli apparenti successi del
socialismo in Germania, disgustati di una lotta che era, o sembrava, sterile
di risultati immediati, e forse stanchi delle persecuzioni che ormai erano
diventate ben più serie, preferirono, contro i loro primi compagni e contro
tutto il loro passato, una tattica che prometteva una relativa tranquillità e
rapidi successi personali; e così gettarono la discordia nelle nostre file e
furono la causa che il meglio delle nostre forze fosse speso in polemiche e
diatribe intestine, anziché nella propaganda tra le masse e la lotta contro il
nemico comune.
I vecchi internazionalisti
che di quella “evoluzione” videro direttamente i danni morali e materiali
fatti al movimento, e soffrirono nei loro sentimenti profondi per le amicizie
male rotte, gridarono al “tradimento”. E certo parve dar loro ragione il modo
suddulo come si condussero i nuovi convertiti al parlamentarismo, negando ed
affermando, attenuando od accentuando la nuova tendenza secondo gli ambienti e
le circostanze, e trascinando i compagni più ingenui col sentimentalismo delle
amicizie personali e quasi senza che se ne accorgessero.
Ma fu davvero tradimento
cosciente fatto per fini personali, o frutto di onesta convinzione?
Non spetta a me, parte
troppo interessata nella vertenza, il dare un giudizio definitivo. E
d’altronde questi avvenimenti sono di parecchi anni posteriori al periodo di
cui si tratta in questo libro, e non è il caso di approfondirli e documentarli
qui. Forse lo stesso Nettlau, che ha o può procurarsi il materiale necessario
e che possiede quelle doti di imparzialità e serenità che forse in questo caso
mancherebbero a me, ci narrerà un giorno quel periodo critico
dell’Internazionale italiana, in cui essa cessò di chiamarsi l’Internazionale
e si scisse in partito anarchico e partito socialdemocratico.
A me basti constatare che tutte le nostre
previsioni sulla degenerazione in cui sarebbe caduto il socialismo fattosi
legalitario e parlamentarista si sono purtroppo verificate, ed al di là di
quello che noi stessi pensavamo.
b. L’evoluzionismo di P. Kropotkin
Pietro Kropotkin è senza
dubbio uno di quelli che hanno contribuito di più ‑ forse più che gli stessi
Bakunin ed Eliseo Reclus ‑ alla elaborazione e alla propagazione dell’idea
anarchica. Ed egli ha perciò ben meritato l’ammirazione e la riconoscenza che
tutti gli anarchici hanno per lui.
Ma, in omaggio alla verità
e nell’interesse superiore della causa, bisogna riconoscere che l’opera sua
non è stata tutta ed esclusivamente benefica. Non fu colpa sua, al contrario,
fu l’eminenza stessa dei suoi meriti che produsse i mali ch’io mi propongo
d’indicare.
Naturalmente Kropotkin al
pari di ogni altro uomo, non poteva evitare ogni errore ed abbracciare tutta
la verità. Si sarebbe dovuto quindi profittare della sua preziosa
contribuzione e continuare la ricerca per raggiungere nuovi progressi. Ma i
suoi talenti letterari, il valore e la mole della sua produzione, la sua
instancabile attività, il prestigio che gli veniva dalla sua fama di grande
scienziato, il fatto ch’egli aveva sacrificata una posizione altamente
privilegiata per difendere, a costo di soffrire di pericoli, la causa
popolare, e di più il fascino della sua persona che incantava tutti quelli che
avevano la fortuna di avvicinarlo, gli dettero tale notorietà e tale influenza
ch’egli sembrò, ed in gran parte fu realmente, il maestro riconosciuto della
grande maggioranza degli anarchici.
Avvenne così che la critica
fu scoraggiata, e si produsse un arresto di sviluppo dell’idea. Durante molti
anni, malgrado lo spirito iconoclasta e progressivo degli anarchici, la
maggior parte di essi non fece, in quanto a teoria ed a propaganda, che
studiare e ripetere Kropotkin. Dire diversamente da lui fu per molti compagni
quasi un’eresia.
Sarebbe dunque opportuno il
sottomettere gl’insegnamenti di Kropotkin ad una critica severa e senza
prevenzioni per distinguere ciò che in essi è sempre vero e vivo da ciò che il
pensiero e l’esperienza posteriori possono aver dimostrato erroneo. Cosa
d’altronde che non riguarderebbe solo Kropotkin, poiché gli errori che si
possono rimproverare a lui erano già professati dagli anarchici prima che
Kropotkin acquistasse una posizione eminente nel movimento: egli li confermò e
li fece durare dando loro l’appoggio del suo talento e del suo prestigio, ma
noi, i vecchi militanti, vi abbiamo tutti, o quasi tutti, la nostra parte di
responsabilità.
Io ebbi l’onore e la
fortuna di essere per lunghi anni legato a Kropotkin dalla pii fraterna
amicizia.
Noi ci amavamo perché
eravamo animati dalla stessa passione, dalla stessa speranza ... ed anche
dalle stesse illusioni.
Tutti e due di temperamento
ottimista (io credo tuttavia che l’ottimismo di Kropotkin sorpassava di molto
il mio e forse aveva una sorgente diversa) noi vedevamo le cose color di rosa,
ahimè! troppo color di rosa ‑ noi speravamo sono già più di cinquant’anni, in
una rivoluzione prossima, che avrebbe dovuto realizzare il nostro ideale.
Durante questo lungo periodo vi furono ben dei momenti di dubbio e di
scoraggiamento. Ricordo, per esempio, che una volta Kropotkin mi disse: “Mio
caro Errico temo che siamo noi soli, tu ed io, che crediamo in una rivoluzione
vicina”. Ma erano dei momenti passeggeri: ben presto la fiducia tornava; ci si
spiegava in un modo qualsiasi le difficoltà presenti e lo scetticismo dei
compagni e si continuava a lavorare ed a sperare.
Nullameno non bisogna
credere che noi avevamo in tutto le stesse opinioni. AI contrario, in molte
idee fondamentali noi eravamo lungi dall’essere d’accordo, e quasi non c’era
volta che c’incontravamo senza che nascessero tra noi delle discussioni
rumorose ed irritanti; ma siccome Kropotkin si sentiva sempre sicuro di aver
ragione e non poteva sopportare con calma la contraddizione, e d’altra parte
io avevo molto rispetto per il suo sapere e molti riguardi per la sua salute
vacillante, si finiva sempre col cambiar d’argomento per non irritarsi troppo
. . .
Kropotkin era nello stesso
tempo uno scienziato ed un riformatore sociale. Egli era posseduto da due
passioni: il desiderio di conoscere ed il desiderio di fare il bene
dell’umanità, due nobili passioni che possono essere utili l’una all’altra e
che si vorrebbero vedere in tutti gli uomini, senza ch’esse siano per questo
una sola e medesima cosa. Ma Kropotkin era uno spirito eminentemente
sistematico e voleva spiegare tutto con uno stesso principio e tutto ridurre a
unità, e lo faceva spesso, secondo me, a scapito della logica. Perciò egli
appoggiava sulla scienza le sue aspirazioni sociali, le quali non erano,
secondo lui, che delle deduzioni rigorosamente scientifiche.
lo non ho nessuna
competenza speciale per giudicare Kropotkin come scienziato . . . Nulladimeno
mi sembra che gli mancasse qualche cosa per essere un vero uomo di scienza: la
capacità di dimenticare i suoi desideri e le sue prevenzioni per osservare i
fatti con un’impassibile obbiettività . . .
Abitualmente egli concepiva
un’ipotesi e cercava poi i fatti che avrebbero dovuto giustificarla ‑ il che
può essere un buon metodo per scoprire cose nuove; ma gli accadeva, senza
volerlo, di non vedere i fatti che contraddicevano la sua ipotesi.
Egli non sapeva decidersi
ad ammettere un fatto, e spesso nemmeno a prenderlo in considerazione, se
prima non riusciva a spiegarlo, cioè a farlo entrare nel suo sistema . . .
Kropotki.n professava la
filosofia materialista che dominava tra gli scienziati nella seconda metà del
secolo XIX, la filosofia di Moleschott, Buchner, Vogt, ecc.; e per conseguenza
la sua concezione dell’Universo era rigorosamente meccanica.
Secondo il suo sistema, la
volontà (potenza creatrice di cui noi non possiamo comprendere la natura e la
sorgente, come del resto non comprendiamo la natura e la sorgente della
“materia” e di tutti gli altri “primi principi”) la volontà, dico, che
contribuisce poco o molto a determinare la condotta degl’individui e delle
società, non esiste, non è che un’illusione. Tutto quello che fu, che è e che
sarà, dal corso degli astri alla nascita ed alla decadenza di una civiltà, dal
profumo di una rosa al sorriso di una madre, da un terremoto al pensiero di un
Newton, dalla crudeltà di un tiranno alla bontà di un santo, tutto doveva,
deve e dovrà accadere per una sequela fatale di cause e di effetti di natura
meccanica, che non lascia nessuna possibilità di variazione. L’illusione della
volontà non sarebbe essa stessa che un fatto meccanico.
Naturalmente, logicamente,
se la volontà non ha alcuna potenza, se tutto è necessario e non può essere
diversamente, le idee di libertà, di giustizia, di responsabilità non hanno
nessun significato, non corrispondono a niente di reale.
Secondo la logica non si
potrebbe che contemplare ciò che accade nel mondo, con indifferenza, piacere o
dolore, secondo la propria sensibilità, ma senza speranza e senza possibilità
di cambiare alcunché.
Kropotkin, dunque, che era
molto severo con il fatalismo dei marxisti, cadeva poi nel fatalismo
meccanico, che è ben più paralizzante.
Ma la filosofia non poteva
uccidere la potente volontà che era in Kropotkin. Egli era troppo convinto
della verità del suo sistema per rinunziarvi, o solamente sopportare
tranquillamente che lo si mettesse in dubbio; ma egli era troppo appassionato,
troppo desideroso di libertà e di giustizia per lasciarsi fermare dalla
difficoltà di una contraddizione logica e rinunziare alla lotta. Egli se la
cavava inserendo l’anarchia nel suo sistema e facendone una verità
scientifica.
Egli si confermava nella
sua convinzione sostenendo che tutte le recenti scoperte in tutte le scienze,
dall’astronomia fino alla biologia ed alla sociologia, concorrevano a
dimostrare sempre più che l’anarchia è il modo d’organizzazione sociale che è
imposto dalle leggi sociali . . .
Così, dopo aver detto che
“l’anarchia è una concezione dell’Universo basata sull’interpretazione
meccanica dei fenomeni che abbraccia tutta la Natura, compresa la vita delle
società” (confesso che non sono mai riuscito a comprendere ciò che questo può
significare) Kropotkin dimenticava come se fosse niente, la sua concezione
meccanica e si lanciava nella lotta con il brio, l’entusiasmo e la fiducia di
uno che crede nell’efficacia della sua volontà e spera di potere colla sua
attività ottenere o contribuire a ottenere ciò che desidera.
In realtà, l’anarchismo ed
il comunismo di Kropotkin prima di essere una questione di ragionamento, erano
l’effetto della sua sensibilità. In lui, prima parlava il cuore, e poi veniva
il ragionamento per giustificare e rinforzare gl’impulsi del cuore.
Ciò che costituiva il fondo
del suo carattere era l’amore degli uomini, la simpatia pei poveri e gli
oppressi. Egli soffriva realmente per i mali degli altri, e l’ingiustizia
anche se a suo favore, gli era insopportabile...
Spinto dagli stessi
sentimenti aveva in seguito fatto adesione all’Internazionale ed accettato le
idee anarchiche. Infine, tra i diversi modi di concepire l’anarchia aveva
scelto e fatto proprio il programma comunista‑anarchico, che basandosi sulla
solidarietà e sull’amore va al di là della stessa giustizia.
Ma naturalmente come era da
prevedere, la sua filosofia non restava senza influenza sul suo modo di
concepire l’avvenire e la lotta che bisognava combattere per arrivarvi.
Poiché secondo la sua
filosofia ciò che accade doveva necessariamente accadere, così anche il
comunismo anarchico, ch’egli desiderava, doveva fatalmente trionfare come per
legge della natura.
E ciò gli levava ogni
dubbio e gli nascondeva ogni difficoltà. Il mondo borghese doveva fatalmente
cadere; era già in dissoluzione e l’azione rivoluzionaria non serviva che ad
affrettarne la caduta.
La sua grande influenza
come propagandista, oltre che dai suoi talenti, dipendeva dal fatto ch’egli
mostrava la cosa talmente inevitabile che l’entusiasmo si comunicava subito a
quelli che l’ascoltavano o lo leggevano.
Le difficoltà morali
sparivano perché egli attribuiva al “popolo”, alla massa dei lavoratori tutte
le virtù e tutte le capacità. Egli esaltava con ragione l’influenza
moralizzatrice del lavoro, ma non vedeva abbastanza gli effetti deprimenti e
corruttori della miseria e della soggezione. Ed egli pensava che basterebbe
abolire i privilegi dei capitalisti ed il potere dei governanti perché tutti
gli uomini cominciassero immediatamente ad amarsi come fratelli ed a badare
agl’interessi altrui come ai propri. ‘
Nello stesso modo egli non
vedeva le difficoltà materiali o se ne sbarazzava facilmente. Egli aveva
accettata l’idea, comune allora tra gli anarchici, che i prodotti accumulati
della terra e dell’industria erano talmente abbondanti che per molto tempo non
ci sarebbe bisogno di preoccuparsi della produzione; e diceva sempre che il
problema immediato era quello del consumo che per far trionfare la rivoluzione
bisognava soddisfare subito e largamente i bisogni di tutti, e che la
produzione seguirebbe il ritmo del consumo. Di là quell’idea della presa nel
mucchio, ch’egli mise in moda e che è ben la maniera più semplice di concepire
il comunismo e la più atta a piacere alla folla, ma è anche la maniera più
primitiva e più realmente utopistica. E quando gli si fece osservare che
questa accumulazione di prodotti non poteva esistere, perché i proprietari
normalmente non fanno produrre che quello che possono vendere con profitto, e
che forse nei primi tempi della rivoluzione bisognerebbe organizzare il
razionamento e spingere alla produzione intensiva piuttosto che invitare alla
presa in un mucchio che in realtà non esisterebbe, egli si mise a studiare
direttamente la questione ed arrivò alla conclusione che infatti
quell’abbondanza non esisteva e che in certi paesi si era continuamente sotto
la minaccia della carestia. Ma egli si rifaceva pensando alle grandi
possibilità dell’agricoltura aiutata dalla scienza. Egli prese come esempi i
risultati ottenuti da qualche agricoltore e qualche dotto agronomo sopra spazi
limitati e ne tirò le più incoraggianti conseguenze, senza pensare agli
ostacoli che avrebbero opposto (ignoranza e (avversione al nuovo dei contadini
ed al tempo che in tutti i casi occorrerebbe per generalizzare i nuovi modi di
coltura e di distribuzione.
Come sempre Kropotkin
vedeva le cose quali egli avrebbe voluto che fossero e come noi tutti speriamo
ch’esse saranno un giorno: egli considerava esistente o immediatamente
realizzabile ciò che deve essere conquistato con lunghi e duri sforzi.
In fondo Kropotkin
concepiva la Natura come una specie di Provvidenza, grazie alla quale
l’armonia doveva regnare in tutte le cose, comprese le società umane.
È ciò che ha fatto ripetere
a molti anarchici questa frase di sapore squisitamente kropotkiniano:
L’anarchia è l’ordine naturale.
Si potrebbe domandare, io
penso, come mai la Natura, se è vero che la sua legge è l’armonia, ha
aspettato che vengano al mondo gli anarchici ed aspetta ancora ch’essi
trionfino per distruggere le terribili e micidiali disarmonie di cui gli
uomini hanno sempre sofferto.
Non si sarebbe più vicini
alla verità dicendo che l’anarchia è la lotta, nelle società umane, contro le
disarmonie della Natura?
Ho insistito sui due errori
nei quali, secondo me, è caduto Kropotkin, il suo fatalismo teorico ed il suo
ottimismo eccessivo, perché io credo di aver constatato i cattivi effetti
ch’essi hanno prodotto nel nostro movimento.
Ci sono stati dei compagni
i quali presero sul serio la teoria fatalista ‑ che per eufemismo chiamano
determinismo ‑ e perdettero in conseguenza ogni spirito rivoluzionario. La
rivoluzione, essi dissero, non si fa: essa verrà quando sarà il suo tempo, ed
è inutile, antiscientifico e perfino ridicolo il volerla fare. E con queste
buone ragioni si allontanarono dal movimento e pensarono ai loro affari. Ma
sarebbe un errore il credere che questa fu una comoda scusa per ritirarsi
dalla lotta. Io ho conosciuto parecchi compagni dal temperamento ardente,
pronti ad ogni sbaraglio, che si sono esposti a grandi pericoli ed hanno
sacrificato la loro libertà ed anche la loro vita in nome dell’anarchia pur
essendo convinti dell’inutilità della loro azione. Essi lo han fatto per
disgusto della società attuale, per vendetta, per disperazione, per amore del
bel gesto, ma senza credere con questo di servire la causa della rivoluzione e
per conseguenza senza scegliere il bersaglio ed il momento e senza curarsi di
coordinare la loro azione con quella degli altri.
Da un altro lato, quelli
che senza preoccuparsi di filosofia han voluto .lavorare per avvicinare e fare
la rivoluzione, han creduto la cosa ben più facile ch’essa non fosse in
realtà, non ne hanno preveduto le difficoltà, non si sono preparati come
occorreva ... e così ci si è trovati impotenti il giorno in cui vi era forse
la possibilità di fare qualche cosa di pratico.
Possano gli errori del
passato servire di lezione per far meglio nell’avvenire.
2. L’EVOLUZIONE DELL’ANARCHISMO
a.
Alla radice delle idee
Un soffio di rivolta passa
dappertutto; e la rivolta è qui l’espressione di un’idea, là il risultato di un
bisogno; più spesso poi è la conseguenza dell’intrecciarsi di bisogni e d’idee
che si generano e si rinforzano a vicenda; si scaglia contro la causa dei mali o
la colpisce di fianco, è cosciente o istintiva, umana o brutale, generosa o
strettamente egoista, ma in ogni modo diventa sempre più grande e si estende
ogni giorno di più.
È la storia che cammina; è
inutile dunque perdere tempo a lamentarsi delle vie che essa sceglie, poiché
queste vie le sono state tracciate da tutta un’evoluzione anteriore.
Ma la storia è fatta dagli
uomini; e siccome noi non vogliamo restare spettatori indifferenti e passivi
della tragedia storica, siccome vogliamo concorrere con tutte le nostre forze a
determinare gli avvenimenti che ci sembrano più favorevoli alla nostra causa, ci
abbisogna per questo un criterio che ci serva di guida nell’apprezzamento dei
fatti che si producono, sopratutto per saper scegliere il posto che dobbiamo
occupare nella battaglia.
Il fine giustifica i mezzi.
Si è molto maledetta questa massima; ma in realtà essa è la guida universale
della condotta. Sarebbe però meglio il dire: ogni fine vuole i suoi mezzi.
Poiché la morale bisogna cercarla nello scopo; il mezzo è fatale.
Stabilito lo scopo a cui si
vuol giungere, per volontà o per necessità, il gran problema della vita sta nel
trovare il mezzo che secondo le circostanze, conduce con maggiore sicurezza e
più economicamente, allo scopo prefisso. Dalla maniera con cui viene risolto
questo problema dipende, per quanto può dipendere dalla volontà umana, che un
uomo o un partito raggiunga o no il suo fine, che sia utile alla sua causa o
serva senza volerlo, alla causa nemica. Aver trovato il buon‑mezzo: qui sta
tutto il segreto dei grandi uomini e dei grandi partiti che hanno lasciato le
loro tracce nella storia.
Noi non lottiamo per metterci
al posto degli sfruttatori e degli oppressori di oggi, e non lottiamo neppure
per il trionfo di una vacua astrazione. Non siamo affatto come quel patriota
italiano che diceva: “Che importa che tutti gli italiani muoiano di fame, purché
l’Italia sia grande e gloriosa!”; e neppure come quel compagno che confessava
essergli indifferente che si massacrassero i tre quarti degli uomini, perché
l’Umanità fosse libera e felice.
Noi vogliamo la libertà e il
benessere degli uomini, di tutti gli uomini senza eccezione. Vogliamo che ogni
essere umano possa svilupparsi e vivere il più felicemente possibile. E crediamo
che questa libertà e questo benessere non potranno essere dati agli uomini da un
uomo o da un partito, ma che tutti dovranno da sé stessi scoprirne le condizioni
e conquistarsele. Crediamo che soltanto la più completa applicazione del
principio di solidarietà può distruggere la lotta, l’oppressione e lo
sfruttamento, e che la solidarietà non può essere che il risultato del libero
accordo, che l’armonizzazione spontanea e voluta degli interessi.
Secondo noi, tutto ciò che è
volto a distruggere l’oppressione economica e politica, tutto ciò che serve ad
elevare il livello morale ed intellettuale degli uomini, a dar loro la coscienza
dei propri diritti e delle proprie forze e a persuaderli di fare i propri
interessi da sé, tutto ciò che provoca l’odio contro l’oppressione e suscita
l’amore fra gli uomini, ci avvicina al nostro scopo e quindi è un bene ‑
soggetto soltanto a un calcolo quantitativo per ottenere con forze date il
massimo di effetto utile. E al contrario è male, perché in contraddizione col
nostro scopo, tutto ciò che tende a conservare lo stato attuale, tutto ciò che
tende a sacrificare, contro la sua volontà, un uomo al trionfo di un principio.
Noi vogliamo il trionfo della
libertà e dell’amore.
Ma per questo dovremo noi
rinunciare all’impegno dei mezzi violenti? Niente affatto. I nostri mezzi sono
quelli che le circostanze ci permettono ed impongono.
Certo, noi non vorremmo
strappare un capello a nessuno; vorremmo asciugare tutte le lacrime senza farne
versare alcuna. Ma c’è forza lottare nel mondo tale come questo è, sotto pena di
restare sognatori sterili.
Verrà il giorno, lo crediamo
fermamente, in cui sarà possibile fare il bene degli uomini senza fare male né a
sé né agli altri; ma oggi questo è impossibile. Anche il più puro e dolce dei
martiri, quegli che si farebbe trascinare al patibolo per il trionfo del bene,
senza far resistenza, benedicendo i suoi persecutori come il Cristo della
leggenda, anche lui farebbe del male. Oltre al male che farebbe a sé stesso, che
pur deve contare qualche cosa, farebbe spargere amare lacrime a tutti quelli che
lo amassero.
Si tratta a dunque,sempre, in
tutti gli atti della vita, di scegliere il minimo male, di tentare di fare il
meno male perla più grande somma di bene possibile.
L’umanità si trascina
penosamente sotto il peso della oppressione politica ed economica: è abbrutita,
degenerata, uccisa (e non sempre lentamente) dalla miseria, dalla schiavitù,
dalla ignoranza e dai loro effetti. Per la difesa di questo stato di cose
esistono potenti organizzazioni militari e poliziesche, le quali rispondono con
la prigione, il patibolo ed il massacro ad ogni serio tentativo di cambiamento.
Non vi sono mezzi pacifici, legali, per uscire da questa situazione; ed è
naturale ciò, perché,la legge è fatta espressamente dai privilegiati per la
difesa dei propri privilegi. Contro la forza fisica che ci sbarra il cammino,
non v’è per vincere che (appello alla forza fisica, non v’è che la rivoluzione
violenta.
Evidentemente la rivoluzione
molte disgrazie, molte sofferenze; ma se anche ne producesse cento volte di più,
essa sarebbe sempre una benedizione in confronto a quanti dolori son causati
oggi dalla cattiva costituzione della società.
E per amor degli uomini che
siamo rivoluzionari: e non è colpa nostra, se la storia ci costringe a questa
dolorosa necessità.
Dunque per noi anarchici, o
almeno (giacché infine le parole sono convenzionali) per coloro fra gli
anarchici che la pensano come noi, ogni atto di propaganda o di realizzazione
con la parola o coi fatti, individuale o collettivo, è buono quando serve ad
avvicinare e facilitare la rivoluzione, quando assicura ad essa il concorso
cosciente delle masse e le dà quel carattere di liberazione universale, senza di
cui potrebbe bensì aversi una rivoluzione, ma non quella rivoluzione che noi
desideriamo. Ed è sopra tutto in fatto di rivoluzione che bisogna tener conto
del mezzo più economico, poiché per essa la spesa si totalizza in vite umane.
Conosciamo abbastanza le
condizioni strazianti materiali e morali in cui si trova il proletariato, per
spiegarci gli atti di odio, di vendetta, ed anche di ferocia che potranno
prodursi. Comprendiamo che vi siano degli oppressi che, essendo stati sempre
trattati dai borghesi con la più ignobile durezza e avendo sempre visto che
tutto era permesso al più forte, un bel giorno, diventati per un istante i più
forti, si dicano: “Facciamo, anche noi, come i borghesi”. Comprendiamo come
possa accadere che, nella febbre della battaglia, nature originariamente
generose ma non preparate da una lunga ginnastica morale, molto difficile nelle
condizioni presenti, perdano di vista lo scopo da conseguirsi, prendano la
violenza come fine a sé stessa e si lascino trascinare ad atti selvaggi.
Ma altro è comprendere e
perdonare certi fatti, altro è rivendicarli e rendersene solidali. Non sono
quelli gli atti che noi possiamo accettare, incoraggiare ed imitare. Dobbiamo
essere risoluti ed energici, ma dobbiamo altresì sforzarci di non oltrepassare
mai il limite segnato dalla necessità. Dobbiamo fare come il chirurgo che taglia
quando bisogna tagliare, ma evita di infliggere inutili sofferenze; in una
parola dobbiamo essere ispirati e guidati dal sentimento dell’amore per gli
uomini, per tutti gli uomini.
Ci sembra che questo
sentimento di amore sia il fondo morale, l’anima del nostro programma; che solo
concependo la rivoluzione come il più grande giubileo umano, come la liberazione
e l’affratellamento di tutti gli uomini ‑ non importa a quale classe o a quale
partito abbiano appartenuto ‑ il nostro ideale potrà realizzarsi.
La ribellione brutale avverrà
certamente; e potrà servire, anche, a dare il gran colpo di spalla, (ultima
spinta che dovrà atterrare il sistema attuale: ma se essa non troverà il
contrappeso nei rivoluzionari che agiscono per un ideale, una tale rivoluzione
divorerà se medesima.
L’odio non produce l’amore, e
con (odio non si rinnova il mondo; e la rivoluzione dell’odio o fallirebbe
completamente, oppure farebbe capo ad una nuova oppressione, che potrebbe magari
chiamarsi anarchica, come si chiamano liberali i governanti di oggi, ma che non
sarebbe meno per questo un’oppressione e non mancherebbe di produrre gli effetti
che produce ogni oppressione.
b. Il rifiuto del terrorismo amorfista
In Italia
non si ingannano se credono che nella questione .Ravachol io sono d’accordo con
Merlino, perché infatti lo sono, almeno nel punto di vista generale. Molti
giornalisti sono venuti a domandarmi la mia opinione, ed io gliela ho detta
francamente; ma poi nessuno l’ha pubblicata, forse perché io ad evitare
falsificazioni ho voluto dettarla.
Revachol mi pare un uomo
sincero, devoto alla causa, forse anche buono di cuore ma traviato da un falso
ragionamento fino al punto di assassinare nel più feroce modo un vecchio
impotente ed innocuo. Ma non è per Ravachol personalmente che noi sentiamo il
bisogno di protestare; è per le difese che fanno di lui certi suoi amici. L’uno
dice che Ravachol ha fatto bene ad uccidere il vecchio, perché “era un essere
inutile alla Società”; un altro dice che non vale la pena di far chiasso per un
vecchio che “aveva pochi anni da vivere” e così di seguito. Il che vuol dire che
questi anarchici che non vogliono giudici, non vogliono tribunali, si fanno poi
essi stessi giudici e carnefici, e condannano a morte e giustiziano quelli che
essi giudicano inutili. Nessun governo ha mai fatto confessar tanto!
Così per le esplosioni. Per
uccidere un meschino procuratore si rischia di uccidere 50 innocenti, Per
fortuna non è successo tutto il male che poteva succedere; ma è anche vero che
il procuratore ha avuto di rotto solo il suo urinale!
Si vede nel modo come la cosa
è stata fatta, che i suoi autori disprezzano la vita umana, non si curano della
sofferenza altrui. Ma infine, su tutto questo si potrebbe passare, e considerare
le disgrazie come dolorose conseguenze della guerra.
Ma come non protestare quando sentite dire che
si ha torto di lamentare la morte d’una serva o di un operaio, perché “i
domestici sono peggio dei padroni e bisogna ammazzarli tutti” ed “i bambini sono
semenza dei borghesi e bisogna pure ammazzarli tutti”?
Come non inorridire quando
trovate una donna la quale a voi che lamentate la disgrazia incorsa a quella
povera donna che nella esplosione della rue Clichy ebbe la faccia lacerata da
schegge di vetro, risponde: “Come! Siete così sensibile voi? Io ho riso tanto
pensando alle smorfie che doveva fare quella donna colla faccia tutta
tagliuzzata”.
Tutto questo vuol dire che
succede a molti anarchici quello che succede ai soldati, agli uomini di guerra,
che ubriacati dalla lotta, diventano feroci e dimentichi perfino del fine pel
quale si lotta finiscono col volere il sangue per il sangue. Non è più l’amore
per il genere umano che li guida, ma il sentimento di vendetta unito al culto di
una idea attratta, di un fantasma teorico.
Ciò si comprende; tanto più
in presenza di una borghesia che ci dà quotidianamente lo spettacolo della
ferocia, ma non si può approvare, non si può incoraggiare. Una rivoluzione nella
quale trionfassero questi istinti, sarebbe una rivoluzione perduta. Il terrore
provoca la reazione: prima la reazione della pietà, poi la reazione degli
interessi.
Vi è poi altra cosa. Questi
anarchici pare si vogliano fare distributori di grazia e di giustizia e ciò non
è niente affatto anarchico. Se noi avessimo il diritto di condannare in nome
dell’idea che ci facciamo noi della giustizia, lo stesso diritto (avrebbe il
governo in nome della giustizia sua. Naturalmente ognuno crede di avere ragione,
e se ognuno avesse il diritto di condannare quelli che secondo lui hanno torto
addio giustizia, addio libertà, addio eguaglianza, addio anarchia; i più forti
sarebbero, come sono oggi, il governo, ed ecco tutto.
Noi dobbiamo essere dei
libertari. La dinamite è un’arma come un’altra spesso migliore di un’altra nella
lotta contro gli oppressori: ma come tutte le armi, può essere adoperata bene o
male, può servire a liberare gli oppressi, o a spaventare ed opprimere i deboli.
Noi dobbiamo servirci di tutte le armi, ma non dobbiamo mai perdere di vista lo
scopo, né la proporzione tra il mezzo e lo scopo. Io capisco che si possa
rischiare di uccidere degli innocenti per fare un atto risolutivo: far saltare
per esempio un parlamento uccidere lo Czar ‑ ma rischiare di uccidere 50 persone
per rompere l’urinale di un procuratore pubblico, mi pare una cosa folle ‑ e
questa cosa, da folle diventa criminosa se non è ispirata da cattivo calcolo, ma
da indifferenza per la vita degli altri.
So ben che queste idee non
sono fatte per incontrare la simpatia generale dei nostri amici.
Per quanto si sia anarchici,
si è sempre più o meno uomini del proprio tempo. Ed il popolo dei nostri tempi,
come quello dei tempi passati, si lascia ancora imporre dalla forza, dal
successo, senza guardarci tanto pel sottile. Se esplosioni sono riuscite, hanno
messo paura ... ai paurosi, e molti dei nostri amici applaudiranno
incondizionatamente, senza occuparsi dell’effetto che hanno sulla massa, che noi
dovremmo attirare a noi, senza esaminare senza fare le parti del bene e del
male. È la stessa tendenza per la quale il popolo applaude a tutti i guerrieri,
a tutti i tiranni che vincono; è la stessa tendenza per la quale parecchi
anarchici divennero boulangistes quando sembrava che Boulanger stesse per
vincere.
Ma contro questa tendenza noi
dobbiamo reagire, se no addio anarchia. La rivoluzione si farebbe ma per aprire
il varco a nuovi tiranni.
La verità è che v’è molta
gente che si chiama anarchica, e che dell’anarchia non ha capito nulla.
Anche in questa occasione i
soliti, gli ex amici di Senace hanno pubblicato un foglio clandestino in cui
minacciano bastonate a quegli anarchici, che non credono che Ravachol sia il
tipo degli anarchici, e che l’eremita di Chambles meritava gli si schiacciasse
la testa a martellate, vale a dire a noi, e le bastonate promesse ce le
darebbero ... se noi ce le lasciassimo dare.
Vedete dunque che anarchici!
Come l’inquisizione; le bastonate (non potendo applicare la ghigliottina o il
rogo) a quelli che non pensano come loro e dicono il loro pensiero.
È necessario reagire; mettere
i punti sugli i, uscire dai termini generateli i quali spesso fanno credere che
si sia d’accordo, mentre si sta agli antipodi.
Ed io, dopo tutto, son
contento di questa specie di crisi, perché provocherà delle spiegazioni, in
seguito alle quali si saprà con chi si è d’accordo davvero e con chi no,, e si
saprà uscire dall’equivoco, dai tira e molla e mettersi col lavoro fecondo dalla
propaganda fra le masse e dell’azione veramente rivoluzionaria.
Voi saprete interpretare per
il loro verso queste idee buttate già così confusamente ed in fretta. Io del
resto le svilupperò completamente in un lavoretto che darò alle stampe al più
presto.
Se volete far leggere questa
lettera a qualche amico fatelo pure; ma però, appunto perché è buttata giù in
fretta e senza ordine, fatela ledere solo a quelli che conoscete abbastanza
intelligenti per non interpretare le cose a rovescio . .
c. La
tragedia di Monza
Prima di tutto riduciamo le
cose alle loro giuste proporzioni
Il re è stato ucciso; e
poiché un re è pur sempre un uomo, il fatto è da deplorarsi. Una regina è stata
vedovate; e Poiché una regina è anch’essa una donna, noi simpatizziamo col suo
dolore.
Ma perché tanto chiasso per
la morte di un uomo e per le lacrime di una donna quando si accetta come una
cosa naturale il fatto che ogni giorno tanti uomini cadono uccisi, e tante donne
piangono, a causa delle guerre, degli accidenti sul lavoro, delle rivolte
represse a fucilate, e dei mille delitti prodotti dalla miseria, dallo spirito
di vendetta, dal fanatismo e dall’alcolismo?
Perché tanto sfoggio di
sentimentalismo a proposito di una disgrazia particolare, quando migliaia e
milioni di esseri umani muoiono di fame e di malaria, fra l’indifferenza di
coloro che avrebbero i mezzi di rimediarvi?
Forse perché questa volta le
vittime non son dei volgari lavoratori, non un onest’uomo ed un’onesta donna
qualunque, ma un re ed una regina? . _
Veramente, noi troviamo il
caso più interessante, ed il nostro dolore è più sentito, più vivo, più vero,
quando si tratta di un minatore schiacciato da una frana mentre lavora, e di una
vedova che resta a morir di fame coi suoi figlioletti!
Nulladimeno, anche quelle dei
reali sono sofferenze umane e vanno deplorate. Ma sterile resta il lamento se
non se ne indagano le cause e non si cerca di eliminarle.
Chi è che provoca la
violenza? Chi è che la rende necessaria, fatale?
Tutto il sistema sociale vigente è fondato
sulla forza brutale messa a servizio di una piccola minoranza che sfrutta ed
opprime la grande massa; tutta l’educazione che si dà ai ragazzi si riassume in
una apoteosi della forza brutale; tutto l’ambiente in cui viviamo è un continuo
esempio di violenza, una continua suggestione alla violenza.
Il soldato, cioè l’omicida
professionale, è onorato, e sopra di tutti è onorato il re, la cui
caratteristica storica è quella di essere capo di soldati.
Colla forza brutale si
costringe il lavoratore a farsi derubare del prodotto del suo lavoro; colla
forza brutale si strappa l’indipendenza alle nazionalità deboli.
L’imperatore di Germania
eccita i suoi soldati a non dar quartiere ai Cinesi; il governo inglese tratta
da ribelli i Boeri che rifiutano di sottomettersi alla prepotenza straniera, e
brucia le fattorie, e caccia le donne dalle case, e perseguita anche i non
combattenti, e rinnova le gesta orribili della Spagna in Cuba; il Sultano fa
assassinare gli Armeni a centinaia di migliaia; il governo Americano massacra i
Filippini dopo averli vilmente traditi.
I capitalisti fan morire gli
operai nelle miniere, sulle ferrovie, nelle risaie per non fare le spese
necessarie alla sicurezza del lavoro, e chiamano i soldati per intimidire e
fucilare all’occorrenza i lavoratori che domandano di migliorare le loro
condizioni.
Ancora una volta, da chi
viene dunque la suggestione, la provocazione alla violenza? Chi fa apparire la
violenza come la sola via d’uscita dallo stato di cose attuale, come il solo
mezzo per non subire eternamente la violenza altrui?
Ed in Italia è peggio che
altrove. Il popolo soffre perennemente la fame; i signorotti spadroneggiano
peggio che nel Medioevo; il Governo .a gara coi proprietari, dissangua i
lavoratori per arricchire i suoi e sperperare il resto in imprese dinastiche; la
polizia è arbitra della libertà dei cittadini, ed ogni grido di protesta, ogni
benché sommesso lamento è strozzato in gola dai carcerieri, e soffocato nel
sangue dai soldati.
Lunga è la lista dei
massacri: da Pietrarsa a Conselica, a Calatabiano, alla Sicilia, ecc.
Solo due anni or sono le
truppe regie massacrarono il popolo inerme; solo alcuni giorni or sono le regie
truppe han portato ai proprietari di Minella il soccorso delle loro baionette e
del loro lavoro forzato, contro i lavoratori famelici e disperati.
Chi è il colpevole della
ribellione, chi è il colpevole della vendetta che di tanto in tanto scoppia: il
provocatore, l’offensore o chi denunzia l’offesa e vuole eliminarne le cause?
Ma, dicono, il re non è
responsabile!
Noi non pigliamo certo sul
serio la burletta delle finzioni costituzionali. I giornali “liberali” che ora
argomentano sulla irresponsabilità del re, sapevano bene, quanto si trattava di
loro, che al di sopra del parlamento e dei ministri, vi era un’influenza
potente, un”alta sfera” a cui i regi procuratori non permettevano di fare troppo
chiare allusioni. Ed i conservatori, che ora aspettano una “nuova era”
dall’energia del nuovo re, mostrano di sapere che il re, almeno in Italia, non è
poi quel fantoccio che ci vorrebbero far credere quando si tratta di stabilire
le responsabilità. E d’altronde, anche se non fa il male direttamente, è sempre
responsabile di esso, un uomo che potendo, non lo impedisce ‑ed il re è capo dei
soldati e può sempre, per lo meno, impedire che i soldati facciano fuoco sopra
popolazioni inermi. Ed è pur anche responsabile chi non potendo impedire un
malie, lascia che si faccia in nome suo, piuttosto che rinunziare ai vantaggi
del posto.
È vero che se si prendono in
conto le considerazioni di eredità, di educazione, di ambiente, la
responsabilità personale dei potenti si attenua di molto e forse sparisce
completamente. Ma allora, se è irresponsabile il re dei suoi atti e delle sue
omissioni, sÈmalgrado l’oppressione, lo spogliamento il massacro del popolo
fatto in suo nome, egli avrebbe dovuto restare al primo posto del paese, perché
mai sarebbe responsabile il Bresci? Perché mai dovrebbe il Bresci scontare con
una vita di inenarrabili patimenti un atto che, per quanto si voglia giudicare
sbagliato, nessuno può negare essere stato ispirato da intenzioni altruistiche?
Ma questa questione della
ricerca delle responsabilità c’interessa mediocremente.
Noi non crediamo nel diritto
di punire, noi respingiamo (idea di vendetta come sentimento barbaro: noi non
intendiamo essere giustizieri, nè vendicatori. Più santa, più nobile, più
feconda ci pare la missione di liberatori e di pacificatori.
Ai re, agli oppressori, agli
sfruttatori noi tenderemmo volentieri la mano, quando soltanto essi volessero
tornare uomini fra gli uomini, uguali tra gli uguali. Ma intanto che essi si
ostinano a godere dell’attuale ordine di cose ed a difenderlo colla forza,
producendo così il martirio, 1’abbrutimento e la morte per stenti a milioni di
creature umane, noi siamo nella necessità, siamo nel dovere di opporre la forza
alla forza.
Opporre la forza alla forza!
Vuol dire ciò che noi ci
dilettiamo in complotti melodrammatici e siamo sempre nell’atto o
nell’intenzione di pugnalare un oppressore?
Niente affatto. Noi aborriamo
alla violenza per sentimento e per principio, e facciamo sempre il possibile per
evitarla: solo la necessità di resistere al male coi mezzi idonei ed efficaci ci
può indurre a ricorrere alla violenza.
Sappiamo che questi fatti di
violenza singola, senza sufficiente preparazione nel popolo restano sterili e
spesso , provocando reazioni a cui si è incapaci a resistere, producono dolori
infiniti e fanno male alla causa stessa a cui intendevano servire.
Sappiamo che l’essenziale,
l’indiscutibilmente utile si è, non già l’uccidere la persona di un re, ma
l’uccidere tutti i re ‑ quelli delle corti, dei parlamenti e delle officine ‑
nel cuore e nella mente della gente; di sradicare cioè la fede nel principio di
autorità a cui presta culto tanta parte del popolo.
Sappiamo che meno la
rivoluzione è matura e più essa riesce sanguinosa ed incerta.
Sappiamo che, essendo la
violenza sorgente di autorità, anzi essendo in fondo tutta una cosa col
principio di autorità, più la rivoluzione sarà violenta e più vi sarà pericolo
ch’essa dia origine a nuove forme di autorità.
E perciò ci sforziamo di
acquistare, prima di adoperare le ultime ragioni degli oppressi, quella forza
morale e materiale che occorre per ridurre al minimo la violenza necessaria ad
abbattere il regime di violenza a cui oggi l’umanità soggiace.
Ci si lascerà in pace al
nostro lavoro di propaganda, di organizzazione, di preparazione rivoluzionaria?
In Italia c’impediscono di
parlare, di scrivere, di associarci. Proibiscono agli operai di unirsi e lottare
pacificamente, nonché per l’emancipazione, nemmeno per migliorare in minime
proporzioni le loro incivili ed inumane condizioni di esistenza. Carceri
domicilio coatto, repressioni sanguinose sono i mezzi che si oppongono non solo
a noi anarchici, ma a chiunque osa pensare ad una più civile condizione di cose.
Che meraviglia, se perduta la
speranza di poter combattere con profitto per la propria causa, degli animi
ardenti si lasciano trasportare ad atti di giustizia vendicativa?
Le misure di polizia, di cui
sono sempre vittime i meno pericolosi; la ricerca affannosa di inesistenti
istigatori, che appare grottesca a chiunque conosce un poco lo spirito dominante
tra gli anarchici, le mille buffe proposte di sterminio avanzate da dilettanti
di poliziottismo, non servono che a mettere in evidenza il fondo selvaggio che
cova nell’animo delle classi governanti.
Per eliminare totalmente la
rivolta sanguinosa delle vittime, non vi è altro mezzo che l’abolizione
dell’oppressione, mediante la giustizia sociale.
Per diminuirne ed attuarne
gli scoppi non v’è altro mezzo che lasciare a tutti la libertà di propaganda e
di. organizzazione; che lasciare ai diseredati, agli oppressi, ai malcontenti,
la possibilità di lotte civili; che dar loro la speranza di poter conquistare,
sia pur gradualmente, la propria emancipazione per vie incruente.
II governo d’Italia non ne
farà nulla continuerà a reprimere ... e continuerà a raccogliere quello che
semina.
Noi, pur deplorando la cecità
dei governanti che imprime alla lotta un’asprezza non necessaria, continueremo a
combattere per una società in cui sia eliminata ogni violenza, in cui tutti
abbiano pane, libertà, scienza, in cui l’amore sia la legge suprema della vita.
d.
Errori e rimedi
Vi è oggi tanta gente varia
che si chiama anarchica, e col nome di anarchia si espongono tante idee
disparate e contraddittorie, che davvero avremmo torto di meravigliarci quando
il pubblico che è nuovo alle idee, e non può a prima giunta distinguere le
grandi differenze che si nascondono sotto il velo di una parola comune, resta
sordo alla nostra propaganda e ci guarda con sospetto.
Noi non possiamo naturalmente
impedire agli altri di prendere il nome che vogliono; né l’abbandonar noi il
nome di anarchici servirebbe ad altro che ad aumentare la confusione, poiché il
pubblico penserebbe che noi abbiamo semplicemente voltato bandiera.
Tutto ciò che possiamo, e cioè che dobbiamo
fare, si è di distinguerci nettamente da coloro che dell’anarchia hanno un
concetto diverso dal nostro, o che dallo stesso concetto teorico tirano
conseguenze pratiche opposte a quelle che ne tiriamo noi. E la distinzione deve
risultare dall’esposizione chiara della nostra morale senza nessun riguardo di
persone e di partito. Poiché questa pretesa solidarietà di partito, fra gente
che poi non apparteneva e non avrebbe potuto appartenere allo stesso partito, è
stata appunto una delle cause principali della confusione. E si è arrivati a tal
punto che molti esaltano nei “compagni” quelle stesse azioni che vituperano nei
borghesi; e sembra che il loro unico criterio del bene e del male sia questo: se
l’autore dell’atto che si giudica prende il nome di anarchico, o no.
Molti sono gli errori che
hanno menato gli uni a mettersi in completa contraddizione coi principii che
teoricamente professano, e gli altri a sopportare queste contraddizioni; come
molte sono le cause che hanno attirata in mezzo a noi della gente che in fondo
se ne ride del socialismo e dell’anarchia, e di tutto ciò che sorpassa
gl’interessi delle loro persone.
Io non posso intraprendere
qui un esame metodico e completo di questi errori. Solo accennerò ad alcuni di
essi così come mi si presenteranno alla mente.
prima di tutto parliamo di
morale.
È cosa comune trovare degli
anarchici che “negano la morale”. Al principio è un semplice modo di dire per
significare che, dal punto di vista teorico, non ammettono una morale assoluta,
eterna, immutabile, e che, nella pratica, si ribellano contro la morale borghese
che sanziona lo sfruttamento delle masse e condanna quegli atti che tornano a
pericolo e danno dei privilegiati. Ma poi, poco a poco, come suole avvenire in
tante altre cose, prendono la figura retorica per l’espressione della verità.
Dimenticano che nella morale corrente, oltre le regole che sono inculcate dai
preti e dai padroni nell’interesse del loro dominio, si trovano pure, e ne sono
in realtà la parte maggiore e sostanziale, anche quelle regole che sono la
conseguenza e la condizione di ogni coesistenza sociale; dimenticano che il
ribellarsi contro ogni regola imposta colla forza non vuol dire niente affatto
rinunziare ad ogni ritegno morale e ad ogni sentimento di obbligazione verso gli
altri; dimenticano che per combattere ragionevolmente una morale, bisogna
opporle, in teoria ed in pratica, una morale superiore; e, per poco che il
temperamento e le circostanze aiutino, finiscono col divenire immorali nel senso
assoluto della parola, cioè uomini senza regola di condotta, senza criterio per
guidarsi nelle loro azioni, che cedono passivamente all’impulso del momento.
Oggi si leveranno il pane di bocca per soccorrere un compagno, domani
ammazzeranno un uomo per andare al bordello! . . .
Altra fonte di errori e di
colpe gravissime è stato il modo come si è interpretato da molti la teoria della
violenza.
La società attuale si
mantiene colla forza delle armi. Mai nessuna classe oppressa è riuscita ad
emanciparsi senza ricorrere alla violenza; mai le classi privilegiate han
rinunciato ad una parte, sia pur minima, dei loro privilegi, se non per forza, o
per paura della forza. Le istituzioni sociali attuali sono tali che applica
impossibile di trasformarle per via di riforme graduali e pacifiche; e la
necessità di una rivoluzione violenta che, violando, distruggendo la legalità,
fondi la società umana sopra basi novelle, s’impone. L’ostinazione, la brutalità
con cui la borghesia risponde ad ogni più anodina domanda del proletariato,
dimostrano la fatalità della rivoluzione violenta. Dunque è logico, è necessario
che i socialisti e specialmente gli anarchici, siano un partito rivoluzionario e
prevedano e affrettino la rivoluzione.
Ma disgraziatamente c’è negli
uomini una tendenza a scambiare il mezzo col fine; e la violenza, che per noi è
e deve restare una dura necessità, è diventata per molti quasi lo scopo unico
della lotta. La storia è piena di esempi di uomini che, avendo cominciato a
lottare per uno scopo elevato, hanno poi nel calore della mischia smarrito ogni
controllo sopra loro stessi, han perduto di vista lo scopo e son diventati dei
feroci massacratori. E, come lo dimostrano fatti recenti, molti anarchici non
sono sfuggiti a questo terribile pericolo della lotta violenta. Irritati dalle
persecuzioni, ammattiti dagli esempi di cieca ferocia che dà ogni giorno la
borghesia, essi han cominciato ad imitare l’esempio dei borghesi; ed allo
spirito d’amore è subentrato lo spirito di vendetta, lo spirito di odio. E
l’odio e la vendetta essi, al par dei borghesi, han chiamato giustizia Poi, per
giustificare quegli atti, che pur potevano spiegarsi come effetti delle orribili
condizioni del proletariato e servire come una ragione di più per invocare la
distruzione di un ordine di cose che produce così tristi risultati, alcuni han
cominciato a formulare le più strane, le più fanatiche, le più autoritarie
teorie; e non badando alla contraddizione, le han presentate come un nuovissimo
progresso dell’idea anarchica . . .
D’altra parte un errore,
opposto a quello in cui cadono i terroristi,minaccia il movimento anarchico. Un
po’ per reazione contro l’abuso che in questi ultimi anni si è fatto della
violenza, un po’ per la sopravvivenza delle idee cristiane, e soprattutto per
l’influenza della predicazione mistica di Tolstoj, alla quale il genio e le alte
qualità morali dell’autore dan voga e prestigio, incomincia ad acquistare una
certa importanza fra gli anarchici il partito della resistenza passiva, il quale
ha per principio che bisogna lasciare opprimere e vilipendere se stesso e gli
altri piuttosto che far del male all’aggressore. È quello che è stato chiamato
l’anarchia passiva. . .
È curioso osservare come i
terroristi ed i tolstoisti, appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici,
arrivano a conseguenze pratiche presso che uguali. Quelli non esiterebbero a
distruggere mezza umanità pur di far trionfare l’idea: questi lascerebbero che
tutta l’umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che
violare un principio.
Per me, io violerei tutti i
principii del mondo pur di salvare un uomo: il che sarebbe poi infatti
rispettare il principio, poiché, secondo me, tutti principii morali e
sociologici si riducono a questo solo: il bene degli uomini, di tutti gli
uomini.
e. Il
furto come arma di guerra
In tutti i tempi gli eserciti
belligeranti ed i partiti rivoluzionari hanno considerato atto di buona guerra
l’impossessarsi a danno del nemico di tutto ciò che può facilitare la vittoria e
quindi anche del denaro, che si suol dire essere il nerbo della guerra.
È permesso agli anarchici,
che stanno sempre, almeno intenzionalmente, in guerra guerreggiata con la classe
capitalistica, è permesso agli anarchici, in coerenza coi loro principi,
togliere ai ricchi della roba (denaro e oggetti preziosi) per servirsene per la
propaganda, per l’armamento e per tutti i. bisogni della lotta? E non potendo
requisire il denaro apertamente, in guerra dichiarata, è permesso impadronirsene
di nascosto, adoperando quelle che possono chiamarsi astuzie di guerra in una
parola rubando?
Teoricamente non pare che vi
possa esser dubbio sul diritto di adoperare, in una guerra giusta, tutti i mezzi
atti a facilitare ed assicurare la vittoria senza ledere il sentimento di
umanità. Ma bisogna vedere se un mezzo è poi realmente utile, se ciò che è
moralmente permesso è praticamente consigliabile.
Il metodo (il furto per la
propaganda) è stato in vari paesi ed in varie epoche predicato e praticato da
speciali gruppi anarchici; ma ha dato sempre frutti disastrosi.
E potrei dire lo stesso di
altri partiti e di epoche gloriose nella storia d’Italia, ma preferisco non
occuparmi qui che delle cose nostre.
Il denaro corrompe e corrompe
pure la necessità di nascondere il proprio essere, di fingere, d’ingannare, di
adoperare quelle arti necessarie al ladro se non vuole andare in prigione come
un imbecille.
Quanti giovani generosi,
quante belle nature si sono sciupate per questa fisima del rubare per la
propaganda!
S’incomincia col ricercare la
compagnia dei ladri di mestiere, perché anche il rubare è un mestiere che
bisogna imparare. Si perde l’abitudine e poi la voglia di lavorare, e quindi sul
prodotto del furto bisogna prelevare la quota per alimentare il ladro: alla
propaganda va quel che resta, se ce ne resta. E coll’abitudine del non lavorare
viene il gusto del lusso e dell’orgia, e si finisce col dimenticare le idee, la
propaganda, i principi, e si diventa un ladro volgare.
Peggio ancora: s’icomincia a
trattare i propri compagni come vigliacchi perché si lasciano sfruttare
lavorando, la massa come disprezzabile gregge, e si finisce col dire: “chi vuole
emanciparsi faccia come me, rubi”, “io la mia rivoluzione l’ho fatta, faccian
gli altri la loro”, e si diventa dei borghesi come e peggio degli altri.
E questo solo per quei pochi
che hanno fortuna e riescono a fare il colpo grosso. Gli altri consumano la vita
in piccole truffe, furterelli meschini fatti preferibilmente a danno dei poveri,
perché rubare ai poveri è più facile e meno pericoloso, o a danno dai compagni
perché i compagni non denunciano alla polizia.
I migliori quelli che
riescono a salvarsi dalla peggiore decadenza morale son quelli che si fan
cogliere all’inizio della carriera e vanno in galera prima di essersi
completamente corrotti.
Vi possono essere delle
eccezioni individuali: io stesso ne potrei citare se l’argomento non fosse così
delicato.
Ma il certo si è che in tutti
gli ambienti in cui è stato ammesso il furto per la propaganda è entrata la
corruzione, la sfiducia tra compagni la maldicenza, il sospetto e quindi
l’inerzia e la dissoluzione. E le spie hanno avuto buon giunco, perché non si è
più avuto il modo di controllare quali sono i mezzi di vita di ciascuno.
No, meglio la penuria di
mezzi, meglio il soldino versato e raccolto con fatica che dà al lavoratore
l’orgoglio di concorrere col proprio sforzo all’opera comune, anziché, per la
speranza quasi sempre illusoria della grossa somma, correre il rischio di veder
corrompersi e sparire alcuni tra i compagni più energici e più intraprendenti.
3. LA
LEZIONE DEI FATTI
a. La
tattica rivoluzionaria
Noi dobbiamo mescolarci più
ch’è possibile alla vita popolare: incoraggiare e spingere tutti i movimenti che
contengono un germe di rivolta materiale o morale e abituano il popolo a fare i
suoi interessi da sé e a non fidare che nelle proprie forze; ma senza perdere
mai di vista che la rivoluzione per l’espropriazione e la messa in comune della
proprietà e la demolizione del potere sono la sola salute del proletariato e
dell’umanità e che per conseguenza ogni cosa è buona o cattiva a seconda che
essa avvicini o allontani, faciliti o renda più difficile tale rivoluzione.
Applichiamo ciò alla
questione degli scioperi. Noi siamo caduti a tal proposto, com’è un po’ la
nostra abitudine, da una esagerazione in un’altra.
Tempo addietro, convinto che
lo sciopero è impotente, non solo per emancipare, ma anche per migliorare in
modo permanente la sorte. dei lavoratori, noi trascuravamo troppo il lato
morale della questione e, meno che in qualche regione, abbiamo lasciato questo
mezzo potente di propaganda e di agitazione quasi totalmente ai socialisti
autoritari e agli addormentatoci.
Cessata quell’indifferenza in
seguito ai grandi scioperi di questi ultimi tempi e specialmente dopo lo
sciopero del porto di Londra che fece pensare che se gli uomini che lo guidarono
avessero avuta una chiara concezione rivoluzionaria e non ne avessero temuto le
responsabilità, si sarebbe potuto condurre i lavoratori dei docks a marciare sui
quartieri ricchi ed a fare la rivoluzione; si manifesta ora una tendenza
all’eccesso opposto, cioè ad attendere tutto dagli scioperi e quasi a confondere
lo sciopero con la rivoluzione.
Questa tendenza è molto
pericolosa, poiché essa fa nascere delle speranze chimeriche e la cui pratica
sarebbe, non dico certo altrettanto corruttrice, ma pure fallace e
addormentatrice come lo stesso parlamentarismo.
Si predica lo sciopero
generale e sta benissimo: ma si ha torto, secondo me, quando s’immagina e si
dice che lo sciopero generale è la rivoluzione. Esso sarebbe solo un’occasione
magnifica per fare la Rivoluzione, ma niente di più. Esso potrebbe trasformarsi
in rivoluzione, ma solo se i rivoluzionari avessero abbastanza influenza, forza
e spirito d’iniziativa per trascinare i lavoratori sulla via dell’espropriazione
e dell’attacco armato, prima che lo snervamento della fame e lo sgomento del
massacro o le concessioni dei padroni non vengano a demoralizzare gli
scioperanti e a ridurli in quello stato d’animo, così facile a prodursi tra le
masse, nel quale si vuole sottomettersi ad ogni costo, e si considera come un
nemico, un pazzo o un agente provocatore chiunque spinge alla lotta ad oltranza.
Io considero del resto come
irrealizzabile un vero sciopero generale nelle condizioni economiche e morali
attuali del proletariato universale; e credo che la rivoluzione sarà fatta molto
prima che un tale sciopero possa prodursi. Ma di grandi scioperi se ne producono
già e con l’attività e dell’accordo si può provocarne di più grandi ancora; e
potrebbe darsi che sia quella la forma con cui comincerà, almeno nei paesi
industriali, la Rivoluzione sociale. Bisogna dunque star sul chi vive per
profittare di tutte le occasioni che possono presentarsi.
Lo sciopero non deve più
essere la guerra delle braccia incrociate.
I fucili e tutti gli ordigni
per l’attacco e la difesa che la scienza mette a nostra disposizione, lungi
dall’essere resi inutili dagli scioperi, restano sempre strumenti di
liberazione, che negli scioperi trovano soltanto una buona occasione per essere
utilmente adoperati
b.
Andiamo fra il popolo
Confessiamolo subito: gli
anarchici non si sono mostrati all’altezza della situazione.
Se si toglie il moto di
Carrara che ha dato prova si del loro coraggio e della loro devozione alla
causa, ma anche dell’insufficienza della loro organizzazione, appena si sarebbe
parlato degli anarchici in tanto commuoversi di popolo in Sicilia ed in altre
parti d’Italia.
Dopo aver tanto gridato di
rivoluzione, la rivoluzione arriva, e noi siamo stati disorientati e siam
restati presso che inerti.
Può essere doloroso il
confessarlo, ma il tacerlo e nasconderlo sarebbe tradire la causa, e continuare
negli errori che ci han condotti a questo punto.
È tempo di ravvederci!
La causa principale, secondo
noi, di questa nostra decadenza è l’isolamento in cui quasi dappertutto siamo
caduti.
Per un complesso di cause,
che ora sarebbe troppo lungo esaminare, gli anarchici, dopo la dissoluzione
dell’Internazionale, perdettero il contatto delle masse e si andavano man mano
riducendo in piccoli gruppi, occupati solo a discutere eternamente e, purtroppo
a dilaniarsi tra loro, o
tutt’al più a fare un po’ di guerra ai socialisti legalitari.
Contro questo stato di cose
si è tentato più volte di reagire con più o meno successo. Ma quando si credeva
di poter infine ricominciare un lavoro serio ed a larga base, ecco che venner
fuori alcuni compagni i quali, per una malintesa intransigenza, elevarono
l’isolamento a principio, e secondati dall’indolenza e dalla timidezza di tanti,
che trovavano in quella “teoria” una comoda scusa per non far nulla e non
correre nessun rischio, riuscirono a ricacciarci nell’impotenza.
Per opera di quei compagni,
molti dei quali ci compiacciamo di riconoscerlo, sono pur animati dalle migliori
intenzioni, il lavoro di propaganda e di organizzazione è diventato una cosa
impossibile.
Volete entrare in
un’associazione operaia? Maledizione! Non giova per il verbo anarchico: ogni
buon anarchico se ne deve tener lontano come dalla peste.
Volete fondare
un’associazione dei lavoratori per abituarli a lottare solidariamente contro i
padroni? Tradimento! un buon anarchico non deve associarsi che con anarchici
convinti, vale a dire deve star sempre cogli stessi compagni, e se vuol fondare
associazioni, non può che dar nomi diversi a un gruppo, composto sempre dalla
stessa gente.
Cercate di organizzare e
sostenere scioperi? Mistificazioni, palliativi!
Tentate manifestazioni ed
agitazioni popolari? Pagliacciate!
Insomma tutto quello che è
permesso di fare per la propaganda si è qualche conferenza, dove il pubblico non
viene se non è attirato dalle doti eccezionali di un oratore, qualche stampato,
che è letto sempre dallo stesso circolo di gente; e la mo a uomo, se sapete,
trovar chi vi ascolti. E propaganda da uomo a uomo,se sapete trovar chi vi
ascolta.
E con questo un gran vociare
di rivoluzione: ‑ rivoluzione che, predicata così, diventa come il paradiso dei
cattolici, una promessa di là di venire, che vi addormenta in un’inerzia beata
fino a che ci credete e vi lascia scettici ed egoisti, quando la fede vi sfugge.
Ed intanto intorno a noi il
popolo si agita e segue altre correnti; ed i socialisti legalitari ci vincon la
mano ed hanno spesso successi, anche in quei paesi dove come in Italia, il
socialismo è stato per la prima volta bandito e popolarizzato da noi, e dove noi
vantiamo non ingloriose tradizioni di lotte e di sacrifici sostenuti con
costanza e fierezza.
Questa è una tattica
micidiale che equivale al suicidio. La rivoluzione non si fa in quattro gatti.
Degl’individui e dei gruppi isolati possono fare un po’ di propaganda; dei colpi
audaci, delle bombe e simili cose, se fatte con retto criterio (il che purtroppo
non è sempre q caso) possono attirare l’attenzione pubblica sui mali dei
lavoratori e sulle nostre idee, possono sbarazzarci di qualche ostacolo potente;
mala rivoluzione non si fa che quando il popolo scende in piazza. E se noi
vogliamo farla bisogna che attirammo a noi la folla, quanto più folla è
possibile.
Ed è anche, questa tattica
dell’isolamento, contraria ai nostri principi ed allo scopo che ci proponiamo.
La rivoluzione, come noi la
vogliamo, deve essere il comincia mento della partecipazione attiva, diretta,
vera delle masse, cioè di tutti, alla organizzazione ed alla gerenza della vita
sociale. Se per impossibile, la rivoluzione potesse essere fatta da noi soli,
non sarebbe la rivoluzione anarchica poiché allora saremmo i padroni noi ed il
popolo, disorganizzato e quindi impotente ed incosciente, spetterebbe gli ordini
nostri, Ed allora tutta l’anarchia si ridurrebbe ad una vana dichiarazione di
principi mentre in pratica sarebbe sempre una piccola frazione che si servirebbe
delle forze cieche della massa incosciente e sommessa per imporre le proprie
idee: ‑ e questo è l’essenza stessa dell’autorità.
Figuriamoci che domani con un
colpo di mano potessimo, da noi soli, senza il concorso delle masse, sconfiggere
il governo e restare padroni della situazione. Le masse che non avrebbero
preso parte alla lotta e non avrebbero sperimentata la potenza delle loro
forte, applaudirebbero ai vincitori e resterebbero inerti ad attendere che noi
dessimo loro tutto il benessere che loro promettiamo.
Che cosa faremmo noi? O
assumere di fatto se non di diritto, la dittatura, il che vorrebbe dire
riconoscere l’inattuabilità delle nostre idee antigovernative e dichiararsi
sconfitti in quanto anarchici o fare “per viltade il gran rifiuto”; ritirarci
protestando il nostro sacro orrore del nostro comando, e lasciare che il comando
lo prendano i nostri avversari.
Fu così che avvenne per
ragioni del resto alquanto diverse agli anarchici spagnoli nei moti del 1873.
Per un concorso di circostanze, si trovarono padroni della situazione in varie
città, come per es. in S. Lucas de Barrameda e Cordova: il popolo non faceva
nulla da sé ed aspettava che qualcuno comandasse il da farsi; gli anarchici non
vollero prendere il comando perché ciò era contrario ai loro principi ... ed
allora subentrò la reazione repubblicana prima, monarchica poi, che ristabilì il
vecchio regime coll’aggravante delle persecuzioni, arresti e massacri in massa.
Andiamo tra il popolo: questa
è l’unica via di salvezza. Ma non vi andiamo con la boria burbanzosa di persone
che pretendono possedere il verbo infallibile e disprezzano dall’alto della loro
pretesa infallibilità chi non divide le loro idee. Andiamoci per affratellarci
coi lavoratori, per lottare con loro, per sacrificarsi per loro. Per avere il
diritto, per avere la possibilità di reclamare dal popolo lo slancio e lo
spirito di sacrifico necessario nelle grandi giornate di battaglia decisiva,
bisogna aver dato al popolo prova di sé, bisogna esserci mostrati primi per
coraggio e per abnegazione nelle sue piccole lotte quotidiane. Entriamo in tutte
le associazioni di lavoratori, fondiamone più che possiamo, provochiamo
federazioni sempre più vaste, sosteniamo ed organizziamo scioperi, propaghiamo
dappertutto con tutti i mezzi, lo spirito di cooperazione e di solidarietà tra i
lavoratori.
E guardiamoci dal disgustarci
perché spesso i lavoratori non comprendono o non accettano tutti i nostri ideali
e stanno attaccati a vecchio forme ed a vecchi pregiudizi.
Noi non possiamo e non
vogliamo aspettare, per far la rivoluzione, che le masse siano diventate
socialiste‑anarchiche con piena coscienza. Noi sappiamo che finché dura
l’attuale ordinamento economico politico della società, l’immensa maggioranza
del popolo è condannata all’ignoranza ed all’abbrutimento e non è capace che di
ribellioni più o meno cieche. Bisogna distruggere quest’ordinamento, facendo la
rivoluzione come si può, colle forze che troviamo nella vita reale.
A maggior ragione noi non
possiamo aspettare per organizzare i lavoratori ch’essi siano prima diventati
anarchici. Come farebbero a diventarlo se lasciati soli, col sentimento
d’impotenza che viene loro dall’isolamento?
Come anarchici noi dobbiamo
organizzarci tra noi, tra gente perfettamente convinta e concorde: ed intorno a
noi dobbiamo organizzare, in associazioni larghe, aperte, quanti più lavoratori
è possibile, accettandoli quali essi sono e sforzandoci di farli progredire il
più che si può.
Come lavoratori noi dobbiamo
essere sempre e dappertutto coi nostri compagni di fatica e di miseria.
Ricordiamoci che il popolo di
Parigi incominciò a domandare pane al re fra applausi e lacrime di tenerezza, e
due anni dopo,avendone, come era naturale, ricevuto piombo invece di pane lo
aveva già decapitato. E ieri ancora il popolo di Sicilia è stato sul punto di
fare la rivoluzione pur plaudendo al re ed a tutta la sua famiglia.
Quegli anarchici che hanno
combattuto e ridicolizzato il movimento dei “fasci”, perché essi non erano
organizzati come vorremmo noi, perché spesso si intitolavano da “Maria
Immacolata” Perché avevano nelle loro sale il busto di Cario piuttosto che
quello di Bakunin, ecc. avere né senso né spirito rivoluzionario.
Noi non siamo teneri, oh! no,
per coloro che corrompono tutto col veleno parlamentare, che tutto riducono a
questione di candidature e che (in buona o in mala fede, non importa) vorrebbero
fare del popolo un gregge volante. Ma non è fare il giunco di questi aspiranti
deputati, e, peggio ancora, non è fare il giunco della borghesia e del governo
il predicare il disgrega mento ed il lasciare in mano loro tutte le forze
organizzate de proletariato?
Ravvediamoci. Il momento è
solenne. Noi siam giunti ad uno di quei momenti critici della storia umana, che
decidono di tutto un nuovo periodo. Da noi, che abbiamo scritto sulla nostra
bandiera le parole redentrici ed inseparabili di socialismo e di anarchia,
dipendono il successo e indirizzo del prossima rivoluzione.
c. Il
nostro compito
(…) Che cosa dobbiamo fare
per metterci in grado di fare la rivoluzione nostra, la rivoluzione contro ogni
privilegio ed ogni autorità, e vincere?
La tattica migliore sarebbe
di fare sempre e dappertutto la propaganda delle nostre idee; di sviluppare nei
proletari, con tutti i mezzi possibili, lo spirito di associazione e di
resistenza e di suscitare in loro sempre crescenti pretensioni; di combattere
continuamente tutti i partiti borghesi e tutti i partiti autoritari restando
indifferenti alle loro querele; di organizzarci fra quanti sono convinti e si
van convincendo delle nostre idee, e provvederci dei mezzi materiali necessari
alla lotta; e quando fossimo arrivati ad aver la forza sufficiente per vincere,
insorgere da soli, per conto nostro esclusivo, per attuare tutto intero il
nostro programma, o più propriamente per conquistare a ciascuno f intera libertà
di sperimentare, praticare ed andare man mano modificando il modo di vita
sociale ch’egli crede migliore.
Ma, purtroppo, questa tattica
non può essere sempre rigorosamente seguita ed è impotente a raggiungere lo
scopo. La propaganda non ha che un’efficacia limitata, e quando in un dato
ambiente si sono assorbiti tutti gli elementi capaci per le loro condizioni
morali e materiali di comprendere ed accettare un dato ordine d’idee, poco più
si può fare colla parola e cogli scritti fino a che una trasformazione
dell’ambiente non abbia sollevato un nuovo strato della popolazione alla
possibilità di apprezzare quelle idee. L’efficacia dell’organizzazione operaia è
essa pure limitata dalle ragioni stesse che si oppongono all’estendersi
indefinito della propaganda; nonché da fatti economici e morali d’ordine
generale che affievoliscono o neutralizzano del tutto gli effetti della
resistenza dei lavoratori coscienti.
Una forte e vasta
organizzazione nostra per la propaganda e per la lotta incontra mille ostacoli
in noi stessi, nella nostra mancanza di mezzi e soprattutto nelle repressioni
governative. Ed anche supponendo che fosse possibile col tempo di arrivare, per
mezzo della propaganda e dell’organizzazione, ad aver la forza per fare la
rivoluzione da noi, direttamente per il socialismo anarchico, si producono tutti
i giorni, e ben prima che noi si sia giunti ad avere quella forza, delle
situazioni politiche nelle quali siamo obbligati ad intervenire sotto pena non
solo di rinunziare ai vantaggi che se ne possono ricavare, ma anche di perdere
ogni influenza sul popolo, di distruggere una parte del lavoro e di rendere più
difficile il lavoro futuro.
Il problema dunque è di
trovare il mezzo per determinare per quanto sia in noi quelle modificazioni di
ambiente necessarie al progresso della nostra propaganda e di. profittare delle
lotte fra i vari partiti politici e di tutte le occasioni che si presentano
senza rinunziare a nessuna parte del nostro programma ed in modo da facilitare
ed avvicinare il trionfo.
In Italia, per esempio, la
situazione è tale che è possibile, è probabile, in un tempo più o meno breve una
insurrezione contro la Monarchia. Ma è certo d’altra parte che il risultato di
questa prossima insurrezione non sarà il socialismo anarchico.
Dobbiamo noi prendere parte
alla preparazione ed alla realizzazione di questa insurrezione e come?
Vi sono alcuni compagni i
quali pensano che noi non abbiamo nessun interesse a mischiarci in un movimento,
i1 quale lascerà intatta (istituzione della proprietà privata e servirà solo a
sostituire un governo ad un altro, a fare cioè una repubblica, la quale non
sarebbe meno borghese e meno oppressiva di quello che è la monarchia. Lasciamo,
essi dicono, che i borghesi e gli spiranti al governo si rompano le corna tra di
loro, e noi continuiamo per la nostra strada, facendo sempre la propaganda anti‑proprietaria
ed anti‑autorítaria.
Ora la conseguenza di questa
astensione sarebbe, prima di tutto che (insurrezione senza il contingente delle
nostre forse avrebbe meno probabilità di vincere e quindi per causa nostra
potrebbe trionfare la monarchia, la quale, massime in questo momenti che
combatte per la vita ed è resa feroce dalla paura, preclude la via alla
propaganda ed a qualsiasi progresso. Di più, facendosi il movimento senza il
nostro concorso, noi non avremmo nessuna influenza sugli avvenimenti ulteriori,
non potremmo cavar nulla dalle occasioni che si presentano sempre nel periodo di
transizione tra un regime ed un altro, saremmo discreditati come partito di
azione e non potremmo per lunghi anni fare alcuna cosa d’importanza.
Non è il caso di lasciare che
i borghesi si battano tra di loro, perché in un movimento insurrezionale la
forza, per lo meno materiale, è sempre il popolo che la dà, e se noi non siamo
nel movimento dividendo coi combattenti i pericoli ed i successi e cercando di
trasformare il moto politico in rivoluzione sociale, esso popolo non servirà che
di strumento in mano agli ambiziosi che aspirano a dominarlo.
Invece, pigliando parte
all’insurrezione (insurrezione che non avremmo la forza di far da noi soli) e
pigliandovi la parte più grande possibile noi avremmo la simpatia del popolo
insorto, e potremmo spingere le cose più avanti che si può.
Noi sappiamo benissimo, e non
cessiamo mai di dirlo e di dimostrarlo, che repubblica e monarchia si
equivalgono e che tutti i governi hanno un’eguale tendenza ad allargare il loro
potere e ad opprimere sempre più i governati. Ma sappiamo pure che più un
governo è debole, che più è forte la resistenza ch’esso incontra nel popolo, e
più grande la libertà più è grande la possibilità i progredire. Contribuendo in
modo efficace alla caduta della monarchia noi potremmo opporci con più o meno
efficacia alla costituzione o alla consolidazione di una repubblica, potremmo
restare armati e negare ubbidienza al nuovo governo come potremmo qua e là fare
dei tentativi di espropriazione e di organizzazione anarchica e comunista della
società. Noi potremmo impedire che la rivoluzione si arresti al suo primo passo
e che le energie popolari, svegliate dall’insurrezione, si addormentìno di
nuovo. Tutte cose che non potremmo fare, per ovvie ragioni di psicologia
popolare, intervenendo dopo: quando l’insurrezione contro la monarchia si fosse
fatta ed avesse vinto senza di noi.
Spinti da queste ragioni,
altri compagni vorrebbero che noi lasciassimo da parte per il momento la
propaganda anarchica e ci occupassimo solo della lotta contro la monarchia, per
poi ad insurrezione vinta ricominciare il nostro lavoro speciale di anarchici. E
non pensano che se noi ci confondessimo oggi coi repubblicani, lavoreremmo a
beneficio della prossima repubblica, disorganizzeremmo le nostre file,
confonderemmo la mente dei nostri, e non avremmo poi, quando vorremmo, la forza
d’impedire che la repubblica si faccia e si fortifichi.
Fra questi due errori
opposti, la via che dobbiamo seguire ci pare chiara.
Noi dobbiamo concorrere con i
repubblicani, con i socialisti democratici e con qualsiasi partito
antimonarchico ad abbattere la monarchia: ma dobbiamo concorrervi come
anarchici, per gli interessi dell’anarchia senza scompaginare le nostre forze e
confonderle con quelle degli altri, e senza prendere nessun impegno che vada
oltre della cooperazione nell’azione militare.
Così solo possiamo, secondo
noi, avere, nei prossimi avvenimenti, tutti i vantaggi di un’alleanza cogli
altri partiti antimonarchici senza rinunziare a nessuna parte del nostro
programma.
4.
L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ANARCHICI
a.
Occorre
dividerci . . . per poi riunirci
Io tiro avanti aspettando il
momento in cui potrò spiegare, nel modo in cui credo utile, la mia attività e
preparandoci come meglio posso.
Questi giorni sono stato sul
punto di partire per l’Italia; ma subito le cose si sono calmate ed io ho
rinunziato a fare un viaggio che, secondo tutte le probabilità, si sarebbe
ridotto ad una semplice gita di piacere ... o di dispiacere. Naturalmente, se
ulteriori notizie mi persuaderanno che c’è da fare, vado subito.
Disgraziatamente noi siamo
ridotti in condizioni di non poter nulla fare, nulla iniziare da noi e dobbiamo
aspettare o l’iniziativa di altri partiti o il concorso di circostanze
completamente indipendenti da noi.
E ancora, quando queste
iniziative o queste circostanze si presentano noi ci troviamo impreparati,
disaccordi tra noi, impotenti ‑ e lasciamo che il buon momento passi, senza aver
fatto nulla.
Come uscire da questa
situazione? come ridiventare un partito che agisce e fa sentire la sua influenza
sul corso degli avvenimenti?
Ecco il problema. Ma per
risolverlo bisogna innanzi tutto intendersi sul significato di questo “noi” che
ripetiamo così spesso, senza sapere che vi è compreso e chi ne è escluso.
Oggi siamo in tanti a
chiamarci anarchici, ma v’è spesso tra un anarchico e l’altro tanta differenza
che ogni intesa è impossibile e sarebbe assurda. Sicché invece di cooperare
insieme allo stesso scopo, non riusciamo che a combatterci ed a paralizzarci gli
uni gli altri.
Bisogna innanzi tutto
dividerci per poi riunire insieme quelli che sono d’accordo ed hanno un terreno
comune di azione.
Sono degli anni che son
convinto di questo bisogno e che lo vado ripetendo; ma finora non sono riuscito
a nulla.
È incapacità mia? È colpa
delle circostanze? Forse c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Io non ho
perduto però la speranza di vedere iniziato un nuovo movimento che avesse in sé
le condizioni di vita e di successo che sono mancate a quel movimento che noi
stessi iniziammo un 20 o 25 anni or sono e che ora, secondo me, sta agonizzando.
Questo per la questione
generale. In quanto al caso speciale dell’Italia in questo momento, a me pare
che se i repubblicani volessero agire, noi non potremmo far di meglio che far
massa con loro. Una volta rotto il sonno in cui l’Italia pare caduta, potremmo
rialzare la nostra bandiera e continuare la lotta a modo nostro e per i nostri
ideali.
b.
Organizzatori e antiorganizzatori
Sono degli anni che si fa tra
gli anarchici un gran discutere su questa questione. E, come avviene spesso,
quando si piglia passione in una discussione ed alla ricerca della verità
subentra i] puntiglio di aver ragione, o quando le discussioni teoriche non sono
che un tentativo per giustificare una condotta pratica ispirata da altri motivi,
si è prodotta una grande confusione d’idee e di parole.
Ricordiamo di passaggio,
tanto per sbarazzarcene, le semplici questioni di parole, che a volte han
raggiunto le più alte cime del ridicolo, come per esempio: “noi non vogliamo
1’organizzazione ma l’armonizzazione “siamo contrari all’associazione, ma
ammettiamo l’intesa”noi non vogliamo segretario e cassiere, perché sono cose
autoritarie, ma incarichiamo un compagno di tenere la corrispondenza, ed un
altro di custodire il denaro “ ‑ e passiamo alla discussione seria.
Vi sono tra coloro che
rivendicano, con aggettivi vari o senza aggettivi, il nome di anarchici, due
frazioni: i partigiani e gli avversari dell’organizzazione.
Se non possiamo riuscire a
metterci d’accordo, cerchiamo almeno di comprenderci.
E prima di tutto
distinguiamo, poiché la questione è triplice: (organizzazione in generale come
principio e condizione di vita sociale, oggi e nella società futura;
l’organizzazione del partito anarchico; e l’organizzazione delle forze popolari
e specialmente quella delle masse operaie per la resistenza contro il governo e
contro il capitalismo.
La necessità
dell’organizzazione nella vita sociale, e quasi direi la sinonimia tra
organizzazione e società, è cosa tanto evidente che si stenta a credere come si
sia potuta negare.
Per rendersene conto bisogna
ricordare quale è la funzione specifica, caratteristica del movimento anarchico,
e come gli uomini e i partiti sono soggetti a lasciarsi assorbire dalla
questione che più direttamente li riguarda, dimenticando tutte le questioni
connesse, a guardare più la forma che la sostanza, infine a vedere le cose da un
lato solo e perdere così la giusta nozione della realtà.
Il movimento anarchico
cominciò come reazione contro lo spirito di autorità, dominante nella società
civile, nonché in tutti i partiti e tutte le organizzazione operaie, e si è
andato ingrossando man mano di tutte le rivolte sollevatesi contro le tendenze
autoritarie ed accentratrici.
Era naturale quindi che molti
anarchici fossero come ipnotizzati da questa lotta contro l’autorità e che,
credendo, per 1’ influenza dell’educazione autoritaria ricevuta, che l’autorità
è (anima della organizzazione sociale, per combattere quella combattessero e
negassero questa.
E veramente l’ipnotizzazione
arrivò al punto da far sostenere cose veramente incredibili.
Si combatte ogni sorta di
cooperazione e di intesa, ritenendo che l’associazione era l’antitesi
dell’anarchia, si sostenne che senza accordi, senza obblighi reciproci, facendo
ognuno quello che gli passa per il capo senza nemmeno informarsi di quello che
fa l’altro, tutto si sarebbe spontaneamente armonizzato; che anarchia significa
che ogni uomo deve bastare a sé stesso e farsi da sé tutto quello che gli
occorre senza scambio e senza lavoro associato; che le ferrovie potevano
funzionare benissimo senza organizzazione, anzi che questo avveniva di già in
Inghilterra (!); che la posta non era necessaria e che chi a Parigi voleva
scrivere una lettera a Pietroburgo ... se la poteva portare da sé (!!), ecc.
ecc.
Ma queste sono sciocchezze,
si dirà, e non vale la pena di rilevarle.
Si, ma queste sciocchezze
sono state dette, stampate propagate: sono state accolte da gran parte del
pubblico come l’espressione genuina delle idee anarchiche; e servono sempre come
armi di combattimento agli avversari, borghesi e non borghesi, che vogliono aver
di noi una facile vittoria. E poi quelle sciocchezze non mancano del loro
valore, in quanto sono la conseguenza di certe premesse e possono servire di
riprova sperimentali della verità o meno di quelle premesse. sono la conseguenza
logica di certe premesse e possono servire di riprova sperimentale della verità
o meno di quelle premesse.
Alcuni
individui, di mente limitata ma forniti di potente spirito logico, quando hanno
accettato delle premesse ne tirano tutte le conseguenze fino all’ultimo, e, se
così vuole la logica, arrivano senza scomporsi alle più grandi assurdità, alla
negazione dei fatti più evidenti. Ve ne sono bensì altri più colti e di spirito
più largo, che trovan sempre modo di arrivare a conclusioni più o meno
ragionevoli, anche a costo di strapazzare la logica; e per questi gli errori
teorici hanno poca o nessuna influenza sulla condotta pratica. Ma insomma, fino
a che non si rinunzia a certi errori fondamentali, si è sempre minacciati dai
sillogizzatori ad oltranza, e si torna sempre da capo.
E (errore fondamentale degli
anarchici avversari dell’organizzazione è il credere che non sia possibile
organizzare senza autorità ‑ ed il preferire, ammessa quella ipotesi, piuttosto
rinunziare a qualsiasi organizzazione che accettare la minima autorità.
Ora, che l’organizzazione,
vale a dire (associazione per uno scopo determinato e colle forme ed i mezzi
necessari a conseguire quel fine, sia una cosa necessaria alla vita sociale ci
pare evidente. L’uomo isolato non può vivere nemmeno la vita del bruto: esso è
impotente, salvo nelle regioni tropicali e quando la popolazione è
eccessivamente rada, a procurarsi il nutrimento; e lo è sempre, senza eccezioni,
ad elevarsi ad una vita alcun poco superiore a quella degli animali. Dovendo
perciò unirsi cogli altri uomini, anzi trovandosi unito in conseguenza della
evoluzione antecedente della specie, esso deve, o subire la volontà degli altri
(essere schiavo), o imporre la volontà Propria agli altri (essere un’autorità),
o vivere cogli altri in fraterno accordo in vista del maggior bene di tutti
(essere un associato). ‑Nessuno può esimersi da questa necessità; ed i più
eccessivi antiorganizzatori non solo subiscono l’organizzazione generale della
società in cui vivono, ma anche negli atti volontari della loro vita, anche
nelle loro rivolte contro l’organizzazione si uniscono, si dividono il compito,
si organizzano con quelli con cui vanno d’accordo e utilizzano i mezzi che la
società mette a loro disposizione ... sempre, s’intende, che si tratti di cose
volute e fatte davvero e non di vaghe aspirazioni platoniche, di sogni sognati.
Anarchia significa società
organizzata senza autorità, intendendosi per autorità la facoltà di imporre la
propria volontà e non già il fatto inevitabile e benefico che chi meglio intende
e sa fare una cosa riesce più facilmente a far accettare la sua opinione, e
serve di guida, in quella data cosa, ai meno capaci di lui.
Secondo noi (autorità non
solo non è necessaria all’organizzazione sociale, ma, lungi dal giovarle, vive
su di essa da parassita, ne inceppa (evoluzione e volge i suoi vantaggi a
profitto speciale di una data classe che sfrutta ed opprìme le altre. Fino a che
in una collettività vi è armonia d’interessi, fino a che nessuno ha voglia o
modo di sfruttare gli altri, non v’è traccia d’autorità: quando viene la lotta
intestina e la collettività si divide in vincitori e vinti, allora sorge
l’autorità, la quale naturalmente è devoluta ai più forti e serve a confermare,
perpetuare ed ingrandire la loro vittoria.
Crediamo così, e perciò siamo
anarchici: cha se credessimo che non vi possa essere organizzazione senza
autorità, noi saremmo autoritari, perché preferiremmo ancora l’autorità, che
inceppa ed addolora la vita, alla disorganizzazione che la rende impossibile.
Del resto, quel che saremmo
noi importa poco. Se fosse vero che il macchinista ed il capotreno ed i
capiservizio debbano per forza essere delle autorità, anziché dei compagni che
fanno per tutti un determinato lavoro, il pubblico amerebbe sempre piuttosto
subire la loro autorità che viaggiare a piedi. Se il mastro di posta non potesse
non essere un’autorità, ogni uomo sano di mente sopporterebbe l’autorità del
mastro di posta, piuttosto che portar da sé le proprie lettere.
E allora ... l’anarchia
sarebbe il sogno di alcuni, ma non potrebbe realizzarsi mai.
c.
Necessità dell’organizzazione
Ammessa possibile l’esistenza
di una collettività organizzata senza autorità, cioè coazione ‑ e per gli
anarchici è necessarioammetterlo perché altrimenti l’anarchia non avrebbe senso
passiamo a parlare dell’organizzazione del partito anarchico.
Anche in questo caso
l’organizzazione ci sembra utile e necessaria. Se partito significa l’insieme
d’individui che hanno uno scopo comune e si sforzano di raggiungere questo
scopo, è naturale ch’essi s’intendano, uniscano le loro forze, si dividano il
lavoro e prendano tutte le misure stimate atte a raggiungere quello scopo.
Restare isolati, agendo o volendo agire ciascun per conto suo senza intendersi
con altri, senza prepararci, senza unire in un fascio potente le deboli forze
dei singoli, significa condannarsi all’impotenza, sciupare la propria energia in
piccoli atti senza efficacia e ben presto perdere la fede nella meta e cadere
nella completa inazione.
Ma anche qui la cosa ci
sembra talmente evidente che, invece di insistere nella dimostrazione diretta,
cercheremo di rispondere agli argomenti degli avversari dell’organizzazione
E prima di tutto ci si
presenta l’obbiezione, diremo così, pregiudiziale. “Ma di quale partito ci
parlate?”, essi dicono, “noi non siamo un partito, noi non abbiamo programma”.
E con questa forma
paradossale essi intendono dire che le idee progrediscono e cambiano
continuamente e che essi non vogliono accettare un programma fisso, che può
essere buono oggi, ma che sarà certamente superato domani.
Ciò sarebbe perfettamente
giusto se si trattasse di studiosi che cercano il vero senza curarsi delle
applicazioni pratiche. Un matematico, un chimico, un psicologo, un sociologo
possono dire di non aver programma o di non avere che quello di ricercare la
verità: essi vogliono conoscere, non vogliono fare qualche cosa.
Ma anarchia e socialismo non
sono delle scienze: sono dei propositi, dei progetti che anarchici e socialisti
vogliono mettere in pratica e che perciò hanno bisogno di essere formulati in
programmi determinati. La scienza e l’arte delle costruzioni progrediscono tutti
i giorni; ma un ingegnere che vuol costruire, o anche demolire qualche cosa,
deve fare il suo piano, raccogliere i suoi mezzi di azione e agire come se
scienza ed arte si fossero arrestate al punto ove egli le trova quando dà
principio ai suoi lavori. Può benissimo avvenire che egli possa utilizzare delle
nuove acquisizioni fatte nel corso del lavoro senza rinunciare alla parte
essenziale del suo piano; e può darsi anche che le nuove scoperte ed i nuovi
mezzi creati dall’industria siano tali che egli verga la necessità di
abbandonare tutto e ricominciare da capo. Ma ricominciando, avrà bisogno di fare
un nuovo piano basato su quello che si conosce e si possiede fino a quel
momento, e non potrà concepire e mettersi ad eseguire una costruzione amorfa,
con materiali non composti, per il motivo che domani la scienza potrebbe
suggerire delle forme migliori e l’industria fornire dei materiali meglio
composti.
Noi intendiamo per partito
anarchico l’insieme di quelli che vogliono concorrere ad attuare l’anarchia, e
che perciò han bisogno di fissarsi uno scopo da raggiungere ed una via da
percorrere; e lasciamo volentieri alle loro elucubrazioni trascendentali gli
amatori della verità assoluta e del progresso continuo, che non cimentando mai
le loro idee alla prova dei fatti finiscono poi col far nulla e scoprir meno.
L’altra obbiezione è che
l’organizzazione crea dei capi, delle autorità. Se questo è vero, se è vero cioè
che gli anarchici sono incapaci di riunirsi ed accordarsi tra di loro senza
sottoporsi ad un’autorità, ciò vuol dire che essi sono ancora molto poco
anarchici e che prima di pensare a stabilire l’anarchia nel mondo debbono
pensare a rendersi capaci essi stessi di vivere anarchicamente. Ma il rimedio
non starebbe già nelle non organizzazione, bensì nella cresciuta coscienza dei
singoli membri.
Certamente se in
un’organizzazione si lascia addosso a pochi tutto il lavoro e tutte le
responsabilità, se si subisce quello che fanno i pochi senza metter mano
all’opera e cercar di far meglio, quei pochi finiranno, anche se non lo
vogliono, col sostituire la propria volontà a quella della collettività. Se in
un’organizzazione i membri tutti non si curano di pensare, di voler capire, di
farsi spiegare quello che non capiscono, di esercitare sempre su tutto e su
tutti le loro facoltà critiche, e lasciano a pochi il compito di pensare per
tutti, quei pochi saranno i capi, le teste pensanti e dirigenti.
Ma, lo ripetiamo, il rimedio
non sta nella non organizzazione. Al contrario, nelle piccole come nella grande
società, a parte la forza brutale, di cui non può essere questione nel caso
nostro, l’origine e la giustificazione dell’autorità sta nella disorganizzazione
sociale. Quando una collettività ha un bisogno ed i suoi membri non sanno
organizzarsi spontaneamente da loro stessi per provvedervi, sorge qualcuno,
un’autorità, che provvede a quel bisogno servendosi delle forze di tutti e
dirigendole a sua voglia. Se le strade sono mal sicure ed il popolo non sa
provvedere, sorge una polizia che, per qualche servizio che rende, si fa
sopportare e pagare, e s’impone e tiranneggia; se v’è bisogno di un prodotto, e
la collettività non sa intendersi coi produttori lontani per farselo mandare in
cambio di prodotti del paese, vien fuori il mercante che profitta del bisogno
che hanno gli uni di vendere e gli altri di compare, ed impone i prezzi che
vuole ai produttori ed ai consumatori.
Vedete che cosa è sempre
successo in mezzo a noi: meno siamo stati organizzati più ci siamo trovati alla
discrezione di qualche individuo. Ed è naturale che così fosse.
Noi sentiamo il bisogno di
stare in rapporto coi compagni delle altre località, di ricevere e di dare
notizie, ma non possiamo ciascuno individualmente corrispondere con tutti i
compagni. Se siamo organizzati, incarichiamo dei compagni di tenere la
corrispondenza per conto nostro, li cambiamo se essi non ci soddisfano, e
possiamo stare al corrente senza dipendere dalla buona grazia di qualcuno per
avere una notizia; se invece siamo disorganizzati, vi sarà qualcuno che avrà i
mezzi e la voglia di corrispondere e accentrerà nelle sue mani tutte le
relazioni, comunicherà le notizie secondo che gli pare ed a chi gli pare, e, se
ha attività ed intelligenza sufficienti, riuscirà a nostra insaputa a dare al
movimento l’indirizzo che vuole senza che a noi, alla massa del partito, resti
alcun mezzo di controllo, e senza che nessuno abbia il diritto di lagnarsi,
poiché quell’individuo agisce per conto suo, senza mandato di alcuno e senza
dover rendere conto ad alcuno del proprio operato.
Noi sentiamo il bisogno di
avere un giornale. Se siamo organizzati potremo riunire i mezzi per fondarlo e
farlo vivere, incaricare alcuni compagni di redigerlo, e controllarne
l’indirizzo. 1 redattori del giornale gli daranno certamente, in modo più o meno
spiccato, l’impronta della loro personalità, ma saranno sempre gente che noi
abbiamo scelta e che possiamo cambiare se non ci accontenta. Se invece siamo
disorganizzati, qualcuno che ha sufficiente spirito d’intrapresa farà il
giornale per conto proprio: egli troverà in mezzo a noi i corrispondenti, i
distributori, i sottoscrittori, e ci farà concorrere ai suoi fini senza che noi
li sappiamo o vogliamo; e noi, come è spesso avvenuto, accetteremo o sosterremo
quel giornale anche se non ci piace, anche se troviamo che è dannoso alla causa,
perché saremo impotenti a farne uno che rappresenti meglio le nostre idee.
Cosicché l’organizzazione,
lungi dal creare l’autorità, è il solo rimedio contro di essa ed il solo mezzo
perché ciascun di noi si abitui a prender parte attiva e cosciente nel lavoro
collettivo, e cessi di essere strumento passivo in mano dei capi.
Che se poi non si fa nulla di
nulla e tutti restano nell’inazione completa, allora certamente non vi saranno
né capi né gregari, né comandanti né comandati, ma allora finiranno la
propaganda, il partito, ed anche le discussioni intorno all’organizzazione... e
questo, speriamo, non è l’ideale di nessuno.
Ma un’organizzazione, si
dice, suppone l’obbligo di coordinare la propria azione e quella degli altri,
quindi viola la libertà, inceppa l’iniziativa. A noi sembra che quello che
veramente leva la libertà e rende impossibile l’iniziativa è l’isolamento che
rende impotente. La libertà non è il diritto astratto, ma la possibilità di fare
una cosa: questo è vero tra di noi, come è vero nella società generale. È nella
cooperazione degli altri uomini che l’uomo trovai mezzi per esplicare la sua
attività, la sua potenza d’iniziativa.
Certamente, organizzazione
significa coordinazione di forze ad uno scopo comune ed obbligo negli
organizzati di non fare cosa contraria allo scopo. Ma quando si tratta di
organizzazioni volontarie, quando coloro che stanno nella stessa organizzazione
hanno veramente lo stesso scopo e sono partigiani degli stessi mezzi, l’obbligo
reciproco che impegna tutti riesce vantaggioso per tutti; e se qualcuno rinunzia
a qualche sua idea particolare in omaggio all’unione, ciò vuol dire che trova
più vantaggioso rinunziare ad un’idea, che d’altronde da solo non potrebbe
attuare, anziché privarsi della cooperazione degli altri nelle cose ch’egli
crede di maggiore importanza.
Se poi un individuo trova che
nessuna delle organizzazioni esistenti accetta le sue idee ed i suoi metodi in
ciò che hanno di essenziale, e che in nessuna potrebbe esplicare la sua
individualità come egli l’intende; allora farà bene a restarne fuori; ma allora,
se non vuole rimanere inattivo ed impotente, deve cercare altri individui che
pensano come lui e farsi iniziatore di una nuova organizzazione.
Un’altra obiezione, ed è
l’ultima di cui ci intratterremo, è che essendo organizzati siamo più esposti
alle persecuzioni del governo.
A noi pare invece che quando
più si è uniti tanto più ci si può difendere efficacemente. Ed infatti ogni
volta che le persecuzioni ci han sorpresi mentre eravamo disorganizzati ci hanno
completamente sbaragliati ed hanno ridotto a nulla il nostro lavoro antecedente;
mentre quando e dove eravamo organizzati ci hanno fatto più bene che male. Ed è
lo stesso anche per quel che riguarda l’interesse personale dei singoli: basti
l’esempio delle ultime persecuzioni che hanno colpito gli isolati tanto quanto
gli organizzati e forse anche più gravemente. Questo, s’intende, per quelli che,
isolati o no, fanno almeno la propaganda individuale; ché per quelli che non
fanno nulla e tengono ben nascoste le loro convinzioni, certamente il pericolo è
poco, ma è anche meno l’utilità che danno alla causa.
Il solo risultato, dal punto
di vista delle. persecuzioni, che si ottiene stando disorganizzati, si è di
autorizzare il governo e negarci il diritto di associazione ed a rendere
possibili quei mostruosi processi per associazione a delinquere, che esso non
oserebbe fare contro la gente che afferma altamente, pubblicamente, il diritto e
il fatto di stare associata, o che, se il governo l’osasse, risulterebbero a
scorno suo e a vantaggio della propaganda.
Del resto, è naturale che
l’organizzazione prenda le forme che le circostanze consigliano ed impongono.
L’importante non è tanto l’organizzazione formale, quanto lo spirito di
organizzazione. Possono esservi dei casi in cui per l’imperversare della
reazione, sia utile sospendere ogni corrispondenza, cessare da ogni riunione:
sarà sempre un danno, ma se la voglia di essere organizzati sussiste, se resta
vivo lo spirito di associazione, se il periodo antecedente di attività
coordinata avrà moltiplicate le relazioni personali, prodotte solide amicizie e
creato un vero accordo d’idee e di condotta tra i compagni, allora il lavoro
degl’individui anche isolati concorrerà allo scopo comune, e presto si troverà
modo di riunirsi di nuovo e riparare al danno subito.
Noi siamo come un esercito in
guerra e possiamo, secondo il terreno e secondo le misure prese dal nemico,
combattere in grandi masse o in ordine sparso: l’essenziale è che ci
consideriamo sempre membri dello stesso esercito, che ubbidiamo tutti alle
stesse idee direttive e siamo sempre pronti a riunirci in colonne compatte
quando occorre e si può.
Tutto questo che abbiamo
detto è per quei compagni che realmente sono avversari del principio di
organizzazione. A quelli poi che combattono l’organizzazione solo perché non
vogliono entrare, o non sono accettati, in una determinata organizzazione, e
perché non simpatizzano con gli individui che ne fanno parte, noi diciamo: fate
da voi, con quelli che sono d’accordo con voi, un’altra organizzazione. Noi
ameremmo certo poter andare tutti d’accordo e riunire in un fascio potente tutte
quante le forze dell’anarchismo; ma non crediamo nella solidità delle
organizzazioni fatte a forza di concessioni e di sottintesi e dove non v’è tra i
membri accordo e simpatia reali. Meglio disuniti che malamente uniti. Pero
vorremmo che ciascuno si unisse coi suoi amici e non vi fossero forze isolate,
forze perdute.
d.
L’organizzazione come condizione della vita sociale
L’organizzazione, che poi non
è altro che la pratica della cooperazione e della solidarietà, è condizione
naturale, necessaria della vita sociale: è un fatto ineluttabile che s’impone a
tutti, tanto nella società umana in generale, quanto in qualsiasi gruppo di
persone che hanno uno scopo comune da raggiungere.
Non volendo e non potendo
l’uomo vivere isolato, anzi non potendo esso diventare veramente uomo e
soddisfare i suoi bisogni materiali é morali se non nella società e colla
cooperazione dei suoi simili, avviene fatalmente che quelli che non hanno i
mezzi o la coscienza abbastanza sviluppata per organizzarsi liberamente con
coloro con cui hanno comunanza d’interessi e di sentimenti, subiscono
l’organizzazione fatta da altri individui, generalmente costituiti in classe o
gruppo dirigente, allo scopo di sfruttare a proprio vantaggio il lavoro degli
altri. E 1’ oppressione millenaria delle masse da parte di un piccolo numero di
privilegiati è stata sempre la conseguenza della incapacità della maggior parte
degl’individui di accordarsi, di organizzarsi con gli altri lavoratori per la
produzione, per il godimento e per la eventuale difesa contro chi volesse
sfruttarli ed opprimerli.
Per
rimediare a questo stato di cose è sorto l’anarchismo, il cui principio
fondamentale è l’organizzazione libera, fatta e mantenuta dalla libera volontà
degli associati senza nessuna specie di autorità, cioè senza che nessuno abbia
il diritto di imporre agli altri la propria volontà. Ed è quindi naturale che
gli anarchici cerchino di applicare nella loro vita privata e di partito quello
stesso principio, su cui, secondo loro, dovrebbe essere fondata tutta quanta la
società umana.
Da certe polemiche può
sembrare che vi siano degli anarchici refrattari, ad ogni organizzazione; ma in
realtà le molte, le troppe discussioni che si fanno tra noi sull’argomento,
anche se oscurate da questioni di parole, o avvelenate da questioni personali,
in fondo riguardano il modo e non già il principio di organizzazione. Così
avviene che dei compagni che a parole sono i più avversi all’organizzazione,
quando vogliono davvero fare qualche cosa, si organizzano come, e spesso meglio
degli altri. La questione, ripeto, sta tutta nel modo.
lo credo soprattutto
necessario, urgente, che gli anarchici s’intendano, si organizzino il più ed il
meglio possibile per influire sulla via che seguono le masse nelle loro lotte
per i miglioramenti e l’emancipazione.
Oggi la più grande forza di
trasformazione sociale è il movimento operaio (movimento sindacale), e dal suo
indirizzo dipende in gran parte il corso che prenderanno gli avvenimenti e la
mèta a cui arriverà la prossima rivoluzione. Per mezzo delle organizzazioni,
fondate per la difesa dei loro interessi, i lavoratori acquistano la coscienza
dell’oppressione in cui giacciono e dell’antagonismo che li divide dai loro
padroni, incominciano ad aspirare ad una vita superiore, si abituano alla lotta
collettiva ed alla solidarietà, e possono riuscire e conquistare quei
miglioramenti che sono compatibili con la persistenza del regime capitalistico e
statale. Dopo, quando il conflitto diventa insanabile, viene o la rivoluzione, o
la reazione. Gli anarchici debbono riconoscere l’utilità e l’importanza del
movimento sindacale, debbono favorirne lo sviluppo, e farne una delle leve della
loro azione, facendo tutto quello che possono perché esso, in cooperazione colle
altre forze di progresso esistenti, sbocchi in una rivoluzione sociale che porti
alla soppressione delle classi, alla libertà totale, all’eguaglianza, alla pace
ed alla solidarietà fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una grande e letale
illusione il credere, come fanno molti, che il movimento operaio possa e debba
da se stesso, in conseguenza della sua stessa natura, menare ad una tale
rivoluzione. Al contrario, tutti i movimenti fondati sugl’interessi materiali ed
immediati (e non si può fondare su altre basi un vasto movimento operaio), se
manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli uomini d’idee, che
combattono e si sacrificano in vista di un ideale avvenire, tendono fatalmente
ad adattarsi alle circostanze, fomentano lo spirito di conservazione e la paura
di cambiamenti in quelli che riescono ad ottenere condizioni migliori, e
finiscono spesso col creare nuove classi privilegiate e servire a far sopportare
e consolidare il sistema che si vorrebbe abbattere.
Di qui la necessità
impellente di organizzazioni prettamente anarchiche che dentro, come fuori dei
sindacati lottino per la realizzazione integrale dell’anarchismo e cerchino di
sterilizzare tutti i germi di degenerazione e di reazione.
Ma è evidente che per
conseguire i loro scopi le organizzazioni anarchiche debbono essere, nella loro
costituzione e nel loro funzionamento, in armonia coi principi dell’anarchismo,
e cioè che non siano in nessun modo inquinate da spirito autoritario, che
sappiano conciliare la libera azione degl’individui con la necessità ed il
piacere della cooperazione, che servano a sviluppare la coscienza e la capacità
d’iniziativa dei loro membri, e siano un mezzo educativo per l’ambiente in cui
operano ed una preparazione morale e materiale per l’avvenire che desideriamo.
e. Caratteri dell’organizzazione antiautoritaria
Un’organizzazione anarchica
deve essere fondata secondo me (sulle seguenti basi). Piena autonomia, piena
indipendenza e quindi piena responsabilità, degl’individui e dei gruppi; accordo
libero tra quelli che credono utile unirsi per cooperare ad uno scopo comune;
dovere morale di mantenere gl’impegni presi e di non far nulla che contraddica
al programma accettato. Su queste basi si adottano poi le forme pratiche, gli
strumenti adatti per dar vita reale all’organizzazione. Quindi i gruppi, le
federazioni di gruppi, le federazioni di federazioni, le riunioni, i congressi,
i comitati incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto questo deve esser
fatto liberamente in modo da non inceppare il pensiero e l’iniziativa dei
singoli, e solo per dare maggiore portata agli sforzi che, isolati, sarebbero
impossibili o di poca efficacia.
Così i congressi in
un’organizzazione anarchica, pur soffrendo come corpi rappresentativi di tutte
le imperfezioni che non fanno la legge, non impongono agli altri le proprie
deliberazioni. Essi servono a mantenere ed aumentare i rapporti personali fra i
compagni più attivi, a riassumere e fomentare gli studi programmatici sulle vie
e sui mezzi d’azione, e far conoscere a tutti le situazioni delle diverse
regioni e l’azione che più urge in ciascuna di esse, a formulare le varie
opinioni correnti tra gli anarchici e farne una specie di statistica ‑ e le loro
decisioni non sono regole obbligatorie, ma suggerimenti, consigli, proposte da
sottoporre a tutti gli interessati, e non diventano impegnative ed esecutive se
non per quelli che le accettano e finche le accettano. Gli organi amministrativi
che essi nominano ‑ Commissione di corrispondenza, ecc. ‑ non hanno nessun
potere direttivo, non prendono iniziative se non per conto di chi quelle
iniziative sollecita ed approva e non hanno nessuna autorità, per imporre le
proprie vedute, che essi possono certamente sostenere e propagare come gruppi di
compagni, ma non possono presentare come opinione ufficiale dell’organizzazione.
Essi pubblicano le risoluzioni dei congressi e le opinioni e le proposte che
gruppi e individui comunicano loro; e servono, per chi se ne vuol servire, a
facilitare le relazioni fra i gruppi e la cooperazione tra quelli che son
d’accordo sulle varie iniziative: libero chi crede di corrispondere direttamente
con chi vuole, o di servirsi di altri comitati nominati da speciali
aggruppamenti.
In un’organizzazione
anarchica i singoli membri possono professare tutte le opinioni e usare tutte le
tattiche che non sono in contraddizione coi principi accettati e non nuocciono
all’attività degli altri. In tutti i casi una data organizzazione dura fino a
che le ragioni di unione sono superiori alle ragioni di dissenso: altrimenti si
scioglie e lascia luogo ad altri aggruppamenti più omogenei.
Certo la durata, la
permanenza di un’organizzazione è condizione di successo nella lunga lotta che
dobbiamo combattere e d’altronde è naturale che qualunque istituzione aspira,
per istinto, a durare indefinitivamente. Ma la durata di una organizzazione
libertaria deve essere la conseguenza dell’affinità spirituale dei suoi
componenti e dell’adattabilità della sua costituzione ai continui cambiamenti
delle circostanze: quando non è più capace di compiere una missione utile meglio
che muoia.
2. Antiparlamentarismo
ed elezionismo
1. LA TRUFFA PARLAMENTARE
L’inefficienza dei
parlamenti e i problemi del movimento operaio.
Il socialismo fin dal suo
nascere, coll’arme della critica positiva, che si appoggia sui fatti e dei fatti
cerca le cause e prevede le conseguenze, aveva fatto giustizia del suffragio
universale e di tutta quanta la menzogna parlamentare. Che se non lo avesse
fatto, esso non avrebbe avuto ragion di esistere come idea e partito nuovo: e si
sarebbe confuso con l’assurda utopia liberale, che aspetta l’armonia, la pace,
ed il benessere generale della lotta, liberamente combattuta (sic), tra
gente armata di tutta la ricchezza e di tutta la forza sociale e poveri
derelitti cui manca il tozzo di pane.
Il socialismo, nell’accezione più larga e più
autentica della parola, significa la società fatta strumento di libertà, di
benessere e di sviluppo progressivo ed integrale per tutti i membri, per tutti
quanti gli esseri umani. Partendo dalla verità fondamentale che l’evoluzione
delle facoltà morali ed intellettuali presuppone la soddisfazione dei bisogni
materiali, e che non può esservi libertà dove non v’è uguaglianza e solidarietà,
esso riconobbe che la servitù in tutte le sue forme, politica, morale e
materiale, deriva dalla dipendenza economica del lavoratore dai detentori della
materia prima e degli strumenti da lavoro. E dopo aver cercato a tentoni la sua
strada, e prodotta una serie di progetti artificiosi ed utopistici, trovò infine
la sua base saldissima nel principio, scientificamente dimostrato, della
giustizia, utilità e necessità della socializzazione della ricchezza e del
potere.
Trovato il fine, urgeva
occuparsi delle vie e mezzi per raggiungerlo. E non appena il socialismo, uscito
dal periodo della speculazione astratta, incominciò a penetrare in mezzo alle
masse sofferenti ed a fare le sue prime armi nelle lotte pratiche della vita, i
socialisti s’accorsero che si trovavano stretti in un cerchio di ferro, che solo
poteva rompersi colla diretta azione delle masse.
Impossibile esser liberi (il
socialismo lo aveva dimostrato) senza essere economicamente indipendenti; e
d’altra parte, come si può arrivare all’indipendenza economica se si è schiavi?
Il popolo, spogliato di tutto
ciò che la natura ha creato per il sostentamento dell’uomo e di tutto quello che
il lavoro umano ha aggiunto all’opera della natura, dipende per la sua vita dal
beneplacito dei proprietari e si trova ridotto dalla miseria all’avvilimento ed
all’impotenza. E per consolidare e difendere questo stato di cose, stanno i
governi con tutta la forza degli eserciti, delle polizie e delle finanze.
Quale mezzo legale di emancipazione, quando la
legge è tutta quanta intesa a difendere lo stato di cose che si dovrebbero
distruggere?
Non l’azione politica
legale delle masse, che tutta si riassume nel voto, poiché quest’arma per
avere un valore qualsiasi, suppone già nella maggioranza numerica del popolo
quella coscienza ed indipendenza, che si tratta appunto di rendere possibile e
di conquistare. E d’altronde la borghese e per essa i governi non concedono il
voto che quando si sono persuasi della sua innocuità, o quando, di fronte alla
attitudine minacciosa del popolo, lo considerano un mezzo opportuno per sviarlo
ed addormentarlo, caso in cui sarebbe, da tutti i punti di vista, una
sciocchezza il contentarsene. Concessolo, sanno giocarlo e dominarlo, e, se per
avventura si mostrasse indocile, possono sopprimerlo. Al popolo non resta altra
risorsa che quella della rivoluzione, che il voto avrebbe dovuto rendere
inutile.
Non gli espedienti economici
legali – mutuo soccorso, risparmio, cooperative, scioperi – poiché la potenza
schiacciante e sempre crescente del capitale, appoggiata, ove occorra, dalla
forza delle baionette, e le condizioni materiali e morali in cui essa ha ridotto
il proletariato, li rendono dei mezzi impotenti, illusori, o semplicemente
ridicoli.
Non vi sono dunque che due
vie di uscita. O la rinuncia volontaria delle classi dominanti al possesso
esclusivo della ricchezza ed a tutti i privilegi di cui godono sotto l’influenza
dei buoni sentimenti che la propaganda socialista può far nascere in esse:
oppure la rivoluzione, fazione diretta delle masse, eccitata e mossa dalla
minoranza cosciente che si va organizzando nelle file del partito socialista.
La prima di queste vie, in
cui dei generosi quanto ingenui filosofi credettero un momento, è dimostrata una
speranza illusoria, nonché da tutta quanta la storia passata, dall’esperienza
sanguinosa dei fatti contemporanei…
Restava la rivoluzione; e
tutti i socialisti, che del socialismo non facevano un oggetto di distrazione
contemplativa ma un programma pratico che volevano al più presto possibile
vedere attuato, furono rivoluzionari.
I socialisti erano bensì
divisi in due grandi frazioni rispondenti a due correnti d’idee. Gli uni,
autoritari, volevano servirsi per emancipare il popolo dello stesso meccanismo
che ora lo tiene sottomesso, e si proponevano la conquista del potere politico.
Gli altri, gli anarchici, considerando che lo Stato non ha ragione di essere se
non in quanto rappresenta e difende gli interessi d’una classe o di una
consorteria e che scompare quando, per l’universalizzazione del potere e
dell’iniziativa, si confonde colla totalità dei cittadini, si proponevano la
distruzione del potere politico.
Gli uni volevano impadronirsi
del governo e decretare, con forme e modi dittatoriali, la messa in comune del
suolo e degli strumenti del lavoro ed organizzare dall’alto la produzione e
distribuzione socialistica. Gli altri volevano abbattere simultaneamente potere
politico e proprietà individuale, e organizzare la produzione, il consumo e
tutta la vita sociale per mezzo dell’opera diretta e volontaria di tutte le
forze e di tutte le capacità, che esistono nell’umanità e che cercano
naturalmente di esplicarsi ed attuarsi.
Ma tutti, lo ripetiamo,
volevano la rivoluzione, l’appello alla forza; e per maturare la rivoluzione
volevano e praticavano la propaganda indefessa delle verità scoperte dal
socialismo, l’organizzazione delle forze coscienti del proletariato…
La lotta sarebbe stata senza
dubbio lunga e faticosa, ma la via era tracciata e si sarebbe arrivati
direttamente alla vittoria piena e completa. Ma ecco che, contraddicendo a tutte
le tendenze del programma ed alla propaganda che essi stessi avevano menato con
zelo ed intelligenza, alcuni socialisti credettero bene di mettersi nelle vie
tortuose e senza uscita del parlamentarismo.
Il socialismo, al principio
deriso e negato, poscia combattuto con accanimento, già diventava potente assai
perché i borghesi vi vedessero un pericolo serio ed una forza di cui bisognava
contare. Gli uni, i soddisfatti, credettero opportuno aggiungere alle
persecuzioni ed ai massacri l’arme della corruzione e dell’inganno; mentre gli
altri, quelli che sotto il nome di democratici aspiravano ad impadronirsi del
governo, pensarono a mistificarlo e servirsene.
D’altra parte vi erano dei
socialisti i quali si trovarono disposti ad accordarsi a quella borghesia che
fieramente avevano combattuta. O stanchi della lotta e domati dalle
persecuzioni: o perché in essi il sentimento socialista e rivoluzionario non era
in realtà mai penetrato al disotto dell’epidermide e spariva col raffreddarsi
dei primi entusiasmi giovanili; o perché avevano immaginato che la vittoria
fosse facile e vicina ed erano sconcertati dalla scoperta di ostacoli non
sospettati, essi cercavano, forse anche senza rendersene conto esatto,
un’occasione, un pretesto decente per piegare bandiera e farsi accogliere in
mezzo al campo nemico…
Il terreno comune su cui si
incontrarono i borghesi, che cercavano di corrompere, e quei socialisti, che
cercavano di essere corrotti, fu l’urna elettorale. Né il danno sarebbe stato
grande. Ma i traditori, gli ambiziosi e gli stanchi riuscirono purtroppo a
trascinare all’urna molti buoni, che credevano sinceramente di acquistare una
nuova arma di lotta contro la borghesia, e di avvicinare con quel mezzo
l’avvenimento della rivoluzione.
Naturalmente per mascherare
la manovra il passaggio si fece a gradi. A1 principio non s’infirmò nessuna
delle conclusioni acquisite al programma socialista. L’espropriazione per mezzo
della rivoluzione, si andava ripetendo, è l’unico mezzo per emanciparsi: il
suffragio universale, la repubblica e tutte quante le riforme politiche lasciano
il tempo che trovano e non sono che tranelli tesi all’ingenuità popolare. Però,
s’insinuava dolcemente, qualche bene se ne può cavare: profittiamo di tutto,
serviamoci come armi delle concessioni che possiamo strappare al nemico,
allarghiamo il nostro campo d’azione, cessiamo dal roderci nella nostra
impotenza, siamo pratici. E tosto si mise avanti il progetto di andare all’urna,
scopo a cui tendeva ed in cui si riduceva tutto quel preteso allargamento di
tattica. Ma siccome non s’osava ancora rinnegare tutto il detto sulla inutilità
della lotta elettorale e sull’azione corruttrice dell’ambiente parlamentare, si
disse che bisognava votare semplicemente per contarsi, quasi che fosse
necessario andare all’urna e farsi contare dal nemico per giudicare dei
progressi del partito. E per affettare scrupolosità si parlò di votare un
bollettino in bianco, o per dei morti o per degli ineleggibili. Poi, senza aver
l’aria di nulla, i morti diventarono vivi e gl’ineleggibili si trasformarono in
persone che al parlamento potevano e volevano andarci e restarci. Ma non si
osava ancora confessarlo: si trattava sempre di candidature di protesta: gli
eletti non entrerebbero in parlamento, rifiuterebbero il giuramento là dove era
richiesto, o c’entrerebbero per sputare in faccia alla borghesia l’infamia sua,
e farsi scacciare come nemico che non transige. Poi nemmeno più questo. In
parlamento bisognava andarci per profittare della tribuna parlamentare, per
scoprire e denunciare al popolo i dietro scena della politica, per avere dei
posti avanzati nel campo nemico, dei posti presi nella cittadella borghese.
Il deputato socialista non doveva essere
legislatore, non doveva aver nessun legame coi deputati della borghesia, ma
stare in parlamento come spettro minaccioso della rivoluzione sociale in mezzo a
coloro che vivono dei sudori e del sangue del popolo.
Ma che!… oramai si stava
sulla china e bisognava andare fino in fondo. Il partito rivoluzionario, che
entrava in parlamento, doveva diventar riformista, e lo diventò.
L’emancipazione integrale,
cominciarono a dire, è una bella cosa, ma è come il paradiso: una cosa lontana e
che nessuno ha visto mai. Il popolo ha bisogno di miglioramenti immediati.
Meglio poco che nulla. La rivoluzione sarà tanto più facile quanto più
concessioni ci saranno strappate alla borghesia.
Senza contar quelli, pochi,
del resto, che hanno saltato il fosso ed affermano addirittura che si può
raggiungere lo scopo per evoluzione pacifica.
E s’invocò la scienza, quella
povera scienza che s’accomoda a tutte le salse, per sofisticare all’infinito sul
tema evoluzione e rivoluzione; quasichè vi fosse alcuno che neghi l’evoluzione,
e la questione non fosse piuttosto sulla specie di evoluzione, che più
corrisponde al fine socialista e che quindi i socialisti devono propugnare.
La rivoluzione non è essa
stessa che un modo di evoluzione; modo rapido e violento, che si produce,
spontaneo o provocato, quando i bisogni e le idee prodotte da una evoluzione
precedente non trovano più possibilità di soddisfarsi, o quando i mezzi
accaparrati da alcuno fanno sì che l’evoluzione oramai si svolgerebbe in senso
regressivo, se non intervenisse a rimetterla in via una forza nuova: l’azione
rivoluzionaria…
Non ritorneremo sulla
impotenza del suffragio universale e del parlamentarismo a risolvere la
questione sociale, né sulla futilità di tutte le riforme non fondate
sull’abolizione della proprietà individuale, poiché questo deve essere già una
cosa provata per chi è socialista; e noi in questo opuscolo non dobbiamo
difendere i principi socialisti, ma supporli già dimostrati.
Però, siccome la ragione od
il pretesto che serve a certi socialisti per pigliar parte alle elezioni e per
farsi mandare al parlamento, è il vantaggio che ne potrebbe venire alla
propaganda, noi insisteremo sul danno che invece la propaganda ne risente.
D’ordinario coloro che
vantano l’utilità di avere dei socialisti nei parlamenti e negli altri corpi
elettivi, ragionano come se per essere eletto bastasse il volerlo. Noi avremmo
là, essi dicono, degli uomini che godrebbero del diritto di viaggiare gratis o
di altri vantaggi economici, che permetterebbero loro di dedicarsi con maggiore
efficacia alla propaganda; degli uomini che potrebbero osservar da vicino le
magagne del mondo politico e denunziarle al pubblico, e che potrebbero,
soprattutto, servirsi della tribuna parlamentare per difendere i principi
socialisti, e costringere tutto il paese a studiarli e discutere. Perché
rinunciare a questi benefizi?
Innanzi tutto v’è una
pregiudiziale: conserveranno gli eletti il programma che avevano da candidati, e
metteranno a difenderlo la stessa energia che vi mettevano prima? Certamente
sarebbe bello, onorevole per la natura umana, il poter affermare che qualunque
fossero le convinzioni di ciascuno ed il metodo di lotta prescelto, mai
verrebbero meno la sincerità ed il coraggio. Ma la prova è fatta; e
disgraziatamente, quando si pensa alla condotta ignobile e vile che man tenuto,
in ogni dove, tutti, o quasi, i deputati socialisti, non è possibile serbare
tali illusioni.
L’ambiente parlamentare
corrompe, e l’operaio ed il rivoluzionario cessano di essere tali pel solo fatto
di essere diventati deputati. Del resto non c’è da meravigliarsene.
Voi prendete un lavoratore,
lo tirate fuori del suo ambiente, lo sottraete al lavoro, lo allontanate da voi,
di cui egli vedeva e divideva la miseria, lo mandate in mezzo ai signori, in
mezzo al bel mondo dove si gode e non si lavora, lo esponete a tutte le
tentazioni: e poi vi meravigliate ch’egli si adatti ad un ambiente ben più
confortante di quello in cui viveva prima, ch’egli cerchi di assicurarsi
l’insolito benessere, e dimentichi presto o tardi i suoi fratelli di miseria e
gl’impegni contratti con essi? Voi prendete un rivoluzionario abituato ad essere
palleggiato di prigione in prigione, ne fate un legislatore; e poi siete
sorpresi s’egli si lascia ammansire dal tepore di una libertà ed una sicurezza
personali mai godute? E d’altronde, il sentimento dell’impotenza, in mezzo a
gente assolutamente refrattaria alla sua influenza, non spingerà anche chi è
perfettamente sincero, a far concessioni e transizioni, colla speranza di potere
almeno ottenere qualche cosa?
Ma mettiamo pure che nessuno
si corrompa, e che gli uomini siano tutti eroi… anche quelli che smaniano per
esser deputati.
Però come si può riuscire a
mandare dei socialisti al parlamento? La maggioranza degli elettori non è
socialista, nemmeno a fabbricarsi un collegio elettorale apposta; che se lo
fosse, allora non avrebbe bisogno di nominare dei deputati, ma potrebbe, anche
quando tutte le altre circoscrizioni fossero reazionarie, in mille modi più
efficaci attaccare il regime borghese ed essere un centro d’irradiazione
socialista. Per formarsi dunque una maggioranza bisogna transigere, allearsi con
questo o con quello, mistificare il programma, promettere riforme immediate, far
credere una cosa a questo ed un’altra a quello, fare in modo che la borghesia vi
tolleri, che il governo non vi combatta troppo acerbamente. E allora che diventa
la propaganda socialista?
D’altra parte, siccome ogni
uomo si stima onesto e quasi tutti si stimano capaci, così avviene che quasi
ognuno che sa dire due parole, si considera in cuor suo deputabile quanto un
altro; alla nobile ambizione di far il bene e di essere il primo nei rischi e
nei sacrifici si sostituisce a poco a poco, col pretesto del bene generale, la
bassa ambizione degli onori e dei privilegi; e nascono le rivalità tra i
compagni, le gelosie ed i sospetti. La propaganda dei principi cede il passo
alla propaganda delle persone; la rinascita delle candidature diventa il grande,
anzi l’unico interesse del partito; e una turba di politicanti, che vedono nel
socialismo un mezzo come un altro per farsi strada, si gettano in mezzo al
popolo e mistificano e corrompono programma e partito.
E che diremo della speranza
di ottenere per mezzo dei deputati socialisti delle riforme che possano,
aspettando il meglio, lenire i dolori del popolo e levar degli ostacoli dal suo
cammino? I privilegiati non cedono che alla forza od alla paura. Se anche nel
regime attuale è possibile un qualche miglioramento, il solo modo per ottenerlo
è di agitarsi fuori e contro i corpi costituzionali, mostrando la ferma
decisione di volerlo a qualunque costo. Affidare ai deputati il patrocinio della
volontà popolare serve solo per fornire al governo il mezzo di eluderla e per
trastullare il popolo con vane speranze.
Le
menzogne del socialismo legalitario e le insidie della democrazia borghese
Fra le due frazioni in cui si
divideva il partito socialista, gli autoritari dovevano naturalmente sentire
minor ripugnanza per la tattica parlamentare poiché (salvo l’intermezzo
di un periodo rivoluzionario nel quale per via dittatoriale si sarebbe
trasformata la costituzione economica della società) la forma politica cui essi
aspiravano era una forma qualsiasi di parlamentarismo. Conservare nel popolo il
rispetto del principio di autorità, e sviluppare in lui l’abitudine di
abbandonare in mano altrui la propria iniziativa e la propria forza, poteva
entrare nelle loro mire, poiché avrebbe facilitato il loro compito il giorno in
cui fossero riusciti ad afferrare il potere.
Ma accettando, di fatto se
non in teoria il parlamentarismo nell’attuale ambiente economico, e sperando e
facendo sperare delle riforme e dei miglioramenti dall’opera dei poteri legali,
essi cessarono di essere rivoluzionari, cessarono in pratica di essere
socialisti e divennero, o van diventando, dei semplici democratici, repubblicani
dove c’è la repubblica, monarchici dove c’è la monarchia, di cui tutto il
programma si riduce al suffragio universale… salvo, ne conveniamo, le
aspirazioni teoriche, che il suffragio non potrà mai attuare.
È la logica della situazione
che s’impone. Repubblicani e monarchici democratici dicono: che il popolo
faccia la sua volontà… a mezzo delle assemblee elette a suffragio universale. E
le assemblee fanno la volontà dei proprietari, dei preti e dei politicanti, di
cui sono e saranno composte fino a quando dureranno le attuali condizioni
economiche.
I socialisti
dovrebbero rispondere, sotto pena di non esser più socialisti, che il popolo
non può fare quello che vuole, né saprà quello che deve volere fino a quando
sarà economicamente schiavo. Ma avendo per necessità elettorali e per
convenienze personali, prima trascurata e poi combattuta, più o meno
apertamente, la propaganda rivoluzionaria, che cosa restava loro se non
accettare il terreno che offrivan loro gli avversari naturali del socialismo? Ed
essi lo hanno accettato, e fino al punto da dimenticare spesso anche le
affermazioni teoriche, che restavano l’unica platonica differenza tra loro ed i
democratici borghesi.
Per gli anarchici era
un’altra cosa. Per essi che negano la delegazione del potere e fanno appello
all’azione libera e diretta di tutti, la “nuova tattica” oltre a far trascurare
la propaganda socialista e rivoluzionaria e gettare il partito nelle braccia dei
borghesi, aveva pure il torto grandissimo di dare alla parte cosciente delle
masse un’educazione diametralmente opposta allo scopo che gli anarchici vogliono
raggiungere, poiché abitua a fidare negli altri e restare inerti. E perciò gli
anarchici, come partito, restarono incolumi dalla lebbra parlamentare. Coloro,
che per le ragioni da noi accennate ne furono tocchi, cessarono di essere
anarchici, si unirono ai socialisti autoritari, ed insieme con questi
precipitarono giù fino nei bassi fondi del politicume borghese.
A causa dei voltafaccia, dei
tradimenti, delle transazioni e delle inverosimili coalizioni che produsse la
tattica parlamentare, vi fu nel campo socialista un lungo periodo d’incertezza e
di confusione che paralizzò lo slancio del movimento: ma oggi la posizione
ritorna limpida e chiara.
L’evoluzione delle idee e dei fatti, la logica del
metodo, l’influenza determinante che i mezzi adoperati esercitano sul fine da
raggiungersi hanno fatto sì che ormai di vero socialismo non v’è più che il
socialismo anarchico, che è di sua natura antiparlamentare e rivoluzionario.
Questo se si piglia la parola
socialismo nel senso che gli han dato i suoi apostoli ed i suoi martiri, e che
ne ha fatto la leva potente che rovescerà il mondo borghese. Che se poi il
significato della parola socialismo dovesse seguire la marcia indietro, che
precipitosamente stanno compiendo i parlamentaristi, e dovesse significare
quella ibrida accozzaglia di riforme burlesche, di contraddittorie aspirazioni,
di menzogne impudenti, che forma la base dei programmi elettorali “socialisti”,
allora potrebbero certo esser socialisti Guglielmo di Germania e Leone XIII e
tutti i deputati e consiglieri “socialisti”; ma non lo furono quelli che
svelarono le menzogne della Economia politica ed il nulla della democrazia, e
che debellarono moralmente mazzinianismo e radicalismo e li resero impotenti per
sempre; non lo furono né Bakunin né Marx; non lo furono coloro che per il
socialismo sacrificarono gioventù, pace, amore, libertà; non lo furono coloro
stessi che alle lotte socialiste dei primi anni, abilmente sfruttate più tardi,
debbono la loro attuale posizione politica; non lo fu l’Internazionale, non lo
sono gli anarchici.
Il socialismo! Che cosa fu!?…
a che cos’è ridotto!?… Uscito fuori dalle speculazioni dei filosofi, dai sogni
degli utopisti, dalle rivolte delle plebi, il socialismo si annunziò al mondo
come la buona novella dell’evo moderno. Esso era una promessa di civiltà
superiore; era la ribellione contro ogni prepotenza, contro ogni ingiustizia;
era l’abolizione dell’odio, della concorrenza, della guerra; il trionfo
dell’amore, della cooperazione, della pace; era l’avvenimento del benessere e
della libertà per tutti; la realizzazione nel futuro di quell’eden che la
fantasia dei popoli e dei poeti, assetati d’ideale e ignari di storia, aveva
messo all’origine dell’umanità.
Esso era la lotta umana per
eccellenza; ed elevandosi al disopra delle razze e delle patrie, al disopra
delle religioni e delle scuole filosofiche, al disopra delle classi e delle
caste esso abbracciava tutti gli uomini e tutte le donne in un santo ideale di
uguaglianza e di solidarietà.
Esso non domandava la
sostituzione di un partito ad un altro o di una classe ad un’altra, non
l’avvento al potere ed alla ricchezza di un nuovo stato sociale (quarto stato),
ma l’abolizione delle classi, la solidarizzazione di tutti gli esseri umani nel
lavoro e nel godimento comune.
Ed i socialisti erano
apostoli, confessori e martiri; essi sentivano che portavano in sé stessi un
mondo, avevano la coscienza della loro sublime missione, e questa coscienza li
faceva fieri, coraggiosi e buoni.
Ignoranti o dotti, giovani
ingenui o vecchi avanzi di altre battaglie; parte eletta del proletariato o
figli di borghesi ribelli alla classe in cui eran nati, che i loro privilegi di
nascita consideravano come un debito che imponeva loro maggiori doveri verso la
causa dei diseredati, essi avevano fede nel bene ed in loro stessi, amavano il
popolo, erano assetati di scienza e di lotte, e baldi e fiduciosi affrontavano
le beffe e le calunnie, le piccole e le grandi persecuzioni, il carcere,
l’esilio, la miseria, il patibolo; e andavano avanti.
Votati ad una lotta a morte
contro tutte le istituzioni politiche, economiche, religiose, giudiziarie,
totalitarie del mondo borghese; urtando tanti interessi e tanti pregiudizi;
dovendo resistere a seduzioni e minacce d’ogni sorta, essi, tanto per ripugnanza
naturale contro gli sfruttatori ed i mistificatori del popolo, quanto per
tattica di combattimento, si separavano nettamente da tutti coloro che non erano
popolo e non combattevano per l’emancipazione integrale del popolo. Essi
formavano partito, scuola, quasi diremmo classe da loro.
Soli contro tutti, essi
scrivevano sulla loro bandiera il motto delle coscienze integre, il motto di chi
ha fede in sé e nella propria causa, il motto sacro dei giorni di battaglia:
Chi non è con noi è contro di noi. Ed intendevano che fossero con loro tutti
i miseri, tutti gli oppressi, tutte le vittime; e tutti coloro che facevano
propria la causa dei miseri e combattevano per la giustizia, per la libertà e
pel benessere generale: come erano contro di loro tutti i detentori e
sostenitori del potere e tutti coloro che al potere aspiravano. Altro
socialismo, altri socialisti non v’erano.
Ed allora? Ora v’è un
socialismo che serve solo ad ingannare il popolo con vane promesse per
mantenerlo docile o per farsene sgabello; e vi sono dei socialisti che
puttaneggiano nei ministeri e nei parlamenti, che s’alleano coi borghesi, che si
inchinano ai ministri, che acclamano un imperatore, che si vendono ad un
soldato, che mentono ai loro compagni, che prostituiscono ideali, programma,
coscienza per carpire agli ingenui un voto il quale valga a farli accogliere in
mezzo alla borghesia.
O socialisti, uomini semplici
e puri, cui ferve nel petto il santo amore degli uomini; o socialisti che per le
lusinghe di falsi amici faceste inconsapevolmente gli interessi della borghesia,
non sentite vergogna vedendo la vostra bandiera trascinata nel fango?
Oh! no; codesti mercanti di
voti, codesti commedianti non sono socialisti; cacciateli di mezzo a voi. E voi
ritornate alle maschie battaglie che spazzeranno via dal mondo proprietà
individuale e governi, miseria e schiavitù.
2.
LA POLEMICA CON MERLINO
MERLINO: “Anarchici e socialisti di fronte alla questione elettorale”.
Lettera pubblicata dal
Messaggero il 29 gennaio 1897. Merlino apre la polemica a proposito delle
elezioni politiche che si sarebbero tenute nel marzo di quell’anno.
Signor direttore,
Da parecchie parti mi vien
domandato se son di parere che si debba prender parte o no alle elezioni
politiche.
Nel
numero di oggi del Messaggero leggo che anche in una riunione tenuta a
Senigallia, si interpretò variamente quello che io dissi in proposito, in una
conferenza a Napoli.
Ora è manifesto che non
importa punto sapere come io la pensi: importa invece moltissimo sapere quale
delle due opinioni
–
quella favorevole o quella
contraria alla partecipazione alle elezioni
–
sia la vera. E questo è quello che io vorrei discutere una volta per sempre per
tutti.
È risaputo che i socialisti
in lotta con i repubblicani e coi democratici, hanno sostenuto per molti anni,
e molti di essi sostengono tuttavia, che le forme politiche sono di nessun
valore, che tanto vale la monarchia quanto la repubblica, e che le libertà
sancite dagli Statuti sono una lustra, perché chi è povero è schiavo.
La questione sociale
–
si è detto
–
è tutta nella dipendenza
economica degli operai dai padroni: scalziamo questa e la libertà verrà da sé.
Questa è una grande verità.
Le libertà politiche
sono, ma chi pon mano
ad esse? Chi può esercitarle davvero sotto il regime attuale? Non può essere
politicamente libero il popolo che è economicamente schiavo. Ma, se le libertà
politiche e costituzionali hanno minor valore che generalmente non si creda, non
segue che esse non servano affatto. Servono tantochè il governo ce le strappa,
con intendimento di ritardare l’emancipazione della classe operaia.
Dunque esse hanno un valore
innegabile. Ma queste libertà non consistono semplicemente nel diritto di voto e
nell’uso che se ne può fare.
Sono anche i diritti di
riunione e di associazione, l’inviolabilità personale e del domicilio; il
diritto di non essere punito o perseguitato per semplice sospetto (come avviene
nei casi d’ammonizione e del domicilio coatto); ecc. ecc.
E queste libertà si difendono
non solo in Parlamento (il Parlamento, disse una volta il Lemoine,
somiglia a un certo giocattolo da bambini, che fa molto strepito
senza alcun frutto), ma si difendono sopratutto fuori del Parlamento,
lottando ogni qualvolta il potere esecutivo commette un arbitrio o una
prepotenza contro una classe di cittadini od anche contro un solo individuo,
siccome usa in altri paesi, dove anche senza tenere rappresentanti al
Parlamento, il popolo sa imporre al governo il rispetto delle sue libertà.
Con
questo non voglio dire che la lotta per la libertà
–
e fino
a un certo punto anche quella per il socialismo
–
non si
possa e debba fare anche durante le elezioni e nel Parlamento.
Io credo che noi combattendo
a oltranza, come abbiamo fatto, il parlamentarismo, ci si sia data la zappa
sui piedi: perché abbiamo contribuito a creare quest’orribile indifferenza del
pubblico per il sistema parlamentare non solo, ma anche per le libertà
costituzionali, sì che il governo ha potuto impunemente violarle, senza che un
grido solo di protesta siasi levato dai figli di coloro che dettero la vita per
conquistarle.
Il parlamentarismo non è la
fenice dei sistemi politici: tutt’altro! Ma per pessimo che sia, è sempre
migliore dell’assolutismo, al quale noi a grandi passi ci incamminiamo.
Dunque, oggi come oggi, al
partito socialista (nel quale comprendo anche gli anarchici non individualisti)
incombe la difesa della libertà.
Questa lotta, secondo me,
deve essere combattuta su tutti i terreni – compreso quello delle elezioni – ma
non su quello esclusivamente.
I socialisti anarchici non
hanno bisogno di candidati propri: essi non aspirano al potere e non sanno che
farsene. Ma essi devono protestare contro la reazione governativa, prendendo
parte all’agitazione elettorale, e va da sé che fra un candidato crispino o
rudiniano o zanardelliano, disposto a votare stati di assedio, leggi
eccezionali, eleggibilità di candidati politici
–
e magari massacri di
moltitudini affamate
–
e un socialista o repubblicano sincero, sarebbe follia preferire il
primo.
Essi però possono e devono dir chiaro e tondo
al popolo, che non s’illudono come taluni socialisti, di poter far breccia a
colpì di schede nella cittadella borghese e conquistarla.
Essi però possono e devono
dire ai socialisti stessi che il voto è un episodio della lotta per il
Socialismo, e non il più importante; la vera lotta deve essere fatta nel paese e
col paese sul terreno economico e sul politico.
“L’emancipazione dei
lavoratori deve essere opera dei lavoratori”; non può essere opera dei
politicanti.
Ecco la mia opinione sulla
più grave ragione di dissidio tra socialisti ed anarchici.
Sventuratamente questi e
quelli si son fatti del male
–
e, quel che è più,
–
si son detti delle insolenze
reciprocamente: e il ricordo fa velo ai loro occhi e impedisce loro di
considerare il vero interesse della causa.
Taluni caporioni legalitari
sono intolleranti e piccini (il giornale massimo del partito non ha avuto una
parola di protesta per il mio arresto singolarissimo a Firenze); gli anarchici
sono irosi e implacabili.
Fra i due litiganti ci gode
il governo.
MALATESTA: “Gli
anarchici contro il Parlamento”
Risposta di Malatesta a Merlino pubblicata dal
Messaggero il 7 tebbraio 1897. L’indicazione di Londra è messa dello
scrivente per sviare la polizia in quanto in quell’epoca egli si trovava In
Italia.
Londra, 2 febbraio 1897
Signor Direttore del
Messaggero,
Sono informato che i
socialisti parlamentari d’Italia van dicendo che io, d’accordo col Merlino
ritengo utile che i socialisti-anarchici partecipino alle lotte elettorali
votando per il candidato più avanzato.
Poiché mi fan l’onore di occuparsi della mia
opinione, non sarò stimato presuntuoso se mi affretto a far conoscere ad essi
ed al pubblico quel che veramente io penso della questione.
Io non contesto
certo al mio amico Merlino di pensarla come crede e di dirlo senza reticenze.
Sarebbe stato preferibile ch’egli prima di annunziare al pubblico un
cambiamento di tattica, che poi non ha alcun valore se non è accettata dai
compagni, discutesse maggiormente la cosa tra quelli del partito cui egli ha
finora appartenuto e col quale spero vorrà continuare a combattere. Ma anche
questo, più che colpa del Merlino, è colpa della crisi prolungata che ha
afflitto il nostro partito e dello stato di riorganizzazione ancora incipiente
in cui ci troviamo.
Però bisogna che consti che
ciò che ha detto Merlino relativamente al parlamentarismo e alle lotte
elettorali è niente altro che un’opinione personale, la quale non può
pregiudicare la tattica che sarà adottata dal partito socialista anarchico.
Per conto mio, per quanto mi
dispiaccia separarmi in una questione tanto importante da un uomo del valore di
Merlino ed al quale mi legano tanti vincoli d’affetto, sento il dovere di
dichiarare che, a parer mio, la tattica preconizzata da Merlino è nefasta, e
menerebbe fatalmente alla rinunzia di tutto intero il programma socialista
anarchico. E credo poter affermare che così la pensano tutti, o quasi tutti gli
anarchici.
Gli anarchici restano, come
sempre, avversari decisi del parlamentarismo e della tattica parlamentare.
Avversari del parlamentarismo, perché credono
che il socialismo debba e possa solo realizzarsi mediante la libera federazione
delle associazioni di produzione e di consumo, e che qualsiasi governo, quello
parlamentare compreso, non solo è impotente a risolvere la questione sociale e
armonizzare e soddisfare gl’interessi di tutti, ma costituisce per se stesso
una classe privilegiata con idee, passioni ed interessi contrari a quelli del
popolo che ha modo di opprimere con le forze del popolo stesso. Avversari della
lotta parlamentare, perché credono che essa, lungi dal favorire lo sviluppo
della coscienza popolare, tenda a disabituare il popolo dalla cura diretta dei
propri interessi ed è scuola agli uni di servilismo, agli altri d’intrighi e
menzogne.
Noi siam lontani dal disconoscere l’importanza
delle libertà politiche. Ma le libertà politiche non si ottengono se non quando
il popolo si mostra deciso a volerle; né, ottenute, durano ed han valore se non
quando i governi sentono che il popolo non ne sopporterebbe la soppressione.
Abituare il popolo a delegare
ad altri la conquista e la difesa dei suoi diritti, è il modo più sicuro di
lasciar libero corso all’arbitrio dei governanti.
Il parlamentarismo val meglio
del dispotismo, è vero; ma solo quando esso rappresenta una concessione fatta
dal despota per paura di peggio.
Tra il parlamentarismo
accettato e vantato, e il dispotismo subito per forza con l’animo intento alla
riscossa, meglio mille volte il dispotismo.
So bene che Merlino dà alle
elezioni una importanza minima e vuole, come noi, che la lotta vera si faccia
nel paese e col paese. Ma purtroppo i due metodi di lotta non vanno insieme, e
chi li accetta tutti e due, finisce fatalmente col sacrificare all’interesse
elettorale ogni altra considerazione. L’esperienza lo prova, e il natural amore
del quieto vivere lo spiega.
E Merlino mostra di ben
comprendere il pericolo quando dice che i socialisti-anarchici non hanno
bisogno di presentar candidati propri, poiché essi non aspirano al potere e
non sanno che farsene.
Ma è questa una posizione
sostenibile? Se nel Parlamento si può far del bene, perché gli altri e non noi,
che crediamo aver più ragione degli altri?
Se noi non
aspiriamo al potere, perché aiutare quelli che vi aspirano? Se noi non sappiamo
che fare del potere, che cosa se ne farebbero gli altri, se non lo esercitano a
danno del popolo?
Stia sicuro di questo il
Merlino: se oggi noi dicessimo alla gente di andare a votare, domani diremmo di
votare per noi. E saremmo logici. Io, in tutti i casi, se dovessi consigliare di
votare per qualcuno, consiglierei subito di votare per me, poiché credo (e in
questo probabilmente ho torto, ma è torto umano) di valere quanto un altro, e mi
sento sicuro della mia onestà e della mia fermezza.
Non ho, per certo, colle
precedenti considerazioni, detto tutto quello che vi sarebbe da dire, ma temo di
abusare troppo del vostro spazio. Mi spiegherò più ampiamente in appo-sito
scritto; né mancherà, lo spero, un atto collettivo del partito che riaffermi i
principi antiparlamentari e la tattica astensionista dei socialisti-anarchici.
Speranzoso che considererete
questa mia utile per informare il pubblico sul contegno che i vari partiti
osserveranno nelle venienti elezioni e che perciò vorrete pubblicarla, vi
ringrazio anticipatamente.
112, High
Street, Islington N. London.
MERLINO: “Anarchici e
socialisti nelle elezioni politiche”
Risposta di Merlino pubblicata dal
Messaggero il 10 febbraio 1897.
Signor direttore,
L’amico Malatesta, a nome
(pare) di tutti o quasi tutti gli anarchici ha creduto di poter
riaffermare in risposta alla mia lettera del 29 gennaio
–
e sembra che si prepari a
riaffermare anche con un altro suo scritto e con un atto collettivo
del partito
–
i principii
antiparlamentari e la tattica esclusionista
dei socialisti-anarchici.
Io li invidio, codesti
anarchici. Vorrei anch’io poter nutrire l’antica fede ai trionfi avvezza
(veramente non so se ai trionfi, ma certo alle battaglie). Vorrei anch’io aver
conservato le idee semplici e tutte d’un pezzo di dieci anni fa. Allora anch’io
m’illuderei e chiamerei lo stato di disfacimento del partito anarchico uno
stato di riorganizzazione incipiente. Anch’io direi di saper di sicuro in
qual modo,
–
e non altrimenti
–
si attuerà il socialismo.
Anche io ripeterei che il governo, ogni governo, non è che l’organizzazione
della classe privilegiata che opprime il popolo con le forze del popolo
stesso e che il popolo, nominando dei deputati, delega ad essi la
conquista e la difesa dei suoi diritti. E quando avessi detto ciò, mi
sentirei soddisfatto e aspetterei il gran giorno della grande rivoluzione, che
deve cambiare la faccia della terra, ma che ha il torto, secondo me gravissimo,
di farsi un po’ troppo aspettare.
Disgraziatamente, lo
confesso, son fatto alquanto maturo: e benché mi tornasse comodo, non voglio
buttarmi l’esperienza di dieci o quindici anni dietro le spalle. Son convinto
che il partito anarchico abbia sbagliato strada: son convinto che gli anarchici
tutti o quasi tutti, hanno lo stesso mio convincimento; e soltanto non osano
confessarlo, e non hanno la forza di animo necessaria per staccarsi dal loro
passato.
La tattica astensionista ha
portato questi due risultati: 1) ci ha separati dalla parte attiva e militante
del popolo; 2) ci ha indebolito di fronte al governo.
Si ha
un bel dire che per astensione non si vuol intendere inazione, ma bensì
partecipazione all’agitazione elettorale con propaganda anti-parlamentare.
Da quella logica, che l’amico mio invoca, gli anarchici astensionisti dovevano
finire ed hanno finito per starsene addirittura a casa; quando non hanno votato
sottomano per qualche candidato del loro cuore (come individui s’intende, non
come partito), senza dire di quelli che addirittura hanno passato il Rubicone,
e sono andati a schierarsi
–
per
mero desiderio di fare qualcosa
–
coi
socialisti legalitari.
Il governo poi ha profittato
del nostro isolamento per darci addosso in tutti i modi, legali e illegali. (Il
governo, si vede, non ha gli scrupoli che abbiamo noialtri).
E noi siamo ridotti al punto
di non poter fare la menoma propaganda. La polizia può, a suo libito,
imprigionarci, farci condannare, mandarci al domicilio coatto. Che resistenza
opponiamo noi? Nessuna.
La nostra è la guerra delle
braccia incrociate. Fossimo almeno partigiani della non resistenza al male;
avremmo di che consolarci. Niente affatto: noi aspettiamo che maturi la
rivoluzione. Frattanto noi abbiamo veduto in questi giorni che chi abbia potuto
portare una parola di incoraggiamento agli scioperanti di Civitavecchia è stato
un deputato socialista. E continuiamo a dire che non serve a nulla la lotta
parlamentare!
Malatesta dice:
Se dobbiamo votare
pei socialisti o
pei repubblicani, tanto varrebbe andare noi medesimi al Parlamento.
Per
noi non si tratta, come pei socialisti, di riuscire noi, e andare ad attuare il
nostro programma in pieno Parlamento, al cospetto del colto e dell’inclita; ma
si tratta di aiutare a riuscire quanto più oppositori sinceri ed energici del
governo è possibile
–
trecento Imbriani, per così dire
–
ma
degli Imbriani che non si contentino di bombardare d’interpellanze al
Parlamento i ministri, ma muovano una guerra seria e continua al governo nel
paese, giovandosi anche, finché non ne siano privati, delle prerogative
parlamentari.
Malatesta afferma che la
lotta extra-parlamentare per la libertà non si possa fare, quando si fa la
lotta elettorale. Io penso precisamente il contrario.
Quello poi che non posso
concedergli a nessun patto è che la tattica parlamentare lungi dal favorire
lo sviluppo della coscienza popolare, tende a disabituare il popolo dalla cura
diretta dei propri interessi.
Questo è
dottrinarismo schietto. L’agitazione elettorale socialista strappa le
moltitudini dalla loro indifferenza ereditaria per le pubbliche faccende: in
Italia essa ha conquistato alla nostra causa regioni, che si erano addimostrate
e sono tuttavia refrattarie alla propaganda anarchica.
Il parlamentarismo ha i suoi
inconvenienti: ma che cosa non ne ha? Quale tattica, o agitazione, o azione,
potrebbe consigliare il Malatesta, la quale non presenti inconvenienti uguali,
se non maggiori? Alcuni nostri amici si sono dati ad organizzare cooperative:
lavoro utilissimo anche questo: ma non è il nostro lavoro.
Nè i soci delle cooperative
possono essere tutti socialisti e anarchici: nè il governo tollererebbe
cooperative cosiffatte. Senza dire che non poche cooperative diventano, vià
facendo, intraprese capitalistiche: talune nascono addirittura tali.
Che fare dunque? organizzare
società operaie di resistenza? Ma appena queste cominciano ad essere numerose e
potenti (come le Unioni inglesi) ecco sorgere uno stato maggiore di presidenti,
vice presidenti, segretari e cassieri
–
insomma un parlamentarismo da
degradare... quell’altro.
Il
parlamentarismo non è un principio, è un mezzo: sbagliano quelli che ne fanno
una panacea, ma sbagliano anche quelli che lo guardano con sacro orrore, come se
fosse la peste bubbonica.
E non è poi vero che il
parlamentarismo sia destinato a sparire interamente. Qualcosa ne rimarrà anche
nella società che noi vagheggiamo. Io ricordo uno scritto che Malatesta inviò
alla conferenza di Chicago del 1893: dove egli sosteneva che per talune cose il
parere della maggioranza dovrà necessariamente prevalere su quello della
minoranza.
Ma a parte ciò, anche data
l’unanimità, non tutti quelli che hanno deliberato si porranno ad eseguire in
massa le loro deliberazioni. A meno di non ammettere quest’aforisma, che io ho
ragione di credere che il Malatesta con me ripudi, bisognerà distribuire gli
incarichi affidandoli ai più capaci.
Ed ecco questi incaricati
formeranno un governo o un’amministrazione.., per carità non sofistichiamo sulle
parole. Un minimo di governo o di amministrazione ci sarà anche nella società
meglio organizzata: solo dobbiamo studiare i modi di renderlo innocuo, di
impedire che i pochi si arroghino un potere sulle moltitudini, di ottenere che
il popolo eserciti un sindacato continuo ed effettivo sui suoi amministratori o
delegati.
Io riconosco gl’inconvenienti
del sistema parlamentare e desidero eliminarli, ma non già tornare al
dispotismo.
Riconosco pessimo
l’ordinamento attuale della giustizia, ma non vedrei volentieri un ritorno alla
legge di Lynch, nè al sistema della vendetta privata
–
come riconosco i torti della
giuria ma non vorrei rimettere la mia libertà nelle mani del giudice togato.
Riconosco l’ingiustizia delle
leggi: ma non vorrei tornare al tempo in cui la volontà dei principe era legge.
Voglio insomma progredire da
buon positivista, che crede la società si perfeziona, non si rifonde e
rimodella, né si rifà con una ricetta di principi astratti. Son convinto che i
socialisti, tutti
–
anarchici marxisti e
repubblicani
–
hanno a un dipresso le stesse
aspirazioni; e vorrei vederli tutti lottare insieme: e francamente vorrei
vedere qualche risultato. Mi rincrescerebbe morire nell’aspettativa in cui vivo
da parecchi anni.
MERLINO: “Gli anarchici e le elezioni”
Ulteriore intervento di Merlino, questa volta sull’Avanti!
del 9 marzo 1897.
Una mia dichiarazione nel
Messaggero del 29 gennaio in favore della lotta politica parlamentare come
mezzo e stimolo ad una vasta e feconda agitazione popolare, ha dato luogo ad
una polemica, che dalle colonne di quel giornale si è spostata sulla stampa
socialista e anarchica. Io non ho risposto che a uno solo dei miei
contraddittori, il Malatesta, amico mio da molti anni, col quale ho finito
sempre, benché differissimo temporaneamente – e spero di finire anche stavolta
– col trovarmi d’accordo. Ad altri rispondo ora collettivamente, perché mi preme
di dire tutto il mio pensiero e di chiudere, per conto mio, una polemica
alquanto ingrata.
Si afferma che
la lotta politica parlamentare sia contraria ai principi socialisti anarchici.
L’asserzione è una di quelle che, avventate da qualcuno, passano di bocca in
bocca e si ripetono fino a diventare assiomatiche in un dato circolo di
persone, senza che nessuno le abbia ponderate.
Intendiamoci. Quello che è
contrario ai principi nostri è il partecipare al governo come ministri, come
impiegati, come poliziotti, come giudici, magari come legislatori... Sì, anche
come legislatori, perché io sostengo che il deputato o socialista o operaio o
rivoluzionario dev’essere non un legislatore, bensì un agitatore.
Ma non è contrario ai nostri principi che il popolo eserciti un’ingerenza,
per quanto indiretta e di poco valore, nell’amministrazione della cosa
pubblica. Noi possiamo e dobbiamo dolerci che quest’ingerenza oggi sia minima;
che la sovranità popolare duri il quarto d’ora delle elezioni; che poi gli
elettori, tornati a casa – il contadino all’aratro, l’operaio all’officina –
gli eletti rimangano arbitri della cosa pubblica e dispongano a loro talento
dei più gravi interessi del Paese. Questo è il male, non la partecipazione di
una parte del popolo all’elezione dei deputati e di alcuni pubblici
amministratori.
Ora a questo male non si
rimedia astenendosi dalle urne; ma bensì inducendo il popolo anzitutto ad
esercitare con coscienza e vigore quella poca autorità che ha, poi a reclamarne
una maggiore; abituandolo a lottare e prolungando la lotta oltre il breve
periodo elettorale.
La lotta politica deve
svolgersi nel Parlamento e fuori del Parlamento. Qui sta la differenza fra il
mio modo d’intenderla e quello dei politicanti e purtroppo anche di taluni
socialisti e di molti democratici.
Per costoro la lotta politica
sta tutta nel mandare alla Camera il maggior numero possibile di deputati del
proprio partito.
Per me invece l’elezione dei
deputati ostili al governo non è che un modo di agitazione popolare, e il
compito dei deputati non è già di proporre leggi e di chiacchierare sugli ordini
del giorno presentati alla Camera; ma di combattere la maggioranza parlamentare
e il governo, di denunziare al Paese gli arbitrii e le prepotenze e di prendere
parte a tutte le agitazioni popolari, lasciandosi magari imprigionare coi loro
elettori.
Purtroppo i deputati
democratici d’oggi non fanno nulla di tutto questo; tengono a bada il popolo
con discorsi e interpellanze, ma si guardano bene dal promuovere o secondare
serie agitazioni.
Il governo scioglie associazioni, proibisce
riunioni, calpesta le libertà popolari. L’on. Cavallotti a chi domandava che
intendeva di fare, rispondeva: Ne parlerò alla Camera.
Le aule universitarie sono
invase da poliziotti, i quali malmenano professori e studenti. Pazienza: l’on.
Cavallotti ne parlerà alla Camera.
Le flotte
europee cannoneggiano gl’insorti di Candia, e la diplomazia soffoca il grido di
libertà dei popoli gementi sotto la dominazione turca. Consoliamoci: Cavallotti
ne parlerà alla Camera.
Francamente, questa non è
condotta di democratico; ma di uno che diffida del popolo e crede che le grandi
e piccole questioni politiche si debbano trattare nelle alcove ministeriali o
in quell’anticamera del ministero che è il Parlamento nazionale.
Noi invece dobbiamo volere che il popolo faccia
valere la sua volontà e i suoi interessi contro la volontà e gl’interessi della
consorteria dominante, che esso lotti sul terreno politico come sull’economico,
per la propria emancipazione; e guardi al governo non come ad un padrone cui si
debbono ubbidienza ed ossequio, ma come ad un servitore cui si comanda e che si
può congedare quando non faccia il suo dovere o non si abbia più bisogno
dell’opera sua.
Anni addietro gli operai
delle nostre grandi città si peritavano di ingerirsi di politica. I conservatori
alla Pepoli insinuavano che è dovere degli operai di occuparsi unicamente dei
propri interessi economici, rimanendo estranei a ogni agitazione politica; e
tutt’al più concedevano loro di andare ad acclamare i sovrani e i ministri alle
stazioni e a votare, nelle elezioni politiche e amministrative, pei loro
benemeriti padroni.
Fu un progresso che gli
operai cominciassero a votare per individui della loro classe, e molti di essi
concepissero l’ambizione d’andare al Parlamento e ai consigli comunali e
provinciali; ed un progresso maggiore fu fatto quando, costituitosi il partito
socialista, essi andarono a votare per una grande idea.
Ora rimangono tuttavia
moltitudini di operai e di contadini ligi ai padroni, che li sfruttano
economicamente e politicamente, come lavoratori e come elettori. È forse
contrario ai nostri principi tentare di strappare queste moltitudini alla loro
servitù e gettarle nella lotta politica, magari se si debba cominciare dalle
elezioni?
Ma si dirà, se non è contrario ai nostri
principi che il popolo, invece di lasciare la scelta dei deputati e dei
consiglieri alla classe dominante, concorra anch’esso alla loro elezione, è
certamente contrario ai nostri principi accettare il mandato, andare alla
Camera o al Municipio, votare le leggi, convalidare gli atti del governo e
partecipare alle spoglie del potere.
D’accordo: ma io ripeto, si
può andare al Parlamento o al Consiglio comunale non a governare, bensì a
combattere il governo; non a far leggi, ma a dimostrare l’ingiustizia delle
leggi che ci sono; non a mettere la mano nel sacco. ma a gridare ai ladri. Si
può andare al Parlamento come un operaio, delegato dai suoi compagni, va in
un’adunanza di padroni a discutere le condizioni di lavoro; o come un imputato
o il suo difensore va in tribunale a dire le sue ragioni o quelle del suo
cliente, anche quando non riconosce l’autorità dei giudici. Fino a che vige
l’attuale sistema, l’imputato si deve difendere, l’operaio deve sforzarsi di
ottenere condizioni meno dure dal padrone, e il popolo deve schermirsi dalla
tirannide, mettendo bastoni fra le ruote del governo.
Per poco che valgano le
elezioni, valgono a strappare qualche concessione al governo o ad imporgli un
certo riguardo per l’opinione pubblica. E per poco che valga la presenza di
socialisti o di rivoluzionari al Parlamento, vale qualche volta ad impedire una
grave ingiustizia. E per poco che valgano le immunità parlamentari, non si può
negare che molte riunioni si tengono grazie alla presenza di deputati. Oh! il
governo restringerebbe volentieri l’elettorato, il numero dei deputati e le
immunità che essi godono: e sarebbe felicissimo se potesse far senza
addirittura di deputati e di elezioni.
Gli stessi anarchici
astensionisti riconoscono che qualche frutto si può ricavare dalle elezioni; e
qui a Roma hanno deliberato di proporre il Galleani per liberarlo dal domicilio
coatto. Ottima idea, anche perché il Galleani è giovane intelligente, sincero
ed energico, tre qualità che non si trovano riunite in molti uomini. Ma, dico
io, supponete che riesca, rinunzierà egli poi per tornare forse al domicilio
coatto – donde voi dovreste trarlo fuori con una nuova elezione – e così di
seguito?
E se non è contrario ai
principi votare per liberare un coatto politico, sarà contrario ai principi
votare per impedire al governo di fare di noi altrettanti coatti politici?
Il governo annunzia per la
prossima legislatura il rimaneggiamento della legge sul domicilio coatto, una
restrizione dell’elettorato e il prosieguo degli scioglimenti di associazioni e
delle proibizioni di riunioni; i suoi candidati sono disposti ad approvare tutto
questo, e magari nuovi stati d’assedio e nuovi massacri di moltitudini
affamate.
Lasceremo fare? Staremo
inerti spettatori di una lotta di cui le conseguenze ricadono su di noi? Per
poco che l’opera nostra valga ad impedire la riescita di candidati
ministeriali, vi rinunceremo noi, e rinunciandovi non faremo noi cosa grata al
governo?
Ma
taluni davvero si compiacciono della reazione. Perché a dispetto delle
persecuzioni le idee progrediscono, essi si immaginano che progrediscano a
causa delle persecuzioni. C’è chi ripete ciò che scrive Malatesta: il
dispotismo essere da preferire all’ibrido sistema attuale.
Supponiamo che il governo li
prenda in parola e faccia un colpo di stato: sopprima il Parlamento, tolga la
libertà di stampa e riduca l’Italia allo stato politico della Russia. Mi dicano
sinceramente i miei amici: la causa del socialismo ci guadagnerebbe? o la lotta
per il costituzionalismo assorbirebbe e impedirebbe per molti anni la lotta per
il socialismo, come appunto avviene in Russia?
Mi si dirà: Questi a cui
avete accennato, sono i vantaggi della lotta elettorale. Ad essi si
contrappongono danni di gran lunga maggiori: la corruzione, le ambizioni, i
compromessi coi partiti affini. Potrei rispondere che danni di questo genere si
verificano in ogni opera nostra: sono il tributo che si deve pagare
all’imperfezione dell’umana natura.
Se noi impiantiamo un
giornale, ecco sorgere ambizioni, invidie, gelosie e magari (se il giornale
prospera) un interesse economico in questo o in quello dei suoi redattori od
amministratori. Rinunceremo noi, per questo inconveniente, a propagare le nostre
idee per mezzo della stampa?
E non dirò che l’ambizione
può essere utile, perché non tutti gli uomini che lottano per un’idea, son
mossi ad agire dalla pura convinzione della giustizia della loro causa. Molti
eroi delle passate rivoluzioni furono spinti al sacrificio dal desiderio di far
parlare di sé, da gelosia, da angustie finanziarie in cui versavano: e possiamo
ammettere che anche oggi gli uomini praticano il bene per una varietà di motivi
buoni, mediocri e cattivi.
In talune località il partito
socialista è sorto perché taluni vi hanno scorto un mezzo di andare al
Consiglio comunale o al Parlamento. Meglio che sia sorto così che non sorgesse
affatto. Man mano si verrà depurando; perché la forza del socialismo sta in
ciò, che esso risponde ai grandi interessi della grande maggioranza del popolo;
e quando questo si fa innanzi, le ambizioni e le vanità individuali devono
cedere e scomparire.
Ma è poi vero che le elezioni
siano niente altro che una scuola di corruzione? Quelli che vanno a votare per
il candidato socialista o operaio o rivoluzionano, sfidando ire governative e
ire padronali e rimettendoci qualche soldo, non mi pare che si corrompano; al
contrario si appassionano per la Causa, e lo stesso ardore che mettono nella
lotta elettorale, posson metterlo in altro genere di lotta. Non credo che i
ferventi elezionisti debbano essere necessariamente tiepidi rivoluzionari.
Ma la lotta elettorale ci obbliga a compromessi.
Anche qui potrei rispondere che compromessi ne facciamo tutti i giorni,
lavorando per un padrone od esercitando una professione, un commercio,
notificando alla polizia le riunioni pubbliche da noi indette, mandando al
procuratore del re la prima copia dei nostri giornali, ricorrendo ad avvocati
che ci difendano avanti ai tribunali, intendendoci con altri partiti per date
agitazioni. E se domani, fatta la rivoluzione, dovessimo attuare il socialismo,
dico e sostengo che saremmo costretti a fare dei compromessi, se pure non
volessimo imporre le nostre idee agli altri o sottometterci alle altrui.
Ma i compromessi elettorali
possono cadere sui voti, non debbono cadere sui principi: si capisce che
compromessi che offendano i principi, non si debbono accettare.
D’altra parte, se la nostra
partecipazione alle elezioni non producesse altro vantaggio che quello di
avvicinarci ai partiti affini, facendoci riconoscere ciò che vi può essere di
giusto nei loro programmi – e di avvicinare i partiti affini a noi, facendoli
convenire in una parte almeno delle nostre rivendicazioni – di accostare tutti
al popolo e indurci a tener conto dei veri bisogni e sentimenti e delle vere
aspirazioni di esso, solo per questo sarebbe da approvare.
In Germania, in Francia, nel
Belgio l’interesse elettorale ha spinto i socialisti a consacrare una parte
delle loro forze alla propaganda nelle campagne, per guadagnare i contadini alla
causa del socialismo. Basterebbe questo fatto a giustificare la tattica
elettorale; perché chi è che non vegga che senza il concorso dei contadini una
rivoluzione socialista non è possibile, e pure scoppiando, terminerebbe in un
disastro.
Io non sono profeta, ma ho predetto ai miei
amici astensionisti che (dove non ricorrano al ripiego del candidato protesta)
essi non faranno neppure la propaganda astensionista.
Le elezioni si faranno, tutti
i partiti si affermeranno: di voi e dei vostri principi e degli interessi che
vi stanno a cuore, non si parlerà. Sarete dimenticati.
E lo ripeto, e i fatti mi
daranno ragione. L’astensione ha la sua logica. Dal momento che le elezioni non
servono, tanto vale starsene a casa. D’altronde, la gente è poco disposta ad
ascoltare predicozzi; e durante l’agitazione elettorale non si appassiona che
per quei principi che prendono corpo e persona, che diventano, per cosi dire,
candidati.
Se volete dunque che si
discuta di anarchia – ho detto e ripeto ai miei amici – dovete schierarvi pro o
contro qualcuno. A questa condizione la vostra parola sarà ascoltata; la vostra
opinione rispettata, condivisa o combattuta, ad ogni modo discussa; la vostra
amicizia ricercata e la vostra inimicizia temuta.
Ma gli astensionisti non
intendono queste ragioni. Essi sono dottrinari e argomentano così: “Il
parlamentarismo è contrario ai principi anarchici. Dunque noi dobbiamo
combatterlo con la parola, aspettando che si presenti l’occasione di
distruggerlo coi fatti. Se poi le nostre forze bastano o no a quest’opera; se
l’occasione tarda e frattanto il popolo langue e si scoraggia; se il popolo
seguirà o no la nostra iniziativa; se le nostre idee si attueranno oggi o di
qui a mille anni; o se per avventura siano troppo semplici e astratte per essere
applicate, – tutto ciò non ci riguarda. Affermiamo le idee: esse troveranno la
strada di attuarsi. Il popolo ammirerà la nostra coerenza e verrà a noi. E se
anche non venisse, se pure le nostre idee dovessero non attuarsi né ora né mai,
noi avremo fatto il nostro dovere. I mezzi termini ci indeboliscono,
corrompono, dividono: la verità sola, detta tutta intera e senza ambagi, ci può
salvare”.
Prima di tutto, questo modo
di ragionare implica il convincimento che essi soli, gli anarchici
astensionisti, siano nel vero, che posseggano tutta intera la verità, e che
non c’è che un modo di risolvere la questione sociale, ed è quello da essi
proposto.
Poi, il ragionamento è
radicalmente sbagliato. Le idee non valgono per se stesse, ma per l’azione che
esercitano sulla sorte degli uomini.
Una verità che non si può attuare, non può essere perfettamente vera; un
partito che non riesce a guadagnare alla sua causa la moltitudine, ha sbagliato
strada. La lotta deve avere un fine immediato; dove tanti milioni di nostri
simili soffrono giornalmente, è insensatezza consumare le proprie energie in
guerricciole di partito e in quisquilie accademiche.
Il sistema parlamentare può
non convenire alla società futura; frattanto la lotta elettorale ci offre mezzi
e opportunità di propaganda e di agitazione. Essa ha anche inconvenienti come
tutte le cose di questo mondo. Molto dipende dal modo come si fa.
Che direbbero gli anarchici a
chi argomentasse cosi: la violenza è contraria ai nostri principi; dunque non
dobbiamo usare la forza neanche per difendere la nostra vita?
Risponderebbero certamente che l’uso della forza
ci è imposto dalle condizioni della società in cui viviamo; e così rispondo io
ai loro argomenti contro la lotta politica parlamentare.
È vero o non è vero che l’uso
dei mezzi legali ci è imposto nei tempi ordinari, come quello della violenza
nelle occasioni straordinarie? Io dico di si.
Non ci illudiamo. Sopra cento
persone se ne possono trovare magari dieci capaci di affrontare la morte sul
campo di battaglia o in una insurrezione; ma se ne troverà sì e no una disposta
ad affrontare le piccole persecuzioni di tutti i giorni, ad andare in carcere,
a farsi mandar via dal padrone, a veder la moglie e i figlioli soffrire la fame.
E i pochissimi che resistono
a queste persecuzioni, il governo li conta, li sorveglia, li aggredisce e li
sbaraglia in un momento.
Un partito veramente
rivoluzionario deve stendere le sue propaggini fra il popolo, e questo non può
farlo se non con un’azione che non sia esposta a troppi pericoli in tempi
ordinari. La lotta elettorale risponde appunto a questa condizione; e non si può
negare che, per averla adottata, il partito socialista è riuscito a riunire un
gran numero di operai nelle sue file.
Viceversa, gli anarchici
hanno veduto diradare le loro, appunto perché si son voluti ostinare nella loro
tattica astensionista; ed io non dubito che, se continueranno ad ostinarsi,
cesseranno addirittura di esistere come partito; e di essi non si parlerà, come
già non se ne parla, se non quando al governo piaccia di perseguitarli per
sfogare su di essi la sua libidine di persecuzione.
Riepilogando, senza credere
che la questione sociale possa essere risolta per mezzo di leggi e di decreti,
io sono per la lotta elettorale e parlamentare:
·
perché non è
contrario ai principi socialisti e anarchici che il popolo faccia valere la sua
volontà e i suoi interessi in tutti i modi possibili;
·
perché è
necessario sottrarre le classi lavoratrici alla loro dipendenza ereditaria da
proprietari e da padroni, impedire che siano tratte alle elezioni come gregge,
ed esercitarle alla vita pubblica e alla vita politica;
·
perché le
elezioni offrono opportunità di propaganda, di agitazione e dì protesta contro
gli arbitrii e le prepotenze del governo, come gli stessi astensionisti
riconoscono con le loro candidature-protesta;
·
perché nel
momento attuale sono la quasi unica affermazione che ci è consentita, e il
governo vuole contenderci anche questa, e sarebbe insensatezza cedergli;
·
perché, in generale, noi abbiamo il dovere di non abbandonare le libertà che i
nostri padri conquistarono combattendo, ma di difenderle energicamente e
accrescerle;
·
perché, senza
credere molto efficace l’opera dei deputati socialisti, operai o rivoluzionari
alla Camera, è invece utilissima l’azione che essi possono e devono spiegare a
pro della causa fuori del Parlamento;
·
perché
l’esperienza ha dimostrato che erano esagerati i nostri timori per l’influenza
corruttrice dello ambiente parlamentare sugli eletti del nostro partito; anzi il
contrasto fra gli uomini di carattere e disinteressati che il socialismo pone
innanzi come suoi rappresentanti e i rappresentanti corrotti e versipelle
della borghesia, non può che conquistare alla nostra causa la simpatia della
parte sana della popolazione;
·
perché, infine,
noi dobbiamo partecipare a tutte le lotte e agitazioni popolari, e spiegare la
nostra azione in mezzo alla massa, non nei piccoli conciliaboli del partito.
Possano queste ragioni
convincere i miei amici e indurli a uscire dal riserbo che si sono imposti, e a
portare il contributo delle loro forze nell’attuale canipagna elettorale contro
il governo e per la difesa della Libertà e della Giustizia. Quanto a me, ripeto
che il mio scopo, nei combattere la sterile tattica astensionista, non è stato
di soddisfare una mia ambizione personale e accrescere di uno il numero dei
deputati socialisti al Parlamento.
MALATESTA: “Le candidature protesta”
Breve
nota di Malatesta pubblicata sull’Agitazione
del 14 marzo 1897. Essa riguarda solo il problema delle candidatura protesta
I nostri compagni di Roma
portano candidato lo amico nostro Luigi Galleani, domiciliato coatto, ed altre
candidature protesta pare sieno state messe in altri posti. È difficile e penoso
per noi dire franca e schietta la nostra opinione. Quando degli uomini che noi
stimiamo ed amiamo e che molto han fatto e più faranno ancora per la causa
nostra, stanno in galera o al domicilio coatto e si propone un mezzo per farli
mettere fuori, come si fa a dire, per quanto cattivo sia il mezzo: no,
lasciateli dentro!
Nullameno
faremo forza a noi stessi ed apriremo intero l’animo nostro. Se altri ci troverà
troppo intransigenti, ce lo perdoni in considerazione del fatto che in carcere
ed al coatto ci siamo stati anche noi, che siamo sempre esposti a tornarci e che
possiamo permetterci di essere severi con gli altri perché abbiamo la coscienza
che sapremmo essere severi con noi stessi. In quanto agli amici candidati essi
ce lo perdoneranno di certo perché sapranno apprezzare i nostri motivi: anzi di
alcuni di loro sappiamo che sono completamente d’accordo con noi sull’argomento.
La candidatura protesta, specialmente quando si è sicuri che l’eletto non vorrà
a nessun costo fare il deputato, non è per se stessa contraria ai nostri
principi e nemmeno alla nostra tattica; ma è nullameno una porta aperta
all’equivoco ed alle transazioni. È il primo passo su di un pendio
sdrucciolevole sul quale difficile è l’arrestarsi.
Già se si vuol votare per un
candidato di protesta, bisogna essere elettore; quindi bisogna iscriversi, e chi
non si iscrive è un negligente che non prepara i mezzi per raggiungere i suoi
fini. Un passo ancora, un piccolo passo, e diremo anche noi, imitando i
socialisti: Non è buon anarchico chi non si iscrive elettore. E
quando si è iscritti e non si ha sotto mano un candidato protesta, forte è la
tentazione di andare a votare lo stesso... per favorire un amico o per far
dispetto ad un avversario. Siamo uomini tutti e costa tanto poco l’andare a
mettere una scheda dentro un’urna. L’esperienza insegni.
Poi viene la questione della
condotta dell’eletto. Sentite Merlino? egli già mette il cuneo nel fesso del
ragionamento e vi dice: Quando avrete cavato Galleani dal domicilio coatto
nominandolo deputato, dovrà egli dimettersi perché sia mandato di nuovo al
coatto e voi vi divertiate a cavarvelo ancora?
Noi siamo sicuri che Galleani,
se fosse eletto, a Montecitorio non ci andrebbe o ci andrebbe solo un momento
per sputar in viso ai deputati il suo disprezzo, ma la ragione resta lo stesso,
questa volta, dalla parte di Merlino. E poi, avrebbero tutti la forza d’animo
che noi conosciamo nel Galleani?
Le candidature protesta ci han ridato qualche
compagno e noi ce ne rallegriamo di cuore. Ma non possiamo nasconderci che esse
han fatto al nostro partito un torto grandissimo.
La candidatura Cipriani, per esempio, riuscì
a liberare il Cipriani; ma fu pur essa che insinuò il parlamentarismo in Romagna
e ruppe la compagine anarchica di quella regione.
Con questo noi non intendiamo
biasimare i compagni di Roma. Al contrario, comprendiamo ed apprezziamo i loro
motivi generosi. Solo ci lamentiamo che il partito nostro sia in così tristi
condizioni da non poter far altro a pro dei nostri proscritti che ricorrere al
mezzo debole e pericoloso delle candidature di protesta.
Lavoriamo, propaghiamo,
organizziamo e potremo in seguito ottenere a favore dei nostri delle
manifestazioni dell’opinione pubblica ben più significative e ben più efficaci
delle elezioni.
MALATESTA: “Anarchia e parlamentarismo: risposta a Saverio Merlino”
Esauriente risposta a Merlino. Malatesta la pubblica
sull’Agitazione del 14 marzo 1897.
I parlamentaristi sono in
festa: a sentir loro astensionisti non ve ne sono più, perché... Merlino si è
convertito alle lotte elettorali. Essi credono che gli anarchici seguano
ciecamente, come bene e spesso succede tra loro, questo o quell’uomo; noi invece
riteniamo che Merlino resterà solo e dovrà cercare i suoi collaboratori fuori
del campo anarchico, perché i principi anarchici mal si conciliano con la fatica
da lui sostenuta. Consta intanto che finora nessun anarchico che si sappia ha
fatto adesione alle idee del Merlino.
Merlino nega (vedi
l’Avanti! del 9 marzo) che la lotta politica parlamentare sia contraria ai
principi socialisti-anarchici.
Intendiamoci
bene. Quello che è contrario ai nostri principi è il parlamentarismo, in tutte
le sue forme e tutte le sue gradazioni. E noi riteniamo che la lotta elettorale
e parlamentare educa al parlamentarismo e finisce col trasformare in
parlamentaristi coloro che la praticano.
Merlino, che pare si dica
ancora anarchico e pare vada facendo continue riserve sull’ abolizione piena ed
intera del parlamentarismo ed accampa la fede nuovissima nella possibilità di
un governo che sia servitore del popolo e si possa congedare quando non faccia
il suo dovere o non si abbia più bisogno dell’opera sua, dovrebbe innanzi tutto
spiegarci che cosa sarebbe questa sua anarchia parlamentare. Finora il
socialismo anarchico alla fin fine, non è stato che il socialismo
antiparlamentare; perché allora continuare a chiamarlo anarchico?
L’astensione degli anarchici
non è da confrontare con quella, per esempio, dei repubblicani. Per questi
l’astensione è una semplice questione di tattica: si astengono quando credono
imminente la rivoluzione e non vogliono distrarre forze della preparazione
rivoluzionaria; votano quando non hanno di meglio da fare, ed il loro meglio è
molto ristretto poiché rifuggono per ragioni di classe dalle agitazioni
sovvertitrici degli ordini sociali. In realtà essi stanno sempre sul buon
cammino: essi vogliono un governo parlamentare e gli elettori che conquistano
adesso sono sempre buoni per mandarli un giorno alla costituente.
Per noi invece, l’astensione
si collega strettamente con le finalità del nostro partito. Quando verrà la
rivoluzione (fra mille anni, s’intende, ci badi il procuratore del re) noi
vogliamo rifiutarci a riconoscere i nuovi governi che tenteranno d’impiantarsi,
noi non vogliamo dare a nessuno un mandato legislativo e quindi abbiamo bisogno
che il popolo abbia ripugnanza delle elezioni, si rifiuti a delegare ad altri
l’organizzazione del nuovo stato di cose, e quindi si trovi nella necessità di
fare da sé.
Noi dobbiamo far sì che gli
operai si abituino, fin da ora, per quanto è possibile, nelle associazioni di
ogni genere, a regolare da loro i propri affari, e non già incoraggiarli nella
tendenza a rimettersene in altri.
Merlino per ora dice ancora
che le elezioni debbono servire come mezzo di agitazione, che gli eletti
socialisti non debbono essere legislatori, e che la lotta importante si deve
fare nel popolo, fuori del parlamento.
Ma senta un po’ i suoi amici
dell’Avanti! Quelli sono logici. Essi vogliono andare al potere – per
fare il bene del popolo, noi non ne dubitiamo – e quindi hanno ogni interesse a
educare il popolo a nominare dei deputati e ad abituarsi essi a saper governare;
Ma Merlino dove vuole
arrivare? Resterà egli eternamente tra il sì ed il no, tra il mi decido e non mi
decido?
Egll col suo temperamento di
uomo attivo si deciderà certamente, e noi crediamo, e ce ne addoloriamo
davvero, che si deciderà col buttare a mare ogni reminiscenza anarchica e
diventare un semplice parlamentarista. Già non mancano i sintomi che
preannunziano la sua decisione definitiva.
Nella
sua prima lettera al Messaggero la lotta parlamentare era un semplice
episodio di scarsa importanza. Nella sua seconda le associazioni di resistenza,
le cooperative ed il resto riescono a male e non si può far altro che andare al
parlamento. Nella sua prima lettera gli anarchici dovevano mandare gli altri al
parlamento, ma non andarci loro; nell’articolo su l’Avanti! già si dice
che i deputati possono fare tante belle cose che sarebbe veramente un tradimento
il rifiutarci a fare anche noi la nostra parte. E poi si parla di farsi
arrestare col popolo. Come perdere la bella occasione di sacrificarsi per il
popolo?
Merlino, ne siamo convinti
perché lo conosciamo, è sincero quando dice di non volere andare al parlamento.
Ma la logica della posizione sarà più forte di lui, ed egli al parlamento ci
andrà... se vorranno mandarcelo.
Tutta la forza
dell’argomentazione di Merlino consiste in un equivoco. Egli pone in
contrapposto da una parte la lotta elettorale e dall’altra l’inerzia,
l’indifferenza e l’acquiescenza supina alle prepotenze del governo e dei
padroni; ed è chiaro che il vantaggio resta alla lotta elettorale.
A questa stregua sarebbe
facile il dimostrare che è una buona cosa andare a messa ed aspettare ogni bene
dalla divina provvidenza, poiché l’uomo che crede nell’efficacia della
preghiera è sempre superiore all’idiota che nulla desidera, nulla spera e nulla
teme.
Ne segue da ciò che noi
dovremmo metterci a predicare alla gente di andare in chiesa e sperare in Dio?
La questione è tutt’altra. Si
tratta di cercare qual’è il mezzo più efficace di resistenza popolare, qual’é la
via che, mentre soddisfa ai bisogni del momento, conduce più direttamente ai
destini futuri dell’umanità, qual’è il modo più utile d’impiegare le forze
socialiste.
Non è vero che senza il
parlamento mancano i mezzi per far pressione sul Governo e metter freno ai suoi
eccessi. Al contrario. Quando in Italia non v’era il suffragio popolare, v’era
una libertà che oggi ci sembrerebbe grande; e le violenze governative, molto
minori di quelle di Crispi e Di Rudini, provocavano un’indignazione e una
reazione popolare di cui oggi non si ha più l’idea. Lo stesso suffragio, di cui
fan tanto caso, è stato naturalmente ottenuto quando il suffragio non v’era;
ed ora che v’è, minacciano di toglierlo… effetto miracoloso della sua
efficacia!
Merlino dice che Malatesta ha
scritto che il despotismo è da preferire all’ibrido sistema attuale. Se la
memoria non ci falla, scrisse Malatesta che al parlamentarismo accettato e
vantato è da preferirsi il despotismo
subito per forza e coll’animo intento alla rivolta. È una cosa ben
differente, ed in quella differenza sta la ragione della nostra tattica. Se il
governo riducesse l’Italia allo stato politico della Russia, noi non dovremmo
riprincipiare la lotta per il costituzionalismo, perché sappiamo già quanto
valgono le costituzioni e troveremmo modo di lottare per i nostri ideali anche
senza quelle larve di libertà che servono piuttosto ad illudere le masse che a
favorirne il progresso.
I socialisti parlamentari
invece, imperniando tutta la loro attività intorno alla lotta elettorale, si
condannano ad un lavoro di Sisifo; ed ogni volta che al governo piace di
menomare le libertà politiche e le garanzie costituzionali, essi debbono
mettere da parte il programma socialista e ridiventare costituzionalisti. A
prova “La lega della libertà” dei tempi crispini, in cui Turati, Cavallotti e Di
Rudini eran diventati commilitoni e fratelli.
D’altronde il fatto è questo;
se nel paese v’è coscienza e forza di resistenza, se vi sono partiti
extracostituzionali che minacciano lo Stato, allora il governo rispetta lo
Statuto, allarga il suffragio, concede libertà, tanto per aprire delle valvole
di sicurezza alla crescente pressione; ed in Parlamento i deputati borghesi
tuonano contro i ministri, tanto per farsi popolari. Se invece il governo vede
che i partiti popolari fondano le loro speranze sull’azione parlamentare e che
la cosa che più gli dà noia sono i deputati socialisti, allora respinge il
suffragio, tien chiuso il parlamento, viola lo Statuto; e se i deputati hanno
il nerbo, cosa rara, di resistere più che per burla, vanno in prigione malgrado
il medaglino e l’immunità.
Quando Merlino poi dice che
gli astensionisti sono dei dottrinari e si compiace a mettere in bocca loro una
serie di ragionamenti che mena fuori di ogni vita reale ed al più completo
quietismo, allora Merlino è... men che sincero.
Vi sono è vero degli
anarchici che si curano poco della praticabilità delle loro idee e limitano il
loro compito alla predica di nozioni astratte, che essi credono il vero
assoluto... se vero oggi, o vero tra mille anni non importa.
Ma Merlino sa che quella
tendenza non è quella di tutti gli anarchici, che di essa in Italia appena se ne
ritroverebbe la traccia e che, anche all’estero, essa in fondo non è
rappresentata che da poche personalità.
Servirsi dell’esistenza di
una tale tendenza per attribuirla a tutti gli anarchici e darsi così l’aria di
aver ragione, può essere un abile espediente di polemica, ma non è degno di chi
cerca e vuol propagare la verità.
Quella tendenza quietista,
per il fatto ch’essa aveva trovato simpatia in qualche uomo d’ingegno e di
fama, è stata certamente una fra le cause che avevano arrestato lo sviluppo del
movimento anarchico. Merlino, e noi, e tanti altri abbiamo combattuto quella
tendenza; e se egli avesse continuato per la strada di prima, continuerebbe ad
averci a compagno. Ma Merlino, proprio quando gli anarchici accennano ad uscire
dalla crisi ed a ripigliare un lavoro fecondo, rinnega tutto ciò che egli
stesso aveva detto; e, senza accampare una sola ragione nuova che non fosse
stata già le mille volte detta dai legalitari e da lui stesso confutata,
vorrebbe che noi lo seguissimo.
Oggi le critiche ch’egli può
fare degli errori in cui son caduti gli anarchici non hanno più efficacia. Non
sono più le osservazioni di un commilitone fatte negli interessi della causa
comune ma gli attacchi di un avversario, che rischiano di non essere presi in
considerazione, perché ritenuti sospetti.
MALATESTA: “Maggioranze e minoranze”
Ulteriore risposta sotto forma di lettera, pubblicata sempre sull’Agitazione
del 14 marzo 1897 e anche questa falsamente datata da Londra.
Carissimi compagni,
Mi rallegro della prossima
pubblicazione del giornale L’Agitazione, e vi auguro di cuore il più
completo successo. Il vostro giornale compare in un momento in cui grande ne è
la necessità, ed io spero che esso potrà essere un organo serio di discussione e
di propaganda, ed un mezzo efficace per raccogliere e ricongiungere le sparse
file del nostro partito. Potete contare sul mio concorso per tutto ciò che le
forze mie, deboli purtroppo, mi permetteranno.
Per questa volta, tanto per
isgombrarmi il terreno alla futura collaborazione, vi scriverò sopra alcuni
punti che, se in certo modo mi riguardano personalmente, non sono senza portata
sulla propaganda generale.
L’amico
nostro Merlino, che come sapete, si perde ora nell’inane tentativo di voler
conciliare l’anarchia col parlamentarismo, in una sua lettera al Messaggero
volendo sostenere che “il parlamentarismo non è destinato a sparire interamente
e qualche cosa ne rimarrà anche nella società che noi vagheggiamo”, ricorda uno
scritto da me inviato alla Conferenza anarchica di Chicago del 1893, in cui io
sostenevo che “per talune cose il parere della maggioranza dovrà
necessariamente prevalere a quello della minoranza”.
La cosa è vera, né le mie
idee sono oggi diverse da quelle espresse nello scritto di cui si tratta. Ma
Merlino, riportando una mia frase staccata per sostenere una tesi diversa da
quella che sostenevo io, lascia nell’ombra e nell’equivoco quello che io
veramente intendevo.
Ecco: v’erano a quell’epoca
molti anarchici, e ve n’è ancora un poco, che scambiando la forma colla
sostanza e badando più alle parole che alle cose, si erano formati una specie
di “rituale del vero anarchico” che inceppava la loro azione, e li trascinava a
sostenere cose assurde e grottesche.
Così essi, partendo dal
principio che la maggioranza non ha il diritto d’imporre la sua volontà alla
minoranza, ne conchiudevano che nulla si dovesse mai fare se non approvato
all’unanimità dei concorrenti. Confondendo il voto politico, che serve a
nominarsi dei padroni con il voto quando è mezzo per esprimere in modo spiccio
la propria opinione, ritenevano anti-anarchica ogni specie di votazione. Così,
si convocava un comizio per protestare contro una violenza governativa o
padronale, o per mostrare la simpatia popolare per un dato avvenimento; la
gente veniva, ascoltava i discorsi dei promotori, ascoltava quelli dei
contraddittori, e poi se ne andava senza esprimere la propria opinione, perché
il solo mezzo per esprimerla era la votazione sui vari ordini del giorno... e
votare non era anarchico. Un circolo voleva fare un manifesto: v’erano diverse
redazioni proposte che dividevano i pareri dei Soci; si discuteva a non finire,
ma non si riusciva mai a sapere l’opinione predominante, perché era proibito il
votare, e quindi o il manifesto non si pubblicava, o alcuni pubblicavano per
conto loro quello che preferivano; il circolo si scindeva quando non v’era in
realtà nessun dissenso reale e si trattava solo di una questione di stile. E una
conseguenza di questi usi, che dicevano essere garanzie di libertà, era che
solo alcuni, meglio dotati di facoltà oratorie, facevano e disfacevano, mentre
quelli che non sapevano o non osavano parlare in pubblico, e che sono sempre la
grande maggioranza, non contavano proprio nulla. Mentre poi l’altra conseguenza
più grave e veramente mortale per il movimento anarchico, era che gli anarchici
non si credevano legati dalla solidarietà operaia, ed in tempo di sciopero
andavano a lavorare, perché lo sciopero era stato votato a maggioranza e contro
il loro parere. E giungevano fino a non osare di biasimare dei farabutti,
sedicenti anarchici, che domandavano e ricevevano denari dai padroni – potrei
citare i nomi occorrendo – per combattere uno sciopero in nome dell’anarchia.
Contro queste e
simili aberrazioni era diretto lo scritto che io mandai a Chicago. Io sostenevo
che non ci sarebbe vita sociale possibile se davvero non si dovesse fare mai
nulla insieme se non quando tutti sono unanimemente d’accordo. Che le idee e
le opinioni sono in continua evoluzione e si differenziano per gradazioni
insensibili, mentre le realizzazioni pratiche cambiano a salti bruschi; e che,
se arrivasse un giorno in cui tutti fossero perfettamente d’accordo sui
vantaggi di una data cosa, ciò significherebbe che in quella data cosa ogni
progresso possibile è esaurito. Così, per esempio, se si trattasse di fare una
ferrovia, vi sarebbero certamente mille opinioni diverse sul tracciato della
linea, sul materiale, sul tipo di macchine e di vagoni, sul posto delle
stazioni, ecc., e queste opinioni andrebbero cambiando di giorno in giorno: ma
se la ferrovia si vuol fare bisogna pure scegliere fra le opinioni esistenti, né
si potrebbe ogni giorno modificare il tracciato, traslocare le stazioni e
cambiare le macchine. E poiché di scegliere si tratta è meglio che siano
contenti i più che i meno, salvo naturalmente a dare ai meno tutta la libertà e
tutti i mezzi possibili per propagare e sperimentare le loro idee e cercare di
diventare la maggioranza.
Dunque in tutte quelle cose che non ammettono
parecchie soluzioni contemporanee, o nelle quali le differenze d’opinione non
sono di tale importanza che valga la pena di dividersi ed agire ogni frazione a
modo suo, o in cui il dovere di solidarietà impone l’unione, è ragionevole,
giusto, necessario che la minoranza ceda alla maggioranza.
Ma questo cedere della
minoranza deve essere effetto della libera volontà, determinata dalla coscienza
della necessità; non deve essere un principio, una legge, che s’applica per
conseguenza in tutti i casi, anche quando la necessità realmente non c’è. Ed in
questo consiste la differenza tra l’anarchia e una forma di governo qualunque.
Tutta la vita sociale è piena di queste necessità in cui uno deve cedere le
proprie preferenze per non offendere i diritti degli altri. Entro in un caffè,
trovo occupato il posto che piace a me e vado tranquillamente a sedermi in un
altro, dove magari c’è una corrente d’aria che mi fa male. Vedo delle persone
che parlano in modo da far capire che non vogliono essere ascoltate, ed io mi
tengo lontano, magari con incomodo mio, per non incomodar loro. Ma questo io lo
fo perché me lo impongono il mio istinto d’uomo sociale, la mia abitudine di
vivere in mezzo agli uomini ed il mio interesse a non farmi trattar male se io
facessi altrimenti; quelli che io incomoderei, mi farebbero presto sentire in un
modo o in un altro il danno che v’è ad essere uno zotico. Non voglio che dei
legislatori vengano a prescrivermi qual’è il modo col quale io debbo comportarmi
in un caffè, né credo che essi varrebbero ad insegnarmi quell’educazione che io
non avessi saputo apprendere dalla società in mezzo a cui vivo.
Come fa il Merlino a cavare
da questo che un resto di parlamentarismo vi dovrà essere anche nella società
che noi vagheggiamo?
Il parlamentarismo è una
forma di governo nella quale gli eletti del popolo, riuniti in corpo legislativo
fanno, a maggioranza di voti, le leggi che a loro piace e le impongono al popolo
con tutti i mezzi coercitivi di cui possono disporre.
È un avanzo di questa bella roba, che Merlino vorrebbe conservata anche in
Anarchia? Oppure, poiché in Parlamento si parla, e si discute e si delibera, e
questo si farà sempre in qualsiasi società possibile, Merlino chiama questo un
avanzo di parlamentarismo?
Ma ciò sarebbe davvero
giuocar sulle parole, e Merlino è capace di altri e ben più seri procedimenti di
discussione.
Non si ricorda il Merlino
quando polemizzando insieme contro quegli anarchici che sono avversi ad ogni
congresso perché appunto ritengono i congressi una forma di parlamentarismo, noi
sostenevamo che l’essenza del parlamentarismo sta nel fatto che i parlamenti
fanno ed impongono leggi, mentre un congresso anarchico non fa che discutere e
proporre delle risoluzioni, che non hanno valore esecutivo se non dopo
l’approvazione dei mandanti e solo per coloro che le approvano? O che le parole
hanno cambiato di significato ora che Merlino ha cambiato d’idee?
MALATESTA: “Sulla linea dell’anarchismo”
Continuazione della lettera in parte pubblicata Il 14 marzo 1897, nel numero
dell’Agitazione dei 21 marzo 1897.
Osvaldo Gnocchi Viani,
parlando nella Lotta di Classe della discussione fra me e Merlino a
proposito della lotta elettorale, dice che noi, Merlino ed io, “ci siamo
staccati dallo stipite anarchico-individualista ed abbiamo fatto un’evoluzione
verso il metodo dell’organizzazione e dell’azione politica” e quindi conchiude
che Merlino ed io abbiamo fatto un’evoluzione dello stesso genere, e che solo
differiamo perché l’uno ha corso più dell’altro, ed io non so e non voglio
“lasciarmi andare fin là” cioè fino ad accettare la tattica elettorale.
Tutti questi
spropositi si capirebbero in uno che fosse completamente ignaro della storia del
movimento nostro in Italia; ma in Gnocchi Viani fan meraviglia davvero, e fan
vedere come il partito preso può ottenebrare il giudizio anche negli. uomini
meglio informati, e, d’ordinario, più sereni ed equanimi.
Staccati dallo
stipite anarchico-indidualista! Ma quando mai Merlino ed io siamo stati
individualisti? E che cosa è mai questo stipite anarchico-individualista? In
Italia per molto tempo tutti gli anarchici furono socialisti, anzi il socialismo
vi è nato anarchico, or sono già quasi trent’anni. Gnocchi Viani se ne deve
ricordare. L’individualismo cosiddetto anarchico venne molto più tardi e ci
ebbe sempre avversari, tanto Merlino che io.
Evoluzione verso
il metodo dell’organizzazione e dell’azione politica! Ma chi di noi ha mai
cessato dal riconoscere e propugnare la suprema necessità della organizzazione,
e quella della lotta politica? Sulla prima questione noi abbiamo sempre
sostenuto che l’abolizione del governo e del capitalismo è possibile solo
quando il popolo, organizzandosi, si metta in grado di provvedere a quelle
funzioni sociali a cui provvedono oggi, sfruttandole a loro vantaggio, i
governanti e i capitalisti. Quindi non volendo governo, noi abbiamo una ragione
di più di tutti gli altri per essere caldi partigiani dell’organizzazione.
E sulla seconda
questione, chi più di noi ha sostenuto che alla lotta contro il capitalismo
bisogna unire la lotta contro lo Stato, vale a dire la lotta politica?
Oggi v’è una
scuola che per lotta politica intende la conquista dei pubblici poteri mediante
le elezioni; ma Gnocchi Viani non può ignorare che la logica impone altri
metodi di combattimento a chi vuole abolire il governo e non già occuparlo.
Merlino ed io ci
siamo trovati d’accordo nel segnalare gli errori che, secondo noi, si erano
infiltrati nelle teorie anarchiche ed i mali che avevano afflitto il nostro
partito, e Merlino ci ha messo, mi compiaccio di riconoscerlo, più attività che
non abbia fatto io. Ma, quando i mali da noi lamentati sono già quasi da tutti
riconosciuti, quando gli errori incominciano ad essere respinti e
l’organizzazione del partito incomincia sul serio, allietandoci di belle
speranze, Merlino crede di scorgere la salvezza nella tattica elettorale, che è
stata già per lunga esperienza così grande jattura per la causa socialista, e ci
lascia. Tanto peggio. Noi continueremo lo stesso senza di lui.
Questo non
significa essere andati un po’ più o un po’ meno avanti sulla stessa via, ma
aver percorso insieme una certa strada, e poi giunti al bivio, essersi separati,
l’uno pigliando da una parte e l’uno dall’altra. Non pare così anche a Gnocchi
Viani?
MERLINO: “Da una questione di
tattica ad una questione di principio”
Risposta
di Merlino pubblicata sull’Agitazione
dei 28 marzo 1897. La risposta è preceduta da una breve introduzione di
Malatesta, che riproduciamo.
Sotto questo titolo riceviamo
da Saverio Merlino l’articolo seguente, che pubblichiamo con piacere. Il Merlino
può essere sicuro di trovare sempre In noi la serenità e l’amore impregiudicato
della verità, che egli desidera. D’altronde, noi conveniamo con lui che spesso
gli anarchici si sono mostrati intolleranti e troppo pronti alle ire ed ai
sospetti; ma non bisognerebbe poi, nell’entusiasmo dei mea culpa, pigliare tutti
i torti per noi e dimenticare che l’esempio e la provocazione ci sono venuti il
più sovente dagli altri. Senza rimontare ai tempi di Bakunin ed alle infami
calunnie ed invereconde menzogne che ancora sì raccontano ai giovani che non
sanno la storia nostra ci basti ricordare la condotta dei socialisti democratici
negli ultimi Congressi Internazionali verso gli anarchici, e certi articoli
apparsi, non è gran tempo,, nella stampa socialista democratica di vari paesi.
In ogni modo, cerchiamo, se ci riesce, di esser giusti noi, checché facciano e
dicano i nostri avversari. Ecco l’articolo di Merlino:
Vediamo un po’ se è possibile
continuare a discutere serenamente senza ire né sospetti, come abbiamo
principiato. Sarebbe una cosa quasi nuova e di così lieto augurio, che io dovrei
rallegrarmi di avere offerto ai miei amici l’opportunità di dimostrare che il
partito anarchico comincia ad educarsi all’osservanza dei principi che professa.
E prima di tutto, sono io anarchico? Rispondo: se
l’astensionismo è dogma di fede anarchica, no. Ma io non credo al dogma. Non
credo contrari ai principi nostri la difesa e l’esercizio dei nostri diritti –
neppure dei minimi. Non credo che esercitando il diritto di voto, che ci viene
consentito, noi si rinunzi ai diritti maggiori, che ci vengono negati e che
dobbiamo rivendicare.
Credo che l’agitazione
elettorale ci offra modi e opportunità di propaganda, a cui sarebbe follia
rinunciare, specialmente in questo quarto d’ora e in Italia dove quasi ogni
altra affermazione ci è interdetta, e credo che non se ne possa trarre tutto il
profitto possibile quando si sostiene l’astensione. (Di ciò abbiamo fatto la
prova in questi giorni qui a Roma, dove presentando la candidatura Galleani,
abbiamo potuto tenere comizi, diffondere manifesti, guadagnarci la simpatia di
molti che ci erano ostili o indifferenti come non avremmo mai potuto fare se
fossimo rimasti astensionisti). Del resto non credo alla conquista dei poteri
pubblici., sostengo che tanto la lotta per la libertà, quanto quella per
l’emancipazione economica debba essere combattuta principalmente fuori del
Parlamento. L’opera dei deputati operai, socialisti e rivoluzionarli la ritengo
utile non per se stessa ma in aiuto alla lotta extraparlamentare. E se così
pensando non mi trovo perfettamente d’accordo né con gli anarchici né coi
socialisti‑democratici me ne duole sinceramente: ma posso io disdirmi?
Ma ormai pro e contro la partecipazione alle
elezioni mi pare che si sia detto a un dipresso tutto quello che si poteva dire:
ed io mi compiaccio che la disputa sia stata da Malatesta sollevata nella sfera
dei principi: ed anche per questo non mi pento di averla suscitata.
Non si può negare che attorno
ai nostri principi – che son veri, se rettamente interpretati – son pullulati
molti errori e molti sofismi.
Uno di questi è che gli
uomini debbano far tutto da sé, individualmente; che un uomo non debba farsi mai
rappresentare da un altro, che le minoranze non debbano cedere alle maggioranze
(essendo più probabile che s’ingannino queste che quelle); che nella società
futura gli. uomini si troveranno miracolosamente d’accordo, o se non i
dissidenti si separeranno e ciascuno agirà a sua guisa: che ogni altra condotta
sarebbe contraria ai nostri principi.
Io vorrei qui ripetere parola
per parola le giustissime e lucidissime considerazioni che fa Malatesta (e non
per la prima volta) contro codesto modo d’intendere l’anarchia nel n. 1 dell’Agitazione,
concludendo col dire:
“Dunque in tutte quelle cose
che non ammettono parecchie soluzioni contemporanee, o nelle quali le differenze
d’opinione non sono di tale importanza che valga la pena di dividersi ed agire
ogni frazione a modo suo, ed in cui il dovere di solidarietà impone l’unione, è
ragionevole, giusto, necessario che la minoranza ceda alla maggíoranza”.
In due punti però io credo di dissentire da lui: in primo luogo, Malatesta
sembra credere che le cose nelle quali per le varie ragioni da lui adottate è
necessità convenire sieno tutte cose di poco momento. Si vede dagli esempi che
adduce. Vado in caffè: trovo i posti migliori occupati; devo rassegnarmi a stare
sull’uscio, o andar via. Vedo persone parlar sommessamente: devo allontanarmi
per non essere indiscreto e via dicendo. Io invece credo (e forse anche
Malatesta lo crede, ma non lo dice) che tra le questioni nelle quali converrà
l’accordo e quindi, se non è possibile essere tutti della stessa opinione, è
necessario cercare un compromesso, ve ne sono delle gravissime: e sono tali
propriamente tutte le questioni sull’organizzazione generale della società e
tutti i grandi interessi pubblici. Vi può essere nella società qualcuno che
ritenga giusta la vendetta: ma la maggioranza degli uomini ha diritto di
decidere che è ingiusta e d’impedirla. Vi può essere una minoranza, che
preferisca di organizzare l’industria dei trasporti per le vie ferrate in modo
cooperativistico, o collettivistico, o comunistico, od in un altro modo. ma
l’organizzazione non potendo essere che una, è necessità che prevalga il parere
dei più. Vi può essere uno che ritenga addirittura una vessazione il
provvedimento tale, adottato per impedire il diffondersi di una malattia
contagiosa: ma la società ha diritto di premunirsi dai mali epidemici. Il
secondo dissenso tra Malatesta e me è in questo, che io non credo di poter
profetare che nella società futura la minoranza sempre e in tutti i casi si
arrenderà volentieri al parere della maggioranza, Malatesta invece dice: “Ma
questo cedere della minoranza dev’essere effetto della libera volontà
determinata dalla coscienza della necessità”.
E se questa volontà non c’è, se questa
coscienza della necessità nella minoranza non c’è, se anzi la minoranza è
convinta di fare il suo dovere resistendo? Evidentemente la maggioranza, non
volendo subire la volontà della minoranza, farà la legge, darà alla propria
deliberazione (come dice Malatesta a proposito dei Congressi) un valore
esecutivo.
Malatesta dice anzi di più.
e, a proposito di chi trova il posto preferito al caffè occupato, o di chi deve
allontanarsi da un colloquio confidenziale dice: “Se io facessi altrimenti,
quelli che io incomoderei mi farebbero sentire, in un modo o in un altro il
danno che vi è ad essere uno zotico”. Ed ecco una coazione. E si tratta, negli
esempi addotti, di rapporti individuali e di questioni di pochissimo rilievo.
Figuriamoci se si trattasse di una grave questione di pubblico interesse, come
quelle a cui ho accennato io più sopra!
Sta bene che la coazione
debba essere minima, e possibilmente più morale che fisica, e che si debbano
rispettare i diritti delle minoranze, ed ammettere in taluni casi perfino la
secessione della minoranza dissidente. Ma insomma è questione di più e di meno,
di modalità e non di principi.
Nei casi, in cui ciò sia
utile e necessario, dico io, non è contrario ai principi anarchici né addivenire
ad una votazione, né provvedere all’esecuzione delle deliberazioni prese: e
quando queste cose non si possono fare (per ragion di numero o di capacità)
dagli interessati direttamente, non è contrario ai principi anarchici che, prese
le debite precauzioni contro i possibili abusi, si deleghino ad altri. Quindi io
conchiudo:
-
sì crede nell’armonia
provvidenziale che regnerebbe nella società futura... ed allora ha torto
Malatesta ed hanno ragione gl’individualisti.
-
Malatesta ha ragione ed
allora non si ha più diritto di dire che ogni rappresentanza, ogni atto con
cui il popolo confida ad altri la cura dei suoi interessi, sia contrario ai
nostri principi.
A questo dilemma mi pare
difficile di sfuggire.
MALATESTA: “Società
autoritaria e società anarchica”
Risposta di Malatesta sull’Agitazione
del 28 marzo 1897.
Merlino dice senza dubbio
molte cose giustissime e che diciamo anche noi; ma nell’affermare delle idee
generali, sulle necessità della vita sociale, perde di vista, a parer nostro, la
differenza tra autoritarismo ed anarchismo e le ragioni della differenza. Così
che tutto il suo argomentare potrebbe servire benissimo per sostenere la
necessità di un governo, e quindi l’impossibilità dell’anarchia.
Stabiliamo subito quali sono
i punti in cui siamo d’accordo, acciò né il Merlino né altri, cui piaccia
polemizzare con noi, perda il tempo a combattere in noi idee che non sono
nostre. e riesca così a sfondare delle porte aperte.
Noi
pensiamo che in motti casi la minoranza anche se convinta di aver ragione, deve
cedere alla maggioranza, perché altrimenti non vi sarebbe vita sociale possibile
– e fuori della società è impossibile ogni vita umana. E sappiamo benissimo che
le cose in cui non si può raggiungere l’unanimità ed in cui è necessario che la
minoranza ceda non sono le cose di poco momento; ma anche, e specialmente,
quelle di importanza vitale per l’economia della collettività.
Noi non crediamo nel diritto
divino delle maggioranze, ma nemmeno crediamo che le minoranze rappresentino,
sempre, la ragione ed il progresso. Galileo aveva ragione contro tutti i suoi
contemporanei; ma vi sono oggi ancora alcuni che sostengono che la terra è
piatta e che il sole le gira intorno, e nessuno vorrà dire che hanno ragione
perché son diventati minoranza. Del resto, se è vero che i rivoluzionari sono
sempre una minoranza, sono anche sempre in minoranza gli sfruttatori ed i birri.
Così pure noi siamo d’accordo
col Merlino nell’ammettere che è impossibile che ogni uomo faccia tutto da sé, e
che, se anche fosse possibile, ciò sarebbe sommamente svantaggioso per tutti.
Quindi ammettiamo la divisione del lavoro sociale, la delegazione delle funzioni
e la rappresentanza delle opinioni e degli interessi propri affidata ad altri.
E soprattutto respingiamo
come falsa e perniciosa ogni idea di armonia provvidenziale e di ordine naturale
nella società, poiché crediamo che la società umana e l’uomo sociale esso stesso
siano il prodotto di una lotta lunga e faticosa contro la natura, e che se
l’uomo cessasse dall’esercitare la sua volontà cosciente e si abbandonasse alla
natura, ricadrebbe presto nella animalità e nella lotta brutale.
Ma – e qui è la ragione per
cui siamo anarchici – noi vogliamo che le minoranze cedano volontariamente
quando così la richieda la necessità ed il sentimento della solidarietà.
Vogliamo che la divisione del lavoro sociale non divida gli uomini in classi e
faccia gli uni direttori e capi, esenti da ogni lavoro ingrato, e condanni gli
altri ad esser le bestie da soma della società. Vogliamo che delegando ad altri
una funzione, cioè incaricando altri di un dato lavoro, gli uomini non rinunzino
alla propria sovranità, e che, ove occorra un rappresentante, questi sia il
portaparola dei suoi mandanti o l’esecutore delle loro volontà, e non già colui
che fa la legge e la fa accettare per forza, e crediamo che ogni organizzazione
sociale non fondata sulla libera e cosciente volontà dei suoi membri conduce
all’oppressione ed allo sfruttamento della massa da parte di una piccola
minoranza.
Ogni società autoritaria si
mantiene per coazione. La società anarchica deve essere fondata sul libero
accordo: in essa bisogna che gli uomini sentano vivamente ed accettino
spontaneamente i doveri della vita sociale, e si sforzino di organizzare
gl’interessi discordanti e di eliminare ogni motivo di lotta intestina; o almeno
che, se conflitti sì producono. essi non siano mai di tale importanza da
provocare la costituzione di un potere moderatore, che col pretesto di garantire
la giustizia a tutti, ridurrebbe tutti in servitù.
Ma se
la minoranza non vuol cedere? dice Merlino. E se la maggioranza vuol abusare
della sua forza? domandiamo noi.
È chiaro che nell’un caso come nell’altro non v’è anarchia possibile.
Per esempio noi non vogliamo
polizia. Ciò suppone naturalmente che noi pensiamo che le nostre donne, i
nostri bimbi e noi stessi possiamo andar per le strade senza che nessuno ci
molesti, o almeno che se qualcuno volesse abusar su di noi della sua forza
superiore, troveremmo nei vicini e nei passanti più valida protezione che non
in un corpo di polizia appositamente stipendiato.
Ma se
invece delle bande di facinorosi van per le strade insultando e bastonando i più
deboli di loro ed il pubblico assiste indifferente a tale spettacolo? Allora
naturalmente ì deboli e quelli che amano la propria tranquillità invocherebbero
la istituzione della polizia, e questa non mancherebbe di costituirsi. Si
potrebbe forse sostenere che, dato quelle circostanze, la polizia sarebbe il
minore dei mali; ma non si potrebbe certo dire che sì sta in anarchia. La verità
sarebbe che quando v’è tanti prepotenti da un lato e tanti vili dall’altro
l’anarchia non è possibile.
Quindi è che l’anarchico deve
sentire fortemente il rispetto della libertà e del benessere degli altri, e deve
fare di questo rispetto lo scopo precipuo della sua propaganda.
Ma, si obbietterà, gli uomini
oggi sono troppo egoisti, troppo intolleranti, troppo cattivi per rispettare i
diritti degli altri e cedere volontariamente alle necessità sociali.
Invero, noi abbiamo sempre
riscontrato negli uomini, anche i più corrotti, tale un bisogno di essere
stimati ed amati, e, in date circostanze, tanta capacità di sacrificio e tanta
considerazione dei bisogni degli altri da sperare che, una volta distrutte con
la proprietà individuale le cause permanenti dei più gravi antagonismi, non sarà
difficile di ottenere la libera cooperazione di ciascuno al benessere di tutti.
Comunque sia, noi anarchici
non siamo tutta l’umanità e non possiamo certamente far da noi soli tutta la
storia umana; ma possiamo e dobbiamo lavorare per la realizzazione dei nostri
ideali cercando di eliminare, il più possibile, la lotta e la coazione nella
vita sociale.
E dopo ciò ha ragione di
sostenere Merlino che il parlamentarismo non può sparire completamente e che ve
ne dovrà restare qualche cosa anche nella società da noi vagheggiata?
Noi crediamo che il
chiamare parlamentarismo o avanzo di parlamentarismo quello scambio di servizi e
quella distribuzione delle funzioni sociali senza di cui la società non potrebbe
esistere, sia un alterare senza ragione il significato accettato delle parole, e
non possa che oscurare e confondere la discussione. Il parlamentarismo è una
forma di governo; e un governo significa potere legislativo, potere esecutivo e
potere giudiziario; significa violenza, coazione, imposizione con la forza della
volontà dei governanti ai governati.
Un esempio chiarirà il nostro
concetto.
I vari Stati d’Europa
e del mondo stanno in rapporto tra di loro, si fanno rappresentare gli uni
presso gli altri, organizzano servizi internazionali, convocano congressi, fanno
la pace o la guerra, senza che vi sia un governo internazionale, un potere
legislativo che faccia la legge a tutti gli Stati, ed un potere esecutivo che a
tutti l’imponga.
Oggi i
rapporti tra i diversi Stati sono ancora in molta parte fondati sulla violenza e
sul sospetto. Alle sopravvivenze ataviche delle rivalità storiche, degli odi di
razza e di religione e dello spirito di conquista, si aggiunge la concorrenza
economica ogni giorno minacciati dalla guerra ed ogni giorno i grossi Stati fan
violenza ai piccoli.
Ma chi oserebbe sostenere che
per rimediare a questo stato di cose bisognerebbe che ogni Stato nominasse dei
rappresentanti, i quali, riunitisi stabilissero tra loro, a maggioranza di voti,
i principi del diritto internazionale e le sanzioni penali contro i trasgressori
e man mano legiferassero su tutte le questioni tra Stato e Stato; ed avessero a
loro disposizione ,una forza per far rispettare le loro decisioni?
Questo sarebbe il
parlamentarismo esteso ai rapporti internazionali; e lungi dall’armonizzare
gl’interessi dei vari Stati e distruggere le cause dei conflitti, tenderebbe a
consolidare il predominio dei più forti e creerebbe una nuova classe di
sfruttatori e di oppressori internazionali. Qualche cosa di questo genere esiste
di già in germe nel “concetto” delle grandi potenze, e tutti ne vediamo gli
effetti liberticidi.
Ed
ancora due parole sulla questione dell’astensionismo elettorale.
Merlino continua a parlare dell’attività propagandista che si può spiegare per
mezzo delle elezioni; ma non pensa a quello che si potrebbe fare se, respingendo
la lotta elettorale, si portasse quell’attività sopra un altro campo più consono
coi nostri principi e coi nostri fini.
Merlino non crede nella conquista dei poteri pubblici; ma noi non vorremmo
questa conquista, né per noi né per altri, neanche se la credessimo possibile.
Noi siamo avversari del principio di governo, e non crediamo che chi andasse al
governo si affretterebbe poi a rinunziare al potere conquistato. I popoli che
vogliono la libertà demoliscono le Bastiglie, i tiranni invece, domandano di
entrarvi e fortificarvisi, colla scusa di difendere il popolo contro i nemici.
Quindi noi non vogliamo. che il popolo s’abitui a mandare al potere i suoi
amici, o pretesi tali, e ad attendersi l’emancipazione dalla loro ascesa al
potere.
L’astensione per noi è una
questione di tattica; ma è tanto importante che, quando vi si rinunzia, si
finisce col rinunziare anche ai principi. E ciò per la naturale connessione dei
mezzi col fine.
Merlino si duole di non
essere completamente d’accordo né con noi né coi socialisti democratici; ma dice
che non si può disdire. Noi non gli domandiamo certamente di disdirsi, contro le
sue convinzioni e contro la sua coscienza. Ma ci permettiamo di fargli
un’osservazione.
Una tattica, per buona che
sia, non vale se non quando è accettata da coloro che dovrebbero praticarla.
Ora, a ragione o a torto, noi e gli anarchici tutti, della tattica proposta dal
Merlino non vogliamo saperne. Non è meglio che egli stia con noi con cui ha pur
comuni gl’ideali e comuni ha pure i mezzi principali di lotta, anziché sciupare
le sue forze in un tentativo che resterà sterile, ne siam. sicuri, a meno che
egli rinunzi all’anarchia e cerchi i suoi partigiani tra gli avversari nostri è
suoi?
MERLINO: “Poche parole per chiudere la polemica”
Ulteriore Intervento del Merlino sull’Agitazione
del 19 aprile 1897.
Mi pare che ci veniamo
avvicinando.
In una società
organizzata secondo i principi del socialismo anarchico le minoranze dovranno
nelle cose di grave interesse comune indivisibile cedere al parere, e mettiamo
pure al volere delle maggioranze: ma le maggioranze non dovranno abusare del
loro potere ledendo i diritti delle minoranze. Senza un compromesso dì questo
genere la convivenza non sarebbe possibile.
Fin qui siamo d’accordo.
Ma se una minoranza
non, vuole acconciarsi al parere della maggioranza in una delle questioni
suddette? Voi dite che in questo caso non ci potrà più essere anarchia. Dunque
la volontà di una piccola minoranza, anzi di un sol uomo, potrà fare in modo che
l’Anarchia – come l’intendete voi – non si applichi affatto. Un pugno di
farabutti o di reazionari o di eccentrici o di nevrotici, anche un sol
individuo, potrà impedire che funzioni il sistema anarchico, soltanto col dire
di no; rifiutandosi a cedere volontariamente alla maggioranza. E siccome qualche
arfasatto ci sarà sempre in qualunque società, la conseguenza del vostro
ragionamento è che l’Anarchia è una gran bella cosa, ma non si attuerà mai.
Io invece prendo l’Anarchia
in un senso meno assoluto. Non metto l’aut-aut che mettete voi. L’idea
Anarchica per me si comincerà ad attuare molto prima che gli uomini raggiungano
lo stato di perfezione, per cui, compenetrati dei vantaggi dell’associazione,
essi cedano volontariamente gli uni agli altri. Essa ci deve suggerire fin da
ora dei modi di provvedere ai comuni interessi e di risolvere i conflitti che
possano nascere, senza autorità, senza accentramento, senza un potere costituito
in mezzo alla società, capace d’imporre la volontà propria ed i propri interessi
alla moltitudine dei soggetti.
Questa è
l’unica Anarchia attuabile ed è un’Anarchia prossimamente attuabile: di essa
soltanto vale la pena di occuparsi.
Prendiamo gli esempi addotti
da voi. Voi dite:
in una società
anarchica non vi può essere polizia. Ma perché non vi sia polizia, bisogna che
gli uomini si rispettino a vicenda, che un galantuomo possa camminare per le vie
senza la paura di essere aggredito, od almeno, nella sicurezza di essere difeso
dai vicini e dai viandanti se aggredito da uno più forte di lui. Se i deboli
avessero a temere di essere accoppati per le vie, essi invocherebbero una
polizia che li proteggesse, e l’Anarchia se ne andrebbe a gambe all’aria.
Cosicché voi ponete il dilemma: o nessuna forma dì difesa sociale o collettiva
dal delitto – tranne la difesa fortuita della folla – oppure la polizia, il
governo, l’ordine di cose attuale.
Io
invece credo che tra il sistema attuale e quello che presuppone la cessazione
del delitto ci sia posto per forme intermedie – per una difesa sociale che non
sia la funzione di un Governo, ma che si eserciti, in ciascuna località, sotto
gli occhi e il controllo dei cittadini come un qualunque servizio pubblico,
d’igiene, di trasporto ecc. – quindi non possa degenerare in un mezzo di
oppressione e di dominazione.
Preparare queste forme, e
farle prevalere alla forma autoritaria attuale o ad altre simili è appunto il
compito dei socialisti anarchici. Ma questo compito non lo eseguiranno se essi
diranno: l’anarchia non è possibile che allorquando la società non avrà più
bisogno di garantirsi dal delitto – perché non si commetteranno più delitti.
Nelle relazioni fra popoli
voi dite: gli Stati oggi fanno pace e guerre, osservano certe norme di giustizia
nei loro rapporti (diritto delle genti, ecc.) senza un governo, un Parlamento,
una polizia internazionale. E come non vi accorgete che il Governo dei Governi
c’è, ed è di quella Potenza o di quelle Potenze che hanno il maggior numero di
cannoni ed il maggior numero di uomini per caricarli e difenderli? E come non
v’accorgete che i rapporti attuali fra popoli sono embrionali, i trattati di
commercio, le convenzioni postali, sanitarie, monetarie, ed il cosiddetto
diritto delle genti, accennando a relazioni che tendono a divenire permanenti e
regolari, sono le prime linee di un’organizzazione degl’interessi
internazionali, che si andrà sempre più sviluppando dopo che gli Stati attuali
avranno cessato di esistere?
Noi
dobbiamo adoperarci perché questa organizzazione sia fatta in forma federativa e
libertaria; non negarne la necessità e l’utilità. A me pare francamente che voi
rimaniate a mezza via tra l’individualismo e il socialismo.
Ed ora lasciatemi tornare
dalla questione di principi a quella di tattica.
Nell’articolo di fondo
del numero 3 voi vi occupate delle recenti elezioni e dite:
“Francamente e
grandemente ci rallegriamo del trionfo de’ socialisti, perché, per quanto ecc.,
dimostra pur sempre che l’idea del Socialismo si avanza, che cresce il numero dì
coloro che si ribellano agli ordini del padrone, del prete e del carabiniere e
che questa
Italia non è poi
davvero quella terra di morti che è sembrata in questi ultimi anni”.
Preziosa
confessione che in realtà mi ha meravigliato. Voi astensionisti – che predicate
che un popolo che vota abdica la sua sovranità nelle mani di pochi, ora invece
vedete niente meno nel voto recente degli elettori italiani una ribellione agli
ordini del padrone, del prete e dell’autorità – un’affermazione tanto importante
dei diritti e delle aspirazioni del popolo, che esclamate giulivi che per queste
elezioni è rimasto provato non essere l’Italia quella terra dei morti che è
sembrata in questi ultimi anni.
E vi par poco questa
dimostrazione?
Mettete pure sul conto
del parlamentarismo i compromessi, l’annacquamento dei programmi, la corruzione,
ecc. Questi mali non potranno giammai far contrappeso all’immenso vantaggio di
avere sentito battere l’anima di un popolo che, come voi dite, pareva morto e
rassegnato all’inerzia della tomba.
Ora poi, se a voi è permesso
di dire dopo le elezioni che esse sono riuscite una splendida affermazione del
Socialismo, non poteva esser vietato a me di dire prima delle elezioni che
bisognava fare in modo che riuscissero una siffatta affermazione. Se non osta ai
principi! anarchici che voi vi congratuliate del trionfo dei socialisti, non
deve neppure ostare che io dichiari che lo desideravo. Le vostre congratulazioni
non sarebbero venute se qualcuno non avesse lavorato per il trionfo del
Socialismo nelle elezioni. Ed io non ho torto se mi ostino a sostenere che gli
anarchici possono fare assai meglio che stare a guardare e congratularsi del
trionfo degli altri.
Al
Governo non basta per continuare ad esistere la forza materiale delle baionette:
gli ci vuole anche una forza morale che esso chiede alle elezioni – una
apparenza di consentimento popolare. E l’acquisto di questa forza morale noi
dobbiamo contendergli: perché ridotto alla sola forza materiale, noi potremo
combatterlo con successo alla prima occasione.
Un’ultima parola. Voi dite che tutti gli anarchici sono astensionisti. Oh!
quanto v’ingannate! Gli astensionisti più accaniti votano ora pei repubblicani,
ora pei socialisti, ora per amici personali senza parlare degli Azzaretti che
non sono pochi! Quello che si guadagna con la tattica astensionista è di
partecipare alle elezioni, non in nome dei nostri principi ma sotto falso nome e
a beneficio di altri partiti.
MALATESTA: “Concezione integrale dell’anarchia”
Risposta di Malatesta sull’Agitazione
del 19 aprile 1897.
Merlino
va imparando un modo curioso di discutere. Sceglie da quel che gli dite una
frase staccata, la tira e la torce, e riesce, poiché non tiene conto del
contesto, a farvi dire quello che piace a lui. Inoltre non risponde mai alle
vostre domande e alle vostre confutazioni; ma si attacca ad un vostro esempio o
argomento incidentale e discute quello senza ricordarsi più della questione
principale, sicché l’oggetto della polemica ad ogni replica diventa un altro.
Infatti, chi potrebbe indovinare che noi stavamo discutendo se il
parlamentarismo è compatibile o no con l’anarchia? Continuando così potremmo ben
discutere un secolo, ma non riusciremmo a sapere nemmeno se siamo d’accordo o
no. In ogni modo seguiamo Merlino sul suo terreno.
Perché
dice Merlino che “ci veniamo avvicinando”? Perché noi ammettiamo la necessità
della cooperazione e dell’accordo fra i membri della società e ci pieghiamo alle
condizioni fuori delle quali cooperazione ed accordo non sono possibili? Ma
questo è socialismo, e Merlino sa che noi siamo sempre stati socialisti e perciò
sempre molto “vicini”. La questione ora è se il socialismo deve essere anarchico
o autoritario, vale a dire se l’accordo deve essere volontario o imposto.
Ma se la
gente non vuole accordarsi? Eh! Allora sarà la tirannia o la guerra civile, ma
non sarà l’anarchia. Per forza l’anarchia non si fa: la forza può e deve servire
per abbattere gli ostacoli materiali, per mettere il popolo nella condizione di
scegliere liberamente come vuol vivere, ma più non può fare.
Ma se
“un pugno di farabutti o di nevrotici o anche un solo individuo si ostina nel
dir no, allora non è possibile l’anarchia?” Diavolo! Non sofistichiamo. Questi
individui sono ben liberi di dire no, ma non potranno impedire agli altri di far
sì – e quindi dovranno adattarsi il meglio che possono. Ché se poi “i farabutti
o i nevrotici” fossero tanti da poter disturbare sul serio la società ed
impedirle di funzionare pacificamente, allora... purtroppo, non saremmo ancora
in anarchia.
Noi non
facciamo dell’anarchia un eden ideale, che per essere troppo bello, si debba poi
rimandare alle calende greche.
Gli uomini sono troppo
imperfetti, troppo abituati a rivaleggiarsi ed odiarsi tra loro, troppo
abbrutiti dalle sofferenze, troppo corrotti dall’autorità, perché un cambiamento
di sistema sociale possa, dall’oggi al domani, trasformarli tutti in esseri
idealmente buoni ed intelligenti. Ma quale che sia l’estensione degli effetti
che si possono sperare dal cambiamento, il sistema bisogna cambiarlo, e per
cambiarlo bisogna che si realizzino le condizioni indispensabili al detto
cambiamento.
Noi crediamo che l’anarchia
prossimamente attuabile, perché crediamo che le condizioni necessarie alla sua
esistenza vi siano già negl’istinti sociali degli uomini moderni, tanto che essi
mantengono come che sia in vita la società, malgrado la continua azione
dissolvente, antisociale, del governo e della proprietà. E crediamo che rimedio
e baluardo contro le cattive tendenze di alcuni e contro i pericoli d’interessi
e di gusti di altri non sia un governo qualsiasi, il quale essendo composto di
uomini non può che far pendere la bilancia dalla parte degli interessi e dei
gusti di chi sta al governo – ma la libertà la quale, quando ha a base
l’uguaglianza di condizioni, è la grande armonizzatrice dei rapporti umani.
Noi non
aspettiamo per volere attuata l’anarchia che il delitto, o la possibilità del
delitto, sia sparita dai fenomeni sociali; ma non vogliamo la polizia, perché
crediamo che essa, mentre è impotente a prevenire il delitto, o ripararne le
conseguenze, è poi per se stessa fonte di mille mali e pericolo costante per la
società; e se per difendersi vi fosse bisogno di armarsi, vogliamo essere armati
tutti e non già costituire in mezzo a noi un corpo di pretoriani. Noi ci
ricordiamo troppo della favola del cavallo che si fece mettere il morso e
montare in groppa l’uomo per meglio dar la caccia al cervo – e Merlino sa bene
che menzogna sia “il controllo dei cittadini”, quando i controllati sono quelli
che hanno in mano la forza!
Inesatto pure è Merlino
quando si serve del nostro esempio del “Concerto europeo”. Noi non abbiam detto
che nei rapporti attuali tra gli Stati vi sia eguaglianza e giustizia, né abbiam
negato la necessità di una organizzazione, federativa e libertaria,
degl’interessi internazionali. Noi abbiam detto solamente che alla prepotenza ed
all’ingiustizia che prevalgono oggi nei rapporti tra gli Stati, non sarebbe
rimedio un Governo ed un Parlamento internazionale. La Grecia subisce oggi la
posizione delle Grandi Potenze, e vi resiste: se essa avesse un rappresentante
in un Parlamento internazionale e si fosse impegnata a rispettare le
risoluzioni della maggioranza di detto Parlamento, essa subirebbe un’eguale e
maggiore prepotenza e non avrebbe il diritto di resistervi.
E poi,
che intende Merlino quando dice che noi siamo a mezza strada tra
l’individualismo ed il Socialismo?
L’individualismo, o è la
teoria della lotta: “ciascun per sé e periscano i deboli”; oppure è quella
dottrina che sostiene che pensando ciascuno a se stesso e facendo a suo modo
senza preoccuparsi degli altri, ne risulta, per legge naturale, l’armonia e la
felicità di tutti. Nell’un senso e nell’altro noi siamo agli antipodi
degl’individualisti, tanto quanto vi può esser Merlino. La questione tra noi e
lui è questione di autorità, o libertà; e, francamente a noi pare ch’egli stia –
o, meglio, sia ritornato – a mezza strada tra l’autoritarismo e l’anarchismo.
Ed ora
alla questione di tattica.
Merlino si meraviglia che noi
ci siamo rallegrati del trionfo dei socialisti. La meraviglia ci sembra strana
davvero. Noi ci rallegriamo quando i socialisti democratici trionfano sui
borghesi, come ci rallegreremmo di un trionfo dei repubblicani sopra i
monarchici, ed anche di uno dei monarchici liberali sopra i clericali. Se
avessimo potuto convertire all’anarchismo coloro che hanno votato pei socialisti
ed ottenere che questi non avessero avuto nemmeno un voto, ne saremmo stati
felicissimi. Ma nel caso concreto, se i centomila e tanti elettori che han
votato pei socialisti non lo avessero fatto, non è perché sarebbero stati degli
anarchici, ma è perché sarebbero stati o dei conservatori di vari gradi, oppure
gente che si asteneva per indifferenza, o che indifferentemente votava per chi
pagava o prometteva o minacciava di più. E Merlino si meraviglia che noi
preferiamo saperli socialisti, o mezzi socialisti?
Il bene e il male sono cose
relative; ed un partito per quanto reazionario può rappresentare il progresso di
fronte ad uno più reazionario ancora. Noi ci rallegriamo sempre quando vediamo
un clericale che diventa liberale, un monarchico che diventa repubblicano, un
indifferente che diventa qualche cosa; ma da ciò non deriva che dobbiam farci
monarchici, liberali o repubblicani noi, che crediamo di star più avanti.
Per esempio, visto lo stato
presente delle province meridionali, sarebbe stato un ottimo sintomo se avessero
trionfato sopra larga scala non fosse altro che i cavallottiani; e noi ce ne
saremmo rallegrati, come crediamo se ne sarebbero rallegrati anche i socialisti
democratici. Ma non per questo socialisti ed anarchici avrebbero dovuto nel
Mezzogiorno difendere i cavallottiani. Al contrario, i socialisti mettono
dappertutto le candidature loro, anche se questo debba diminuire la probabilità
di riuscita del candidato meno reazionario – e noi predichiamo dappertutto
l’astensione cosciente, senza preoccuparci se essa possa favorire un candidato o
l’altro. Per noi non è il candidato che importa, perché tanto non crediamo
nell’utilità di avere dei “buoni deputati”; quel che importa è la manifestazione
dello stato d’animo del pubblico; e fra i tanti curiosi stati d’animo in cui può
trovarsi un elettore, il migliore è quello che gli fa comprendere la inutilità
ed i danni della deputazione al Parlamento e lo spinge a lavorare per quel che
desidera, direttamente, associandosi a tutti quelli che hanno gli stessi suoi
desideri.
Infine,
perché mai Merlino ha voluto chiudere la sua lettera con delle insinuazioni,
che, viste le relazioni in cui in questo momento egli si trova con gli
anarchici, sono almeno di cattivo gusto? Merlino si dice sempre anarchico e si
sforza per farci concepire l’anarchia come l’intende lui e per farci accettare
la tattica sua; ed è suo diritto. Ma perché piglia un tono che si può forse
usare coll’avversario che non ci importa di offendere, ma non conviene con
compagni che si vuole convincere ed attirare?
Già tempo fa, rispondendo nel
Messaggero al Malatesta che aveva parlato della “incipiente
riorganizzazione” del partito anarchico, Merlino ne faceva le beffe, quando egli
sapeva che gli anarchici si riorganizzavano davvero, ed avevano già ottenuto dei
risultati modesti sì, ma ben reali. Ora poi viene a tirar fuori gli anarchici
che si dicono astensionisti e votano, e ci butta sul viso l’Azzaretti, che noi
stessi abbiamo denunziato in queste colonne.
Ebbene se vi sono degli
“astensionisti. che votano – e sappiamo che ve ne sono di fatto – ciò vuol dire
o che non hanno coscienza completa delle opinioni che professano, oppure che non
trovano in mezzo agli anarchici la forza sufficiente per resistere alle
influenze dal di fuori: ed il rimedio non è di rinunziare tutti al programma, o
di aumentare le cause di confusione e di debolezza ma di accrescere la coscienza
degl’individui e di rinforzare l’organizzazione del partito.
E se poi vi sono anche
dei farabutti, che si vendono, non c’è che da scoprirli e cacciarli.
Nota
di chiusura della prima parte della polemica, dovuta a Malatesta, pubblicata
dall’Agitazione
del 25 aprile 1897.
Merlino ci scrive di nuovo e
si lamenta del “tono poco amichevole” del nostro articolo. Ma nel farlo prende
tale un tono che impedisce a noi, che vogliamo restar calmi davvero, di
pubblicare integralmente la sua risposta. Ci sforzeremo del resto di riportare,
con le sue stesse parole, tutti i suoi argomenti.
Merlino
è offeso perché dicemmo ch’egli aveva fatto delle insinuazioni. Insinuazione non
sempre significa bugia; e noi d’altronde avvertivamo che sapevam vero quello che
Merlino diceva. Ma lamentavamo ch’egli venisse con accuse generali e impersonali
a turbare la serenità della discussione.
Ora poi Merlino ci viene a
parlare di gente che ha “lavorato” per Zuccari in mezzo agli anarchici, di uno
che ha preso cento lire da un candidato monarchico e d’altre porcherie. Noi
conosciamo troppo Merlino per avere la più lontana idea ch’egli menta; ma che
significa questo suo venire a gettare il sospetto fra noi, quando poi non mette
fuori i nomi e non ci mette in grado di poter distinguere i buoni dai falsi
compagni, i convinti dai vacillanti? Ci mandi Merlino fatti e nomi; ci autorizzi
a pubblicarli sotto la sua responsabilità, e noi gliene saremo gratissimi. Noi
vogliamo anzitutto essere un partito di gente pulita.
Ma quel
che è poi strano davvero è che Merlino trova che questo fango elettorale, che
manda i suoi schizzi fino in, mezzo a noi sia la conseguenza della tattica…
astensionista!!! A noi pare invece una ragione di più per fare
dell’astensionismo elettorale un punto importante del nostro programma, ed è per
questo che siamo ostili anche alle candidature di protesta. E passiamo oltre.
Merlino protesta ch’egli non
sapeva quando scrisse al Messaggero che gli anarchici si riorganizzavano.
E noi gli crediamo; ma ci domandiamo allora se Merlino, prima di metter fuori al
pubblico la sua nuova tattica, non avrebbe fatto bene a mettersi un po’ più a
contatto coi suoi vecchi compagni. Merlino aggiunge che alla riorganizzazione
non ci crede nemmeno ora – e questo è affar suo. Ai compagni tutti il dargli,
coi fatti, un’eloquente smentita.
Ed ora
agli argomenti. Merlino scrive:
“La difesa sociale (scrivete
voi) dev’esser la cura di tutta la società; e se per difendersi vi fosse bisogno
di armarsi, vogliamo essere armati tutti. Così ragionando, l’amministrazione
della pubblica ricchezza dev’essere la cura di tutta la società; e se per
amministrarla vi fosse bisogno di far progetti, compilare statistiche, studiare
scienze tecniche – ebbene quelle cose vogliamo farle tutti. L’educazione e
l’istruzione dei fanciulli dev’essere la cura di tutta la società. Chi non sa
quanto sia pericoloso confidare a pochi individui la cura di educare la nuova
generazione? Dunque facciamoci tutti professori. E via di questo passo, si nega
il principio della divisione del lavoro, si arriva al concetto Kropotkiniano,
che il popolo in massa distribuirà le case, i viveri, il lavoro, farà tutto”.
Se noi dicessimo che Merlino
per confutarci ci affibbia delle idee che egli dovrebbe sapere non essere le
nostre, egli se ne offenderebbe – e noi non vogliamo offenderlo. Noi ammettiamo
certamente la divisione del lavoro e ne apprezziamo i vantaggi; ma ne conosciamo
pure i danni ed i pericoli. La divisione del lavoro è stata una fra le cause
dell’assoggettamento delle masse al dominio delle caste privilegiate. E col
principio della divisione del lavoro si può tentare la giustificazione di tutte
le mostruosità sociali: divisione tra lavoro mentale e lavoro manuale, divisione
fra il lavoro di direzione e quello di esecuzione, divisione tra :il lavoro di
produzione e quello di difesa dei produttori – che poi si riassumono e si
concretano nella divisione tra il lavoro di mangiare e quello di produrre, tra
il lavoro di bastonare e quello di farsi bastonare. Menenio Agrippa conosceva
già quest’argomento.
Noi
crediamo che carattere essenziale, non solo dell’anarchismo ma del socialismo in
genere, sia il volere che certe funzioni debbano appartenere indistintamente a
tutti i membri della società, malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero
essere nell’affidarle ad una classe speciale. Si divida pure il lavoro fino a
che si può, per aumentare la produzione e facilitare il funzionamento della vita
sociale: ma sian salvi innanzi tutto l’integrale sviluppo e l’eguale libertà di
tutti gli individui.
Tra le funzioni che, secondo
noi, non si possono affidare senza gravi inconvenienti ad una classe speciale
d’individui vi sono quelle in cui potrebbe esserci bisogno di adoperare la forza
fisica contro un essere umano.
Così per esempio, potrebbe,
non lo neghiamo, esservi un vantaggio tecnico ad avere un corpo di specialisti
incaricati di diagnosticare la follia pericolosa e di portare i matti al
manicomio, ma, che volete? Noi abbiam paura che quei signori dottori ed
infermieri giudicherebbero matti tutti quelli che non la pensano come loro.
Lombroso insegni, che ci rinchiuderebbe tutti, Merlino compreso! Per la polizia
propriamente detta, peggio di peggio: addestrate un uomo a dar la caccia agli
uomini ed avrete, tecnicamente parlando, un buon agente di polizia; ma nello
stesso tempo avrete spento in lui ogni sentimento di simpatia umana, avrete
spento l’uomo e non troverete più che lo sbirro.
E non ci
estendiamo sul soggetto perché, polemizzando col Merlino, noi non intendevamo
discutere sui modi migliori di soddisfare ai diversi bisogni della società, ma
sulla questione specifica delle elezioni e del parlamentarismo. I vari problemi
che possono presentarsi nella vita sociale possono essere risoluti, bene o male,
in modi diversi. La questione che trattavamo era piuttosto il modo di
risolverli: autorità o libertà, delegazione dì potere o delegazione di lavoro,
governo parlamentare o anarchia – e su questa questione ci pare che Merlino,
malgrado la protesta stizzosa che ci manda in contrario, abbia scivolato.
Merlino
continua: “La
divergenza tra noi è sul modo d’intendere l’Anarchia. Voi dite: l’anarchia sarà
quando gli uomini sapranno vivere d’accordo. Quando? Io dico: l’Anarchia sarà
quando gl’interessi collettivi della società saranno organizzati, non già
assolutamente senza coazione; ma, sia pure con quel po’ di coazione morale,
economica o fisica che è inevitabile – senza quel potere costituito in mezzo
alla società, armato di leggi e dì baionette e arbitro della roba e della vita
dei cittadini che si chiama governo”.
Vale a
dire che Merlino non credendo possibile ora l’Anarchia completa –
l’organizzazione senza coazione
– vorrebbe accostarvisi il più che si può. E sta bene: noi abbiamo già detto che
non essendo noi tutta l’umanità non possiamo – e appunto perché anarchici non
pretendiamo – far da noi soli tutta la storia umana.
L’umanità cammina secondo la
risultante delle mille forze che in vari sensi la sollecitano. Noi non siamo che
una di queste forze. La questione da discutersi è se, possibilizzando il nostro
programma, noi otterremmo un risultato più vantaggioso, vale a dire più pronto e
più vicino al nostro ideale, che combattendo per l’attuazione del programma
pieno ed intero. Noi crediamo di no.
Infine Merlino ritorna sulla
questione di tattica, ma non fa che ripetere il già detto più volte. Noi pure
non avremmo che da ripeterci, quindi preferiamo chiuder qui la polemica. Oramai
i compagni e tutti coloro che si sono interessati della discussione ne hanno
inteso abbastanza per farsi un’opinione propria.
MALATESTA: “Non confondiamo”
Comincia la seconda parte della polemica. Nota di Malatesta pubblicata sull’Agitazione
del 18 giugno 1897.
Leggiamo su qualche giornale anarchico estero dei giudizi sulla “evoluzione” di
Merlino, che noi riteniamo erronei per ciò che riguarda la cosa ed ingiusti per
ciò che si riferisce alla persona.
Merlino
ha fatto una attivissima propaganda per una più larga partecipazione degli
anarchici al movimento operaio ed alla vita popolare, e contro le tendenze
individualiste che accennarono un momento a predominare nel campo nostro; e con
questa propaganda si è attirato, da certe parti, molte antipatie e molti odi
ch’egli ha coraggiosamente affrontati.
Ora poi
ch’egli consiglia la partecipazione alla lotta elettorale ed accetta, fino ad un
certo punto, anche il parlamentarismo, coloro che con lui erano in disaccordo ne
profittano per dire che la sua evoluzione era una cosa aspettata e che la
partecipazione al movimento operaio ed alla “lotta pratica” non era e non poteva
essere che il primo passo verso la tattica parlamentare.
Noi non abbiamo bisogno di
ripetere quel che pensiamo del parlamentarismo e di tutto ciò che ad esso si
riferisce, e quanto deploriamo che Merlino si sia messo su quella via. Ma non
per questo lasceremo che si presenti sotto una falsa luce l’influenza benefica
che Merlino ha avuto sul movimento anarchico; e che, nello spiegare la sua
evoluzione, si prenda per causa quello che è stato effetto e viceversa.
Non è
vero che Merlino abbia cercato di mettere il movimento anarchico su una via
pratica perché voleva arrivare alla tattica parlamentare. Invece egli ha
accettato, con più o meno riserve, questa tattica perché gli anarchici col loro
esclusivismo si erano ridotti all’inazione ed all’impotenza.
Merlino, di cui nessuno che lo conosce vorrà mettere in dubbio la profonda
sincerità e la grande buona volontà, ha secondo noi commesso un errore
grandissimo compromettendo i risultati della sua propaganda antecedente col
tentativo di farci accettare la lotta elettorale. Ma non bisogna nasconderci
l’errore collettivo che ha fatto sì che degli uomini di valore, vedendoci
perduti nelle astrazioni e non riuscendo, così presto come avrebbero voluto, a
riportarci nel mondo della realtà, han cercato altrove la via all’azione
feconda... e hanno sbagliato strada.
Sappiamo essere un partito vivente, sappiamo esercitare un’azione efficace sul
movimento sociale, ed allora non avremo a temere altre defezioni che quelle,
benvenute, dei deboli e dei traditori, e potremo sperare che coloro che ci hanno
abbandonato con la speranza sincera dì poter essere più utili alla causa,
torneranno a combattere insieme a noi.
MALATESTA: “Anarchismo e Democrazia”
Recensione di Malatesta dello scritto di Merlino “Collettivismo, comunismo,
democrazia socialista e anarchismo”, pubblicata sull’Agitazione
del 6 agosto 1897.
Con questo titolo e col
sottotitolo “Tentativo di conciliazione” Saverio Merlino ha pubblicato nella
Revue Socialiste di Parigi un articolo, che la Direzione di quella Rivista
chiama una contribuzione alla sintesi delle dottrine socialiste.
E contribuzione a
detta sintesi lo sarà forse, poiché ogni studio delle varie dottrine rischiara
l’argomento, tende a toglier di mezzo i dissensi che non hanno ragione di
essere, e può menare alla conciliazione se arriva a stabilire che differenze
sostanziali non ne esistono. Ma il fine pratico che Merlino si proponeva, quello
cioè di dimostrare che le dottrine dei socialisti democratici e dei socialisti
anarchici, lungi dall’essere inconciliabili, si correggono e si completano a
vicenda, è certamente mancato, poiché egli mette male la questione, e confonde
dottrine e partiti in un modo che fa davvero, meraviglia in un uomo di mente
così lucida e così bene informato come è Merlino.
L’articolo si divide in due parti. Nella prima Merlino parla della differenza
tra comunismo e collettivismo, pigliando queste parole nel senso, diremo così,
classico che esse avevano per tutti al tempo dell’Internazionale: vale a dire,
Comunismo, come il sistema, in cui tutto, strumenti e prodotti di lavoro, è a
disposizione di tutti, senza tener calcolo del contributo di ciascuno all’opera
collettiva, conforme alla formula “da ciascuno secondo le sue forze e a ciascuno
secondo i suoi bisogni”; Collettivismo, come il sistema in cui, stabilita
l’eguaglianza di condizioni, garantito a tutti l’uso delle materie prime e degli
strumenti di lavoro, ciascuno è padrone del prodotto del suo lavoro. Egli
sostiene che tanto il Comunismo quanto il Collettivismo, se interpretati in un
modo stretto, assoluto, sono l’uno e l’altro impossibili o non soddisfacenti, e
fa molte osservazioni giuste, che abbiamo fatto anche noi in questo giornale o
altrove. E conchiude che col contemperamento dell’un sistema coll’altro –
“facendo distinzione tra relazioni sociali necessarie e fondamentali e rapporti
volontari e variabili tra gl’individui” – si può arrivare ad “una buona
organizzazione sociale che non soffochi l’energia dell’individuo levandogli ogni
iniziativa ed ogni libertà d’azione, e che nello stesso tempo assicuri il
funzionamento armonico delle attività individuali”, o, in altri termini, che
concili la libertà individuale colla necessaria solidarietà sociale.
La questione è molto
interessante e può essere, ed è stata, oggetto di utile discussione; ma non ha
nulla a vedere colle differenze che dividono democratici e anarchici. Vi possono
essere, e vi sono stati e vi sono, anarchici collettivisti e anarchici
comunisti, al pari che democratici collettivisti e democratici comunisti. Negli
ultimi anni i socialisti democratici, chiamandosi insistentemente collettivisti,
sono riusciti ad identificare quasi il collettivismo colla democrazia
socialista; ma in questo senso il Collettivismo più che un sistema di
distribuzione dei prodotti del lavoro, è il sistema della organizzazione
socialista per opera dello Stato e non è più il Collettivismo di cui discute
Merlino in paragone col Comunismo.
Per gli
anarchici, la sintesi e la conciliazione tra Collettivismo e Comunismo si può
dire già un fatto compiuto, poiché nessuno più interpreta quei sistemi in un
modo stretto e assoluto; e lo prova il fatto che, almeno come partito militante,
essi si denominano generalmente coll’appellativo comprensivo di socialisti
anarchici, lasciando alle discussioni teoriche dell’oggi ed agli esperimenti
pratici di domani la scelta tra i vari modi di organizzazione del lavoro e di
distribuzione dei prodotti.
Nella
seconda parte del suo articolo Merlino parla della necessità di
un’organizzazione permanente degli interessi collettivi, e delle forme che
assumerà tale organizzazione; ed arriva ad una conciliazione verbale, che in
realtà lascia la questione al punto di prima.
Egli parla dei grandi
interessi sociali, che eccedono l’interesse e la vita stessa dell’individuo, ed
a cui bisogna che provveda la collettività; cerca qual’è la forma politica che
può dare una più sincera espressione della volontà collettiva e meglio evitare
ogni pericolo di oppressione, e conchiude:
“Né governo centralizzato né
amministrazione diretta. L’organizzazione politica della società socialista deve
consistere nel riconoscimento dei diritti e libertà intangibili dell’individuo
(diritto all’uso degli strumenti collettivi del lavoro, diritto d’associazione,
d’istruzione, libertà di pensiero, di parola, di stampa, di scelta di lavoro,
ecc.) e nell’organizzazione degli interessi collettivi per delegazione ad
amministratori capaci, revocabili e responsabili, che agiscano sotto il
sindacato diretto del popolo, gli sottomettano i loro atti più importanti
(referendum) e restino separati ed indipendenti l’uno dall’altro, affinché non
vi sia coalizione per l’esercizio di un’autorità simile all’autorità governativa
attuale”. “L’essenza della democrazia sta nell’assenza di una tale coalizione, e
nella ricerca delle forme di amministrazione che lasciano il meno possibile
all’arbitrio degli amministratori. In questo senso non v’è differenza
sostanziale tra democrazia e anarchia. Governo del popolo – niente oligarchia –
significa in sostanza non governo. Il governo di tutti in generale (democrazia)
equivale al governo di nessuno in particolare (anarchia)”.
Ancora
una volta Merlino è fuori della questione. Il modo di organizzare od
amministrare gl’interessi collettivi è questione importantissima e troppo
trascurata, come giustamente osserva il Merlino, dai socialisti di tutte le
scuole. Ma se s’intende paragonare le soluzioni dei democratici a quelle degli
anarchici, in vista di una possibile conciliazione, bisogna rimontare alla
differenza sostanziale che divide le due scuole, e non già fermarsi a discutere
sul valore relativo dei vari sistemi rappresentativi, del referendum, del
diritto d’iniziativa, del governo diretto, del centralismo, del federalismo,
ecc. E la differenza sostanziale è questa: autorità o libertà, coazione o
consenso, obbligatorietà o (ci si perdonino i neologismi) volontarietà. È su
questa questione fondamentale del supremo principio regolatore dei rapporti
interumani che bisogna intendersi, o almeno discutere, tra democratici e
anarchici; poiché, se non vi è intesa su di essa, non vi può essere intesa sulle
questioni speciali di organizzazione, e quand’anche si arrivasse ad un accordo a
parole, come quello a cui arriverebbe Merlino, si scoprirebbe presto che
l’accordo s’è fatto adoperando le stesse parole in sensi diversi.
Scendiamo alla pratica.
Supposto che domani il popolo fosse padrone di sé (non si allarmi il Fisco,
poiché si tratta di semplici supposizioni) dovrà esso nominare un potere
costituente, che decreterà una nuova costituzione, che farà la legge, che
organizzerà la nuova società? Oppure la nuova organizzazione sociale dovrà
sorgere, dal basso all’alto, per opera di tutti gli uomini di buona volontà,
senza che a nessun o sia dato il diritto di comandare e d’imporre? In altri
termini, per servirci della frase consacrata, bisogna conquistare, oppure
abolire i pubblici poteri? Si può parteggiare per l’uno o l’altro metodo, si può
anche cercare qualche cosa d’intermedio, come pare desidererebbe Merlino, ma non
si può, quando ci cerca di arrivare ad una conciliazione tra democratici ed
anarchici, tacere quello che è il loro dissenso fondamentale.
E per
oggi basta. Ritorneremo sulle dottrine e sulle tendenze di Merlino, quando ci
occuperemo, in uno dei prossimi numeri, del suo libro recente: Pro e contro
il socialismo.
MERLINO: “Per la conciliazione”
Articolo
di Merlino pubblicato dall’Agitazione
il 19 agosto 1897.
Forse m’inganno, ma mi pare
che voi vi sforziate, involontariamente, ad esagerare il vostro dissenso dai
socialisti‑democratici, per paura che cessando il dissenso, cessi anche per voi
ogni ragione di esistere come partito distinto.
Ora, che esista o no il
partito Anarchico, o qualsiasi altro partito, a me pare debba interessarci
mediocremente. Tutto ciò che noi abbiamo il diritto e il dovere di desiderare è
che quella parte di vero, che c’è nelle nostre dottrine, si faccia strada fra le
moltitudini, e primieramente tra quelli che sono più vicini a noi, i socialisti
militanti. Se domani i socialisti‑democratici accettassero la parte giusta delle
nostre idee, noi potremmo anche rassegnarci a morire come partito. Avremmo
compiuta la nostra missione.
Al postutto, i partiti non
sono destinati a durare eternamente; pur troppo hanno una vita. breve e
precaria, servono ad affermare e divulgare certe idee, e per lo più scompaiono o
si trasformano prima che quelle si attuino. Nel caso nostro, piuttosto che avere
un partito che tira il socialismo da una parte, e un altro che lo tira
dall’altra, facendolo a brani, esagerando entrambi e combattendosi talvolta
ingiustamente, io preferirei un partito solo che rimanesse nella verità. Né mi
preoccupa quello che voi dite. Se domani i socialisti‑democratici, andando al
potere volessero imporsi e tiranneggiare, là, dentro il partito socialista, non
fuori voi dovreste combatterli. In tal modo avreste fatto meglio che prepararvi
a combattere la tirannia socialista, l’avreste prevenuta e impedita. A me
insomma non garba che noi regoliamo il nostro modo di pensare e la nostra
propaganda in opposizione a quello che pensano o dicono – o diranno e faranno –
i socialisti‑democratici; mi parrebbe di fare come quei due individui che
camminassero a braccetto, e di cui l’uno zoppicasse da una gamba e l’altro
credesse, per fargli equilibrio, di dover zoppicare dall’altra. Lasciamo questi
giuochi di equilibrio e andiamo diritti, perdio, alla nostra mèta.
Dunque
esaminiamo la questione della conciliazione fra collettivismo, comunismo,
democrazia socialista ed anarchismo, senza il partito preso di non riescirvi.
Voi dite che la “sintesi e conciliazione tra comunismo e collettivismo, per gli
anarchici si può dire un fatto compiuto”, tanto vero che essi si chiamano oggi,
in gran parte, anarchici‑socialisti. Dunque siamo d’accordo. Io però vi fo
notare che molti anarchici si chiamano oggi socialisti e non comunisti né
collettivisti, non perché siano convinti, come son convinto io, che comunismo e
collettivismo non possono star da sé, ma devono completarsi a vicenda, ma
piuttosto perché o sono incerti, o pur essendo comunisti e collettivisti in
pectore, non credono la questione tanto importante da doverne fare un
casus belli. Per essi è una questione di tolleranza reciproca: io invece
parto dalla critica del collettivismo e del comunismo per arrivare ad un terzo
sistema, o sistema misto. Voi vedete la differenza.
Ad ogni modo voi riconoscete
che la discussione che io ho fatta in proposito nell’articolo della Revue
Socialiste è interessante ed utile. Ma ecco che la preoccupazione di
confondervi coi socialisti‑democratici vi assale, e voi soggiungete: “ma (la
questione) non ha nulla a vedere colle differenze che dividono democratici ed
anarchici”. Come se io nel mio articolo mi fossi proposto di trattare soltanto
di queste divergenze!
Ma il collettivismo dei
socialisti democratici – voi dite – più che un sistema di distribuzione dei
prodotti del lavoro, è il sistema dell’organizzazione socialista per opera dello
Stato. È un’asserzione, ne converrete con me, un po’ troppo cruda, e che mette
in un fascio ì socialisti‑democratici coi socialisti di Stato. I socialisti
democratici respingono e combattono il socialismo dì stato, e bisogna tener loro
conto, almeno della buona intenzione. Il collettivismo per essi non è il sistema
dello Stato grande capitalista e grande anzi unico proprietario; ma è il
sistema in cui la società (nella sua grande capacità collettiva) amministra il
patrimonio pubblico dei mezzi di produzione e forma il piano generale di
produzione distribuendo i prodotti in ragione del lavoro di ciascuno. Che questo
sistema possa menare, contro la volontà dei suoi sostenitori, ad una specie di
socialismo di stato, è un’altra questione: dipende dalla modalità del sistema,
dal modo con cui funziona questa società nella sua capacità collettiva, dal come
sarà organizzata.
Sarà organizzata a stato?
Sarà una semplice federazione di associazioni? Quali saranno le attribuzioni e
quale sarà la composizione dell’amministrazione collettiva? Qui sta la
questione, ma un’amministrazione generale degli interessi collettivi e
indivisibili – voi ne avete convenuto altra volta – ci ha da essere. I
socialisti democratici hanno il torto, secondo me, di accreditare il sospetto
che essi vogliano né più né meno che un grande stato – come quando dimostrano la
loro gioia per ogni nuovo acquisto od intrapresa che fa lo stato. Quando una
rete di ferrovie, per es. passa da una società privata allo stato, essi battono
le mani; perché dicono che dallo stato alla collettività socialistica è poi
breve il varco. Ora questo può essere, come io ritengo, un errore, ma è
tutt’altra cosa dal dire che lo stato debba organizzare esso definitivamente la
produzione e attuare il socialismo.
Siamo
sempre lì. Voi vi sforzate (involontariamente sempre) di far apparire i
socialisti‑democratici il più che potete reazionari, per accrescere la distanza
tra essi e voi e poter dire che essi sono agli antipodi da voi, o almeno
dovrebbero. Questo partito preso si vede anche più chiaramente nella
confutazione che voi fate della seconda parte del mio articolo.
Io sostenevo – e qui
veramente si trattava di conciliare il socialismo democratico e l’anarchico –
che insomma la libertà non può mai essere illimitata, e che un’organizzazione
degli interessi collettivi ci vuole, e che in quest’organizzazione è insita
sempre una certa coazione; che bisogna fare in modo che la coazione sia minima e
l’organizzazione sia la più libertaria e decentrata possibile, e che i
socialisti‑democratici in ciò sono d’accordo con noi; quindi una vera
opposizione d’idee tra essi e noi non c’è, ma dobbiamo studiare insieme i modi
pratici di conciliare gl’interessi generali e indivisibili della collettività
con la libertà dell’individuo. Il referendum, il sindacato pubblico e la
revocabilità degli amministratori, ecc. possono essere un modo di tenere gli
amministratori soggetti agli amministrati, impedendo la formazione di un potere
governante: studiamo dunque queste modalità e attuiamo, per così dire,
l’anarchia per mezzo della democrazia.
Voi anche questa volta non
negate che la questione della modalità dell’organizzazione degl’interessi
collettivi è importantissima e merita di essere approfondita; ma ad un tratto
rivive in voi il vecchio Adamo, l’anarchico che cerca a tutti i costi il
socialista‑autoritario da combattere – e voi dite che “bisogna rimontare alla
differenza sostanziale che divide le due scuole (…) e questa è: autorità o
libertà, coazione o consenso, obbligatorietà o volontarietà”.
Ora io torno a quello che
dissi altra volta, in certe cose d’interesse comune e indivisibile
l’obbligatorietà è inevitabile. Volontarietà, libertà, consenso, sono principi
incompleti, che non ci possono dare da sé soli, né ora, né per molti secoli
avvenire, tutta l’organizzazione sociale. D’altra parte non è esatto che i
socialisti‑democratici siano fautori di autorità, di coazione, di obbligatorietà
su tutta la linea, che non riconoscano il gran valore del principio di libertà.
Non è dunque vero che voi rappresentiate un principio e i socialisti‑democratici
rappresentino il principio opposto: voi tutta la libertà, essi tutta l’autorità.
La questione è di più e di meno, o piuttosto dei modi di applicazione; ed ecco
perché io vorrei tirarvi giù dalle empiree sfere dei principii astratti ed
indurvi a discutere le modalità dell’organizzazione sociale, sicuro come sono
che su questo terreno tutti i socialisti tacitamente mente s’intenderebbero. Ma
voi ricalcitrate, perché, come ho detto fin da principio ritenete che la vostra
missione è di combattere la futura tirannia socialistica, invece di prevenirla.
Voi dite: supposto che il
popolo domani abbia il sopravvento sul governo, i socialisti‑democratici
vorranno fargli nominare un potere costituente che farà la legge e organizzerà
le cose a suo talento. Noi, socialisti‑anarchici, dovremo, potendo, impedire
tutto ciò e far sorgere la nuova organizzazione sociale “dal basso all’alto per
opera di tutti gli uomini di buona volontà”.
Ma
anche per il periodo rivoluzionario vale la regola che ci vuole
un’organizzazione, il più possibile libertaria, a base di volontà popolare, ma
pur capace di dar corpo e vita all’ammasso informe di volontà, d’interessi e di
desideri che si agiteranno sopratutto in tale momento. Un potere costituente
dispotico non solo provocherebbe discordie e reazioni, ma neppure riuscirebbe ad
organizzare la vasta e complicata economia sociale. Ma tanto meno vi riuscirebbe
il popolo in massa, adunato casualmente nei clubs e per le strade. Possibile che
non ci riesca di guardarci, da una parte e dall’altra, dalle esagerazioni?
MALATESTA: “Impossibilità di un accordo”
Risposta
di Malatesta, sull’Agitazione
del 19 agosto 1897, con la quale viene postillato il precedente articolo del
Merlino.
Abbiamo pubblicato qui sopra
la risposta che Merlino ci ha mandato alla critica che noi facemmo di un suo
articolo pubblicato nella Revue socialiste, perché ì lettori possano più
facilmente farsi un’opinione loro propria. Replicherò il più brevemente
possibile, per non cominciare una nuova e lunga polemica, né per dar fondo ad
argomenti sui quali dovremo ritornare continuamente, perché sono la materia
della nostra propaganda, ma semplicemente per rimettere a posto quelle cose, che
Merlino, secondo noi, ha spostato.
Premettiamo un’osservazione. Noi non sappiamo bene se Merlino continui o no a
chiamarsi anarchico. Il certo è, e ce ne duole, che se egli si dice ancora
anarchico, non intende più l’anarchia come l’intendono gli anarchici, fra cui
egli militava fino a non molto tempo fa. E, perciò, il noi ed il nostro, che
Merlino adopera ancora, va accolto con riserva.
Avevamo creduto che Merlino
sarebbe riuscito a formare un terzo partito, intermedio tra i marxisti e noi –
qualche cosa come gli Allemanisti francesi; e ce ne saremmo rallegrati, poiché
ciò avrebbe dato una organizzazione propria a quegli elementi che stanno a
disagio nel Partito Socialista Italiano, ed avrebbe segnato un passo avanti
nell’evoluzione del socialismo in Italia, mentre d’altra parte quegli anarchici
che avessero potuto aderire al nuovo partito non sarebbero stati, in generale,
che degl’individui già sul punto di abbandonarci e che avremmo in ogni modo
perduti. Ma incominciamo a temere, per sintomi molteplici e vari, che anche
questa era un’illusione. Merlino, quando avrà perduto ogni speranza di
convertire gli anarchici e di far loro accettare, con delle attenuazioni che
secondo noi non hanno alcun valore pratico, le idee ed il metodo dei socialisti
democratici, passerà senz’altro nelle file di questi ultimi. Ed allora forse,
subendo la suggestione del nuovo ambiente, dirà che gli anarchici non esistono.
Vorremmo ingannarci. Ed ora rispondiamo a Merlino, cercando di seguire il suo
scritto paragrafo per paragrafo.
Merlino
dice che noi ci sforziamo di esagerare il nostro dissenso coi
socialisti‑democratici. L’accusa sarebbe ben altrimenti giusta se fosse
invertita. Sono i socialisti democratici che continuamente – e disonestamente –
si sforzano di travisare le nostre idee, per poter poi dire che noi non siamo
socialisti, e negare la parentela intellettuale e morale che li unisce a noi.
Ancora l’altro giorno l’Avanti! negava ogni rapporto tra anarchismo e
socialismo, e diceva di noi quello che avrebbe potuto dire di un partito di
piccoli borghesi che si rivoltasse violentemente contro l’aumento delle tasse e
la concorrenza dei grossi capitalisti: così che uno potrebbe prendere per
anarchici i padroni macellai e fornai di Napoli e Palermo, quando protestano e
resistono contro il calmiere municipale! E l’Avanti! è ancora uno degli
organi meno intolleranti che vanta il partito socialista democratico!
Noi vogliamo essere un
Partito separato, non per il piacere di distinguerci dagli altri, ma perché
realmente abbiamo idee e metodi diversi dagli altri partiti esistenti. E
respingiamo assolutamente la supposizione che noi esageriamo in un senso per
fare equilibrio alle esagerazioni opposte degli altri. Noi sosteniamo quel che
sosteniamo, perché crediamo che sia la verità, e non per altra ragione. Se ci
accorgessimo che nel nostro programma v’è una parte d’errore, noi ci
affretteremmo a sbarazzarcene; e quando anche gli altri modificassero le loro
idee in modo da incontrarsi con noi, allora... noi e gli altri costituiremmo
naturalmente un partito solo. Ora come ora, le idee sono differenti, ed è giusto
e necessario che vi siano Partiti differenti.
Noi non vogliamo soltanto
resistere alla possibile tirannia dei socialisti al potere: noi vogliamo far si
che il popolo si rifiuti a nominare o a riconoscere dei nuovi governanti, e
pensi da se stesso ad organizzarsi localmente e federalisticamente, senza tener
conto delle leggi e di decreti di un nuovo governo, e resistendo colla forza
contro ciò che gli si volesse imporre per forza. E se, per mancanza di forza
sufficiente, non potessimo raggiungere subito questo nostro scopo, allora in
attesa di divenir più forti, eserciteremmo quell’azione, moderatrice o
eccitatrice secondo i casi, che esercitano i partiti di opposizione quando non
si lasciano corrompere ed assorbire. Il consiglio di Merlino, di entrare nel
partito socialista democratico per poter prevenire la tirannia dei socialisti al
potere equivale a quello di divenire, p. es. monarchici o repubblicani per
evitare che la monarchia o la repubblica fossero troppo reazionarie.
Quest’ultimo consiglio sarebbe giustificato, se dato a chi è disposto ad
accomodarsi con la monarchia o la repubblica, come sarebbe giustificato quello
di Merlino se noi accettassimo il principio di un governo socialista e ci
dicessimo anarchici solo allo scopo di prevenire che quel governo fosse troppo
autoritario. Ma quello non è il caso.
Quel che dice Merlino che
molti anarchici si dicono oggi genericamente socialisti e non già comunisti o
collettivisti non perché vogliono un sistema misto quale lo desidera Merlino, ma
perché, o sono incerti o non danno importanza alla questione, o non vogliono
farne una ragione di divisione, è vero. Noi stessi siamo propriamente comunisti,
alla sola condizione (sottintesa, perché senza di essa non potrebbe esserci
anarchia) che il comunismo sia volontario ed organizzato in modo che ammetta la
possibilità di vivere secondo altri sistemi. Ma siccome il collettivismo dei
collettivisti anarchici è anch’esso (necessariamente, se no non sarebbe
anarchico) sottoposto alla stessa condizione, la differenza si riduce ad una
questione di organizzazione pratica che deve esser risolta mediante accordi, e
non può dar luogo alla costituzione di due partiti separati ed avversi. Questo
però, come dicemmo, non ha nulla da fare colle differenze tra anarchici e
democratici, che sono quelle che qui c’interessano.
Il “collettivismo” dei
socialisti democratici, a differenza del collettivismo dell’Internazionale,
non pregiudica la questione del modo di distribuzione dei prodotti, poiché vi
sono molti democratici che si dicono collettivisti, e vogliono che detta
distribuzione sia fatta in ragione dei bisogni.
Merlino
dice che noi confondiamo i socialisti democratici con i socialisti di Stato, e
noi infatti crediamo che tali essi siano, quantunque non li confondiamo certo
con quei borghesi che si chiamano anche socialisti di Stato e vogliono fare
solamente un po’ di “socialismo” a scopo fiscale, o a scopo di allontanare o
scongiurare il pericolo del socialismo vero. I socialisti democratici combattono
questa specie di falso socialismo; e se, per evitare equivoci, respingono (e non
tutti) il nome di socialisti di Stato, ciò non toglie che essi vogliono che la
nuova società sia organizzata e diretta dallo Stato, vale a dire dal governo.
Merlino ha un modo curioso di
conciliare le opinioni. Esprime quello che dovremmo pensar noi e quello che
dovrebbero pensare i socialisti democratici, ed arriva facilmente all’accordo,
poiché in realtà egli dice ciò che pensa lui secondo che si piazza da differenti
punti di vista, e non già quello che pensiamo noi o i democratici. Così egli
dice che “i socialisti democratici hanno il torto di accreditare il sospetto che
essi vogliono né più né meno che un grande Stato”, ecc.. Ma è proprio soltanto
un sospetto? Noi ameremmo sentirlo dire dai socialisti democratici autentici. È
così pure, egli dice che noi non rappresentiamo il principio di libertà, perché
egli (Merlino) crede che “volontarietà, libertà, consenso sono principii
incompleti che non ci possono dare da sé soli, né ora né per molti secoli
avvenire, tutta l’organizzazione sociale”. Fino a che egli dice che noi ci
sbagliamo, sta bene; ma dire che noi non pensiamo in quel dato modo, che noi non
rappresentiamo le idee che difendiamo, perché egli le crede sbagliate, è di una
logica singolare. Il fatto è che noi crediamo appunto che tutta l’organizzazione
possa e debba – ora, non tra molti secoli – uscire dalla libertà, e che quindi
la differenza tra noi ed i democratici resta intera, fino a quando Merlino non
ci abbia persuasi che abbiamo torto, e fatto abbandonare il programma anarchico.
Per ora la differenza diminuisce solo fra Merlino ed i democratici, a misura che
aumenta fra Merlino e noi.
Bisogna che gl’interessi
collettivi indivisibili siano collettivamente amministrati: siamo d’accordo. La
questione sta nel modo come quest’amministrazione può esser condotta senza
ledere il diritto eguale di ciascuno, e senza servire di pretesto e di
occasione per costituire un potere che imponga a tutti la propria volontà. Per
i democratici è la legge, fatta dai deputati eletti a suffragio universale,
quella che deve provvedere alla necessaria amministrazione degl’interessi
collettivi; per noi è il libero patto tra gl’interessati, o, all’occasione, la
libera acquiescenza alle iniziative che i fatti mostrano utili a tutti. Noi non
solo non vogliamo, ma non crediamo possibile un metodo di ricostruzione
sociale intermedio, che non sia né l’azione libera delle associazioni che si
vanno man mano accordando e federando, né l’azione dittatoriale di un governo
forte.
Ma Merlino c’invita a
scendere dalle “empiree sfere dei principii astratti” e discutere le modalità
della organizzazione sociale. Noi non domandiamo di meglio, e perciò volevamo
cominciare dall’assodare quale deve essere praticamente il punto di partenza
della nuova organizzazione: l’elezione di una Costituente, o la negazione di
ogni potere costituente delegato? La “conquista dei pubblici poteri”, o la loro
abolizione?
I socialisti democratici
mirano ad un futuro Parlamento, o ad una futura dittatura, che abolisca le leggi
esistenti e ne faccia delle nuove – e perciò sono logici quando abituano la
gente a considerare il voto come un mezzo onnipotente di emancipazione. Noi
invece miriamo all’abolizione dei Parlamenti e di ogni altra specie di potere
legislativo, e perciò vogliamo, per gli scopi attuali e per i futuri, che il
popolo si rifiuti di nominare e di riconoscere dei legislatori. Se Merlino
riesce a metterci d ‘accordo avrà fatto una fatica d’Ercole... ma noi crediamo
ch’egli perda il tempo.
L’accordo coi
socialisti‑democratici, ed anche coi semplici repubblicani, lo vorremmo anche
noi, ma non nel senso di rinunziare ciascuno ad una parte delle sue idee e
fondere i vari programmi in un programma intermedio. Vorremmo l’accordo in
quelle cose in cui i vari partiti possono agire insieme senza rinunziare alle
loro idee particolari, quali sarebbero, nel caso concreto, l’organizzazione
economica, la resistenza degli operai contro i capitalisti, la resistenza
popolare contro il governo. Su questo terreno Merlino ha già reso dei servizi e,
se rinunciasse alla fisima di convertirsi al parlamentarismo (poiché, in fondo
in fondo è sempre quella la questione) potrebbe renderne di ben più grandi.
MERLINO:
Dichiarazione di distacco dall’anarchismo
Dichiarazione di distacco dall’anarchismo inviata da Merlino all’Agitazione
e da questa pubblicato il 26 agosto 1897.
ROMA, 23 agosto.
Cari amici, poiché voi mi
domandate (e non per la prima volta) se io mi dica anarchico, sento il dovere
di dichiarare che io preferisco chiamarmi “socialista libertario”. S’intende che
non posso impedire che molti anarchici mi ritengano dei loro, perché non sono
iscritto al partito socialista democratico e non potrei sottoscriverne
interamente il programma; e alcuni socialisti mi ritengano quasi dei loro, o
almeno mi veggano di buon occhio, perché non sono interamente d’accordo con gli
anarchici. Io mi adopero per la causa a modo mio, lieto di contribuire in
qualche modo a rintuzzare in tutti lo spirito settario. Non ho l’ambizione di
fondare nessun nuovo partito: quelli che ci sono, sono anche troppi, e stentano
a reggersi in piedi, circondati come sono dall’apatia generale. Spero di aver
soddisfatto la vostra giusta curiosità e vi stringo la mano.
MERLINO: “Il pericolo dell’assolutismo”
Articolo
pubblicato ne
L’Italia
del Popolo del 3‑4 novembre 1897.
Notiamo il fatto, che è
sintomatico: nel paese e nella stampa la corrente anti‑parlamentare cresce. Si
va facendo strada l’idea che senza il Parlamento si starebbe meglio. Ma si va
facendo strada – anche questo va notato – nella parte più reazionaria del paese
e della stampa. Anche nelle questure del regno si parla male del sistema
parlamentare. E si capisce! Se non vi fosse il Parlamento la polizia non
dovrebbe render conto delle sue gesta che al ministro dell’interno, e allora...
bazza a chi tocca!
I nostri amici dunque stiano
in guardia contro il pericolo che sovrasta. In un vicino paese più facile ai
mutamenti politici, noi forse avremmo avuto a quest’ora un colpo di mano
imperialista o napoleonico. In Italia non si abolisce e non si abolirà il
Parlamento, né lo si degrada ufficialmente ad un tratto; ma lo si esautora poco
per volta: il che fa lo stesso. La gente prima lo prende in uggia, poi lo guarda
con indifferenza e finisce per voltargli le spalle. Clericali, borbonici e altri
partigiani di regimi tramontati da una parte, anarchici e altri socialisti
dall’altra, aiutano la demolizione, credendo di combattere il governo, e non si
accorgono che lo rendono onnipotente.
Quelli che non mi conoscono
penseranno che, come tutti i convertiti, io voglio far mostra di zelo,
difendendo la causa del parlamentarismo. Qualcuno sospetterà perfino ch’io
voglia mettermi nelle grazie di questo o di quel partito e farmi largo, anch’io
alla deputazione. Si ricredano costoro. Io non solo ho fatto proponimento di
rimanere al mio posto di milite, ma non mi dissimulo, e son lungi dal
disconoscere i vizi del sistema parlamentare: vizi del resto che, chi bene
osservi, sono il riflesso della società in cui viviamo, e si rivelano perfino
nelle società operaie e nelle organizzazioni di qualunque genere.
Ora del parlamentarismo si ha
ragione di dire tutto il male possibile; ma questo non si può negare, che esso
val meglio del governo assoluto. In un governo parlamentare qualche volta il
pubblico ha ragione; qualche concessione di quando in quando l’ottiene; non
foss’altro si ha la soddisfazione di rendere palesi certe turpitudini e
prepotenze del potere pubblico e di metterlo alla gogna.
Giorni sono uno dei più noti
e colti anarchici italiani mi diceva, a proposito della violenza fattaci a
Siena, di obbligarci a discutere una causa per “detenzione di stampati
sovversivi” a porte chiuse: “Fa fare un’interpellanza al Parlamento”. Io gli
feci osservare l’incoerenza di questo suo desiderio colla sua professione di
fede antiparlamentare, ed egli mi rispose confessandomi che non era poi
assolutamente contrario al parlamentarismo.
Dai domicili coatti giungono
tutti i giorni lettere di compagni, che denunziano gli abusi di cui son vittime
e sarebbero felicissimi se almeno i loro lamenti avessero una eco nel
Parlamento.
Insomma a me pare che, a meno
di negare l’evidenza, non si possa negare che il Parlamento, se può essere ed è
spesso adoperato dal governo contro il popolo, può anche essere adoperato dal
popolo contro il governo. Combatterlo a priori, coi soliti luoghi comuni – che
non serve a nulla, che è corrotto, che fa la volontà del governo – mi pare un
errore madornale e una grave imprudenza. Domandare che sia abolito puramente e
semplicemente è addirittura una follia, e significa fare il gioco della
reazione.
Il governo si prevale appunto
del discredito in cui è caduto il Parlamento, e della propaganda che noi
facciamo contro di esso, per imporvisi. Crispi non avrebbe trattato con tanta
disinvoltura il Parlamento se non avesse avuto dietro di sé una parte notevole
del popolo, che quasi lo incitava nella dittatura. La dittatura di Crispi ha
fruttato all’Italia Abba Garima e le leggi eccezionali del 1894.
Il Parlamento è, ad ogni
modo, per cattivo che sia, un freno al governo. I maggiori arbitrii il governo
li commette a Camera chiusa. Bisognerebbe domandare che il Parlamento non fosse
mai chiuso, o che almeno fosse facoltà di un certo numero di deputati di
convocarlo direttamente di urgenza, che esso si rinnovasse più spesso, che gli
elettori potessero licenziare il deputato fedifrago, che su certe questioni essi
fossero chiamati a deliberare direttamente, ecc. ecc.. Insomma bisogna
correggere i vizi del sistema ma non privarsi dei suoi vantaggi.
Il sistema parlamentare è
cattivo, perché è poco parlamentare, poco rappresentativa, perché in esso
sopravvive ancora troppo del vecchio regime. Il deputato è un despota in faccia
ai suoi elettori: il governo è un despota verso i deputati. Bisogna invertire le
parti, rendere al popolo le libertà che gli sono state tolte recentemente e
aggiungerne altre. Bisogna perfezionare il sistema, non distruggerlo.
E badiamo specialmente in
questo quarto d’ora di non lasciarci stordire dalle grida che si levano contro
Il parlamentarismo dalla parte più conservatrice e più reazionaria del paese.
Io sono stato anti‑parlamentare
quando la «gente per bene» andava in visibilio per il sistema parlamentare. Oggi
che essa mostra di volerlo abbandonare per tornare indietro io mi sento portato
a difenderlo.
MALATESTA: “Lo spettro della reazione”
Lunga
risposta di Malatesta sull’Agitazione
dell’11 novembre 1897.
Merlino ci tiene a far
ammenda degli “errori” passati, sorgendo ogni giorno a difesa del
Parlamentarismo. Questa volta egli ci agita innanzi lo spettro della reazione. I
clericali, i borbonici, i partigiani del colpo di Stato, egli dice, combattono
le istituzioni parlamentari per ritornare all’assolutismo: dunque uniamoci per
difendere quelle istituzioni che, per quanto cattive, valgon sempre meglio dei
governi assoluti.
L’argomento non è nuovo. Per
la paura di Crispi, Cavallotti ed i democratici della sua risma appoggiarono Di
Rudini, e non è ben chiaro se non lo appoggiano ancora: per la paura dei
clericali tanti “liberali” avevano difeso il Crispi... Ma giusto, perché non ci
mettiamo a difendere la monarchia sabauda, che i preti vogliono abbattere o per
lo meno scacciare da Roma? Della Monarchia, diremo parafrasando Merlino, si ha
ragione di dire tutto il male possibile: ma questo è certo che essa val meglio
del governo dei preti.
Con questa logica si può
andare lontano; poiché non v’è istituzione reazionaria, nociva, assurda, che non
trovi chi la combatte allo scopo di sostituirvene un’altra peggiore. Quindi
bisognerebbe che non vi fossero né anarchici, né socialisti, né repubblicani
(salvo nei paesi dove esiste la repubblica), e diventassimo tutti
conservatori... per salvarci del pericolo di tornare indietro. Oppure,
bisognerebbe che i repubblicani difendessero la monarchia costituzionale per
tema di veder tornare l’Austria ed il Papa‑re; che i socialisti difendessero la
borghesia per garantirsi contro un ritorno al medio evo; che gli anarchici
facessero l’apologia del governo parlamentare per paura dell’assolutismo. O che
cuccagna per quelli che detengono il potere politico e l’economico!
Ma noi
siam troppo abituati a queste insidie per restarvi presi. Quando sorse l’Intemazionale,
vale a dire quando il socialismo incominciò a diventare partito popolare e
militante, i “liberali” ed i repubblicani gridarono che si facevano gl’interessi
dell’Impero, di Bismark o di altre monarchie; quando in Inghilterra gli operai
incominciarono a costituirsi in partito indipendente, i “liberali” dissero che
essi erano pagati dai conservatori – e così sempre, quando un’idea più avanzata
è venuta a guastar le uova nel paniere a coloro che stanno al potere, o ne sono
gli eredi presuntivi. Oggi ancora, quando i socialisti legalitari votano per uno
dei loro e gli anarchici predicano l’astensione elettorale, i democratici ed i
repubblicani soglion dire che si favorisce indirettamente il candidato
governativo: il che può realmente essere qualche volta l’effetto immediato
dell’intransigenza (?) elettorale degli uni e dell’astensionismo degli altri, ma
non è ragione sufficiente per rinunziare alla propaganda delle proprie idee ed
all’avvenire del proprio partito.
I reazionari profittano della
corruzione e dell’impotenza parlamentare per risollevare la bandiera del
clericalismo e dell’assolutismo: è vero. Ma vorrebbe per questo il Merlino che
ci mettessimo a tentare quest’opera, tanto impossibile quanto contraria alle
nostre convinzioni ed ai nostri interessi di partito, di salvare il parlamento
dal disprezzo e dall’odio popolare? Allora sì che il popolo, vedendo che il
parlamento non ha altri nemici che i reazionari, si getterebbe tutto intero
nelle loro braccia. Se Boulanger in Francia poté divenire un pericolo serio, fu
perché gli anarchici erano pochi, e la massa dei socialisti, essendo
parlamentaristi, partecipavano nel discredito in cui il parlamentarismo è
giustamente caduto.
La nostra missione invece è
quella di mostrare al popolo che, poiché il governo parlamentare, così malefico
com’è, è pur tuttavia la meno cattiva delle forme possibili di governo, IL
RIMEDIO NON STA NEL CAMBIAR DI GOVERNO, MA NELL’ABOLIRE IL GOVERNO.
Del
resto, il miglior mezzo di salvarsi dal pericolo di un ritorno al passato è, ed
è stato ognora, quello di rendere l’avvenire sempre più minaccioso per i
conservatori e pei reazionari. Se in Italia non vi fossero repubblicani,
socialisti ed anarchici, un colpo di stato avrebbe già spazzato via questo
servitorame di deputati, per quanto piccolo sia l’incomodo che dà ai ministri;
ed i clericali sarebbero ben altrimenti audaci se l’esistenza dei partiti
avanzati non facesse temer loro che un’ondata popolare spazzerebbe via, con le
altre cose, anche tutta la melma vaticanesca. Non esisterebbero monarchie
costituzionali, se i re non avessero avuto paura della repubblica; in Francia
non vi sarebbe la repubblica, se la Comune di Parigi non avesse dato da pensare
ai partigiani della restaurazione; e se mai in Italia si farà la repubblica sarà
quando la minaccia crescente del socialismo e dell’anarchismo indurrà la
borghesia a tentare quell’ultimo mezzo per illudere e frenare il popolo.
Ma tutto il detto è forse
inutile per Merlino. Il “pericolo” reazionario è per lui semplicemente
un’occasione ed un pretesto per difendere il parlamentarismo, non come un meno
peggio, ma come un’istituzione necessaria della società. Egli conchiude infatti
che “il sistema parlamentare è cattivo perché è poco parlamentare (...) e che
bisogna perfezionare il sistema, non distruggerlo”. Questo ci porterebbe a far
la critica del, sistema parlamentare in sé e a dimostrare che i cattivi effetti
che produce non dipendono da abusi ed errori accidentali, ma dalla natura stessa
del sistema. Ma Merlino si contenta di affermare senza addurre ragioni, e a noi
lo spazio non consente questa volta di tornare sulla questione, che abbiamo già
replicatamente trattata.
Merlino, oltre il surriferito
“pericolo” ha un altro argomento in favore del parlamentarismo, e questo è ad
homines, cioè diretto specialmente agli anarchici come individui. I
compagni, egli dice, coatti od altri denunziano gli abusi di cui sono vittime e
sarebbero felicissimi se i loro lamenti trovassero almeno un’eco nel Parlamento;
e gli pare che questa sia un’incoerenza con la loro professione di fede anti‑parlamentare.
Ebbene, questo, quando
avviene, potrebbe tutto al più dimostrare che gli uomini quando soffrono o sono
sollecitati da un bisogno od una passione, van soggetti ad anteporre l’interesse
immediato al vantaggio generale della causa, ed a commettere delle incoerenze. E
di questo genere d’incoerenze Merlino ne troverebbe quante ne vuole, in noi, in
lui stesso ed in tutti quelli che hanno aspirazioni ed ideali in contraddizione
con l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Noi non crediamo nella
“giustizia” dei giudici e combattiamo l’ordinamento giudiziario nel suo
principio e nelle sue forme; eppure quando ci mettono in prigione ci difendiamo,
ci appelliamo e ci avvaliamo di tutti gli arzigogoli di procedura se ci giovano
a venire fuori. Non ammettiamo le leggi, e quando una legge è violata a nostro
danno, gridiamo all’abuso. Vogliamo illimitata libertà di stampa, e mandiamo i
nostri giornali in Procura e spesso studiamo la frase per sfuggire agli artigli
del Fisco. Non ammettiamo il salariato e lavoriamo per salario. Non ammettiamo
la proprietà privata, e siamo contenti quando abbiamo qualche cosa; non
ammettiamo la concorrenza commerciale, e dibattiamo il prezzo delle cose.che
compriamo o vendiamo... e potremmo continuare all’infinito.
Ma è poi vero che questa
contraddizione tra l’ideale ed il fatto sia effetto di incoerenza e debolezza di
carattere? Merlino non crederà, speriamo (che diavolo, è tanto poco che ci ha
lasciati!) che noi siamo dei rivoluzionari mistici, a modo di quei settatori
russi, i quali, convinti che il bollo sia la firma del diavolo, siccome in
Russia non si può vivere e muoversi senza avere in tasca un passaporto col
relativo bollo, piuttosto che toccare il diabolico documento, si rifugiano nelle
foreste e si condannano volontariamente ad una schiavitù peggiore di quella che
loro imporrebbe il governo.
Ogni istituzione, per quanto
cattiva, contiene in sé un certo lato buono, un certo correttivo, che limita i
suoi mali effetti; e noi ci renderemmo la vita impossibile e faremmo
gl’interessi dei nostri nemici se, costretti a subire tutto il male delle
istituzioni, non cercassimo di profittare di quel po’ di bene relativo che se ne
può cavare. Ma non per questo possiamo ritenerci impegnati a difendere quelle
istituzioni ed a cessare di fare tutto il possibile per discreditarle ed
abbatterle.
La società, per esempio,
colla sua mala organizzazione crea i malfattori, ed il governo c’impedisce di
portar armi o provvedere altrimenti alla nostra difesa. Se ci accade quindi
essere aggrediti la notte e di non poterci difendere saremo naturalmente
contenti se due carabinieri sopraggiungono a liberarci e non diremo loro, come
la moglie di Sganarello, che noi siam contenti di essere aggrediti. Ma non per
questo diventeremo amici dei carabinieri e faremo pratiche per entrare nell’arma
benemerita.
Le autorità municipali hanno
monopolizzato i servizi pubblici e colla scusa di questi servizi ci opprimono di
tasse. Noi non possiamo pagar le tasse e poi essere indifferenti a quello che fa
il municipio, aspettando il giorno in cui il popolo potrà badare da sé ai suoi
interessi; e perciò gridiamo e cerchiamo di provocare l’indignazione popolare
quando esso municipio per stupida impreveggenza e sordida spilorceria lascia
inondare Ancona e tiene una biblioteca in condizioni tali che non serve a
nessuno. Così è del Parlamento. Esso si è preso il diritto di far le leggi, e
noi, che delle leggi siamo le vittime, dobbiamo per forza contar con esso se
vogliamo che queste leggi, finché legge vi sarà, siano il meno oppressive
possibile. Ma siccome noi non crediamo nella buona volontà dei deputati e
siccome aspiriamo all’abolizione del Parlamento, come di ogni altro governo, noi
non ci proponiamo di nominare dei “buoni” deputati, ma di agire su quelli che vi
sono, quali essi siano, agitando il popolo e facendo loro paura. E quando manchi
una efficace agitazione popolare, noi faremo anche pressione sui singoli
deputati perché rinfaccino al governo i suoi abusi, ma lo faremo perché, o essi
si presteranno ai nostri desideri, e sarà fatta chiara la loro impotenza, o non
vi si presteranno e si vedrà la loro malavoglia.
Si rassicuri Merlino, se
tant’è che la nostra incoerenza lo affligge. Noi ci rallegriamo se qualche
deputato rinfaccia ai ministri la loro infamia; ma non cessiamo perciò di
considerare il Parlamento responsabile di ciò che fa il governo, poiché se esso
volesse, il ministero dovrebbe ubbidire; né cessiamo di tenere ciascun deputato
in quella mala stima che merita chiunque profitta dell’ignoranza e della
pecoraggine degli elettori per farsi delegare un potere, che non può non
risultare a danno del popolo.
MERLINO: “Tra due fuochi”
Articolo
pubblicato dall’Avanti!
il 24 novembre 1897.
Ad un mio articolo – “Il
pericolo”, inserito nell’Italia del 5 novembre – ha risposto da una parte
Luigi Minuti (Italia del Popolo, 11 novembre) dall’altra il mio amico
Malatesta (Agitazione di Ancona, n. 35). Non so resistere alla tentazione
di far gustare al lettore il confronto, che è molto istruttivo, di queste due
risposte.
Il
fatto da me messo in rilievo nell’articolo “Il pericolo” è che la crociata
contro il parlamentarismo, che un tempo facevano gli anarchici e qualche volta
anche i socialisti, oggi la fanno i Seghele, i Cesana e altre persone
rispettabilissime, ma che per rimedio al mali del parlamentarismo propongono di
mutilare il parlamentarismo, di tornare indietro. Non vorrei, dicevo io, che la
gente abboccasse all’amo e che, perduta ogni fiducia nel sistema parlamentare,
si riconciliasse col despotismo. Un Boulanger non è possibile in Italia. Al
colpo di stato io non ci credo. Ma di fatto il governo, avendo gettato il
discredito sul Parlamento, fa il comodo suo; e il paese quasi gli batte le mani,
come le batté (come tutti ricordano) al Crispi. Questo il fatto, che il
Malatesta riconosce per vero e il Minuti non smentisce.
Dinanzi
a questo fatto il repubblicano intransigente dice: “Può darsi che la gente
diventi repubblicana.” L’anarchico‑astensionista dice: “Può darsi che diventino
tutti anarchici.” Ed entrambi sì fregano le mani dalla contentezza. E se la
gente diventasse partigiana del governo assoluto? O se divenisse ogni giorno più
indifferente alla propria libertà (je m’en foutise, dicono i francesi con
una parola intraducibile) e incapace ad esercitarle? Qui sta la questione. I
miei contraddittori avrebbero dovuto esaminare il fatto da me rilevato e
dimostrare che la propaganda reazionaria che si va facendo contro il sistema
parlamentare, non costituisce un pericolo, perché il popolo è pronto a fare la
repubblica o l’anarchia.
Il Minuti ragiona così: “Il
popolo è disgustato del sistema parlamentare. Facciamo la repubblica.” Bravo, e
come farla se il popolo non si cura neppure di quella poca libertà che potrebbe
avere m monarchia? È proprio il caso di ricordare il detto di Maria Antonietta:
“Manca il pane: distribuite delle brioches.” Ma non sa il Minuti che con un po’
d’energia questo popolo potrebbe ottenere in monarchia almeno nove decimi delle
libertà che gli prometterebbe – e che non sa se gliele darebbe poi – la
repubblica? Che un popolo risoluto, attivo, esperto nelle pubbliche agitazioni
imporrebbe oggi al governo l’abolizione completa del domicilio coatto, il
rispetto dei diritti di riunione e di associazione, il diritto di sciopero e
molte altre cose?
Il Parlamento non è già che
possa funzionare bene nel sistema attuale; purtroppo io credo che non possa
neppure funzionare bene in una repubblica capitalistica, vale a dire dove ci
fossero poveri e ricchi. Ma il principio della sovranità del popolo, del diritto
del popolo ad avere una volontà e a farla valere, lo si può e deve affermare fin
d’ora, in tutti i modi, senza aspettare la proclamazione della repubblica.
Errico Malatesta fa un
ragionamento analogo a quello del Minuti. Il popolo si mostra indifferente al
governo parlamentare, non si vale dei diritti che ha e potrebbe far valere verso
il governo. Dunque, propugnamo l’abolizione del governo. Ecco testualmente le
sue parole: “I reazionari profittano della corruzione e dell’impotenza
parlamentare per risollevare la bandiera del clericalismo e dell’assolutismo: è
vero. Ma vorrebbe per questo il Merlino che ci mettessimo a tentare quest’opera
tanto impossibile quanto contraria alle nostre condizioni e ai nostri interessi
di partito, di salvare il Parlamento dal disprezzo e dall’odio popolare? Allora
sì che il popolo, vedendo che il Parlamento non ha altri nemici che i
reazionari, sì getterebbe tutt’intero nelle loro braccia. Se Boulanger in
Francia poté divenire un pericolo serio, fu perché gli anarchici erano pochi, e
la massa dei socialisti, essendo parlamentaristi, partecipavano del discredito
in cui il parlamentarismo è giustamente caduto”.
La verità è che parecchi
anarchici passarono a militare nelle file dei boulangisti, appunto perché
fuorviati dalla propaganda contro il sistema parlamentare, propaganda puramente
negativa. Abolire il Parlamento, abolire il governo, e poi? E poi ognuno farà
quel che vuole, e si vivrà nel migliore dei mondi possibili.
“La nostra missione (degli
anarchici) è quella di mostrare al popolo che, poiché il governo parlamentare,
così malefico com’è, è pur tuttavia la meno cattiva delle forme possibili di
governo, il rimedio non sta nel cambiar il governo, ma nell’abolire il governo”.
Questo lo dite voi: ma il popolo crede che il governo di uno solo val meglio del
governo di pochi, e non concepisce affatto (di questo potete star sicuri) uno
stato di cose senza governo di sorta. Il popolo non è convinto che il sistema
parlamentare sia la meno cattiva delle forme possibili di governo, e se non ci
fosse altro argomento per farlo dubitare di ciò che voi dite, ci sarebbe la
propaganda repubblicana, la quale gli suggerisce, a dire del Minuti, “un
concetto di governo ove il Parlamento avrà la sua ragione di essere nel
suffragio popolare, e la sua esplicazione in un’assemblea legittima,
rappresentate della sovranità popolare”.
Un uomo o un partito può
trincerarsi dietro una frase: “Abolizione del governo”. Ma il popolo vuole
sapere come si farà a vivere, a intendersi nelle cose d’interesse comune.
Abolito che sia il Municipio (che è un piccolo governo), chi penserà alle
strade, all’illuminazione, all’arginatura di un fiume come il Tevere e a tante
altre cose d’interesse comune? Vi penseranno tutti? Ciascuno a modo suo? O non
vi penserà nessuno? O si incaricheranno alcuni di provvedere a questi pubblici
servizi nel pubblico interesse? E saranno questi incaricati arbitri di agire a
loro posta, o saranno sottoposti al volere della popolazione? E la popolazione
avrà un volere unico, o possono sorgere fra essa pareri diversi? E in questo
caso si dovrà scegliere fra l’uno e l’altro? E come? Si riunirà il popolo in
massa per deliberare su ciascuna questione che si presenti? Ovvero sì riuniranno
soltanto i rappresentanti o delegati dei vari gruppi?
Malatesta non è anarchico
individualista o amorfista. Egli ammette. la necessità della rappresentanza e
del voto di maggioranza in talune cose d’interesse comune indivisibile. Ora che
cosa è questo se non il sistema parlamentare corretto e migliorato, non già
abolito? Io ho un dubbio: che tutta questa guerra che si muove al
parlamentarismo, sia fatta alla parola. In questo caso essa sarebbe lecita, se
non fosse pericolosa. Cominciamo dal dire al popolo che si faccia vivo, che si
serva dei diritti che ha (come del resto fa la Agitazione, meno non so
perché, per il diritto elettorale), che ne domandi altri, che lotti, che
cominci... per finire dove e come meglio si potrà.
MALATESTA: “Ancora del parlamentarismo”
Risposta
di Malatesta sull’Agitazione
del 2 dicembre 1897.
Saverio Merlino ha replicato
sull’Avanti! all’articolo che pubblicò l’Agitazione n. 35 in risposta
alla difesa ch’egli fece del parlamentarismo sull’Italia del Popolo.
L’articolo dell’Agitazione non era firmato, ma Merlino, ben apponendosi,
lo attribuisce a me, e ciò m’induce a rispondergli in nome mio, quantunque su
questa questione siamo tutti concordi, non solo noi della redazione, ma tutti
quegli anarchici che si vanno costituendo in partito organizzato, e sperano di
poter mostrare coi fatti come si può sostituire una feconda ed educatrice
azione popolare all’azione parlamentare, che, a parer nostro, abitua il popolo
ad aspettare dall’alto la propria emancipazione, e lo prepara così alla
schiavitù.
Merlino, ricordando ch’io
convengo nell’esistenza del pericolo clericale e reazionario, dice che io
rispondo che può darsi che la gente diventi anarchica. Niente affatto: io dico
che il rimedio contro quel pericolo sta nel suscitare nel popolo il sentimento
della ribellione e della resistenza, nell’ìspirargli la coscienza dei suoi
diritti e della sua forza, nell’abituarlo a fare da sé, a pretendere, a
conquistare colla forza sua quanta più libertà, quanto più benessere è possibile
– e non già nel rifare una verginità al sistema parlamentare, che poi
ripercorrerebbe ancora la stessa parabola di decadenza che ha già percorsa una
volta. E perciò bisogna lavorare a che la gente diventi anarchica, o almeno che
il numero e la potenza d’azione degli anarchici aumentino, ed i sentimenti e le
idee del pubblico si accostino quanto più è possibile ai sentimenti ed alle idee
degli anarchici.
E ancora: Merlino dice che il
popolo non è convinto che bisogna abolire il governo. E chi pretende il
contrario? Se il popolo ne fosse convinto, l’anarchia sarebbe un fatto. Ma noi
che ne siamo convinti, abbiamo interesse e dovere di cercare di convincerne
anche gli altri.
Il
popolo non è convinto, per esempio che il cattolicismo è un ammasso di
superstizioni, che i preti ed i borghesi lo sostengono perché ottimo strumento
di regno; il popolo non è convinto che si può fare a meno dei padroni; ma non
per questo Merlino ci consiglierebbe di metterci a predicare, anziché la
distruzione, la riforma del cattolicismo e del capitalismo.
A parte quest’errore
d’interpretazione, col quale mi si fa dare come un fatto quello che io dico che
si deve fare, Merlino non risponde agli argomenti del mio articolo, ed io non ho
che da rimandare ì lettori a quell’articolo. E invece egli insiste sulla
necessità di una forma di governo e di parlamento, perché la società possa
vivere e funzionare. “Abolito il municipio, che è un piccolo governo”, egli
dice, “chi penserà alle strade, all’illuminazione, all’arginatura dei fiumi ed a
tante altre opere d’interesse comune?”. “Vi penseranno tutti? Ciascuno a modo
suo? O non vi penserà nessuno? O s’incaricheranno alcuni di provvedere a questi
pubblici servizi nel pubblico interesse? E saranno questi incaricati arbitri di
agire a loro modo o saranno sottoposti al volere della popolazione? E la
popolazione avrà un volere unico o possono sorgere fra essa pareri diversi? Ed
in questo caso si dovrà scegliere tra l’uno e l’altro? E come? Si riunirà il
popolo in massa per deliberare su ciascuna questione che si presenti? Ovvero si
riuniranno soltanto i rappresentanti o delegati di vari gruppi?”.
Ecco: io credo che
gl’incaricati dei pubblici servizi saranno le associazioni di coloro che
lavorano in ciascun servizio; che queste associazioni dovranno badare nello
stesso tempo al benessere dei loro membri ed al comodo del pubblico, e che
saranno impossibilitate a prevaricare dal controllo dell’opinione pubblica, dai
legami di dipendenza reciproca colle altre associazioni e dal diritto di tutti
ad entrare nelle singole associazioni ed usare dei mezzi di produzione che esse
adoperano. Credo che non vi sarà divisione fissa tra chi dirige e chi esegue, e
che la direzione del lavoro spetterà di diritto e di fatto ai lavoratori, i
quali per ciascun lavoro si organizzeranno e si divideranno le funzioni nel modo
che stimano migliore. Credo che dove v’è bisogno di delegare degl’individui per
una data funzione, si darà loro un mandato determinato, limitato, soggetto
sempre al controllo ed all’approvazione del pubblico, e sopratutto che non si
darà mai loro una forza per obbligare la gente, e per compiere il loro mandato
contro la volontà di una frazione qualsiasi del pubblico: il diritto di
adoperare la violenza, quando se ne presentasse la dura necessità, dovendo
restare sempre a tutto il popolo e, non mai esser delegato. Credo che quando
sopra una cosa da fare si hanno pareri diversi, se è possibile e conveniente si
farà in modi diversi, e se ciò non è possibile o non è conveniente, si farà come
vuole la maggioranza, salvo tutte le garanzie possibili in favore della
minoranza – garanzie che si darebbero sul serio, perché, non avendo la
maggioranza né il diritto né la forza di costringere la minoranza
all’ubbidienza, bisognerà bene che guadagni la sua acquiescenza a mezzo di
condiscendenze e prove di buona volontà…
E poi credo, anzi son sicuro,
che io non ho né la capacità né la missione di fare il profeta. Io voglio
combattere perché il popolo si metta in condizione di fare come vuole: ed ho
fiducia ch’esso, pur facendo mille spropositi e dovendo spesso ritornare sui
suoi passi, e sperimentando contemporaneamente e successivamente mille forme
diverse, preferirà sempre quelle soluzioni che l’esperienza gli mostrerà più
facili e più vantaggiose.
Merlino dubita che in fondo
si tratti di una questione di parole. Egli si sarebbe accostato più alla verità
(forse gliel’ho avvertito altre volte) se avesse detto che è una questione di
metodo.
Quali saranno le forme
sociali, dell’avvenire nessuno può precisare – e facilmente ci troveremmo
d’accordo sui concetti generali che dovranno guidare una società di liberi e di
eguali... dopo che essa sarà costituita. La questione è del modo come si può
arrivare a costituirla. Gli autoritari vogliono imporre dall’alto, per mezzo di
leggi, quello che essi credono bene. Gli anarchici invece vogliono, colla
propaganda distruggere il principio d’autorità nelle coscienze, e colla
rivoluzione distruggere ogni forza organizzata che possa costringere gli uomini
ad agire contrariamente alla loro volontà.
A proposito, vorrà Merlino
rispondere ad una domanda alla quale nessun socialista democratico ha voluto
darmi una risposta esplicita? Io vorrei sapere, se, nell’opinione sua, quel tale
governo o parlamento che egli crede necessario alla vita sociale, dovrà avere a
sua disposizione una forza armata. Nel caso che no, allora davvero che la
differenza fra noi sarebbe poca cosa, poiché io sopporterei di buona grazia un
governo... che non potrebbe obbligarmi a nulla.
Merlino non sa comprendere
perché l’Agitazione, che dice al popolo di farsi vivo e di servirsi dei
diritti che ha, fa un’eccezione per il diritto elettorale. Noi ne abbiamo
spiegato le ragioni varie volte. Il “diritto” elettorale è il diritto di
rinunziare ai propri diritti, e quindi è contrario allo scopo di noi, che
vogliamo che il popolo s’abitui a combattere ed a vincere direttamente, colle
proprie forze.
È stato detto che il diritto
elettorale è il diritto di scegliersi il proprio padrone. In realtà non è
nemmeno questo: ma è il diritto di concorrere per una parte minima alla nomina
di una particella del proprio padrone, e di dirsi poi e credersi sovrano. Noi
che vogliamo che il popolo sia sovrano davvero, abbiamo ogni interesse ad
impedire ch’esso prenda sul serio una sovranità da burla e s’acqueti in essa.
MERLINO: “Uso e abuso della forza”
Controbatte Merlino con una lettera che l’Agitazione
pubblica il 16 dicembre 1897.
Roma, 5 Dicembre.
Cari amici,m i dispiace di
usurpare il vostro spazio, ma devo rispondere alla domanda che mi rivolge E.
Malatesta: “A proposito, vorrà M. rispondere ad una domanda, alla quale nessun
socialista‑democratico ha voluto darmi una risposta esplicita? Io vorrei sapere
se, nell’opinione sua, quel tale governo o parlamento che egli crede necessario
alla vita sociale, dovrà avere a sua disposizione una forza armata”.
Risponderò come rispose a me
altra volta Malatesta. Se la gente sarà abbastanza ragionevole, non sarà
necessario usar la forza, se no, ci si ricorrerà. Beninteso l’uso della forza
dovrà esser riservato ai casi estremi e non dovrà essere ad arbitrio di un
Governo o di un Parlamento di adoperarla contro i cittadini recalcitranti ad un
dato provvedimento, anzi non dovrà essere adoperata contro i cittadini, come son
oggi l’esercito e la polizia, ma solamente i cittadini stessi potranno essere
chiamati in casi straordinari, come già usa in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Insomma bisogna regolare l’uso della forza, limitarne i casi, toglierlo
all’arbitrio di un’amministrazione o autorità centrale qualsiasi: ma non si può
escludere a priori la necessità che la collettività adoperi la forza contro
l’individuo o contro la minoranza, nei casi in cui vi sia veramente conflitto di
volontà e d’interessi e la secessione non sia possibile e non riesca un
compromesso. Cioè, si può a parole promettere l’Arcadia, l’Eldorado e la pace
perpetua, ma si manterrebbe poi la promessa?
Ecco come io rispondo a
Malatesta, e a mia volta gli faccio una domanda Gl’individui useranno mai la
forza l’uno contro l’altro? Se altri mi dà uno schiaffo, devo reagire o
presentargli l’altra guancia? La risposta sua, la prevedo, è che devo reagire. E
se sono debole? Accorrerà la gente a difendermi. E come farà la gente
accorrendo, durante una rissa, a sapere da quale parte sta la ragione, per
mettersi da quella? Ci sarà probabilmente chi piglia parte per l’uno, chi per
l’altro dei contendenti. Quindi il popolo dev’essere tutto in armi a ogni
disputa, che si accende tra due individui, e si dividerà in fazioni, proprio
come ai tempi dei Cerchi e dei Donati, dei Bianchi e dei Neri. Io ho detto e
ripeto che questo modo d’intendere l’Anarchia può esser passato per un momento
per la mente di qualcuno, ma non è sostenibile: e più presto lo correggiamo,
meglio è.
Malatesta dice che non fa il
mestiere del profeta. Così dicono anche i socialisti democratici, quando si
tenta di dimostrare loro gl’inconvenienti del Collettivismo. Dunque demoliamo, e
non ci curiamo d’altro. Ma si può demolire, senza sapere che cosa realmente si
deve demolire, e perché? Si può andar innanzi alla cieca? No – tanto vero, che
Malatesta ha le sue idee. Egli sa o crede che “incaricate dei pubblici servizi
saranno le Associazioni di coloro che lavorano in ciascun servizio; le quali
dovranno badare nello stesso tempo al benessere dei loro membri e al comodo del
pubblico”.
Dovranno – perché lo dite
voi? Ma voi che spesso notate, e giustamente, che l’Amministrazione
collettivistica sarebbe portata ad abusare della sua autorità, e non potrebbe
restar democratica, voi dovete anche sapere che un’Associazione incaricata di un
pubblico servizio baderebbe prima al proprio interesse e al comodo dei suoi
membri, e poi, se mai, a quello del pubblico. Le vostre Associazioni
diverrebbero altrettanti corpi burocratici; e come mai potete voi credere che
sarebbero nientemeno impossibilitate a prevaricare “dal controllo dell’opinione
pubblica”? Come si eserciterebbe questo controllo? Quali forme assumerebbe?
Quella forse di un’insurrezione popolare contro ogni Amministrazione che non
obbedisse al volere del pubblico? Mettiamo che l’Associazione ferroviaria si
rifiutasse di far correre un direttissimo tra Roma e Ancona: sarebbe chiamata a
dovere dal popolo tumultuante? E se l’opinione pubblica fosse divisa? Se tutte
le località percorse dal treno ne domandassero la fermata? Se l’Assocìazione
fomentasse ad arte la discordia? Ci sarebbero, aggiunge Malatesta “i legami di
dipendenza reciproca tra le Associazioni”. Quali legami? E di che specie? Patti,
obbligazioni, deliberazioni collettive, Comitati federali, Congressi? Che vi
abbia ad essere un Parlamento?
E da
ultimo ci sarebbe “il diritto di tutti ad entrare nelle singole Associazioni ed
usare dei mezzi di produzione, che esse adoperano”. Questo poi renderebbe
impossibile alle Associazioni di funzionare un’ora sola. Immaginiamo un
cantiere, dove sì sta fabbricando una nave, invaso da gente che vuoi metter le
mani dappertutto e sostituirsi a quelli che lavorano – per essere, forse
l’indomani lasciato deserto. Figuriamoci una farmacia in cui si presentano a
lavorare dei dilettanti farmacisti – e via discorrendo. A me pare che noi
dobbiamo intenderci sugli elementi del Socialismo – prima ancora di discutere
dei metodi.
MALATESTA: “Anarchia…
contro che cosa?”
Replica
di Malatesta sull’Agitazione
del 23 dicembre 1897.
Io so che Merlino, esempio
raro tra i polemisti e gli uomini di parte, non mira nelle discussioni a mettere
nell’imbarazzo l’avversario con artifici retorici, ma si sforza di portar luce
sulla materia in questi one; so ch’egli si propone sempre di cercare la verità e
di propagare quello ch’egli è giunto a creder vero – e perciò sono stato molto
meravigliato dell’ultimo articolo che ci ha inviato, nel quale, mentre si
propone di rispondere ad una domanda da me fatta nella speranza reale di
apprendere meglio quali sono le sue idee, egli gira attorno alla questione,
cerca d’impressionare il lettore con una certa apparenza di spirito pratico e...
mi lascia più perplesso di prima.
Io domandavo se, a senso suo,
quel qualsiasi governo, o parlamento ch’egli crede necessario al buon andamento
della società dovrà avere a sua disposizione una forza armata. E Merlino mi
risponde che “l’uso della forza dovrà essere riservato ai casi estremi e non
dovrà essere ad arbitrio di un Governo o di un Parlamento di adoperarla contro i
Cittadini ricalcitranti ad un dato provvedimento”. Io non ci capisco nulla. Se
il Governo non ha il diritto di costringere i cittadini ad ubbidire alle leggi,
allora non è più un governo, nel senso comune della parola e noi non avremmo più
a domandarne l’abolizione: ci basterebbe di fare a modo nostro quando quello che
esso vuole non ci conviene.
Non vi deve essere una forza
armata permanente, dice Merlino, ma i cittadini stessi potranno esser chiamati
in casi straordinari, come già si usa in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ma
chiamati da chi? Dal Governo? E saranno obbligati ad accorrere alla chiamata? In
Inghilterra e negli Stati Uniti vi è una polizia; e le milizie che il governo
chiama in casi straordinari servono, salvo che non si ribellino, agli scopi del
governo, tra cui è sempre primo quello di tenere a freno ed all’occasione di
massacrare il popolo. E quello il regime politico che vagheggia Merlino?
Ma l’uso della forza va
regolato e tolto all’arbitrio di un’amministrazione centrale qualsiasi, dice
Merlino. Che si tratti dunque di uno Statuto che dovrà fissare i diritti
rispettivi del Cittadino e quelli del Governo e che sarà rispettato... come lo
sono sempre stati gli Statuti!
Noi vogliamo che tutti i
cittadini abbiano diritto uguale di essere armati e di correre alle armi quando
se ne presenti la necessità, senza che nessuno possa costringerli a marciare o a
non marciare. Vogliamo che la difesa sociale, interesse di tutti, sia affidata a
tutti, senza che nessuno faccia il mestiere di difensore dell’ordine pubblico e
viva di esso.
Ma, dice Merlino, se io sono
attaccato da uno più, forte di me, come farò a difendermi? Accorrerà la gente ad
aiutarmi? E accorrendo, come farà a giudicare da che parte sta la ragione? E
siccome probabilmente si produrranno opinioni diverse, si avrà dunque per ogni
disputa una guerra civile?
E i carabinieri, rispondo io,
sono sempre presenti per difendere chi è attaccato? Ed è sicuro ch’essi non si
mettano mai dalla parte di chi ha torto? E il giudizio dei magistrati offre
forse più garanzie di giustizia di quello della folla? E la tirannia è forse
preferibile alla guerra civile? Merlino ragiona come fanno i conservatori. Egli
mette innanzi tutti gl’inconvenienti, tutti i conflitti possibili nella vita
sociale, e se ne serve per dire impossibili ed assurdi gl’ideali nostri –
dimenticando però di dirci come a quegli inconvenienti ed a quei conflitti si
ripara nel sistema suo.
Merlino teme la guerra
civile; ma che cosa è un regime autoritario se non uno stato di guerra, in cui
una delle parti è stata vinta e si trova soggetta? Merlino dirà che egli è
libertario e non già autoritario; ma se qualcuno, individuo o collettività,
minoranza o maggioranza può imporre agli altri la propria volontà, la libertà è
una menzogna, o non esiste se non per chi dispone della forza.
lo non ho mai detto che
l’Anarchia, specie nei primi mi tempi sarà l’Arcadia o l’Eldorado. Vi saranno
purtroppo guai e difficoltà inerenti all’imperfezione ed al disaccordo degli
uomini; ma se v’è probabilità che i mali siano minori che in qualsiasi regime
autoritario, ciò mi basta per essere anarchico.
Il benessere e la libertà di
tutti, l’abolizione della tirannia e della schiavitù non si possono avere se non
quando gli uomini si sforzino di armonizzare i loro interessi e si pieghino
volontariamente alle necessità sociali. Ed io credo che, abolita la proprietà
individuale ed il governo, distrutta cioè la possibilità di sfruttare ed
opprimere gli altri sotto l’egida delle leggi e della forza sociale, gli uomini
avranno interesse, e quindi volontà, di accordarsi e risolvere i possibili
conflitti pacificamente, senza ricorrere alla forza. Se ciò non fosse,
evidentemente l’anarchia sarebbe impossibile; ma sarebbero anche impossibili la
pace e la libertà.
Merlino non è persuaso quando
gli dico che contro il volere degli uomini l’anarchia non si fa. Ma sa egli
concepire un regime che si regga senza e contro la volontà degli uomini, o
almeno di coloro tra gli uomini che pensano e vogliono? E conosce egli un regime
che valga più di quel che valgono gli uomini che lo accettano? Tutto dipende
dalla volontà degli uomini. Cerchiamo dunque di educarli a volere la libertà e
la giustizia per tutti, e a cacciare dal loro spirito il pregiudizio della
necessità del gendarme.
Io dissi che non sono
profeta, e Merlino trova che io rispondo come fanno i socialisti democratici
quando si tenta di dimostrar loro gl’inconvenienti del Collettivismo. Il caso
non è eguale. I socialisti democratici vogliono che il popolo Il mandi al
potere, a far le leggi, ad organizzare la nuova società, e quindi dovrebbero
almeno dirci che uso farebbero di questo potere, e a quali leggi ci
sottoporrebbero. Noi anarchici invece vogliamo che il popolo conquisti la
libertà e... faccia quello che vuole.
Avere fin da ora delle idee e
dei progetti pratici è necessario, poiché la vita sociale non ammette
interruzione, ed il popolo dovrà, il giorno stesso in cui si sarà sbarazzato del
governo e dei padroni, provvedere alle necessità della vita. Ma queste idee
potranno essere varie nei vari paesi e nelle varie branche della produzione, e
se anche fossero sbagliate il male non sarebbe grande, poiché, non essendovi un
potere conservatore che obblighi a perseverare negli errori, né una classe
costituita che di questi errori profitti, sì potrà sempre cambiare e migliorare
quello che alla prova non riesce bene. L’anarchia è, in un certo senso, il
sistema sperimentale applicato all’arte del viver civile.
E poi, io. non sono che un
individuo, e io e tutti gli anarchici attuali non siamo che una frazione del
popolo, e quindi potremmo dire tutto al più quel che vorremmo, ma non mai quel
che sarà: il fatto dovendo essere necessariamente modificato dal concorso di
tante altre volontà che oggi non sappiamo quali saranno.
D’altronde, pur non avendo nessuna inclinazione per l’arte profetica, io
espressi alcuna delle mie idee sulla futura organizzazione sociale ‑ e Merlino
le ha confutate... alquanto puerilmente. Io dissi, per esempio, che i servizi
pubblici saranno fatti dalle associazioni dei lavoratori dei diversi rami e
che queste associazioni baderanno nello stesso tempo al benessere dei loro
membri ed al comodo del pubblico. E Merlino dice che queste associazioni, al
pari dei corpi governanti, baderebbero prima al comodo dei propri membri e poi,
se mai, a quello del pubblico. Può darsi benissimo: ma siccome ogni lavoratore
da una parte è membro dì un’associazione di produzione e dall’altra è parte del
pubblico, è probabile che si accorgerebbe presto che al giuoco di tirare ognuno
al proprio vantaggio, ci si perde tutti, e perciò penserebbe che vale meglio
accordarsi e lavorare tutti di buona voglia per il bene generale. Tutt’altra è
invece la posizione del governante, il quale impone agli altri le regole di
lavoro e può accomodar tutto a profitto suo e dei suoi amici.
Io dissi che l’opinione
pubblica impedirebbe alle associazioni di prevaricare; e Merlino mi domanda se
vi sarà un’insurrezione popolare contro ogni Amministrazione che non obbedisse
al volare del popolo. Eppure non è molti giorni che Merlino ha scritto, ed a
ragione, che se il popolo sapesse volere potrebbe, anche nel regime attuale,
nonostante le ricchezze ed i soldati di cui dispongono le classi dominanti,
impedire moltissimi abusi ed imporre il rispetto di molte libertà! La tesi che
sostiene Merlino deve essere davvero molto cattiva, giacché egli si vede
costretto a ricorrere alle barzellette dei reazionari.
Io parlai dei legami di
dipendenza reciproca tra le Associazioni, e Merlino non intende di che legami io
parlo. Ma non è chiaro che il fornaio, per esempio, ha bisogno del mugnaio che
gli fornisce la farina, del contadino che fornisce il grano, del muratore che
gli fa la casa, del sarto che lo veste e così all’infinito? Non è chiaro che
tutti hanno interesse e bisogno di mettersi d’accordo con tutti? Ma come si
stabiliranno questi accordi?, domanda Merlino. Mediante patti, obbligazioni,
Comitati federali, Congressi? Con questi o con altri mezzi, ma non certo, se i
lavoratori ci terranno ad esser liberi, mediante Parlamenti che faccian la legge
e che la impongano a tutti colla forza.
Io reclamavo infine, come
garanzia contro il costituirsi di monopoli a danno del pubblico, il diritto di
tutti ad entrare nelle singole Associazioni ed usare dei mezzi di produzione che
esse adoperano. E Merlino risponde immaginando un cantiere invaso da gente che
vuol mettere le mani dappertutto, o una farmacia dove dei dilettanti vadano a
rimestare e confondere tutto. Non sembra proprio di sentire un parruccone il
quale, volendo combattere la proposta di aprire al pubblico un giardino, dicesse
che tutta la popolazione vorrebbe entrare contemporaneamente nel giardino e
morrebbe pigiata e soffocata? In pratica poi risulta che quando si apre un
pubblico giardino il diritto per, tutti di andarci a passeggiare basta per
impedire il monopolio, ma non produce niente affatto un affollamento che
distruggerebbe il piacere di passeggiare. Il mio concetto era chiaro: io parlavo
del diritto che deve avere la gente di provvedere da sé ad un dato lavoro,
quando coloro i quali lo fanno volessero servirsene come mezzo per sfruttare ed
opprimere gli altri; e non già del diritto degli sfaccendati di andare a
disturbare chi lavora.
Ma insomma, le idee mie
possono essere sbagliate, e, come ho detto, non sarebbe gran male, perché io non
voglio imporle a nessuno. Merlino però, il quale si lamenta che noi non vogliamo
fare i profeti e non definiamo abbastanza le nostre idee sull’avvenire, dovrebbe
dirci lui che cosa è che vuole. Non crede nell’“amministrazione” dei socialisti
democratici, non nelle associazioni degli anarchici, e tampoco vuole egli
demolire il presente senza preoccuparsi dell’avvenire. Che cosa vuole egli
dunque?
Criticare le idee degli altri
è ottima cosa, ma non basta. Noi sappiamo che tutti i sistemi hanno i loro lati
deboli: il nostro come quelli degli altri. Ma per rinunziare al nostro
bisognerebbe che ce se ne proponesse uno che abbia meno inconvenienti. Tutto è
relativo. Noi siamo anarchici perché l’Anarchia, nel senso che noi diamo alla
parola, di pare la migliore soluzione del problema sociale. Se Merlino conosce
qualche cosa di meglio, ce lo insegni subito.
MERLINO: “Contrasto personale”
Nota
secca di Merfino apparse sull’Agitazione
del 30 dicembre 1897.
Credevo che, non fosse che
per l’amicizia che ci lega, Malatesta e io avessimo potuto polemizzare senza
darci del farabutto e del mascalzone l’uno all’altro. Ma mi sono ingannato. La
polemica appassiona e un uomo appassionato non riesce, fosse anche Catone in
persona, a mantenersi giusto ed equanime. Malatesta poi è uomo di parte, è
immerso dalla gioventù nelle lotte politiche, difende il suo passato, crede
forse che sia in giuoco nella polemica tra noi impegnata, la sua posizione di
capo morale del partito anarchico italiano, e quindi gli riesce meno che ad
altri di discutere serenamente.
Il sistema da lui prescelto
per combattermi e il seguente. Mi dice un mondo di cortesie. io sono un uomo che
cerco la verità, che rifuggo da’ cavilli, che non ricorro ad artifici retorici
per mettere in imbarazzo l’avversario ecc. ecc.. Ma poi si meraviglia che io
giro attorno alla questione, che cerco di impressionare il lettore con una certa
apparenza di spirito pratico, e mi dà del reazionario a tutto pasto. “Merlino
ragiona come fanno i conservatori”. “M. si vede costretto a ricorrere alle
barzellette dei reazionari”. “Sembra proprio di udire un parruccone” ecc. ecc..
Queste invettive si capisce
bene a che servono Un proverbio dice: dà ad uno del cane e potrai sparargli
addosso. Malatesta non lo fa ad arte, ma sente che se riesce a farmi credere
reazionario da’ lettori del suo giornale, egli toglie ogni credito ai miei
argomenti, e se anche io ho ragione ed egli torto, tutti daranno torto a me e
ragione a lui. Egli quindi mi gratifica ad ogni pie’ sospinto dell’epiteto di
reazionario. A forza di sentirlo dire e ridire, il lettore si abitua all’idea
che io sono diventato un difensore accanito dell’attuale ordine di cose, e
finisce per crederci fermamente e per appassionarsi contro di me in guisa tale
da non potere più apprezzare serenamente i miei argomenti.
Io potrei valermi, verso
Malatesta, dello stesso metodo: potrei, se volessi, valendomi di certe recenti
sue dichiarazioni intorno alla necessità di lottare per i miglioramenti
attualmente possibili, prendermi il gusto di dipingerlo agli occhi dei suoi
amici per un reazionario, od almeno per un rivoluzionario che si avvia a
diventare reazionario.
Preferisco di chiudere la
polemica rimandando il lettore, che abbia la curiosità di conoscere quale sia la
soluzione, non collettivista‑autoritaria, né anarchico‑amorfista, che io
propongo al problema sociale, ad un volumetto che verrà pubblicato fra giorni
dal Treves. [Si tratta de L’Utopia collettivista – N.d.r.] Quanto al
Malatesta, lo avverto che la prima volta che egli pensando con la sua testa
dissentirà da’ suoi amici, questi lo tratterranno, se già taluni non lo
trattano, come egli tratta me; ed e gli non potrà dolersi di loro, perché
saranno stati educati alla sua scuola.
MALATESTA: “Chiarificazione sulla polemica”
Risposta
di Malatesta sull’Agitazione del 30 dicembre 1897.
Mi duole che Merlino, si sia
offeso della mia risposta; ma a me non pare di essere andato oltre i limiti
permessi in una polemica cortese tra persone che si stimano. Notai la
somiglianza tra alcuni suoi argomenti e quelli addotti ordinariamente dai
conservatori e dai reazionari, così come egli aveva detto che io rispondevo come
fanno i socialisti‑democratici. È offensivo questo? Per me non v’è mai offesa
quando non si dubita della sincerità del contraddittore. In ogni modo, poiché
Merlino vuol troncarla, io non insisterò; e aspetterò il suo nuovo volume per
giudicare la soluzione ch’egli propone al problema sociale. Di una sola cosa
vorrei fosse sicuro il Merlino, ed è che se egli o chiunque altro mi convincesse
che sono in errore, io lo confesserei subito, malgrado il mio passato ed il mio
presente.
MALATESTA: “Conclusione”
L’articolo di Malatesta è pubblicato sull’Agitazione
del 13 gennaio 1898, e prende spunto da un’allusione alla polemica contenuto in
un articolo che Merlino aveva pubblicato sulla Rivista Popolare diretta
da Colajanni. Pochi giorni dopo, Malatesta verrà arrestato dalla polizia sabauda
e la polemica si interromperà per cause di forza maggiore..
Per una deferenza personale,
che qualcuno ha voluto rimproverarci e di cui non ci pentiamo, e per l’onesto
desiderio di far udire ai nostri lettori le due campane e metterli in grado di
poter giudicare con piena cognizione, noi aprimmo a Merlino le nostre colonne.
Egli preferì dichiararsi offeso della critica del Malatesta e troncar la
polemica... per andarci poi ad attaccare, incidentalmente, in nota ad un suo
articolo pubblicato nella rivista del Colajanni.
E questo è nel suo diritto.
Egli può attaccarci e criticarci quando e dove gli pare; ma però non dovrebbe
credersi in diritto di falsare le nostre idee, che egli conosce, poiché non è
ancora molto tempo che insieme a noi le professava e difendeva. Nella nota
sopraccennata egli dice: “Solo qualche anarchico amorfista può dire con
Malatesta: Noi anarchici voglíamo che il popolo conquisti la libertà e faccia
quello che vuole”. Lasciamo stare, perché non importa alla questione, se si
tratta di qualche o di molti o di tutti gli anarchici. Ma perché mai Merlino ci
chiama amorfisti?
Storicamente, questa parola è
stata adoperata o per indicare un modo speciale di concepire le relazioni tra
uomini e donne, o, più comunemente, per distinguere i partigiani di certe
concezioni individualistiche della vita sociale, che ebbero voga negli anni
scorsi fra anarchici e che a noi sembrarono, d’accordo allora col Merlino,
delle aberrazioni. E in quel senso l’appellativo di amorfisti, in bocca a
Merlino e diretto a noi non è che un gratuito insulto.
Etimologicamente poi,
amorfista vuol dire che non ammette forme. Che cosa autorizza il Merlino a
pensare che noi abbiam perduto il ben dell’intelletto al punto dì creder
possibile l’esistenza di una società, di una cosa qualunque, che non abbia una
qualsiasi forma? Amorfisti, perché vogliamo che le forme che assumerà la vita
sociale siano il risultato della volontà popolare, della volontà di tutti
gl’interessati? Ma dunque il Merlino vuole che qualcuno le imponga al popolo
contro o senza la volontà del popolo stesso? E le conservi con la forza anche
quando avran cessato di rispondere ai bisogni ed al volere degl’interessati?
Discutiamo fin da ora dei vari problemi che possono presentarsi nella vita
sociale e delle varie soluzioni possibili; facciam pure dei progetti sul modo di
amministrare gl’interessi generali ed indivisibili del consorzio umano;
prepariamo nelle associazioni e federazioni operaie gli elementi della
riorganizzazione futura: tutto questo è utile, è indispensabile, perché il
popolo abbia una volontà illuminata e possa attuarla. Ma insistiamo perché la
riorganizzazione sociale si faccia dal basso all’alto, per il concorso attivo di
tutti gl’interessati, senza che nessuno, individuo o gruppo, minoranza o
maggioranza, despota o rappresentante, possa imporre con la forza alla gente
quello che la gente non vuole accettare.
Merlino ci presenta una
specie di schema di costituzione politica. “Bisogna distinguere” egli dice, “le
faccende più importanti e di cui tutti più o meno s’intendono, e, queste farle
decidere direttamente dal popolo nei Clubs o Associazioni, i cui delegati si
riunirebbero, come nelle Convenzioni americane, unicamente per concretare la
soluzione definitiva in conformità dei mandati ricevuti. Per faccende meno
importanti e per quelle che richiedono speciali cognizioni, costituire
Amministrazioni speciali – senza legame gerarchico tra loro – soggette al
sindacato popolare”. “Avanti tutto il popolo deve concorrere alla nomina degli
amministratori pubblici; poi questi devono offrire guarentigie di capacità,
inoltre vi devono essere regole di amministrazione che impediscano gli arbitrii
e i favoritismi; gli amministratori devono rimanere uguali a tutti gli altri
cittadini e ricevere in compenso delle loro fatiche un trattamento
approssimativamente uguale a quello che i cittadini tutti ricavano dal loro
lavoro; infine gl’interessati devono potersi opporre agli atti ingiusti degli
amministratori pubblici e chiamare questi ultimi a render conto pubblicamente
dell’opera loro”. “Bisogna, sulla base dell’uguaglianza delle condizioni
economiche, elevare un sistema di amministrazione pubblica emanante direttamente
dal popolo e non soggetto a nessun centro di governo”.
Ma come si deve arrivare a
questa e a qualsiasi altro modo di amministrazione degl’interessi collettivi?
Ecco per noi la questione importante. Deve la nuova costituzione sociale esser
formulata di getto da una costituente nazionale o internazionale, ed imposta a
tutti? O deve essere il risultato graduale, sempre modificabile, della vita
stessa di una società d’individui economicamente e politicamente eguali e
liberi? Deve il popolo, dopo abbattuto il governo, nominarne un altro, il qual
poi dovrebbe, secondo l’utopia dei socialisti democratici, eliminare se stesso;
o deve distruggere completamente il meccanismo autoritario dello Stato e formare
un regime libero per mezzo della libertà? Questo Merlino non dice, e questo è il
punto di divisione tra socialisti democratici e socialisti anarchici.
Nella sua conferenza di
domenica a Roma, Merlino avrebbe, secondo il resoconto dell’Avanti!,
combattuto gli anarchici liberisti assoluti (ecco ancora degli appellativi di
sapore equivoco), “perché col loro sistema i prepotenti avrebbero modo di
schiacciare i più deboli ed i più docili”. Dunque Merlino per mettere un freno
ai prepotenti vorrebbe... mandarli al potere! O crede egli che al potere vi
andrebbero i più deboli, ed i più docili? O santa ingenuità!
3. SOCIALISMO LEGALITARIO
E SOCIALISMO ANARCHICO.
L’INTERVISTA DI CIANCABILLA
E LA POLEMICA CON L`AVANTI!
La
situazione del movimento e le sue prospettive
(…)
– E quali erano queste
cause interne di debolezza?
–
Principalmente eran questioni teoriche, non ancora ben delucidate, le quali
avevan fatto si che ci credevano d’accordo, mentre spesso sotto una stessa
fraseologia si nascondevano idee assolutamente diverse. Erano poi in mezzo a noi
degli elementi dissolventi che di anarchici non avevano che il nome. Fu inoltre
gravissimo errore quello di esserci allontanati dal movimento operaio e di aver
cessato così a poco a poco dall’essere un partito vivente e popolare, per
ridurci invece in un manipolo di dottrinari. Si può aggiungere che in sui
primordi del movimento anarchico, forse per l’estrema giovinezza ed inesperienza
dei suoi iniziatori, si aveva l’illusione di poter arrivare alla rivoluzione a
breve scadenza; e per conseguenza si trascurava ogni lavoro di organizzazione
che richiedeva opera lunga e paziente, pur riconoscendone teoricamente
l’utilità. E accadde questo fenomeno: che noi, i quali eravamo sempre stati, sin
dalle origini in lotta con il partito marxista, eravamo per molti lati più
marxisti di quelli che si professavano tali. Così, ad esempio, accettavamo del
marxismo l’inerte fatalismo, la legge del salario messa in voga da Lassalle, ed
altri postulati. Per questo eravamo persuasi della impossibilità ed inutilità di
qualsiasi riforma e miglioramento delle condizioni del proletariato in un regime
capitalistico. Questo fece si che non solo noi non ci occupassimo delle piccole
rivendicazioni e lotte operaie che tutti i giorni fatalmente si combattono in
questa struggle for life sociale, ma si ottenesse invece questo effetto
negativo: che appunto nei paesi più avanzati, dove il proletariato aveva maggior
coscienza di organizzazione, e dove, quindi, esso poteva resistere, imporsi e
strappare qualche brandello di concessione, là gli operai con più difficoltà, e
quasi con diffidenza, ascoltavano noi che predicavamo loro, in modo assoluto,
l’impossibilità di ogni miglioramento nel regime capitalistico attuale. Questa
spiegazione è, secondo me, più vera e più logica di quella addotta dall’Avanti!
per dar la ragione del fatto che molto spesso è nei paesi dove il proletariato
aveva maggiore coscienza che l’idea anarchica fece minor progresso perché gli
operai abbandonavano l’anarchia in forza della predicazione socialista.
– Ma allora tendereste a
diventare un partito riformista?
– No, perché per noi le
riforme, se e dove si possono ottenere non debbono essere che un avviamento alla
rivoluzione; e perciò vogliamo che il popolo le conquisti da se stesso, senta
che sono dovute alla sua energia, e in lui, quindi, si sviluppi la volontà di
pretendere sempre di più. Siamo un partito rivoluzionario perché miriamo alla
rivoluzione e perché riteniamo che le riforme possibili nel regime capitalistico
non possono essere che anodine, spesso semplicemente temporanee, e che il
proletariato non potrà raggiungere la sua emancipazione senza la trasformazione
completa degli ordinamenti sociali. Per sistema, noi patrociniamo sempre quelle
riforme che più delle altre, rendono evidente il conflitto tra proprietari e
proletari, tra governanti e governati, e che quindi pretendono preparare un
sentimento cosciente della ribellione, che esploderà nella rivoluzione
definitiva finale. D’altronde per noi l’essenziale è di stare col popolo, di
mostrargli che noi intendiamo lottare e soffrire con lui, di sviluppare in lui
la coscienza della forza, volontà e potenza che solo possono venirgli
dall’organizzazione. Poi non mancherà l’occasione di far di più; che veramente
in Italia non sono le occasioni di rivoluzione che sono mancate, ma la forza nei
partiti popolari di approfittarne. Ora noi miriamo appunto ad acquistare questa
forza. Il resto verrà dopo.
‑ Avete intenzione di dar
alla luce nessuno schema di programma?
Nelle linee generali il
programma socialista-anarchico è abbastanza noto, e noi lo esponiamo e lo
difendiamo continuamente nelle nostre pubblicazioni, nei nostri discorsi e nella
propaganda individuale, che è per ora la parte principale della nostra attività.
Del resto è in discussione fra le sezioni del nostro partito una formula di
programma, diremo così ufficiale, che vedrà la luce quanto prima, e che, pur
restando fisso nei suoi cardini fondamentali, sarà nella parte tattica sempre
aperto alle modificazioni che il partito, a seconda delle occasioni, crederà di
apportarvi.
– Insomma sembrerebbe che voi
pure tendete a seguire in questo la falsariga del partito socialista…
– No. Il nostro partito si
differenzia dal partito socialista‑legalitario oltre che per i suoi principii,
anche nella sua struttura. E ne differisce perché non è un partito autoritario é
non è sottoposto a qualsiasi direzione. Il solo vincolo che unisce noi tutti
socialisti‑anarchici è quello di volere le stesse cose, di volerle raggiungere
con gli stessi mezzi generali, e di voler stare uniti per cooperare insieme al
raggiungimento del fine. I nostri organi federali, cioè le varie Commissioni di
corrispondenza, non sono che il mezzo per mantenere con più facilità le
relazioni e gli accordi fra i compagni, per poterli più rapidamente informare
delle proposte che sorgono dai gruppi, del parere che su di esse danno i
compagni tutti, insieme col concorso che essi vogliono e possono dare per la
loro effettuazione. Del resto tutti i gruppi han piena autonomia, limitata solo
naturalmente dall’impegno di non mettersi in contraddizione coi principi e colla
tattica generale del partito, violando i quali, i gruppi o i compagni dissidenti
verrebbero a mettersi volontariamente fuori del partito
– Dunque ti sembra che il
partito anarchico si sia finalmente messo sulla buona strada, e progredisca a
grandi passi?
– Oh, questo progredire a
grandi passi veramente non si può dire ancora. Ma, come tu dici, siamo sulla
buona strada. Prima di tutto si può affermare con sicurezza che l’intesa è
adesso completa. Molti equivoci sono stati dissipati, molte questioni che in
fondo eran di parole sono state ridotte ai loro veri termini, e laddove vi erano
elementi incompatibili con noi essi sono stati eliminati. Nei paesi dove il
partito anarchico aveva vecchie tradizioni si sono ricostituite sezioni che
lavorano attivamente ad estendere la propaganda, e ogni giorno riescono a
penetrare in qualche nuovo centro vergine alla nostra azione, incominciano a
partecipare alla vita operaia e ad avere qualche influenza in mezzo alle
organizzazioni economiche. Oltre a parecchie pubblicazioni di propaganda più o
meno periodiche, abbiamo un giornale, L’Agitazione, che ha ormai la vita
assicurata. Certamente vi è ancora molto, immensamente da fare prima di essere
un partito che faccia sentire validamente la sua influenza nella vita pubblica;
ma già siamo in tale condizione da poter guardare con fiducia l’avvenire, ed
essere sicuri che qualsiasi uragano reazionario ci piombi addosso, non riuscirà
né a distruggere né ad arrestare l’opera nostra.
– Perché avete creduto di
dover aggiungere alla parola anarchico l’aggiunta, che quasi può parere
un’attenuante, di socialista?
– Non è punto un’aggiunta, e
tanto meno un’attenuante. Fin dal 1871, quando incominciammo la nostra
propaganda in Italia, noi siamo sempre stati e ci siam sempre detti
socialisti‑anarchici. Nell’uso del linguaggio ci è accaduto di chiamarci
semplicemente anarchici, poiché intendevasi implicitamente che gli anarchici
fossero socialisti, come altra volta quando i soli socialisti eravamo noi, ci
accadeva molto spesso di chiamarci semplicemente socialisti, poiché s’intendeva
(e allora in Italia lo intendevano tutti) che i socialisti fossero anche
anarchici. Noi siamo stati sempre d’opinione che socialismo ed anarchia sono due
parole che in fondo hanno lo stesso significato; poiché non è possibile, secondo
noi, l’emancipazione economica (abolizione della proprietà) senza
l’emancipazione politica (abolizione del governo) e viceversa. Oggi più spesso
ripetiamo insieme i due aggettivi non perché si siano modificate le nostre idee,
ma perché oggi son diventati più numerosi coloro i quali credono di poter
arrivare al socialismo per mezzo di un governo; come d’altra parte vi sono
individui i quali si dicono anarchici senza essere socialisti, il che secondo
noi, equivale a non essere nemmeno anarchici. Però bisogna intendere che per
molti i quali si dicono anarchici respingendo l’appellativo di socialisti, non è
che una questione di parole, volendo anche essi assicurati a tutti i mezzi di
produzione. I veri anarchici non socialisti, se anarchici si possono chiamare,
non sono che alcuni borghesi i quali per voglia di attirare su di loro
l’attenzione pubblica e di parere originali, o per ragioni teoriche
completamente diverse da quelle che inspirano i veri anarchici, han preso
qualche volta quel nome.
– Credi possibile, almeno
momentaneamente, un accordo tra il partito anarchico e il partito socialista?
– Io credo che coi socialisti
legalitari noi abbiamo un immenso terreno comune nella lotta contro il governo e
contro i capitalisti, e credo che potremmo e dovremmo trovarci d’accordo in
tutte le agitazioni economiche e proletarie quali, ad esempio, quella odierna
contro il domicilio coatto, gli scioperi, le leghe di resistenza, ecc.
Disgraziatamente i socialisti legalitari, col loro spirito autoritario, hanno la
tendenza a voler monopolizzare il movimento operaio, e a volgere tutte le
agitazioni verso uno scopo elettorale, dimodochè temo che possano sorgere
conflitti fra i due partiti, come già ne sorsero, e per gli stessi motivi, nei
Congressi operai internazionali, nei quali i socialisti intendevano bensì di
ammettere tutti gli operai senza distinzione di opinione, ma volevano poi
escludere gli operai di opinioni anarchiche. Io mi auguro che quando noi avremo
un’influenza ed una forza reale nel movimento operaio, i socialisti avranno il
sentimento della propria responsabilità, e non vorranno farsi traditori della
causa dei lavoratori, fomentando dissidi, quando di questi dissidi non vi è
ragione reale…
L’abbandono dei pregiudizi marxisti
(…)
Maggiore considerazione,
perché socialista e giustamente autorevole tra i socialisti, merita 1’Avanti!
il quale trova in ciò che io dissi al Ciancabilla, un segno evidente di
“un’evoluzione dell’anarchismo verso il socialismo marxista”.
È vecchia abitudine dei
socialisti democratici (quando vogliono essere gentili con noi e non ripetono
con Liebknecht che noi siamo “i beniamini della borghesia e dei governi di tutti
i paesi”), il dire che noi evolviamo verso di loro…
Intendiamoci: per me non vi è
nulla di meno che onorevole nel fatto di evolvere, quando l’evoluzione è
frutto di onesta convinzione. Bisogna però che il cambiamento di opinione vi sia
stato davvero, e sia tale quale si annunzia.
Ora, gli anarchici, ed io con
loro, hanno certamente evoluto, ed è verosimile che continueranno ad evolvere,
fino a quando resteranno un partito vivo capace di profittare dei dettami della
scienza e dell’esperienza e di adattarsi alle variabili contingenze della vita.
Ma io nego assolutamente che noi abbiamo evoluto o stiamo evolvendo verso il
“socialismo marxista”. E credo, al contrario, che uno dei caratteri più notevoli
e più generali della nostra evoluzione sia l’esserci sbarazzati dei pregiudizi
marxisti, che al principio del movimento avevamo troppo leggermente accettati e
che sono stati la causa dei nostri più gravi errori.
L’Avanti! è
probabilmente vittima di una illusione. Se esso crede realmente ciò che a più
riprese ha detto sull’anarchismo, che cioè l’anarchismo è l’opposto del
socialismo, e se continua a giudicare di noi dalle falsificazioni e dalla
calunnie con cui, seguendo l’esempio della condotta di Marx verso Bakunin, si
sono disonorati i marxisti tedeschi, allora è certo che, ogni qualvolta degnerà
di leggere uno scritto nostro o di ascoltare un nostro discorso, avrà la grata
sorpresa di scoprire una “evoluzione” dell’anarchismo verso il socialismo, che
per 1’Avanti! pare sia quasi una cosa stessa col marxismo.
Ma chiunque ha una conoscenza anche superficiale
delle idee e della storia nostra, sa che l’anarchismo fin dal suo nascere fu
niente altro che la conseguenza, l’integrazione dell’idea socialista, e quindi
non poteva e non può evolvere verso il socialismo – cioè verso sé stesso.
Gli errori stessi, gli
spropositi, i delitti, detti e commessi da anarchici, servono a provare la
natura sostanzialmente socialista dell’anarchismo, così come la patologia di un
organismo serve a meglio comprendere i suoi caratteri e le sue funzioni
fisiologiche.
Che cosa v’era in quello che
io dissi al Ciancabilla, che potesse giustificare la conclusione dell’Avanti!?
Noi abbiamo certamente con i
socialisti democratici molte idee comuni, ed abbiamo soprattutto comune il
sentimento che ci anima e sprona a combattere per l’avvenimento di una società
di liberi ed uguali… quantunque ci pare che il loro sistema porti poi
logicamente alla negazione della libertà e dell’eguaglianza.
Noi mettiamo a base
fondamentale del nostro programma l’abolizione della proprietà privata e
l’organizzazione della produzione a vantaggio di tutti e fatta col concorso di
tutti – il che è, o dovrebbe essere, il caposaldo di ogni specie di socialismo.
E noi pensiamo che, essendo i lavoratori i maggiori sofferenti della società
attuale ed i più direttamente interessati a mutarla, e trattandosi di instaurare
una società in cui tutti siano lavoratori, bisogna che la nuova rivoluzione sia
principalmente opera della classe lavoratrice organizzata e cosciente
dell’antagonismo irreduttibile fra gl’interessi suoi e quelli della classe
borghese – concetto che è merito massimo di Marx l’avere formulato, propagato e
fatto quasi molla motrice di tutto il socialismo moderno.
Ma in tutto questo 1’Avanti!
mal potrebbe parlare di evoluzione, poiché si tratta di propositi e convinzioni
che fanno parte integrante dell’anarchismo, e che gli anarchici propagarono
sempre, e in Italia già molti anni prima che vi esistessero i marxisti.
Per
scoprire dunque se davvero noi abbiamo evoluto verso il socialismo democratico,
che 1’Avanti! chiama, molto discutibilmente, socialismo marxista,
bisogna ricercare quali sono le differenze che ci dividono e ci hanno sempre
divisi dai socialisti democratici.
Non è il caso di discutere le
teorie economiche e storiche di Marx, le quali a me (che del resto ho competenza
scarsissima) sembrano in parte erronee ed in parte consistenti solo
nell’esprimere in termini astrusi e far sembrare strane e recondite delle verità
che espresse in linguaggio comune sono chiare, evidenti e note a tutti. I
socialisti democratici hanno cessato da tempo di tenerne conto nel loro
programma pratico, e, se non erro, stanno per rinunziarvi anche nel campo della
scienza.
L’importante per noi, in
quanto uomini di partito, è quello che i partiti fanno e vogliono fare – e non
già le idee teoriche dalle quali cercano, dopo il fatto, di spiegare e
giustificare la loro azione.
Ora dunque, noi siamo in
disaccordo ed in lotta con i socialisti democratici, perché essi vogliono
trasformare la società presente per mezzo di leggi, e conservare anche nella
società futura il Governo, lo Stato, che diverrà secondo loro organo
degl’interessi di tutti; mentre noi vogliamo che la società si trasformi per
l’opera diretta del popolo e vogliamo completamente distrutto il meccanismo
dello Stato, che secondo noi resterà sempre un organo di oppressione e di
sfruttamento, e tenderà, per la sua stessa natura, alla costituzione di una
società basata sul privilegio e sull’antagonismo della classe.
Possiamo aver torto o
ragione, ma dove vede 1’Avanti! il segno che noi ci andiamo accostando
alla sua concezione autoritaria del socialismo?
Il partito dell’Avanti!,
essendo un partito autoritario, mira logicamente alla “conquista dei pubblici
poteri”.
Abbiamo noi forse cessato di
dirigere i nostri sforzi allo scopo di rendere inutili ed abolire i pubblici
poteri, cioè il governo? O forse abbiamo incominciato a prestar fede a quella
burletta dell’impossessarsi del governo per meglio distruggerlo, che van
ripetendo certi socialisti troppo ingenui… o troppo furbi?
Ben al contrario. A chi
penetra a fondo nello studio dell’anarchismo, sarà facile accorgersi come nei
primi tempi del movimento un forte residuo di giacobinismo e di autoritarismo
sopravviveva in noi, residuo che non oso dire sia assolutamente distrutto, ma
che certamente si è andato e si va sempre attenuando. Altra volta era opinione
comune in mezzo a noi che la rivoluzione doveva essere necessariamente
autoritaria, e non era raro chi con strana contraddizione pensava si potesse
“fare l’Anarchia per forza”; mentre oggi è convinzione generale degli anarchici
che l’anarchia non può venire dall’autorità, ma deve sorgere dalla lotta
costante contro ogni imposizione, tanto in tempo di lenta evoluzione, quanto in
periodi tempestosamente rivoluzionari, e che nostro scopo deve essere il fare in
modo che la rivoluzione sia essa stessa e fin dal primo momento un’attuazione
delle idee e dei metodi anarchici.
Il Partito dell’Avanti!
è un partito parlamentare sia riguardo agli scopi futuri, sia riguardo alla
tattica presente; e noi siamo invece avversari del parlamentarismo e come forma
di costituzione sociale e come mezzo attuale di lotta, al punto da considerare
socialismo anarchico e socialismo antiparlamentare come sinonimi, o quasi.
Ha forse l’Avanti!
osservato che sia diminuita in noi quell’avversione contro i1 parlamentarismo
che è stata sempre una caratteristica del nostro partito? Abbiamo forse cessato
dal consacrare buona parte delle nostre forze a scalzare dall’animo dei
lavoratori la nuova fede nei parlamenti e nei mezzi parlamentari, che i
socialisti democratici cercano di impiantarvi? È cessato forse l’astensionismo
di essere quasi il segno materiale al quale riconosciamo i nostri compagni?
Ben al contrario. Al
principio del movimento parecchi tra noi ammettevano ancora la partecipazione
alle elezioni amministrative, e più tardi in mezzo a noi sorse l’iniziativa
della candidatura Cipriani e fu da noi appoggiata. Oggi noi siamo tutti
d’accordo nel considerare le elezioni amministrative tanto perniciose quanto
quelle politiche e forse di più, e respingiamo, a scanso di equivoci, anche le
candidature protesta.
Dov’è dunque l’evoluzione
verso il socialismo marxista? (…)
Gli
"sbandamenti" giustificati dell’Avanti!
L’Avanti! del 22
corrente cortesemente risponde all’articolo da me pubblicato nell’Agitazione
del 14 sull’evoluzione dell’anarchismo; ma, secondo me, risponde male e
fuori della questione.
Esso vuol dimostrare, in
contraddittorio con me, che l’anarchismo evolve verso il socialismo democratico;
ed invece si mette a sostenere che, in omaggio alla verità ed alla logica,
quell’evoluzione dovrebbe avvenire ed avverrà.
Confondendo in tal modo ciò
che è con ciò che si crede che dovrebbe essere e che sarà, ognuno, il quale
professa onestamente un’idea e la ritiene conforme alla logica ed alla verità ed
ha fede (cioè forte speranza) nel suo trionfo, potrebbe sostenere che tutti gli
altri evolvono verso di lui; il che poi non cambierebbe le tendenze reali dei
vari partiti ed i rapporti in cui si trovano l’uno verso l’altro.
Io potrei limitarmi a
constatare, il modo come l’Avanti! ha schivata la questione e non
aggiunger altro, poiché non si trattava affatto di discuterei meriti relativi
dei programmi socialista democratico e socialista anarchico. Ma sarà bene
seguire l’Avanti! sul suo terreno e vedere se davvero la verità sta dalla
parte sua e la logica deve menar gli anarchici dove esso dice.
L’Avanti! mi risponde
su tre questioni: quella del modo, radicalmente diverso dal nostro, come i
socialisti democratici intendono attuare la trasformazione sociale; quella dello
Stato nella società futura; e quella delle elezioni.
Sulla prima questione io
avevo detto che i socialisti democratici vogliono trasformare la società
presente per mezzo di leggi, e l’Avanti! risponde che non è vero che essi
vogliono servirsi soltanto di leggi: io veramente il “soltanto” non ce
l’avevo messo; ma ce l’avessi anche messo, non me ne pentirei, poiché è noto che
per i socialisti democratici ogni propaganda, ogni agitazione, ogni
organizzazione ha per scopo finale la conquista di poteri pubblici, vale
a dire il potere di far le leggi. E la Critica sociale, di cui l’Avanti!
non contesterà l’autorevolezza, nel suo numero del 16 maggio, lamentando che “la
lotta elettorale, che dovrebbe essere l’indice dell’azione e della forza del
partito, è diventata quasi essa sola quest’azione e questa forza”, giunse a
dire: “astrattamente, metafisicamente, si può pensare che basti. Il proletariato
poco importa che sappia, che capisca, che voglia, che agisca esso stesso: basta
che intuisca e che voti. Così a poco a poco diventerà maggioranza e altri per
lui trasformerà lo Stato a suo vantaggio”. E se la Critica trovava che
questa verità astratta non è poi vera in concreto, era solo perché il governo
può mozzare nel pugno dei socialisti l’arma del voto ed allora il partito non
sarebbe in grado di opporre alcuna
resistenza, “neppure lo sciopero delle arti maggiori nei centri maggiori”.
L’Avanti! può dire, se
così gli piace, che questo “non è vero” e che io conosco male e giudico peggio
il programma dei socialisti democratici; ma sta il fatto che gli anarchici
convengono tutti, in questa questione, nella stessa opinione che ho espresso io
e credo di essere nel vero – dunque, niente evoluzione nel senso che dice 1’Avanti!.
Sulla questione dello Stato,
avendo io affermato che lo Stato sarà sempre organo di sfruttamento, 1’Avanti!
mi accusa di essere caduto in “un equivoco molto grosso” perché “la letteratura
socialista (democratica) scientifica e popolare è tutta informata al concetto
che, soppressi gli antagonismi di classe, scompaiono le funzioni oppressive
dello Stato”. Questo è infatti una cosa nota, ed io avevo già detto, nello
stesso brano riportato dall’Avanti!, che secondo i socialisti democratici
lo Stato diverrà, nella società futura organo degli interessi di tutti; ma è
altrettanto noto che gli anarchici pensano (ed è per questo che sono anarchici)
che lo Stato non solo “è strumento di oppressione in mano della classe
dominante” ma costituisce esso stesso, col suo personale, una classe
privilegiata con i suoi interessi, le sue passioni, i suoi pregiudizi
particolari, e che una società in cui si fosse abolita la proprietà privata e
conservato lo Stato sarebbe sempre una società basata sull’antagonismo
degl’interessi, e presto vedrebbe risorgere nel suo seno, per opera e con la
protezione dello Stato, il privilegio economico con tutte le sue conseguenze.
Non è il caso di discutere a
fondo questa questione, che l’Agitazione ha già trattata e su cui dovrà
per certo ritornare continuamente, trattandosi della base stessa del programma
anarchico. Importa solo notare, per gli scopi della presente polemica, che se
mai gli anarchici si convincessero che lo Stato può diventare un’istituzione
benefica ed esistere utilmente in una società di liberi ed eguali, allora non
bisognerebbe già dire che l’anarchismo ha evoluto verso il socialismo
democratico, ma semplicemente che gli anarchici si sono convinti che avevano
torto e sono diventati socialisti democratici. E questo non è.
Sulla questione infine
dell’astensione elettorale, 1’Avanti! ragiona in modo ancora più
singolare. Io avevo detto: “Noi cerchiamo nel movimento operaio la base della
nostra forza e la garanzia che la prossima rivoluzione riesca davvero socialista
ed anarchica; e ci rallegriamo d’ogni miglioramento che gli operai riescono a
conquistare, perché esso aumenta nella classe lavoratrice la coscienza della sua
forza, eccita nuovi bisogni e nuove pretese, ed avvicina il punto limite,
dove i borghesi non possono più cedere se non rinunziando ai loro privilegi, e
quindi il conflitto violento diventa fatale”.
L’Avanti! cita questo
brano, ma sopprimendo le parole ch’io ho messo in corsivo, e ne cava delle
conclusioni che, se io mi fossi fermato là dove 1’Avanti! arresta la
citazione, sarebbero perfettamente giuste.
Voi propugnate, dice 1’Avanti!,
1a resistenza operaia nel campo economico per migliorare le condizioni degli
operai; ma siccome vi sono miglioramenti impossibili ad ottenersi mediante la
semplice resistenza ed ancor meno si può con la resistenza abolire il
capitalismo, la logica vi porterà necessariamente alla resistenza politica… che
per l’Avanti! è sinonimo di lotta elettorale.
L’Avanti! non ha
pensato (quantunque il passaggio da esso soppresso nella citazione delle mie
parole lo faceva chiaramente intendere) che la logica potrebbe portarci,e ci
porta infatti, alla rivoluzione.
Noi crediamo, per lo meno
quanto l’Avanti!, che l’organizzazione corporativa, la resistenza
economica e tutto quanto si può fare nel regime attuale, non può risolvere la
questione sociale e che, a parte gli effetti morali, appena serve ad assicurare
ad una frazione del proletariato dei miglioramenti che bisogna poi difendere con
una lotta continua contro le insidie sempre rinascenti dei padroni e siamo
convinti che la libertà ed il benessere assicurati a tutti non si avranno se non
quando i lavoratori si saranno impossessati dei mezzi di produzione ed avranno
avocato a loro l’organizzazione della vita sociale, e che per far questo bisogna
sbarazzarsi del potere che sta a guardia del capitalismo e si arroga il diritto
di sovranità su tutto e su tutti. Ma crediamo che la lotta elettorale non vale a
debellare il potere, e che se anche lo potesse, non farebbe che passarlo in mano
di altri senza nessun vantaggio sostanziale per il popolo; e perciò ci sforziamo
di allontanare i lavoratori da un mezzo illusorio e dannoso, ed affrettiamo coi
voti e coll’opera il giorno in cui, cresciuta a sufficienza la coscienza e la
forza dei lavoratori, questi affermeranno coi fatti la ferma decisione di non
volere più essere né sfruttati né comandati, e prenderan possesso, direttamente
e non per delegati, della ricchezza e del potere sociale. Ché se poi questa
determinazione dei lavoratori comincerà a manifestarsi mediante il rifiuto del
lavoro o il rifiuto del servizio militare o il rifiuto di pagare i fitti ed i
dazi, o la confisca popolare dei generi di consumo, o le barricate e le bande
armate, è questione che risolveranno le circostanze e che, comunque risoluta,
menerà sempre agli stessi risultati: il conflitto violento tra il vecchio mondo
che si ostina a vivere ed il nuovo mondo che vuol trionfare sulle rovine di
quello.
L’Avanti! a quel che
pare ci ha completamente fraintesi: esso ha creduto che noi abbiam cessato di
essere rivoluzionari.
Ed invece noi crediamo più
che mai nella necessità della rivoluzione; e non già nel senso “scientifico”
della parola, nel qual senso spesso si chiamano rivoluzionari anche i
legalitari, ma nel senso “volgare” di conflitto violento, in cui il popolo si
sbarazza colla forza della forza che l’opprime, ed attua i suoi desideri fuori e
contro tutta la legalità.
La nostra evoluzione si
riduce a questo: che avendo visto che coi vecchi metodi la rivoluzione non si
faceva né sì avvicinava, abbiamo abbracciato metodi che ci sembrano più atti a
prepararla ed a farla.
I socialisti democratici
credono che siamo in errore e quindi fanno bene a cercare di convertirci, come
noi cerchiamo di convertir loro; ma non diano per fatto quello che è un semplice
desiderio, non vendano la pelle dell’orso prima che l’orso sia in loro potere.
La Giustizia
di Reggio Emilia in uno dei suoi ultimi numeri, riproducendo un passaggio dell’Agitazione,
nel quale s’insiste sulla necessità di preparare e rendere possibile la
rivoluzione mediante l’organizzazione operaia e la piccola lotta quotidiana, si
compiace che noi abbiamo finalmente riconosciuto quello che i socialisti
democratici hanno sempre predicato e praticato, e per cui noi li abbiamo
aspramente attaccati e vituperati.
Ciò non è esatto. Le ragioni
del nostro dissenso dai socialisti democratici sono state sempre quelle stesse
di oggi. Se li abbiamo combattuti con acrimonia non è stato già perché essi si
occupavano del movimento operaio più di quello che facessimo noi, ma perché essi
cercavano e cercano di volgere quel movimento a scopi che noi crediamo dannosi
ai veri interessi del socialismo. Che anzi fra le cause per cui gli anarchici
hanno per lungo tempo guardato con sospetto le organizzazioni operaie non
decisamente rivoluzionarie, ed oggi ancora alcuni dei nostri non mettono nel
propugnarle tutto il necessario fervore, vi è, non ultima, quella che i
propagandisti del socialismo democratico hanno fatto e fanno tutto il possibile
per discreditarle nell’animo nostro servendosene per farsi nominare deputati.
Ed io mi sovvengo di essere
stato, nel 1890 o 1891, trattato male dalla Giustizia (non dico ch’io
l’abbia trattata meglio) perché Prampolini voleva che la manifestazione del
Primo Maggio sì facesse invece la prima Domenica del mese, e gli amici di Reggio
pubblicarono uno scritto mio per protestare contro una proposta che levava alla
manifestazione il suo significato e la sua importanza. Ciò che prova che io ero
in disaccordo colla Giustizia non già perché quel giornale patrocinava la
resistenza operaia più che non facessero i miei amici, ma perché esso tendeva,
almeno a giudizio mio, ad evirare il movimento operaio e l’ostacolava
precisamente quando stava per prendere una via, poco atta a favorire candidature
al parlamento, ma ottima per abituare i lavoratori ad agire di concerto e dar
loro coscienza della propria forza.
Del resto, se gli anarchici
hanno a volte ecceduto negli attacchi contro i socialisti democratici, questi ve
li hanno gravemente provocati, poiché invece di combatterci per quel che siamo,
hanno cercato sempre di presentarci sotto una falsa luce. E proprio La
Giustizia si ostinò una volta nel sostenere che gli anarchici non sono
socialisti: cosa che procurò molto piacere a Napoleone Colajanni, ma non fece
certamente onore allo spirito di verità, che pur d’ordinario distingue, mi
compiaccio nel riconoscerlo, l’organo socialista di Reggio Emilia.
4.
ELEZIONI E VOTAZIONI
“Anarchici” elezionisti
Poiché non vi è e non vi può
essere nessuna autorità che dia o tolga il diritto di dirsi anarchico, siamo ben
costretti di tanto in tanto di rilevare l’apparizione di qualche convertito al
parlamentarismo che continua, almeno per un certo tempo, a dichiararsi
anarchico.
Non troviamo niente di male,
niente di disonorante nel cambiare di opinione, quando il cambiamento è causato
da nuove sincere convinzioni, e non da motivi d’interesse personale; vorremmo
però che uno dicesse francamente quello che è diventato e quello che ha cessato
di essere per evitare equivoci e discussioni inutili. Ma forse questo non è
possibile, perché chi cambia d’idee, generalmente al principio non sa egli
stesso dove andrà a parare.
Del resto quel che avviene a
noi, avviene, ed in proporzioni assai maggiori, in tutti i partiti ed in tutti i
movimenti politici e sociali. I socialisti, per esempio, han dovuto soffrire che
si dicessero socialisti sfruttatori e politicanti di tutte le specie; ed i
repubblicani sono pur costretti oggi a sopportare che certi figuri venduti al
partito dominante usurpino niente meno che il nome di mazziniani.
Fortunatamente l’equivoco non
può durare a lungo. Ben presto la logica delle idee e la necessità dell’azione
inducono i pretesi anarchici a rinunziare spontaneamente al nome e a mettersi
nel posto che loro si compete. Gli anarchici elezionisti che sono spuntati fuori
in varie occasioni hanno tutti più o meno rapidamente abbandonato l’anarchismo,
così come gli anarchici dittatoriali o bolscevizzanti diventano presto
bolscevichi sul serio, e si mettono al servizio del governo russo e dei suoi
delegati.
Il fenomeno si è riprodotto
in Francia in occasione delle elezioni di questi giorni. Il pretesto è
l’amnistia. “Migliaia di vittime gemono nelle prigioni e nei bagni penali; un
governo di sinistra darebbe l’amnistia; è dovere di tutti i rivoluzionari, di
tutti gli uomini di cuore il fare quello che si può per fare uscire dalle urne i
nomi di quegli uomini politici che, si spera, darebbero l’amnistia”. Questa è la
nota che domina nei ragionamenti dei convertiti.
In Italia fu l’agitazione a
favore di Cipriani prigioniero che servì di pretesto ad Andrea Costa per
trascinare gli anarchici romagnoli alle urne, ed iniziare così la degenerazione
del movimento rivoluzionario creato dalla prima Internazionale e finire col
ridurre il socialismo ad un mezzo per trastullare le masse ed assicurare la
tranquillità della monarchia e della borghesia.
Ma veramente i francesi non
hanno bisogno di venire a cercare gli esempi in Italia, poiché ne hanno di
eloquentissimi nella storia loro.
In Francia, come in tutti i
paesi latini, il socialismo nacque, se non precisamente anarchico, certamente
antiparlamentare: e la letteratura rivoluzionaria francese dei primi dieci anni
dopo la Comune abbonda di pagine eloquenti, dovute fra le altre alle penne di
Guesde e di Brousse, contro la menzogna del suffragio universale e la commedia
elettorale e parlamentare.
Poi, come Costa in Italia, i
Guesde, i Massard, i Deville e più tardi lo stesso Brousse, furono presi dalla
fregola del potere, e forse anche dalla voglia di conciliare la nomea di
rivoluzionari con il quieto vivere ed i vantaggi piccoli e grandi che provengono
a chi entra nella politica ufficiale, sia pure come oppositore. Ed allora
cominciò tutta una manovra per cambiare l’indirizzo del movimento, ed indurre i
compagni ad accettare la tattica elettorale. Molto servì anche allora la nota
sentimentale: si voleva l’amnistia per i comunardi, bisognava liberare il
vecchio Blanqui che moriva in prigione. E con questi cento pretesti, cento
espedienti per vincere la ripugnanza che essi stessi, i transfughi, avevano
contribuito a far nascere nei lavoratori contro 1’elezionismo, e che d’altronde
era alimentata dal ricordo ancora vivo dei plebisciti napoleonici e dei massacri
perpetrati in giugno 1848 ed in maggio 1871 per il volere delle assemblee uscite
dal suffragio universale. Si disse che bisognava votare per contarsi, ma che si
voterebbe per gli ineleggibili, per i condannati, o per le donne o per i morti;
altri propose di votare schede bianche o con un motto rivoluzionario; altri
voleva che i candidati rilasciassero nelle mani dei comitati elettorali delle
lettere di dimissione per il caso che fossero eletti. Poi quando la pera fu
matura, cioè quando la gente si lasciò persuadere ad andare a votare, si volle
essere candidati e deputati sul serio: si lasciarono i condannati marcire in
prigione, si rinnegò 1’antiparlamentarismo, si disse peste dell’anarchismo; e
Guesde attraverso cento palinodie finì ministro del governo dell’unione sacra,
Deville divenne ambasciatore della repubblica borghese, e Massard, credo,
qualche cosa di peggio.
Noi non vogliamo mettere in
dubbio preventivamente la buona fede dei nuovi convertiti tanto più che tra essi
ve n’è un paio con cui abbiamo avuti vincoli d’amicizia personale. In generale
queste evoluzioni – o involuzioni che dir si voglia – s’incominciano sempre in
buona fede; poi, la logica sospinge, l’amor proprio vi si mischia, l’ambiente
vince… e si diventa quello che prima ripugnava.
Forse in questa circostanza
non avverrà nulla di quello che temiamo, perché i neoconvertiti sono pochissimi
e ben poca è la probabilità ch’essi trovino larghe adesioni nel campo anarchico,
e quei compagni o ex‑compagni rifletteranno meglio e riconosceranno il loro
errore. Il nuovo governo che sarà installato in Francia dopo il trionfo
elettorale del blocco di sinistra, li aiuterà a persuadersi che ben poca
differenza v’è tra esso e il governo precedente, non facendo niente di buono
nemmeno l’amnistia – se la massa non l’imporrà con l’agitazione. Noi cercheremo,
dal nostro punto di vista, di aiutarli ad intender ragione con qualche
osservazione, che del resto non dovrebbe esser nuova per chi aveva già accettata
la tattica anarchica.
È inutile il venirci a dire,
come fanno quei buoni amici, che un po’ di libertà vale meglio che la tirannia
brutale senza limite e freno, che un orario ragionevole di lavoro, un salario
che permette di vivere un po’ meglio delle bestie, la protezione delle donne e
dei bambini sono preferibili ad uno sfruttamento del lavoro umano fino ad
esaurimento completo del lavoratore, che la scuola di Stato, per cattiva che
sia, è sempre migliore dal punto di vista dello sviluppo morale del fanciullo di
quella impartita dai preti e dai frati… Noi ne conveniamo volentieri: e
conveniamo pure che vi possono essere delle circostanze in cui il risultato
delle elezioni, in uno Stato od in un Comune, può avere delle conseguenze buone
o cattive e che questo risultato potrebbe essere determinato dal voto degli
anarchici se le forze dei partiti in lotta fossero quasi uguali.
Generalmente si tratta di
un’illusione; le elezioni, quando queste sono tollerabilmente libere, non hanno
che il valore di un simbolo: mostrano lo stato dell’opinione pubblica, che si
sarebbe imposta con mezzi più efficaci e risultati maggiori se non le si fosse
offerto lo sfogatoio delle elezioni. Ma non importa: anche se certi piccoli
progressi fossero la conseguenza diretta di una vittoria elettorale, gli
anarchici non dovrebbero accorrere alle urne e cessare dal predicare i loro
metodi di lotta. Poiché non è possibile far tutto al mondo, bisogna scegliere la
propria linea di condotta…
L’astratto rigorismo degli “intransigenti”
Comincio a ricevere qualche
giornale spagnuolo, che mi fa crescere la volontà di andare sul posto, senza,
ohimè!, aumentarne la possibilità.
A proposito delle tue
osservazioni sul fatto che la caduta della monarchia spagnuola fu determinata da
una manifestazione elettorale, ti dirò che è vero che tale fatto darà un certo
credito alla lotta elettorale e sarà certamente sfruttato dagli elezionisti
nella loro propaganda e nelle eventuali discussioni con noi, ma non infirma la
nostra tesi, se fatti e teorie sono debitamente esposti e compresi.
In realtà le elezioni che noi
combattiamo, cioè quelle che servono a nominare dei governanti, o tendono, nel
periodo preparatorio, a discreditare e paralizzare l’azione diretta delle masse,
non sono equiparabili al fatto spagnuolo. Le elezioni municipali spagnuole sono
state l’esplosione del sentimento antimonarchico della popolazione, che ha
profittato per manifestarsi della prima occasione che si è presentata. La gente
è corsa all’urna come sarebbe corsa in piazza a fare una dimostrazione se non
avesse avuto paura delle fucilate della Guardia Civile.
Non è detto con ciò che le
urne hanno decisa la situazione, poiché se il re non si fosse sentito
abbandonato dalle classi dirigenti e se fosse stato sicuro dell’esercito, se ne
sarebbe infischiato delle elezioni ed avrebbe messo ordine alle cose con molte
manette e qualche buon massacro.
Certamente sarebbe stato
molto meglio se la monarchia fosse caduta in altro modo, in seguito per esempio
ad uno sciopero generale od un’insurrezione armata, perché il fatto che il
movimento prese le forme elettorali influisce malamente sulla sua natura e sui
suoi probabili sviluppi futuri; ma insomma meglio così che nulla. Possiamo
deplorare che non vi siano state forze sufficienti per far trionfare i metodi
nostri, ma dobbiamo rallegrarci che la gente cerchi, per una via qualsiasi, di
conquistare maggiore libertà e maggiore giustizia.
Ti ricordi quando Cipriani fu
eletto deputato a Milano? Alcuni compagni furono scandalizzati perché io, dopo
aver predicato l’astensione, mi rallegrai poi del risultato dell’elezione. lo
dicevo, e direi ancora, che poiché vi sono quelli che, sordi alla nostra
propaganda, vanno a votare, è consolante il vedere che essi votano per un
Cipriani piuttosto che per un monarchico o un clericale – non già per gli
effetti pratici che la cosa può avere, ma per i sentimenti ch’essa rivela.
Questa delle elezioni è stata
sempre una maledetta questione anche in mezzo a noi stessi, perché molti
compagni danno estrema importanza al fatto materiale del voto e non capiscono la
natura vera della questione.
Per esempio, una volta a
Londra una sezione municipale distribuì delle schede per domandare agli abitanti
del quartiere se volevano o no la fondazione di una biblioteca pubblica.
Crederesti tu che vi furono degli anarchici i quali, pur desiderando la
biblioteca, non volevano rispondere sì, perché rispondere era votare?
E non vi erano, almeno a
tempo mio, a Parigi e a Londra di quelli che trovavano anti‑anarchico l’alzare
la mano in un comizio per approvare l’ordine del giorno che esprimeva le loro
idee? Applaudivano gli oratori che sostenevano una data risoluzione, ma poi si
rifiutavano di manifestare la loro approvazione con un’alzata di mano o con un
sì, perché gli anarchici non votano.
Ritornando alla Spagna,
naturalmente la questione si posa differentemente a riguardo delle elezioni per
le Cortes Costituentes. Qui si tratta veramente di un corpo legislativo
che gli anarchici non debbono riconoscere ed alla cui elezione non possono
partecipare. Naturalmente se Costituente vi deve essere è preferibile ch’essa
sia repubblicana e federalista anziché monarchica e accentratrice; ma il compito
degli anarchici resta quello di sostenere e mostrare che il popolo può e deve
organizzare da sé il nuovo modo di vita e non già sottoporsi alla legge. Ed io
credo che si può obbligare la Costituente ad essere il meno reazionaria
possibile ed impedire ch’essa strozzi la rivoluzione meglio agendo di fuori che
standovi dentro.
Io cercherei di opporre alla
Costituente dei Congressi permanenti (locali, provinciali, regionali, nazionali)
aperti a tutti, i quali, appoggiandosi sulle organizzazioni operaie,
discuterebbero tutte le questioni (espropriazione, organizzazione della
produzione, ecc.) stabilirebbero rapporti volontari fra le varie località e le
varie corporazioni, consiglierebbero, spronerebbero, ecc.
Ma è meglio smettere. Tu
riceverai questa mia quando forse la situazione sarà cambiata; ed io riceverò la
tua risposta quando vi sarà stato forse un altro cambiamento.
3. Gli anarchici e il
movimento operaio
1. SINDACALISMO E MOVIMENTO
SINDACALE
a. Il sindacalismo al
congresso anarchico di Amsterdam
La discussione sul
sindacalismo e lo sciopero generale fu certamente, al Congresso
Internazionale Anarchico di Amsterdam, la più importante; ed è ben naturale,
poiché si trattava di una questione d’interesse pratico ed immediato, che ha il
più grande valore sull’avvenire del movimento anarchico e sui suoi probabili
risultati, e poiché precisamente su questa questione si manifestò la sola
differenza seria di opinione tra i congressisti, gli uni dando
all’organizzazione operaia ed allo sciopero generale un’importanza eccessiva
considerandoli quasi la stessa cosa che anarchismo e rivoluzione, gli altri
insistendo sulla concezione integrale dell’anarchismo e non volendo considerare
il sindacalismo che come un mezzo potente, ma d’altra parte pieno di pericoli,
per avviare alla realizzazione della rivoluzione anarchica.
La prima tendenza fu
rappresentata principalmente dal compagno Monatte, della Confédération
Générale du Travail di Francia, con un gruppo ch’ei volle chiamare dei
“giovani” malgrado le proteste dei giovani, assai più numerosi, della tendenza
opposta.
Monatte, nel suo notevole
rapporto, ci parlò lungamente del movimento sindacalista francese, dei suoi
metodi di lotta, dei risultati morali e materiali ai quali è già arrivato, e
finì col dire che il sindacalismo è di per se stesso sufficiente come mezzo per
compiere la rivoluzione sociale e realizzare l’anarchia.
Contro quest’ultima
affermazione insorsi energicamente. Il sindacalismo, io dissi, anche se si
abbiglia dell’aggettivo rivoluzionario, non può essere che un movimento legale,
un movimento di lotta contro il capitalismo entro i limiti che il capitalismo e
lo Stato gli impongono.
Esso non ha dunque uscita, e
non potrà ottenere nulla di permanente e di generale, se non cessando di essere
il sindacalismo, e promovendo non più il miglioramento delle condizioni dei
salariati e la conquista di qualche libertà, ma l’espropriazione della ricchezza
e la distruzione radicale dell’organizzazione statale.
Io riconosco tutta l’utilità,
la necessità stessa, della partecipazione attiva degli anarchici al movimento
operaio, e non ho bisogno d’insistere per essere creduto, giacché sono stato dei
primi a dolermi dell’attitudine d’isolamento superbo che presero gli anarchici
dopo lo sfacimento dell’antica Internazionale, ed a spingere di nuovo i
compagni sulla via che Monatte, dimenticando la storia, chiama nuova. Ma ciò è
utile alla sola condizione che si resti sopratutto anarchici e che non si cessi
di considerare tutto il resto dal punto di vista della propaganda e dell’azione
anarchiche.
Io non
domando che i sindacati adottino un programma anarchico e siano composti.di soli
anarchici. In questo caso sarebbero inutili, giacché farebbero doppio ufficio
con i gruppi anarchici, e non avrebbero più la qualità che li rende cari agli
anarchici, vale a dire quella d’essere oggi un campo di propaganda, e domani un
mezzo per condurre la massa sulla via a farle prendere in mano il possesso delle
ricchezze e l’organizzazione della produzione per la collettività. Io voglio dei
sindacati largamente aperti a tutti i lavoratori, che cominciano a sentire il
bisogno di unirsi ai loro compagni per lottare contro i padroni; ma io conosco
anche tutti i pericoli che presentano per l’avvenire dei gruppi fatti allo scopo
di difendere, nella società attuale, degli interessi particolari, e domando che
gli anarchici che sono nei sindacati si diano per missione di salvaguardare
l’avvenire, lottando contro la tendenza naturale di questi gruppi a divenire
delle corporazioni chiuse, in antagonismo con altri proletari anche più che con
i padroni.
Forse la causa del malinteso
si trova nella credenza, secondo me erronea benché generalmente accettata, che
gli interessi degli operai sono solidali, e che, conseguentemente, basta che
degli operai si mettano a difendere i loro interessi e ad aspirare al
miglioramento delle loro condizioni, perché siano naturalmente condotti a
difendere gli interessi del proletariato contro il patronato.
La verità è, secondo me, ben differente. Gli
operai subiscono, come tutti, la legge d’antagonismo generale che deriva dal
regime della proprietà individuale; ed ecco perché gli aggruppamenti di
interessi, rivoluzionari sempre al principio, finche deboli e bisognosi della
solidarietà degli altri, divengono conservatori ed esclusivisti quando
acquistano della forza, e con la forza, la coscienza dei loro interessi
particolari. La storia del tradunionismo inglese ed americano è là per
dimostrare in qual modo si è prodotta questa degenerazione del movimento operaio
allorché esso si è appartato nella difesa degli interessi attuali.
È solamente in vista d’una trasformazione completa
della società che l’operaio può sentirsi solidale con l’operaio, l’oppresso
solidale con l’oppresso; ed è compito degli anarchici il tener sempre vivo il
fuoco dell’ideale e procurare di orientare più che possibile tutto il movimento
verso le conquiste dell’avvenire, verso la rivoluzione, anche, ove occorra, a
detrimento dei piccoli vantaggi che può ottenere oggi qualche frazione della
classe operaia, e che, del resto, non si ottengono il più sovente che a spese di
altri lavoratori e del pubblico consumatore.
Ma per poter adempiere questa funzione d’elementi
propulsori nei sindacati, bisogna che gli anarchici s’interdicano l’occupazione
dei posti e soprattutto dei posti pagati.
Un anarchico funzionario
permanente e stipendiato d’un sindacato è un uomo perduto come anarchico.
Io non dico che
talvolta non possa fare del bene; ma è un bene che potrebbero fare, al suo posto
e meglio di lui, uomini di idee meno avanzate, mentre lui per conquistare e
mantenere il suo impiego deve sacrificare le sue opinioni personali e fare
spesso cose le quali non hanno altro scopo se non di farsi perdonare la menda
originale d’anarchico.
D’altra parte la questione è
chiara. Il sindacato non è anarchico, ed il funzionario è nominato e pagato dal
sindacato: se egli fà opera d’anarchico, si mette in opposizione con quelli che
pagano e bentosto perde il suo posto od è causa della dissoluzione del
sindacato; se, al contrario, compie la missione per la quale è stato nominato,
secondo la volontà della maggioranza, allora addio anarchismo.
Osservazioni analoghe feci
relativamente a quel mezzo d’azione proprio del sindacalismo che è lo sciopero
generale. Noi dobbiamo accettare, dissi, e propagare l’idea dello sciopero
generale come un mezzo assai agevole per cominciare la rivoluzione, ma non
dobbiamo crearci l’illusione che lo sciopero generale potrà rimpiazzare la
lotta armata contro le forze dello Stato.
È stato detto sovente che con
lo sciopero gli operai potranno affamare i borghesi e costringerli a cedere.
Non saprei immaginare una più grande assurdità. Gli operai sarebbero già da
gran tempo morti di fame prima che i borghesi, i quali dispongono di tutti i
prodotti accumulati, comincino a soffrire seriamente.
L’operaio, che
nulla possiede, non ricevendo più il suo salario dovrà a viva forza
impadronirsi dei prodotti: troverà i gendarmi, i soldati, i borghesi stessi che
vorranno impedirglielo; e la questione si dovrà bentosto risolvere a colpi di
fucile, di bombe, ecc. La vittoria resterà a chi saprà essere più forte.
Prepariamoci dunque a questa lotta necessaria, anziché limitarci a predicare lo
sciopero generale come una specie di panacea, che dovrà risolvere tutte le
difficoltà. Per conseguenza, anche come modo di cominciare la rivoluzione, lo
sciopero generale non potrà essere impiegato che in maniera assai relativa.
I servizi d’alimentazione, ivi compresi
naturalmente quelli dei trasporti delle derrate alimentari, non ammettono una
lunga interruzione: bisogna dunque rivoluzionariamente impadronirsi dei mezzi
per assicurare l’approvvigionamento anche prima che lo sciopero si sia, per se
stesso, svolto in insurrezione. Prepararsi a fare ciò non può essere funzione
del sindacalismo; questo può soltanto fornire le schiere per compierlo.
Su tali questioni, così
esposte da Monatte e da me, s’impegnò una discussione interessantissima,
quantunque un po’ soffocata dalla mancanza di tempo e dalla necessità seccante
di tradurre in parecchie lingue. Si concluse proponendo diverse risoluzioni, ma
non mi sembrò che le differenze di tendenze siano state felicemente definite;
occorre anzi molto acume per scoprirvele ed infatti la maggior parte dei
congressisti non ve ne scoprìrono affatto e votarono egualmente le diverse
risoluzioni.
Questo non
impedisce che due tendenze reali si siano manifestate, benché la differenza
esista più nella previsione delle sviluppo futuro, che nelle intenzioni attuali
delle persone. In effetti, sono convinto che Monatte ed il gruppo dei “giovani”
sono tanto sinceramente e profondamente anarchici e rivoluzionari quanto non
importa qual “vecchia barba”. Essi si dorranno come noi degli errori che si
produrranno fra funzionari sindacalisti; soltanto, essi li attribuiranno a
debolezze individuali. E qui sta l’errore. Se si trattasse di colpe imputabili
ad individui, il male non sarebbe grande: i deboli spariscono subito ed i
traditori sono subito conosciuti e messi nell’impossibili-tà di nuocere. Ma ciò
che rende il male serio, è che questo dipende dalle circostanze nelle quali i
funzionari sindacalisti si trovano. Io impegno i nostri amici anarchici
sindacalisti a riflettervi, ed a studiare le posizioni rispettive del
socialista che diventa deputato e dell’anarchico che diventa funzionario del
sindacato: forse il paragone non sarà inutile.
b. Gli
anarchici e le leghe operaie
Come abbiam detto altre
volte, e come giova sempre ripetere, noi siamo partigiani convinti del
movimento operaio, o sindacale che voglia dirsi.
Esso mette i lavoratori in
lotta contro gli sfruttatori, li abitua all’azione collettiva, alla pratica
della solidarietà ed offre un terreno propizio alla propaganda delle nostre
idee. Di più, esso dà il mezzo per potere, in date circostanze, chiamare il
popolo in piazza e realizzare una delle condizioni essenziali pèr una
insurrezione vittoriosa, e può sopperire poi alle prime necessità pratiche
dell’indomani della vittoria
Ma non per questo noi siamo
sindacalisti, se per sindacalismo s’intende quella dottrina che vede nel fatto
solo del sindacato operaio una virtù speciale che deve automaticamente, quasi
senza la coscienza e la volontà degli operai associati, portare all’emancipazione
dal giogo capitalistico ed alla costituzione di una nuova società.
Noi non crediamo a questa
virtù rinnovatrice propria del sindacato – ed i fatti non confortano a credervi.
I sindacati operai han
servito e servono ai conservatori, ai preti, agli arrivisti di tutte le specie,
come possono servire ai rivoluzionari, e se tendenza propria, naturale,
indipendente dalle influenze esterne, extraeconomiche, essi hanno, è piuttosto
quella di dividere la massa in corporazioni chiuse, lottanti per interessi
particolari in opposizione agli interessi della generalità.
I sindacati sorgono per
resistere alle esigenze dei padroni, per reclamare dei miglioramenti, per
affermare un desiderio di emancipazione, ed è bene, ma non basta. Se un
principio superiore di giustizia per tutti non ispira gli associati, se al di
sopra delle questioni d’interesse personale, immediato, non vi sono delle
aspirazioni ideali che spingono a sacrificare l’oggi per il domani, il bene
particolare per il bene generale, la lotta contro i padroni prende sempre, nella
pratica, un carattere come di concorrenza fra commercianti, e finisce in
transazioni ed accomodamenti, che creano forse nuovi privilegi per alcuni
favoriti dalle circostanze, ma confermano la massa nella sua servitù. E la
difesa della “tariffa sindacale” diventa lotta contro gli altri lavoratori e
contro il pubblico in generale.
Quindi quando noi domandiamo
che i sindacati siano neutri, cioè aperti a tutti i lavoratori senza
distinzioni di opinioni e di partiti, non è perché crediamo che basti associarsi
in vista della lotta economica e che il resto verrà da sè, ma è semplicemente
perché solo con la neutralità politica e religiosa si può raccogliere tutta la
massa, o gran parte della massa, per i fini della propaganda e dell’azione
rivoluzionaria. Vogliamo che i sindacati siano neutri, perché non possiamo
averli anarchici. E anarchici non possiamo averli, perché per questo
bisognerebbe che tutta la massa fosse anarchica, o altrimenti il sindacato si
confonderebbe col gruppo anarchico, e lo scopo di raccogliere gli arretrati per
propagandarli ed allenarli alla lotta verrebbe a mancare.
Secondo noi dunque, il sindacato deve restar
neutro, per poter restare aperto a tutti - ma nel suo seno bisogna lavorare
perché esso diventi di fatto sempre più rivoluzionario, sempre più socialista,
sempre più anarchico. E perciò gli anarchici dovrebbero prendere parte attiva
al movimento operaio, favorire e promuovere la costituzione di sindacati e
federazioni di sindacati, appoggiare e provocare scioperi, ed essere sempre
solidali cogli operai in qualunque lotta essi impegnino contro i padroni e
contro le autorità; ma dovrebbero farlo con criteri propri – cioè badando alle
finalità ulteriori più che al piccolo vantaggio immediato, agli effetti
educativi più che agli effetti puramente economici, e cercando di sviluppare e
mantener vivo lo spirito di combattività contro i padroni ed il sentimento di
fratellanza e di solidarietà con tutti gli oppressi, siano essi organizzati o
non organizzati.
Gli anarchici dovrebbero anzitutto combattere
contro la costituzione, nel seno del movimento operaio di una classe di
funzionari e di dirigenti che unirebbero coll’a-vere uno spirito e
degl’interessi opposti a quelli della massa, ed in ogni agitazione temerebbero
per i loro salari e le loro posizioni – e perciò dovrebbero cercare che il
lavoro di amministrazione ridotto alla più semplice espressione, sia fatto, per
quanto è possibile, gratuitamente, da volontari che si sostituiscono e si
alternano nelle cariche sociali: o quando fosse necessario compensare chi vi
dedica il suo tempo, che il compenso non sia superiore al salario medio che
guadagnano i lavoratori in quel dato mestiere, ed il personale impiegato si
rinnovelli il più sovente possibile.
Gli anarchici dovrebbero
cercare che l’organizzazione avesse una vita attiva, con riunioni generali e
discussioni frequenti per impedire che il socio comune finisca col diventare un
semplice passivo contributore di quote.
Dovrebbero impedire che le
leghe di resistenza si occupassero di mutuo soccorso, intraprese cooperative ed
altre mansioni che rifuggono naturalmente dai rischi della lotta e cointeressano
in certo modo il lavoratore al mantenimento dell’ordine vigente.
Dovrebbero combattere le alte
quote e la costituzione di forti casse, che paralizzano l’organizzazione
e ne arrestano lo slancio colla paura di perdere il denaro. Le leghe
dovrebbero, sì, educare i soci ai sacrifici anche pecuniari ma impiegare il
ricavato nella lotta, nella propaganda in opere di solidarietà senza accumulare.
Gli anarchici dovrebbero,
primi nei rischi e nei sacrifici, rifiutarsi assolutamente di servire da
intermediari coi padroni e colle autorità; ed in caso di sconfitta subirla, se
non si può fare altrimenti coll’animo intento alla rivincita, e non mai
accettarla come il risultato di un accordo che vi tiene moralmente obbligati.
Dovrebbero combattere ogni
contratto che lega i lavoratori per un dato tempo, e provocare in essi uno
stato d’animo che fa loro sentire la loro vera condizione di schiavi costretti
dalla forza, anche quando apparentemente sembrano liberi contraenti.
Questa tattica, che ci pare indicata dal fine che
gli anarchici si propongono, non è forse la più adatta per la costituzione di
associazioni, stabili, vaste e ricche. Ma noi non crediamo nell’utilità, nella
potenza reale di organizzazioni mastodontiche, che per la troppa mole non
possono muoversi e per il troppo denaro sviluppano istinti conservativi e
bottegai.
Quello che importa è lo
spirito di lotta, lo spirito di solidarietà, lo spirito di associazione. Se una
lega, una federazione si sfascia in conseguenza della lotta e delle
persecuzioni, non fa nulla, quando i suoi membri sono coscienti e le loro
aspirazioni sussistono: essa è presto ricostituita appena è passata la bufera.
Una forte, solida organizzazione che non si muove per paura di sfasciarsi è un
peso morto, un ostacolo al progresso.
Nel caso che esistano più
organizzazioni rivali, come è il caso ora in Italia con l’Unione Sindacale
e la Confederazione del Lavoro, quale é il contegno che debbano
tenere gli anarchici?
Secondo noi, gli anarchici
debbono favorire quelle organizzazioni che più si accostano ai loro metodi ed
ai loro ideali, e stare, nei periodi di lotta attiva, con quelle che sono in
lotta. Dal resto, entrare in tutte le organizzazioni, in tutti gli
aggruppamenti dove sia possibile farlo senza prendere impegni contrari alle
proprie convinzioni e dove si vede la probabilità di fare una propaganda utile
ed esercitare un’azione feconda. Tenersi estranei il più possibile alle beghe
personali, e spronare i lavoratori ad agire da loro stessi senza bisogno di
capi e soprattutto senza sposare gli odi e le rivalità di coloro che posano a
capi. Combattere l’ingerenza nelle organizzazioni operaie dei politicanti e
degli arrivisti che si vogliono far sgabello dei lavoratori per aprirsi una
carriera nel mondo borghese.
Vi sono degli anarchici che
avversano ogni organizzazione per la lotta economica e se ne tengono
rigorosamente lontani. A noi pare una tattica sbagliata.
Certamente la lotta economica
finché resta solo lotta economica, non può risolvere la questione sociale.
I miglioramenti possibili in
regime capitalista, se diventano generali, sono annullati dal gioco stesso dei
fattori economici, e quando si trattasse di attaccare nelle sue parti vitali il
privilegio dei proprietari, interverrebbe il potere politico a garantire colla
forza brutale il mantenimento dell’ordine legale.
Dunque la questione deve in
definitiva risolversi sul terreno politico, cioè colla lotta contro il governo.
Se i lavoratori riusciranno ad abbattere il governo, il quale in ultima analisi
non è che la forza annata che sta a difesa del privilegio, potranno prender
possesso della ricchezza sociale e divenire veramente liberi. Se no, no.
Ma per abbattere il governo
ed abbatterlo a scopo di emancipazione generale, bisogna avere con noi quanta
più massa è possibile, ed una massa quanto più è possibile cosciente dello scopo
per cui si deve fare la rivoluzione. E la massa non viene alle idee anarchiche
così di botto, senza un tirocinio più o meno graduale.
Bisogna dunque entrare in
contatto colla massa, per sospingerla avanti ed averla con noi in piazza, i
giorni della lotta risolutiva. Le organizzazioni economiche ci sembrano uno dei
mezzi migliori di cui disponiamo.
Certo
occorre nella preparazione dei mezzi non perdere di vista il fine. Ma occorre
pure di non trascurare, nella contemplazione astratta del fine, i mezzi atti a
raggiungerlo.
2.
NECESSITÀ E PROBLEMI
DEL
MOVIMENTO OPERAIO
a. Gli
anarchici nel movimento operaio
Lasciando da parte i
conservatori ed i borghesi di tutte le categorie i quali, se s’interessano alle
associazioni operaie, è semplicemente nello scopo di far argine con l’inganno
alla marea emancipatrice che sale e servirsi come mezzo di asservimento di un
movimento che per sua natura dovrebbe essere movimento di liberazione, vi sono
tra i riformatori sociali tre partiti (o scuole) principali, che si trovano, o
dovrebbero trovarsi, più o meno d’accordo nelle piccole lotte
quotidiane per la difesa degl’interessi operai in regime borghese, ma si
dividono radicalmente in quanto agli scopi ultimi a cui vogliono condurre il
movimento e quindi anche nel genere di propaganda che fanno nel suo seno e nei
tipi di organizzazione che preferiscono. Essi sono i socialisti, i sindacalisti
e gli anarchici, tutti e tre convinti che per emancipare i lavoratori ed
instaurare un migliore ordine sociale, bisogna abbattere il sistema
capitalistico, ma divisi sulla concezione della società futura e sulle vie per
arrivarvi.
I socialisti, fra i quali
comprendo anche la frazione che ora si intitola comunista, vogliono diventare
governo, non importa ora se con mezzi legali o con la violenza. Essi credono
possedere la ricetta per guarire tutti i mali e risolvere tutti i problemi
sociali, e vogliono imporre quella loro ricetta in nome di una pretesa
maggioranza legalmente constatata o con la dittatura usurpata da alcuni
individui in nome del loro partito. Le masse debbono servire solamente per
fornire i voti e le braccia necessarie per mandare al potere i capi del partito,
e tutta la tattica è diretta allo scopo di sottomettere al partito le
organizzazioni operaie. Perciò i dirigenti socialisti (e peggio se “comunisti”)
delle organizzazioni si sottraggono il più possibile al controllo degli
organizzati, soffocano ogni autonomia ed ogni spirito d’iniziativa e col
pretesto della disciplina nelle azioni collettive educano gli operai
all’ubbidienza passiva ai capi. In tal modo essi si foggiano l’arme per andare
al potere e preparano le masse a piegarsi docilmente sotto la fèrula del governo
di domani.
I sindacalisti hanno delle
concezioni più libertarie Essi vogliono rendere inutile lo Stato, esautorarlo e
distruggerlo mediante i sindacati che a poco a poco dovrebbero assorbire tutte
le funzioni della vita sociale. Naturalmente per questo è necessario che i
mezzi di produzione (terra, materie prime macchine, ecc.) fossero diventate
proprietà collettiva dei sindacati, comunque federati tra loro.
Non è qui il luogo di discutere questo programma;
ma è certo che per attuarlo bisognerebbe prima espropriare i detentori della
ricchezza sociale, e siccome essi sono difesi dalla forza armata dello Stato,
bisognera vincere questa forza. È perciò i sindacalisti quantunque in teoria
amino dire che il sindacalismo basta a sé stesso, debbono poi nella pratica, o
pensare ad impadronirsi dello Stato, col voto o con la violenza, e diventano
socialisti, o pensare a distruggerlo e diventano anarchici.
Questa loro inconsistenza
programmatica si rispecchia nella storia delle organizzazioni operaie a tendenza
sindacalista: presto o tardi si presentano le circostanze in cui dal terreno
puramente sindacale bisognò passare alla lotta politica propriamente detta, ed
allora viene fuori la divergenza e l’incompatibilità tra i riformisti ed i
rivoluzionari, i parlamentaristi e gli antiparlamentaristi, i socialisti e gli
anarchici, che si trovavano riuniti sotto il mantello di una mentita neutralità
sindacale. E allora cominciano le lotte intestine e le scissioni. Intanto,
finché l’equivoco dura, si fa in quelle organizzazioni opera d’azione diretta,
si lascia libertà di propaganda alle correnti più avanzate e si abituano le
masse ad una fierezza e ad una volontà di lotta che è ottimo tirocinio per
preparare alla rivoluzione. Noi anarchici non possiamo identificarci con quelle
come con nessun’altra organizzazione operaia, ma dobbiamo preferirne
alle altre come il campo più adatto per estendere la nostra influenza,
incoraggiarle, parteciparvi in tutti i modi non contraddittori con le idee
nostre, senza per questo inibirci l’entrata in qualsiasi altra organizzazione
dove crediamo poter fare opera utile di propaganda di critica e di sprone. È
quello che più o meno bene si è fatto finora; ora è tempo, io credo, di
concordare un piano più organico per poter agire con maggiore efficacia. sul
movimento e meglio utilizzarlo ai nostri fini
Le organizzazione
operaie vivono in tali condizioni, subiscono necessità tali che la posizione
degli anarchici che vi lavorano dentro diventa difficile, e certe volte
incompatibile sempre che dalla predicazione teorica, dalla propaganda
avveniristica bisogna passare alle misure pratiche richieste dalla lotta
effettiva.
Fatte per difendere gli
interessi attuali, immediati degli operai in regime di proprietà privata e di
salariato, proponendosi di riunire il più gran numero possibile di lavoratori
senza badare alle differenze di opinioni religiose e politiche o alla mancanza
di una qualsiasi opinione determinata, dovendo attenuare gli effetti senza
poter distruggere le cause della soggezione dei lavoratori, anche quando nel
programma hanno scritto l’abolizione del salariato e l’emancipazione integrale,
debbono nella pratica quotidiana accettare il fatto del dominio e del profitto
capitalistico e limitarsi e rendere, mediante una continua resistenza, meno
assoluto quel dominio ed assicurare al produttore una meno scarsa parte del
prodotto. In esso anche il più deciso rivoluzionario deve subire il metodo
riformista che è quello di conquistare poco a poco dei miglioramenti, che poi si
perdono tutto d’un tratto quando le cause persistenti del male sociale, cioè il
profitto e la concorrenza capitalistica, menano alle ricorrenti crisi di
disoccupazione e di concorrenza per il pane tra gli stessi salariati. Poiché
tutti i vantaggi del metodo rivoluzionario, buoni a mettere avanti per far
comprendere la necessità della rivoluzione, non hanno efficacia positiva se non
quando la rivoluzione si fa. E la rivoluzione non si può fare tutti i giorni!
Ma questo è il meno. L’inconveniente più grave sta
nel fatto degli interessi contrastanti tra le diverse categorie di lavoratori e
tra ciascuna categoria di produttori ed il pubblico dei consumatori.
Si suol dire che i proletari
hanno un interesse comune nella lotta contro i padroni e quindi debbono essere
tutti solidali tra di loro – ed è vero se si tratta dell’interesse di abolire il
patronato ed instaurare una società in cui tutti lavorino per il maggior bene
di ciascuno e di tutti. Ma non è punto vero nella società attuale dove
l’industriale ed il proprietario di terre per far salire i prezzi ed assicurarsi
un maggiore profitto e per poter inoltre mantenere bassi i salari, cercano di
limitare la produzione e causano la penuria dei prodotti e mancanza di lavoro.
Così si stabilisce un
antagonismo spesso involontario ed inconscio, ma naturale e fatale tra chi
lavora e chi è disoccupato, tra chi ha un posto buono e sicuro e chi guadagna
poco e sta sempre in pericolo di essere licenziato, tra chi sa il mestiere e chi
vuole impararlo, tra il maschio che ha il monopolio della professione e la donna
che si affaccia sul terreno della concorrenza economica, tra l’indigeno e
l’immigrato, tra lo specialista che vorrebbe proibire agli altri la sua
specialità e gli altri che non vogliono riconoscere il monopolio, e poi in
generale tra categoria e categoria secondo che gl’interessi transitori o
permanenti dell’una contrastano cogli interessi dell’altra. Alcune categorie si
avvantaggiano della protezione doganale, altre ne soffrono; alcune desiderano
certi interventi dall’autorità statali, certe leggi e certi regolamenti, mentre
altre lottano in migliori condizioni se il governo non si mischia dei loro
affari.
D’altra parte esiste un
antagonismo permanente fra ciascuna categoria di lavoratori e gli altri
lavoratori in quanto sono consumatori dei prodotti di quella. Ogni aumento di
salario di una categoria si traduce in un aumento di prezzo dei suoi prodotti e
causa danno al pubblico, fino a quando l’aumento dei salari di tutte le
categorie ristabilisce l’e-quilibrio e rende illusorio il benefizio
dell’aumento.
Così avviene che tante
organizzazioni operaie, sorte per iniziativa di pochi generosi con largo
spirito di solidarietà umana e fieri propositi di battaglia, si sono poi, a
misura che son cresciute di numero e di potenza, moderate, corrotte e
trasformate in corporazioni chiuse, preoccupate solo dell’interesse dei soci in
opposizione ai non soci.
Aggiungiamo a tutto questo la
burocrazia parassitaria che si sviluppa nel loro seno, i capi che s’installano
alla dirigenza e manovrano come dei semplici politicanti per restarvi in
permanenza, gli scopi politici antiproletari o antilibertari a cui spesso sono
fatti servire, i contatti ripugnanti ma inevitabili colle autorità, e ci
spiegheremo facilmente l’antipatia e l’ostilità, che certi compagni, ora credo
ridotti a pochissimi, manifestano contro le organizzazioni operaie.
Ma è consigliabile, è utile,
è possibile per gli anarchici restar fuori delle organizzazioni operaie, o
parteciparvi solo passivamente, semplicemente in quanto sono operai che hanno
bisogno di lavorare e non vogliono fare i crumiri?
A me sembra che sarebbe una
sciocchezza, che ammonterebbe in pratica ad un tradimento della causa
rivoluzionaria, o più generalmente, della causa del progresso e della
emancipazione umana.
Il movimento operaio è ormai
uno dei fattori principali della storia di oggi e di quella del prossimo domani,
e disinteressarsene significherebbe mettersi fuori della vita reale,
rinunziare ad esercitare un’azione sensibile sugli avvenimenti, lasciare che i
socialisti, i comunisti, i clericali ed altri partiti di governo difendendo o
affettando di difendere gl’interessi attuali degli operai, interessi piccoli e
transitori ma pur necessari a chi vive oggi, acquistino la fiducia delle masse e
se ne servano per arrivare al potere, con questo o con un altro regime, e
mantenere il popolo nella schiavitù.
Le organizzazioni operaie per la resistenza contro
i padroni sono il mezzo migliore, forse l’unico accessibile a tutti, per
entrare in contatto permanente colle grandi masse, farvi la propaganda delle
idee nostre, predisporle alla rivoluzione e spingerle o trascinarle in piazza
per qualunque azione preparatoria o definitiva. In esse gli oppressi ancora
docili e sommessi s’iniziano alla coscienza dei loro diritti e della forza che
possono trovare nell’accordo coi compagni di oppressione, in esse comprendono
che il padrone è il loro nemico, che il governo, già ladro ed oppressore per la
natura sua, è sempre pronto a difendere i padroni, e si preparano
spiritualmente al rovesciamento totale del vigente ordine sociale.
Fuori delle associazioni
operaie noi possiamo fare la propaganda orale e scritta, organizzare gruppi di
studio o d’azione, pagare di persona in tutte le occasioni, ma resteremmo sempre
impotenti a dare un indirizzo nostro al corso degli eventi e dovremmo accodarci
agli altri, offrirci agli altri, i quali sfrutterebbero il nostro lavoro ed i
nostri sacrifici per fini non nostri, anzi contrari ai nostri.
D’altronde, a causa del
nostro programma, noi siamo più che qualunque altro partito interessati ad un
largo sviluppo del movimento operaio. Noi non vogliamo governare e vogliamo nel
limite delle nostre forze impedire che altri governino, cioè che impongano con
la forza i propri piani ed i propri sistemi di vita sociale. Noi vogliamo che la
nuova società si sviluppi secondo il volere libero, cangiante, progrediente
delle masse (di cui naturalmente siamo parte anche noi) e per farlo è utile,
necessario che il giorno della rivoluzione vi sia un numero quanto più grande è
possibile d’operai comunque organizzati, pronti a continuare la produzione, a
stabilire le necessarie relazioni tra paese e paese e tra categoria e categoria,
provvedere alla distribuzione ed a tutti i bisogni della vita, senza affidare
a nessuno il potere di imporre con la forza delle “guardie rosse” i propri
voleri ed i propri interessi.
Dunque a parer mio, gli
anarchici dovrebbero penetrare in tutte le organizzazioni operaie, farvi
propaganda acquistarvi influenza ed accettare in esse tutte le funzioni e tutte
le responsabilità compatibili con la loro qualità di anarchici.
La cosa non è senza pericoli
d’addomesticamento di deviazione, di corruzione e molti dolorosi e vergognosi
esempi si possono citare contro la mia tesi.
Ma come fare? Se si vuole
agire bisogna correre i rischi dell’azione, che in questo caso sono rischi
morali, e diminuirli colla prescrizione di una linea di condotta ben determinata
e con un continuo mutuo controllo tra compagni.
Se vi sono dei compagni i
quali considerano l’anarchia come un ideale di perfezione individuale e sociale
che si realizzerà forse tra qualche migliaio d’anni, e credono che tutto quello
che v’è da fare oggi sia il tenere la fiaccola accesa per il culto di pochi,
essi hanno delle buone ragioni per tenersi lontani dai contatti impuri e dalle
posizioni compromettenti.
Ma la grande maggioranza
degli anarchici ed in specie quelli aderenti all’UA.I.
sono d’opinione se io non interpreto male il loro pensiero, che gl’individui non
si perfezionerebbero e l’anarchia non si realizzerebbe nemmeno fra qualche
migliaio d’anni, se prima non si creasse per mezzo della rivoluzione fatta
dalle minoranze coscienti il necessario ambiente di libertà e di benessere. Per
questo vogliamo fare la rivoluzione al più presto possibile, e per farla abbiamo
bisogno di mettere a profitto tutte le forze utili e tutte le
circostanze opportune cosi come la storia ce le fornisce.
Le
organizzazione operaie non possono essere composte di soli anarchici e non è
desiderabile che lo fossero, perché allora sarebbero un inutile duplicato dei
gruppi anarchici e mancherebbero al loro scopo specifico. Gli anarchici che vi
lavorano dentro non possono sempre condursi da anarchici come non si può
condursi da anarchici vivendo nella società attuale, ma vi possono costituire
dei gruppi anarchici che esercitino un’azione di propulsione e di controllo e
debbono condursi da anarchici quanto più è possibile.
Vi sono in Italia varie
grandi organizzazioni operaie. Noi dobbiamo lavorare e lottare in tutte quante,
perché in tutte vi sono sfruttati che han bisogno di emanciparsi, in tutte si
può far propaganda e dar l’esempio dell’energia e dello spirito di solidarietà.
Dove è il caso, dobbiamo preferire quelle che più si avvicinano a noi, ma non
dobbiamo abbandonare le altre al monopolio dei nostri avversari. E dobbiamo
appoggiarci ed intenderci tra noi per il lavoro che facciamo nelle varie
organizzazioni e per l’atteggiamento da prendere e per l’azione da svolgersi
nelle varie occasioni.
Perciò io proporrei che tutti
gli anarchici che si trovano in grado di esercitare dell’influenza nelle
organizzazioni operaie stabiliscano tra di loro un’intesa permanente e si
tengano in rapporti regolari per agire d’accordo.
b. La
funzione del sindacato nella rivoluzione
Il mio articolo recente su
Sindacalismo e Anarchismo ha suscitato dei dubbi in alcuni compagni, che pur
sono d’accordo sulla tesi generale ch’io sostenevo.
Uno di essi mi scrive: “Visto
che non salteremo a piè pari dalla società borghese a quella anarchica bell’e
organizzata, non potrebbero essere i sindacati – quelli dei mestieri utili, si
capisce, non quelli dei marmisti o dei gioiellieri! – gli organi per lo meno
provvisori necessari a continuare l’organizzazione della produzione e della
distribuzione che dovrà continuare senza interruzione anche in periodo
rivoluzionario?”
Perfettamente. Ed appunto
perché sono convinto che i sindacati possono e debbono esercitare una funzione
utilissima, e forse necessaria, nel passaggio della società attuale alla società
ugualitaria, io vorrei che essi fossero giudicati al loro giusto valore e che
si tenesse sempre presente la loro naturale tendenza a diventare delle
corporazioni chiuse indente solo a propugnare gl’interessi egoistici della
categoria, o, peggio ancora, dei soli organizzati, per potere meglio combatterla
ed impedire che essi diventino degli organi di conservazione. Così come appunto
perché riconosco l’utilità grandissima che possono avere le cooperative
nell’abituare gli operai alla gestione dei loro affari e del loro lavoro, e
funzionare, all’inizio della rivoluzione, quali organi già pronti per
l’organizzazione della distribuzione dei prodotti e servire come centri di
attrazione intorno a cui si potrà raccogliere la massa della popolazione, io
combatto lo spirito bottegaio che tende naturalmente a svilupparsi in esse e
vorrei che esse fossero aperte a tutti, che non dessero alcun privilegio ai
loro soci e soprattutto che non si trasformassero come avviene spesso, in vere
società anonime capitalistiche che impiegano e sfruttano dei salariati e
speculano sui bisogni del pubblico.
Secondo me, cooperative e
sindacati, tali quali sono in regime capitalistico, non portano naturalmente,
per loro forza intrinseca, all’emancipazione umana (è questo il punto
controverso), ma possono produrre il male o il bene, essere organi oggi di
conservazione o trasformazione sociale, servire domani la reazione o la
rivoluzione, secondo che si limitino alla loro funzione propria di difensori
degli interessi attuali dei soci, o siano animati e travagliati dallo spirito
anarchico, che fa loro dimenticare gl’interessi in omaggio agli ideali. E per
spirito anarchico intendo quel sentimento largamente umano che aspira al bene
di tutti, alla libertà ed alla giustizia per tutti, alla solidarietà, ed
all’amore fra tutti, e che non è dote esclusiva degli anarchici propriamente
detti, ma anima tutti gli uomini di cuore buono e d’intelligenza aperta.
Per sé stesso il movimento
operaio, mirando alla protezione degl’interessi attuali dei lavoratori e più
specialmente dei membri di ciascun sindacato, tende naturalmente a diminuire la
concorrenza sul mercato del lavoro per poter meglio resistere alle pretese dei
padroni, ad ostacolare l’entrata di nuovi soci alle organizzazioni arrivate ad
un certo limite di potenza, a fare del lavoro qualificato e meglio pagato un
privilegio degli organizzati, a creare insomma una nuova classe privilegiata,
un nuovo ceto interessato ad intendersela coi padroni, a diventare complice
dello sfruttamento capitalistico, colla compartecipazione agli utili, coll’azionariato
operaio, ecc, a danno della grande massa dei diseredati, condannati ai lavori
puramente manuali e divenuti servi delle macchine e poco più che pezzi di
macchine.
Questo può non accadere se vi
è spirito di ribellione nella massa, e se una luce ideale illumina ed eleva
quegli operai meglio dotati e più favoriti dalle circostanze che sarebbero in
grado di costituire la nuova classe privilegiata. Ma è indubitato che se si
resta sul terreno della difesa degl’interessi attuali che è il terreno proprio
dei sindacati, poiché gli interessi non sono armonici né possono armonizzarsi in
regime capitalistico, la lotta tra i lavoratori è un fatto naturale e può anche
in certe circostanze e fra certe categorie diventare più accanita che tra
lavoratori e sfruttatori.
Per
convincersene basta osservare quello che sono le maggiori organizzazioni
operaie nei paesi in cui vi è molta organizzazione e poca propaganda, o
tradizione rivoluzionaria
c. Lo
sciopero generale
Lo “sciopero generale” è
certamente un’arma potente di lotta nelle mani del proletariato ed è, o può
essere, un modo ed un’occasione per determinare una radicale rivoluzione
sociale. Eppure io mi domando se l’idea dello sciopero generale ha fatto più
male che bene alla causa della rivoluzione!
In realtà io credo che nel
passato il male abbia superato il bene; e che oggi potrebbe essere il contrario,
cioè potrebbe lo sciopero generale essere veramente un mezzo efficace di
trasformazione sociale solo se fosse inteso e praticato in modo diverso da
quello che usavano i vecchi sciopero-generalisti.
Nei primi tempi del movimento
socialista, e specialmente in Italia ai tempi della prima Internazionale,
quando era fresca ancora la memoria delle lotte mazziniane ed erano vivi in gran
parte gli uomini che avevano combattuto per “l’Italia”, nelle file garibaldine e
che si trovavano disillusi ed indignati per lo scempio che monarchici e
capitalisti facevano dell’Italia vera, si comprendeva chiaramente che il regime
sostenuto dalle baionette non poteva essere abbattuto se non convertendo in
difensori del popolo una parte dei soldati e vincendo in lotta armata le forze
di polizia e quella parte di soldati restata fedele alla disciplina. E perciò si
cospirava, cioè si faceva propaganda attiva tra i soldati, si cercava di
armarsi, si preparavano piani di azione militare.
I risultati, a dir vero,
erano meschini, perché si era in pochi, perché gli scopi sociali per i quali si
voleva fare la rivoluzione erano misconosciuti e respinti dalla generalità,
perché insomma “i tempi non erano maturi”.
Ma la volontà della
preparazione insurrezionale vi era e trovava poco a poco il mezzo di
realizzarsi, la propaganda incominciava ad estendersi e portare i suoi frutti;
“i tempi maturavano”, in parte per opera diretta dei rivoluzionari e più per
l’evoluzione economica che acuiva il conflitto, e sviluppava la coscienza del
conflitto, tra lavoratori e padroni, e che i rivoluzionari mettevano a
profitto.
Le speranze della rivoluzione
sociale crescevano, e sembrava certo che, tra lotte, persecuzioni, tentativi più
o meno “inconsulti” e sfortunati, soste e riprese di attività febbrile, si
arriverebbe, in un tempo non troppo lontano, a determinare lo scoppio finale e
vittorioso, che doveva abbattere il regime politico ed economico vigente ed
aprire le vie ad una più libera evoluzione verso nuove forme di convivenza
sociale, basate sulla libertà di tutti, la giustizia per tutti, la fratellanza
e la solidarietà fra tutti.
Ma poi, a frenare l’impulso
volontaristico della gioventù socialista (allora si chiamavano socialisti anche
gli anarchici) venne il marxismo coi suoi dogmi e col suo fatalismo. E
disgraziatamente con le sue apparenze scientifiche (si era in piena ubriacatura
scientificista) il marxismo illuse, attrasse e sviò anche la più parte degli
anarchici.
I marxisti incominciarono a
dire che ‘‘la rivoluzione viene, ma non si fa”, che il socialismo verrebbe
necessariamente per il “fatale andare” delle cose, e che il fattore politico
(che è poi la forza, la violenza messa a servizio degl’interessi economici) non
ha importanza e che il fatto economico determina tutta quanta la vita sociale. E
così la preparazione insurrezionale fu trascurata e praticamente abbandonata.
Di passaggio noterò che quei
marxisti che disprezzavano tanto la lotta politica, quando essa era lotta
tendenzialmente insurrezionale, decisero poi che la politica era il mezzo
principale e quasi esclusivo per far trionfare il socialismo non appena
intravidero la possibilità di andare al parlamento e di dare alla lotta politica
il significato restrittivo di lotta elettorale; e si sforzarono con questo di
spegnere nelle masse ogni entusiasmo per l’azione insurrezionale.
In questo stato di cose ed in
questa disposizione generale degli spiriti fu lanciata l’idea dello sciopero
generale, che fu accolta entusiasticamente da quelli che non avevano fiducia
nell’azione parlamentare e vedevano aperta una nuova e promettente via
all’azio-ne popolare.
Il guaio però fu che i più
videro nello sciopero generale non un mezzo per trascinare le masse
all’insurrezione, cioè all’abbattimento violento del potere politico ed alla
presa di possesso della terra, degli strumenti di produzione e di tutta la
ricchezza sociale, ma vi videro un sostituto dell’insurrezione, un modo per
“affamare la borghesia” e farla capitolare senza colpo ferire.
E poiché è fatale che il
comico ed il grottesco si mescolino sempre anche nelle cose più serie vi furono
di quelli che cercavano delle erbe e delle “pillole” capaci di sostenere
indefinitamente il corpo umano senza mangiare per indicarle ai lavoratori e
metterli in grado di aspettare, in un pacifico digiuno, che i borghesi venissero
a chiedere scusa e perdono.
Ecco perché ritengo che
l’idea dello sciopero generale ha fatto danno alla rivoluzione. Ora spero e
credo che l’illusione di far capitolare la borghesia per fame sia completamente
sparita – e se un poco ne era restata i fascisti si sono incaricati di
dissiparla.
Lo sciopero generale di protesta, o per appoggiare
delle rivendicazioni economiche o politiche, compatibili col regime, se fatto
in momento propizio, quando governo e padroni trovano opportuno cedere subito
per paura di peggio, può giovare. Ma bisogna non dimenticare che bisogna
mangiare tutti i giorni e che, se la resistenza si prolunga solo per parecchi
giorni, bisogna o piegarsi ignominiosamente al giogo padronale, o insorgere...
anche se il governo o le forze irregolari della borghesia non prendono
l’iniziativa della violenza.
Dal che si deduce che uno
sciopero generale sia in vista di una soluzione definitiva, sia per scopi
transitori, deve essere fatto con la disposizione, e la preparazione, di
risolvere la questione colla forza.
3. IL
SINDACATO COME MEZZO DI LOTTA E DI EDUCAZIONE RIVOLUZIONARIA E COME NUCLEO
FUTURO DI RIORGANIZZAZIONE SOCIALE
a. La
condotta degli anarchici nel movimento operaio (Rapporto al Congresso
Anarchico Internazionale di Parigi del 1923)
(...) Noi abbiamo sempre
compreso la grande importanza del movimento operaio e la necessità per gli
anarchici di esserne parte attiva e propulsiva. E spesso è stato per
l’iniziativa di compagni nostri che si sono costituiti aggruppamenti operai più
vivi e più progressivi.
Abbiamo sempre pensato che il
sindacato è, oggi, un mezzo perché i lavoratori incomincino a comprendere la
loro posizione di schiavi, a desiderare l’emancipazione e ad abituarsi alla
solidarietà con tutti gli oppressi nella lotta contro gli oppressori – e domani
servirà come primo nucleo necessario alla continuità della vita sociale ed alla
riorganizzazione della produzione senza padroni e parassiti.
Ma abbiamo sempre discusso, e
spesso dissentito, sui modi come l’azione anarchica doveva esplicarsi nei
rapporti coll’organizzazione dei lavoratori.
Bisognava entrare nei
sindacati, o restarne fuori, pur prendendo parte a tutte le agitazioni e
cercare di dar loro il carattere più radicale possibile e mostrarsi primi
nell’a-zione e nei pericoli?
E soprattutto, se dentro dei
sindacati, bisognava o no assumere cariche direttive e quindi prestarsi a
quelle transazioni, quei compromessi, quegli accomodamenti, a quei rapporti con
le autorità e coi padroni, a cui debbono adattarsi, per volere degli stessi
lavoratori e per il loro interesse immediato, nelle lotte quotidiane quando non
si tratta di fare la rivoluzione, ma di ottenere dei miglioramenti o difendere
quelli già conseguiti?
Nei due anni che seguirono la
pace e fino alla vigilia del trionfo della reazione per opera del fascismo noi
ci trovammo in una singolare situazione.
La rivoluzione sembrava
imminente, e vi erano infatti tutte le condizioni materiali e spirituali perché
essa fosse possibile e necessaria. Ma noi anarchici mancavamo di gran lunga
delle forze occorrenti per fare la rivoluzione con metodi e uomini
esclusivamente nostri: avevamo bisogno delle masse, e le masse erano bensì
disposte all’azione, ma non erano anarchiche. D’altronde una rivoluzione fatta
senza il concorso delle masse, anche se fosse stata possibile, non avrebbe
potuto metter capo che ad una nuova dominazione, la quale anche se esercitata
da anarchici sarebbe sempre stata la negazione dell’anarchismo, avrebbe
corrotto i nuovi dominatori e sarebbe finita colla restaurazione dell’ordine
statale e capitalistico.
Ritrarsi dalla lotta,
astenersi perché non potevamo fare proprio come avremmo voluto, sarebbe stato
un rinunziare ad ogni possibilità presente o futura, ad ogni speranza di
sviluppare il movimento nella direzione da noi desiderata - e rinunziarvi non
solo per quella volta, ma per sempre, poiché non si avranno mai masse anarchiche
prima che la società sia trasformata economicamente e politicamente, e la
stessa situazione si ripresenterà tutte le volte che le circostanze renderanno
possibile un tentativo rivoluzionario.
Occorrerà dunque a qualunque
costo acquistare la fiducia delle masse, mettersi in posizione di poterle
spingere in piazza e per questo appariva utile conquistare nelle organizzazione
operaie cariche direttive. Tutti i pericoli d’addomesticamento e di
corruzione passavano in secondo luogo, e d’altronde si supponeva che non
avrebbero avuto il tempo di realizzarsi. Quindi si venne alla conclusione di
lasciare a ciascuno la libertà di regolarsi secondo le circostanze e come meglio
credeva, a condizione di non dimenticare mai di essere anarchico e di farsi
sempre guidare dall’interesse superiore della causa anarchica.
Ma ora, dopo le ultime
esperienze, e vista la situazione attuale che non ammette connubi transitori e
domanda un ritorno rigoroso ai principi per trovarsi meglio preparati e più
profondamente convinti nelle prossime evenienze, mi pare che convenga
ritornare sulla questione e vedere se sia il caso di modificare la tattica su
questo punto importantissimo della nostra attività.
Spero che il Congresso vorrà
esaminare la questione coll’attenzione che merita. Secondo me, bisogna entrare
nei sindacati, perché standone fuori se ne appare nemici, la nostra critica è
guardata con sospetto e nei momenti di agitazione saremmo considerati come
intrusi e male accetto sarebbe il nostro concorso.
Parlo, s’intende, dei veri
sindacati composti di lavoratori liberamente associati per difendere i loro
interessi contro i padroni e contro il governo; e non già dei sindacati
fascisti, spesso reclutati a suon di bastonate e colla minaccia della fame, i
quali sono un’arma di governo ed un tentativo per meglio sottomettere i
lavoratori alle esigenze padronali. Bisogna entrare nei sindacati ed esercitarvi
opera di propulsione, per dare loro un carattere sempre più libertario e
vigilare e criticare e combattere le possibili debolezze e defezioni dei
dirigenti.
Ed in quanto a sollecitare ed
accettare noi stessi il posto di dirigenti credo che in linea generale ed in
tempi calmi è meglio evitarlo. Però credo che il danno ed il pericolo non stia
tanto nel fatto di occupare un posto direttivo – cosa che in certe circostanze
può essere utile ed anche necessaria – ma nel perpetuarsi in quel posto.
Bisognerebbe, secondo me, che il personale dirigente si rinnovasse il più
spesso possibile, sia per abilitare un più gran numero di lavoratori alle
funzioni amministrative, sia per impedire che il lavoro d’organizzazione diventi
un mestiere ed induca quelli che lo compiono a portare nelle lotte operaie la
preoccupazione di non perdere l’impiego. E tutto questo non solo nell’interesse
attuale della lotta e dell’educazione dei lavoratori, ma anche e maggiormen-te
in vista dello svolgimento della rivoluzione dopo che la rivoluzione sarà
iniziata.
A giusta ragione gli
anarchici si oppongono al comunismo autoritario, il quale suppone un governo,
che, volendo dirigere tutta la vita sociale e mettere l’organizzazione della
produzione e la distribuzione delle ricchezze sotto gli ordini di funzionari
suoi, non può non produrre la più esosa tirannia e la paralizzazione di tutte
le forze vive della società.
Ma questa espropriazione e
questa distribuzione non possono, in pratica, essere fatte tumultuariamente,
dalla massa anche se sindacata, senza produrre uno sperpero esiziale di
ricchezze ed il sacrificio dei più deboli per opera dei più forti e brutali; e
anche meno si potrebbero in massa stabilire gli accordi fra le diverse località
e gli scambi fra le diverse corporazioni di produttori. Bisognerebbe dunque
provvedere per mezzo di deliberazioni prese in assemblee popolari ed eseguite da
gruppi ed individui o spontaneamente offertisi o regolarmente delegati.
Ora, se v’è un ristretto
numero d’individui che per lunga abitudine sono conoide-rati capi dei sindacati,
se vi sono segretari permanenti ed organizzatori ufficiali, saranno essi che
automaticamente si troveranno. Incaricati di organizzare la rivoluzione, ed
essi avranno tendenza a considerare come intrusi ed irresponsabili quelli che
vorranno prendere delle iniziative indipendenti da loro, e vorranno imporre, sia
pure colle migliori intenzioni la loro volontà – magari con la forza. Ed allora
il regime sindacalista diventerebbe presto la stessa menzogna e la stessa
tirannia che è diventata la cosiddetta dittatura del proletariato.
Il rimedio a questo pericolo
e la condizione perché la rivoluzione riesca veramente emancipatrice stanno nel
formare un gran numero d’individui capaci di iniziativa e di opere pratiche,
nell’abituare le masse a non abbandonare la causa di tutti nelle mani di
qualcuno e a delegare, quando delegazione è necessaria, solo per incarichi
determinati e per tempo limitato. Ed a creare una siffatta situazione ed un
siffatto spirito è mezzo efficacissimo il sindacato se organizzato e vissuto con
metodi veramente libertari.
b.
L’unità sindacale
Si sente oggi da molti il
bisogno di arrivare all’“Unità sindacale”, vale a dire di fondere insieme in un
solo grande organismo le varie organizzazioni operaie che, pur avendo comune lo
scopo della difesa e dell’attacco contro lo sfruttamento capitalistico, sono
state finora divise ed in lotta tra di loro a causa di differenze nei fini
ultimi che si propongono e nei mezzi di lotta preferiti, e spesso, purtroppo,
per ambizioni di capi e rivalità di reclutamento. E già qualche risultato
pratico sulla via dell’unione è stato raggiunto, come è la fusione dell’Unione
Italiana del Lavoro e di qualche organizzazione bianca del Cremonese e del
Bergamasco colla Confederazione Generale del Lavoro.
Io, anche se dovessi su
questo punto trovarmi in disaccordo con qualche compagno particolarmente
affezionato ad una speciale organizzazione benemerita del proletariato italiano
e più affine alle idee ed ai metodi anarchici, mi auguro che il movimento
fusionista continui e progredisca fino ad abbracciare tutti quei lavoratori che
in un grado qualunque ed in un qualsiasi modo sentono l’ingiustizia di cui sono
vittime nell’attuale società, che vogliono lottare contro i padroni per il
miglioramento e per l’emancipazione e che, comprendendo l’impotenza in cui si
trova il lavoratore isolato, cercano nella solidarietà coi loro compagni di
classe la forza di cui hanno bisogno. E vorrei che i nostri compagni
accettassero e magari si facessero antesignani di questa tendenza, che
rappresenta poi l’intimo desiderio di quel gran numero di lavoratori che si
sentono fratelli con tutti quelli che lavorano e soffrono con loro e non
comprendono le ragioni di certe divisioni e spesso, a causa di quelle divisioni,
si appartano sfiduciati e disgustati – non già, s’intende, perché gli anarchici
indulgano ai metodi dei dirigenti della Confederazione generale, ma perché
cerchino di far trionfare colla propaganda e coll’esempio i metodi che credono
migliori e soprattutto fraternizzino colle masse organizzate nella
Confederazione e facciano in modo, per quel che da loro dipende, che tutti i
lavoratori siano uniti e solidali nella lotta Contro i padroni.
È certo che la divisione
della parte eletta del proletariato tra diverse organizzazio-ni rivali ed ostili
fa sciupare in lotte intestine quelle forze che dovrebbero essere tutte
impiegate nell’ educazione e nella lotta contro il nemico comune, come è certo
che quella divisione fu una delle cause precipue per cui il proletariato fu
sconfitto e sottoposto ad un rincrudimento di oppressione, proprio quando
sembrava che fosse alla vigilia della vittoria. Quindi è urgente che tutti
coloro che vogliono sinceramente e senza mire personali l’elevazione dei
lavoratori e l’umana emancipazione, facciano il possibile per giungere alla
desiderata unione. E naturalmente noi saremmo fieri se i compagni nostri, gli
anarchici, si distinguessero per il loro zelo in quest’opera salutare.
Sennonché i partiti politici,
i quali del resto sono stati spesso gli originatori ed i primi animatori del
movimento sindacale, vollero servirsi delle associazioni operaie come campo di
reclutamento e come strumenti pei loro fini speciali di rivoluzione o di
conservazione sociale. Quindi le divisioni tra la classe operaia organizzata in
vari raggruppamenti sotto l’ispirazione dei vari partiti. Quindi il proposito di
coloro che vogliono l’unità proletaria di sottrarre i sindacati alla tutela dei
partiti Politici.
Però in questo affermato
proposito di sottrarsi all’influenza dei partiti politici, di “escludere la
Politica dai sindacati” si nasconde un equivoco ed una menzogna.
Se per politica s’intende ciò
che riguarda l’organizzazione dei rapporti umani e più specialmente i rapporti
liberi o coatti tra cittadini e l’esistenza o meno dì un “governo” che assommi
in sé i pubblici poteri e si serva della forza sociale per imporre la propria
volontà e difendere gl’interessi di sé stesso e della classe da cui emana, è
evidente che essa politica entra in tutte le manifestazioni della vita sociale,
e che un’organizzazio-ne operaia non può essere realmente
indipendente dai partiti se non diventando essa stessa un partito.
Infatti, oggi stesso che
tanto si parla di unità, vediamo che la Confederazione generale, mentre si
dichiara autonoma da tutti i partiti politici, tende a diventare essa stessa
“partito del lavoro”, cioè un partito politico con i suoi scopi ed i suoi
metodi particolari, che nel suo caso sarebbero metodi principalmente
parlamentari. Come del resto, a parte le questioni di parole, fu in realtà
sempre un partito l’Unione Sindacale Italiana, come partiti o appendici,
“masse di manovra” di partiti sono l’Unione Italiana del Lavoro e le
organizzazioni bianche
È vano dunque sperare, e per
me sarebbe male il desiderare, che la politica sia esclusa dai sindacati, poiché
ogni questione economica di qualche importanza diventa automaticamente una
questione politica ed è sul terreno politico, cioè colla lotta tra governati e
governanti che si dovrà risolvere in definitiva la questione dell’emancipazione
dei lavoratori e della libertà umana. Ed è naturale, è chiaro, che debba essere
così.
Quindi necessariamente le
organizzazioni operaie debbono proporsi una linea di condotta di fronte
all’azione attuale o potenziale dei governi.
Ora, come fare a mantenere
l’unità quando vi sono quelli che vogliono servirsi della forza
dell’associazione per andare al governo, e quelli che credono che ogni governo è
necessariamente oppressore e nefasto e quindi vogliono avviare quella stessa
associazione alla lotta contro ogni istituzione autoritaria presente o futura?
Come tenere insieme socialdemocratici, “comunisti” di Stato e anarchici?
Ecco il problema. Problema
che si può eludere in certi momenti, in occasione di una lotta concreta che
riunisce tutti, o almeno una grande massa, in un interesse ed un desiderio
comuni, ma che risorge sempre e non è facile risolvere fino a che esistono
condizioni di violenza e diversità di opinione sul modo di resistere alla
violenza.
Ma allora, quale è la via di
uscita di queste difficoltà, e quale è la condotta che in questa questione
dovrebbero tenere gli anarchici?
Per me il rimedio sarebbe:
intesa generale e solidarietà nelle lotte puramente economiche; autonomia
completa degli indìvidui e dei vari raggruppamenti nelle lotte politiche. Ma è
possibile vedere a tempo dove la lotta economica diventa lotta politica? E vi
sono lotte economiche importanti che l’intervento del governo non renda
politiche fin dall’inizio?
In ogni modo noi anarchici
dovremmo portare la nostra attività in tutte le organizzazioni per predicarvi
l’unione fra tutti i lavoratori, la tolleranza reciproca, l’autono-mia dei vari
aggruppamenti, il decentramento la libertà d’iniziativa, nel quadro comune
della solidarietà contro i padroni.
E non far gran caso se la
mania di accentramento e dì autoritarismo degli uni, e l’insofferenza degli
altri ad ogni anche ragionevole disciplina mena a nuovi frazionamenti
Poiché, se l’organizzazione
dei lavoratori è una necessità primordiale per le lotte di oggi e per le
realizzazioni di domani, non ha grande importanza l’esistenza e la durata di
questa o di quella determinata organizzazione. L’essenziale è che si sviluppi
nei singoli lo spirito d’organizzazione il senso della solidarietà,
la convinzione della necessità dì cooperazione fraterna per combattere
l’oppressione e realizzare una società in cui tutti possano godere di una vita
veramente umana.
4. Le idee ed i fatti
1. LA CRISI ATTUALE DELL’ANARCHISMO NEL MOVIMENTO
SOCIALE
a. Quel che vogliamo
Sono
ormai quarant’anni che le idee anarchiche han preso consistenza di ideale
completo di demolizione e ricostruzione sociale; quarant’anni che gli anarchici
predicano e lottano e soffrono; quarant’anni che i più devoti tra loro
languono per le prigioni o lasciano la vita sui patiboli. Sono i risultati in
proporzione del tempo decorso, degli sforzi e dei sacrifici fatti?
La nostra critica ha
trionfato di tutti i sofismi con cui si pretende giustificare il sistema sociale
attuale: il nostro pensiero ha agito sulla letteratura e sulla scienza; le
nostre previsioni sull’evoluzione delle istituzioni e dei partiti si vanno
verificando, a riprova della giustezza delle nostre idee: l’opera nostra, o il
bisogno di opporsi all’opera nostra, ha spinto in avanti gli altri partiti, o
ne ha limitato la regressione; il nostro numero è cresciuto. Ma è la nostra
influenza sul movimento sociale proporzionata al valore delle nostre idee, alla
somma di energie spese e di sacrifici fatti, o anche semplicemente alla nostra,
per quanto scarsa forza numerica? Certamente no!
Nel corso degli anni molte
occasioni si sono presentate in cui avremmo potuto affermarci efficacemente, ed
esse ci han sempre trovati impreparati, disorganizzati, incerti, capaci solo di
proteste senza portata o di sacrifici quasi inutili.
Recentemente il governo
d’Italia impegnò il paese in una guerra infame, e non potemmo opporre nessuna
valida resistenza e dovemmo assistere impotenti allo spettacolo doloroso di un
popolo che dimentica i suoi più vitali interessi e le sue più nobili
tradizioni, che rinnega ogni sentimento di giustizia e di liberta e si fa
strumento volenteroso in mano ai suoi oppressori per conquistar loro, fra la
strage e le devastazioni, nuovi sudditi da sfruttare ed opprimere.
Ed oggi che la massa
incomincia a rinsavire ed il momento sarebbe propizio per raccogliere le nostre
forze, iniziare una larga e sistematica propaganda e prepararci per poter
mettere a profitto gli eventi che maturano, oggi ancora noi restiamo impotenti
ed inerti, perché divisi ed indecisi sul da farsi; o, almeno, gli sforzi che
già fanno tanti compagni devoti sono ancora impari al bisogno ed alle
possibilità, e perciò noi, con questo giornale, veniamo ad aggiungervi i nostri.
Occorre indagare le ragioni
del nostro insuccesso, e portarvi rimedio. Certamente, grandi sono le forze che
dobbiamo combattere ed abbattere, immensi i pregiudizi che dobbiamo sradicare,
le energie che dobbiamo scuotere; ed era naturale che le illusioni di rapidi,
immediati successi che animavano i primi assertori dell’anarchismo si
dileguassero al contatto delle dure realtà della vita.
Ma oltre i ritardi, le
oscillazioni, gl’insuccessi causati dalle fatali lentezze dell’e-voluzione
sociale, vi sono state, secondo noi, errori e deficienze nostre, che avrebbero
potuto essere evitate se avessimo avuto una più chiara concezione della via da
percorrere, una più coerente attività, una maggiore resistenza contro le mille
cause dì deviazione . .
Noi siamo nel regime attuale,
la minoranza ribelle: una minoranza che è convinta che il male dipenda dalle
basi stesse della costituzione sociale e che vuole perciò la distruzione
radicale di tutto il sistema.
Noi dobbiamo dunque suscitare
ne] popolo la coscienza dei suoi diritti e della sua forza, dobbiamo svelare
tutti gli errori, le menzogne, le ingiustizie che formano il fondamento della
società presente, dobbiamo sforzarci di propagare, pur tra gli ostacoli e le
difficoltà dell’ambiente, il nostro ideale di libertà, di giustizia, di
solidarietà umana; dobbiamo favorire tutto ciò che può servire ed educare e
migliorare gl’individui; ma non dobbiamo mai dimenticare che, in ultima analisi,
la società presente si regge sulla forza brutale, sulla forza delle baionette e
dei cannoni, e che è solo con la forza che si potrà risolvere la grande
vertenza.
È vero che la società attuale
sarebbe, se la borghesia fosse più intelligente e meno gretta, suscettibile di
miglioramento. Molte sofferenze sono inutili e dannose agl’interessi dei
dominatori, e quindi possono essere alleviate anche in regime autoritario e
capitalistico. E noi siamo lieti di ogni cambiamento che venga a lenire i dolori
dei lavoratori, aumentando nello stesso tempo la forza di resistenza e di
attacco. Ma, preoccupati sopratutto dell’avvenire, volendo fare la
rivoluzione e non farci distributori di palliativi, noi non sapremmo lottare per
i piccoli miglioramenti se non in modo ed in limiti tali che essi non servano ad
addormentare il popolo e a menomare la capacità rivoluzionaria nostra.
Questa necessità dell’insurrezione che deriva
logicamente dal genere di rivoluzione che vogliamo fare e dalla natura
dell’ideale cui aspiriamo, fu chiaramente intuita ed affermata nei primi tempi
della propaganda e dell’azione anarchica. E conformemente ad essa agirono i
primi anarchici, quando l’idea nostra, pur nuova e povera di seguaci, riuscì ad
imporsi all’attenzione del pubblico e fu la speranza degli oppressi, il terrore
degli oppressori.
I successi naturalmente non
sempre rispondevano alle speranze che l’entusiasmo giovanile aveva fatto
nascere nell’animo degli audaci, che, in pochi e senza mezzi, osavano
continuamente sfidare in tutti i modi i governi ed i padroni. Ma intanto l’idea
si propagava, la tattica sì perfezionava, e tra l’alternarsi di subiti
entusiasmi e transitori scoraggiamenti, si andava verso il giorno in cui il
partito anarchico, conquistata a sé la parte più cosciente dei lavoratori, e
profittando di una crisi politica ed economica come quelle che fatalmente si
producono in una società in cui tutti gli interessi sono antagonistici,
avrebbero potuto, anche col concorso occasionale di altri partiti propensi ad
insorgere per i loro fini particolari, spingere le masse alla lotta, disfare le
forze opprimenti dello Stato, metter mano sull’arca santa della proprietà
individuale, e cominciare così la rivoluzione sociale.
Ma a questo punto, sopravvenne una deviazione
che fu fatale a tutto il movimento. Una parte importante di rivoluzionari,
quelli che volevano come gli anarchici la socializzazione della ricchezza, ma
non accettavano il loro programma antistatale ed aspiravano alla conquista dei
poteri governativi, comprendendo forse che una lotta condotta con metodi
illegali sarebbe probabilmente riuscita contraria alla costituzione di un nuovo
regime autoritario, si avvisarono di entrare nelle vie della legalità ed
adottare la lotta elettorale come mezzo precipuo di azione. E con essi si
unirono molti, anche venuti dagli anarchici, che erano stanchi di una lotta che
presentava molti pericoli e poche speranze di immediate soddisfazioni personali,
e furono felici di mascherare con pretesti speciali la loro stanchezza od il
loro tradimento.
E tutti costoro, che
costituirono il partito socialista democratico, una volta entrati nella via
elettorale e parlamentare, scesero rapidamente di transazione in transazione, e
divennero ben tosto un elemento di conservazione, e furono e sono spesso la
migliore difesa dell’ordine borghese contro gli scoppi sempre possibili della
collera popolare.
D’altra parte molti
anarchici, vedendo che le masse seguivano più volentieri quella che sembrava la
via più facile e che meglio rispettava la loro energia, perdettero fede nella
possibilità dell’insurrezione e, o restarono sfiduciati ed inerti, o cercarono
per altre vie la realizzazione dei loro ideali, che pur non possono realizzarsi,
né in tutto né in parte, se prima non si è abbattuto il regime vigente. Mentre
coloro che conservavano chiaro il concetto del fine da raggiungere, e dei metodi
che esso fine domanda ed impone, furono impotenti ad arrestare lo sfacelo. E
così non solo non potemmo più determinare delle correnti d’opinione a noi
favorevoli, ma quando si sono presentati dei fatti, di fronte ai quali ci
conveniva prender partito, siamo restati disorientati, incerti, divisi.
Ma tutto questo è il passato, ed a noi ciò che
importa è l’avvenire. Bisogna rimettersi all’opera con l’energia, l’entusiasmo,
lo spirito di sacrificio che già furono doti caratteristiche degli anarchici.
Bisogna riaffermare i nostri ideali e la nostra tattica, e spargerne largamente
la conoscenza fra le masse. Bisogna far sentire la nostra azione in tutte le
manifestazioni della vita sociale. Bisogna coordinare tutte le nostre attività
allo scopo che ci prefiggiamo: la rivoluzione per l’anarchia e pel comunismo.
b.
Insurrezionalismo o evoluzionismo?
È vecchio tema quello di
rivoluzione e evoluzione, continuamente discusso, e continuamente rinascente, a
causa sopratutto dell’equivoco prodotto dal vario significato che si può dare
alle due parole. La parola evoluzione a volte si prende nel senso generico di
cambiamento ed allora afferma un fatto generale della natura e della storia sul
quale si può discutere dal punto di vista della scienza, ma che non è messo in
dubbio da nessuno nel campo della sociologia; a volte si prende nel senso di
cambiamento lento, graduale, regolato da leggi fisse nel tempo e nello spazio,
che esclude ogni salto, ogni catastrofe, ogni possibilità di esser affrettato o
ritardato e sopratutto di essere violentato e diretto dalla volontà umana in un
senso o nell’altro, ed allora essa vuole contrapporsi alla parola ed all’idea di
rivoluzione.
E la parola rivoluzione essa pure, secondo che
meglio torna alla tesi che si vuol sostenere, ora si prende nel senso di
cambiamento radicale, profondo delle istituzioni sociali ed in quel senso tutti
– meno forse i religiosi i quali credono che le cose sono quali sono per volontà
di Dio e saran sempre così – tutti possono dirsi rivoluzionari solo che usino la
prudenza di rimandare a tempi lontanissimi (a tempi maturi, come dicono)
l’attuazione dei cambiamenti auspicati; ed ora si prende nel senso di
cambiamento violento, fatto per forza contro le forze conservatrici ed allora
implica lotta materiale, insurrezione armata, con il corteggio di barricate,
bande armate, sequestro dei beni della classe contro cui si combatte; sabotaggio
dei mezzi di comunicazione, ecc. E perciò si è discusso e si torna a discutere
senza mai arrivare ad intendersi (o non intendersi) in modo chiaro e definitivo.
Noi, in presenza di certe idee che si sono
manifestate nel campo nostro e che potrebbero essere il germe di una nuova
deviazione (da aggiungersi al parlamentarismo al cooperativismo
all’educazionismo ecc.), e produrre un nuovo arresto del nostro rinascente
movimento crediamo bene mettere ancora una volta in discussione il vecchio
argomento, e per essere più chiari, invece di contrapporre rivoluzione ed
evoluzione, diremo insurrezione ed evoluzione e ciò non tanto nella speranza di
metter tutti d’accordo, quanto col desiderio di evitare confusioni e distinguere
bene tra coloro che la rivoluzione la vogliono fare oggi, domani, il più presto
possibile insomma, e quindi vogliono lavorare a prepararla, e quelli che
predicando che la rivoluzione la dovranno fare i nostri figli o i nostri
nipoti, inducono la gente, sia pure involontariamente, a cercar di cavare il
più che si può dalle circostanze attuali, a non pensare più ad una rivoluzione
oramai rimandata alle generazioni future e quindi a trovarsi sorpresi ed
impreparati quando capitano le occasioni.
La questione è questa. Per
produrre un cambiamento politico-sociale è egli necessario che il regime
vigente sia esaurito e che nella coscienza di tutti, o almeno della maggioranza,
si sia formato un desiderio ed un concetto chiaro della specie di cambiamento da
produrre? Ed è possibile che in un dato regime sociale, si formi una coscienza
universale favorevole al cambiamento fondamentale di detto regime? O non è vero
piuttosto che ogni regime, nato per imposizione forzata sulle masse,
ricalcitranti forse ma incapaci di azione collettiva e cosciente cari scopi
predeterminati, tende a consolidarsi e farsi accettare, correggendo i suoi
difetti, compensando nel miglior modo possibile i mali che produce e creando
una mentalità pubblica adatta al suo mantenimento; e quindi è tanto più forte
quanto più ha durato? Non è egli vero che le rivoluzioni, i progressi di tutte
le specie, si fanno per opera di minoranze, spesso sparute, che alterando di
fatto (colla forza quando si tratta di istituzioni che colla forza negano alle
minoranze il diritto di agire) le condizioni ambientali, e utilizzando gli
istinti oscuri, i bisogni incoscienti delle masse, le trascinano con loro e le
incamminano sopra una via novella?
I marxisti, che tanta influenza hanno avuto, e
tanta nefasta, sulle tendenze del socialismo contemporaneo han cullato i
malcontenti ed. i ribelli coll’idea che il sistema capitalista portava in sè i
germi di morte, e colla concentrazione della ricchezza il numero sempre più
piccolo di persone e colla miseria crescente menava fatalmente alla
trasformazione sociale
E gli educazionisti d’altro
lato, han creduto e credono ancora che a forza di propagar l’istruzione, di
predicare il libero pensiero, la scienza positiva, ecc., di istituire università
popolari e scuole moderne, si possa distruggere nelle masse il pregiudizio
religioso, la soggezione morale al dominio statale, la credenza dei diritti
sacrosanti delle proprietà, e rendere così insopportabile a tutti, e
quindi incapace di reggersi, il regime di menzogna d’ingiustizia e di
oppressione che si mira a distruggere.
E ora si aggiunge il
sindacalismo dottrinario il quale pretende che l’organizzazio-ne operaia il
sindacato conduca per sua virtù propria automaticamente, alla distruzione del
salariato e dello Stato.
Ora, sta avvenendo invece che
il capitalismo si allarga e si rafforza; ed i marxisti, rinunciando in pratica
se non in teoria ai dogmi della scuola, si danno a predicare e favorire riforme
che, quando fossero possibili, non farebbero che consolidare il capitalismo
stesso, mitigandone gli effetti omicidi, e sostituendo alla lotta di classe un
accordo tra lavoratori e capitalisti che renderebbe più stabili e più sicure le
condizioni degli uni e degli altri e tenderebbe ad evitare quei conflitti dai
quali potrebbe nascere la rivoluzione. E dove il capitalismo individuale si
mostra impotente a garantire la stabilità sociale, cioè la perpetuazione del
privilegio, già sta per essere sostituito dal capitalismo di Stato, in cui i
privilegiati invece di capitalisti si chiamerebbero funzioni ed il popolo di
lavoratori sarebbe ridotto a gregge, forse un po’ meglio pasciuto, forse un po’
meno esposto alle alee della disoccupazione e della vecchiaia ma più schiavo che
in regime capitalista.
Da un altro lato il movimento
operaio, a misura che si allarga e si normalizza tende a salvaguardando
gl’interessi immediati come si può mediante gli accordi coi padroni, e, peggio
ancora, tende a creare privilegi e quindi rivalità di categorie ed a preparare
un quarto stato, una nuova classe di privilegiati che lascerebbe sotto di
sè la grande massa più oppressa e più incapace di riscossa che mai.
E gli educazionisti debbono
pur vedere quanto sono impotenti i loro sforzi generosi, paralizzati dalla
scarsezza dei mezzi, dalle persecuzioni, o quanto meno dall’opposi-zione sorda
dei poteri pubblici, e sopratutto dall’influenza dell’ambiente; e debbono con
gran dolore e grande disillusione osservare come l’oscurantismo, clericale e
laico, tiene trionfalmente il campo contro il progredire e il propagarsi della
scienza.
Non v’è dunque, secondo noi,
da illudersi, finché durano le condizioni economiche e politiche attuali, di
poter elevare sensibilmente la coscienza delle masse e trasformare l’ambiente
in modo da renderlo atto alla realizzazione dei nostri ideali.
Ma il mondo non resta
immobile per questo. Fortunatamente v’è in ogni tempo ed in ogni luogo delle
minoranze che sfuggono, in un grado più o meno grande, all’influenza
dell’ambiente e sono capaci di rivolta morale, che poi si trasforma in rivolta
di fatto e può trionfare quando le circostanze si prestano e le minoranze
sparse sappiano intendersi e concorrere all’opera comune.
E se lo scopo fosse una
semplice rivoluzione politica, un semplice cambiamento di governo, o anche un
cambiamento più profondo ma fatto per opera di governo, l’insur-rezione
trionfante di queste minoranze basterebbe ad attuarne il programma, come è
bastato nelle rivoluzioni passate e contemporanee. Ma noi vogliamo una
rivoluzione profonda, che trasformi tutte le condizioni della vita, che metta
tutto il popolo, cioè tutti gl’individui che formano il popolo, in grado di
concorrere direttamente alla costituzione delle nuove forme di convivenza
sociale, e perciò dall’insurrezione noi non ci aspettiamo, non possiamo
aspettarci, l’attuazione immediata e generale delle nostre idee, ma solo la
creazione di circostanze più favorevoli alla nostra propaganda ed alla nostra
azione, il principio insomma della nostra Rivoluzione. E questo noi potremo
conseguire, poiché, quando il governo attuale sarà abbattuto da una
insurrezione, quando non avremo più contro tutte le forze dello Stato, che si
sommano nella forza materiale dell’esercito e della polizia, anche se gli altri
partiti che avranno concorso all’insurrezione mirano, come certamente mireranno,
alla costituzione di nuovi governi, di nuovi organismi autoritari ed oppressivi
noi non prometteremo al popolo di fare il suo bene, ma lo spingeremo a farselo
da sè stesso, a prendere possesso della ricchezza, a esercitare di fatto la
libertà conquistata, in modo che esso popolo senta immediatamente i vantaggi
della rivoluzione e sia interessato al suo trionfo e stia, almeno in parte, con
noi per opporsi al nuovo giogo sotto cui lo si vorrebbe mettere.
Praticamente: dovunque in Italia si è fatto
della propaganda con una certa attività ed una certa costanza si è riusciti a
cavar fuori dei nuclei anarchici più o meno numerosi. Sperare che questi nuclei
abbiano ad ingrossare indefinitamente fino a comprendere tutta quanta la
popolazione di ciascuna località, o la più gran parte di essa, sarebbe andare
incontro ad una sicura disillusione. Ogni località contiene, in date
circostanze, un numero limitato d’individui più o meno suscettibili di
comprendere e far sue le nostre aspirazioni quindi più grande è la propaganda
che si è fatta in un posto e più difficili sono i progressi ulteriori.
Ma noi siamo lungi di aver
raccolti, anche nelle località più lavorate, tutti gli elementi disponibili e di
averli coltivati quando è possibile – e quel che è più, vi è in Italia un
numero infinito di località, vi sono intere regioni, in cui la propaganda
anarchica non è mai penetrata. Perciò la rivoluzione, ma una rivoluzione in
cui sia ben marcata l’impronta anarchica, può apparire oggi difficile o
impossibile. Ma se noi lavoreremo con attività e costanza, se intensificheremo
la nostra propaganda nei luoghi dove già esistiamo se faremo tutto il possibile
per penetrare, di vicino a vicino, nei paesi dove siamo ancora ignorati, noi
potremo presto coprire gran parte d’Italia di una rete di gruppi anarchici
capaci d’intesa e d’azione concentrata. E allora, se avremo la volontà ferma di
fare la rivoluzione di farla noi, di farla oggi, allora le occasioni non
mancheranno… e se mancheranno le creeremo.
2.
LA SETTIMANA ROSSA
a.
Manifesto degli anarchici al popolo
Non sappiamo ancora se
vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La
Romagna è in fiamme, in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone
della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro
gli assalti popolari; il Quirinale è sfuggito, per ora, all’invasione della
massa insorta, ma è sempre minacciato. A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a
Napoli agitazione e conflitti. E da tutte le parti giungono notizie, incerte,
contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il
governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia
repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici. La monarchia è condannata.
Cadrà oggi, o cadrà domani ma cadrà sicuramente e presto. È il momento di
mettere in opera tutta la nostra energia, tutta la nostra attività. Qualunque
debolezza, qualunque esitazione sarebbe oggi non solo vigliaccheria, ma una
sciocchezza. All’opera tutti, con tutte le forze disponibili.
La
necessità del momento.
Poiché lo sciopero di
protesta si è sviluppato in rivoluzione bisogna provveder alle necessità della
rivoluzione. E prima di tutto (dopo l’attacco e la difesa contro le forze
governative) bisogna provvedere all’alimentazione della cittadinanza. Bisogna
che nessuno manchi di pane che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali
siano forniti di tutto l’occorrente. Perciò le Camere del lavoro, le
organizzioni operaie ed i comitati di volontari prendano le misure necessarie
perché il servizio di approvvigionamento e di distribuzione proceda
regolarmente sufficientemente.
Noi non intendiamo ora,
abolire la proprietà individuale. ma pretendiamo che i proprietari, i
negozianti, i venditori di tutte le specie non abusino della circostanza per
strozzare la popolazione e pretendiamo che si provveda per conto del municipio,
per conto della collettività a coloro che sono sprovveduti di ogni mezzo per
comprare il necessario. Il dazio è abolito, per volontà della popolazione,
bisogna che quest’abolizione vada a vantaggio di tutti, e non già a
profitto dei negozianti. La roba deve essere venduta al prezzo di prima, meno
importo del dazio. Provvedano a questo i Cittadini stessi per mezzo della
Camera del Lavoro, delle varie associazioni e dei comitati rionali di
volontari.
Ora non è più il caso di
preoccuparsi se un barbiere, per esempio, ha servito o no un cliente, o se un
trattore ha aperto o no la sua bottega. Ora non è più sciopero, è rivoluzione; e
bisogna provvedere alle due prime necessità della rivoluzione: la difesa armata
e l’alimentazione del popolo Ciascuno faccia quello che può, non si sciupi la
roba, né il pane, né le munizioni. E si badi di non abusare di bevande
alcoliche; perché è tempo di tenere la testa a posto.
Il
tradimento.
Si è fatto correr la voce che
la Confederazione Generale del Lavoro ha ordinato la cessazione dello
sciopero. La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata inventata e
propagata dal governo collo scopo di gettare il dubbio in mezzo ai lavoratori
ed arrestarne lo slancio magnifico. Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che
a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La
Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita. Già si annunzia che
le Camere del Lavoro di Milano e di Bologna si sono rivoltate agli ordini. La
Camera del Lavoro di Ancona è autonoma. L’Unione Sindacale Italiana
certamente non mancherà il suo dovere. I ferrovieri hanno quasi completamente
arrestato il servizio, e le linee sono state manomesse in modo che non è
possibile al governo di ripararle nel breve tempo che gli resta di vita.
E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero, ma di RIVOLUZIONE.
Il movimento incomincia
adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i
traditori! Evviva la rivoluzione!
b. E ora?
Ora… continueremo.
Continueremo più che mai pieni d’entusiasmo fatto di volontà, di speranza, di
fede. Continueremo a preparare la rivoluzione liberatrice, che dovrà assicurare
a tutti la giustizia, la libertà, il benessere. Se il governo e la borghesia
s’immaginano di aver vinto la rivoluzione e d’averla domata, s’accorgeranno un
giorno quanto mai è grande il loro errore. Questa volta non han vinto
che uno scoppio spontaneo d’indignazione popolare: non hanno avuto che un
piccolo saggio della collera che van seminando nell’a-nimo dei lavoratori.
Sentiranno un’altra volta il basta formidabile del proletariato, che
porterà fine al regime.
Le nostre intenzioni erano
modeste. Appena all’inizio della nostra preparazione, quando non ancora erano
sparite le ultime tracce dell’ubriacatura libica e il risveglio del popolo
italiano era, nella più gran parte del paese, solo da poco incominciato, noi
non pensavamo certamente di poter fare la rivoluzione con i comizi ed i cortei
del giorno dello Statuto. Noi intentavamo soltanto di far sentire al governo la
necessità di far liberare le vittime militari (Masetti, Moroni, Fioravanti e
gli altri) e di abolire le compagnie di disciplina. La stupida proibizione dei
comizi ed il feroce eccidio di Villa Rossa spinsero le cose ben oltre le nostre
intenzioni e le nostre speranze. Senza intesa, senza preparazione, tutta Italia
insorse indignata, ed in molte parti lo sciopero generale di protesta assunse
subito aspetto di rivolta aperta contro le istituzioni dello Stato. Ed il
movimento si andava allargando ed intensificando e nessuno può dire dove
sarebbe finito, se in sul bel principio non fosse venuto a fermarlo
quell’ordine della Confederazione Generale del Lavoro, che se fu un
segnalato servizio reso al governo, fu perciò stesso il più nero tradimento
perpetrato contro il proletariato italiano. Chi vorrà potrà dire ormai che la
rivoluzione è impossibile e che l’insurrezione popolare è roba da quarantotto?
Estendete ad una gran parte d’Italia – e la cosa si va facendo quasi diremo da
sé – lo stato d’animo dei lavoratori di Romagna e delle Marche, e
l’insurrezione scoppia e trionfa spontaneamente per un’occasione qualsiasi.
La lezione di questi giorni
agitati non deve andar perduta. Noi abbiamo visto che le masse sono sensibili e
disposte alla lotta. Abbiamo visto che le differenze di scuole, di tendenze, di
partito non impediscono un’azione comune per uno scopo comune, e che lo sciopero
generale è ottimo mezzo per incominciare un movimento rivoluzionario, ma che
non può continuare come sciopero senza stancare la popolazione e ridurla alla
fame; e che perciò l’astensione dal lavoro deve ben presto cambiarsi in lavoro
fatto a favore della collettività, ed in organizzazione della raccolta e
distribuzione dei generi di consumo a beneficio di tutti. Abbiamo visto che gli
avvenimenti impreveduti danno quel che possono dare, ma che per riuscire
bisogna prepararsi metodicamente secondo piani preordinati. Ed abbiamo visto
ancora che le occasioni possono capitare quando uno meno se lo aspetta, e che
perciò bisogna star pronti sempre. Tutto quanto non sarà stato visto
inutilmente.
E che
cosa farà il governo? V’è che parla di biechi propositi di repressione, e non
mancano giornali che spingono il governo su quella via, e designano specialmente
noi ai suoi colpi. Non crediamo che il governo vorrà aumentare il
discredito delle istituzioni violando le leggi fatte per sorreggerle. Poiché è
bene si sappia, noi, pur essendo nemici delle leggi, per misura di prudenza e
finche siamo i più deboli cerchiamo di non esporci alle loro sanzioni. Noi
vogliamo fare la rivoluzione e la prepariamo; ma la prepariamo alla luce del
sole, colla propaganda scritta e orale, suscitando nelle masse la coscienza dei
loro diritti e delle loro forze ed ispirando loro l’ideale di una civiltà
superiore, e cercando di mettere pace e concordia fra i proletari ed
affratellarli nella lotta contro il nemico comune, E tutto questo, per quanto
profondamente sovversivo nel fine, è anche perfettamente legale. In ogni modo
noi stiamo a vedere quel che faranno e ci regoleremo in conseguenza. Il governo
si trova in una tragica posizione. O ci lascia tranquilli e noi continueremo
tranquillamente l’opera nostra, o si abbandona a persecuzioni, e farà più
propaganda in nostro favore di quella che potremo mai fare noi stessi. Il regime
è condannato, e non si salva più, né con le blandizie né con i rigori. Solamente
la rivoluzione sarà tanto meno violenta, il trapasso alla nuova società tanto
meno doloroso, quanto meno violenta sarà la resistenza.
c.
Movimenti stroncati
Settimana Rossa
– Corre in certi ambienti la
leggenda ch’io sia stato l’organizzatore della “Settimana Rossa” del 1914.
Grande onore per me, ma purtroppo non meritato! La “Settimana Rossa” non fu un
movimento preparato e voluto, ma avvenne impensatamente per la reazione
spontanea di un popolo fiero ad una provocazione insensata e sanguinosa della
forza pubblica.
Le cose andarono così. Da parecchio tempo i
partiti sovversivi e specialmente gli anarchici ed i sindacalisti si agitavano
per ottenere la liberazione di Masetti e l’abolizione delle Compagnie di
disciplina. Conferenze e comizi si moltiplicavano; ma gli effetti erano scarsi
ed il governo non dava segni di cedere. Si cercava qualche altro modo di
manifestazione più clamoroso, che potesse scuotere l’opinione pubblica ed
impressionare le autorità. In un comizio in Ancona un militare (che non nomino
perché non so se ora ne avrebbe piacere) lanciò una proposta che fu accolta con
entusiasmo. Siccome si avvicinava la prima domenica di giugno, in cui il mondo
ufficiale commemora “la concessione” dello Statuto Albertino con riviste
militari, ricevimenti reali e prefettizi, noi, diceva il proponente, dovremmo
impedire o almeno disturbare la festa; convochiamo per il giorno dello Statuto
comizi e cortei in tutte le città d’Italia ed il governo sarà costretto a
tenere le truppe consegnate in quartiere o occupate in servizio di pubblica
sicurezza e le riviste non potranno farsi.
L’idea, fatta sua dal
periodico Volontà che stampavamo allora in Ancona, fu sostenuta e
propagata con calore, e quando giunse la prima domenica di giugno, attuata in
molte città. Le riviste non si fecero: la manifestazione era riuscita, e noi non
avremmo per allora spinte le cose più oltre, anche perché andava maturando in
Italia un movimento generale e non avevamo interesse a spendere le nostre forze
in tentativi isolati. Ma la stupidaggine e la brutalità della polizia disposero
altrimenti.
In Ancona la mattina le
truppe erano restate consegnate e non v’era stato nulla di grave. Nel pomeriggio
vi fu un comizio nel locale dei repubblicani a Villa Rossa, e dopo che ebbero
parlato oratori dei vari partiti e spiegato le ragioni della manifestazione, la
folla incominciò ad uscire. Ma alla porta c’era la polizia che intimava di
sciogliersi e ritirarsi, mentre poi cordoni di carabinieri chiudevano tutte le
strade per le quali si poteva andar via ed impedivano il passaggio. Ne nacque un
conflitto; i carabinieri fecero fuoco ed ammazzarono tre giovani.
Immediatamente i tram
cessarono di circolare, tutti i negozi si chiusero e lo sciopero generale si
trovò attuato senza che ci fosse bisogno di deliberano e proclamarlo. L’
indomani ed i giorni susseguenti Ancona si trovò in stato d’insurrezione
potenziale. Dei negozi d’armi furono saccheggiati, delle partite di grano
furono requisite, una specie d’or-ganizzazione per provvedere ai bisogni
alimentari della popolazione si andava abbozzando. La città era piena di
truppa, navi da guerra si trovavano nel porto, ma l’autorità pur facendo
circolare grosse pattuglie, non osava reprimere, evidentemente perché non si
sentiva sicura dell’obbedienza dei soldati e dei marinai. Infatti soldati e
marinai fraternizzavano col popolo; le donne, le impareggiabili donne
anconetane, carezzavano i soldati, distribuivano loro vino e sigarette, li
inducevano a mischiarsi colla folla; qua e là degli ufficiali erano sputacchiati
e schiaffeggiati in presenza delle loro truppe e i soldati lasciavano fare e
spesso incoraggiavano con cenni e con parole. Lo sciopero prendeva ogni giorno
più il carattere di insurrezione, e già dei proclami dicevano chiaramente che
non si trattava più di sciopero e che bisognava riorganizzare sopra nuove basi
la vita cittadina.
Intanto il movimento si era
propagato con rapidità fulminea nelle Marche e nelle Romagne e già si estendeva
in Toscana ed in Lombardia. Lo stato d’animo dei lavoratori era propizio ad un
cambiamento di regime. L’accordo tra i partiti rivoluzionari s’era fatto da sè,
e, malgrado che i Pirolini e i Chiesa e i Pacetti correvano in automobile per
deprecare il movimento, i lavoratori repubblicani lottavano in bell’armonia
cogli anarchici e con la parte rivoluzionaria dei socialisti.
Si stava per passare agli
atti risolutivi. Lo sciopero a tendenza insurrezionale si estendeva. I
ferrovieri si apprestavano a prendere in mano la direzione del servizio per
impedire le dislocazioni di truppe e non far viaggiare che i treni utili per il
movimento insurrezionale. La rivoluzione stava per farsi, per impulso spontaneo
delle popolazioni, e con grandi probabilità di successo.
Certamente noi si sarebbe in
quel momento attuata l’anarchia e nemmeno il socialismo, ma si sarebbero levato
di mezzo molti ostacoli e si sarebbe aperto il periodo di libera propaganda, di
libera e sperimentazione, e sia pure di lotte civili, in capo al quale noi
vediamo rifulgere il trionfo del nostro ideale. Ma tutto ad un tratto, quando
maggiori erano le speranze, la direzione della Confederazione generale del
lavoro con telegramma circolare dichiara finito il movimento ed ordina la
cessazione dello sciopero. E così le masse che agivano nella fiducia di
prender parte ad un movimento generale, furono disorientate; ciascuna località
vide naturalmente che era impossibile resistere da sola, e il movimento cessò.
3.
LA GRANDE SPERANZA
a.
L’alleanza rivoluzionaria
Il nostro A. F. lamentava in
un numero recente i dissidi sorti a Milano fra anarchici e socialisti e faceva,
magari forzando un po’ troppo la nota, un caldo appello alla concordia di
fronte al nemico comune. Poi, noi richiamavamo l’attenzione dei repubblicani
sopra una sconcia nota poliziesca apparsa nel giornale L’iniziativa, e
ancora una volta mostravamo desiderio di concordia e di cooperazione con i
repubblicani che la repubblica la vogliono fare sul serio e la intendono come un
regime di giustizia e di libertà.
Tutto questo ha dato sui
nervi del nostro buono e feroce n. g., il quale ci piglia bellamente in
giro per i nostri “amorosi sensi” e ci domanda: “A che cosa deve condurre
l’”abbracciamoci” coi socialisti e coi repubblicani? Alla rivoluzione? Per la
dittatura di Lazzari o per la repubblica di Pirolini?”.
Spieghiamoci chiaro.
Umanità Nova è l’organo di tutti gli anarchici e quindi nelle sue colonne
hanno diritto di città tutte le manifestazioni del pensiero anarchico, anche di
quelli che considerano l’anarchia come un bel sogno, forse irrealizzabile, o
realizzabile solo quando la presente corrotta umanità avrà dato luogo, non si sa
per quale processo di generazione spontanea, alla nuova umanità, dotata in tutti
ed in ciascuno dei suoi membri delle più mirifiche virtù. Ma i redattori
ordinari di Umanità Nova, e fra essi colui che funge ora da direttore,
sono dei rivoluzionari, vale a dire credono che ogni albero non può dare che i
frutti che comporta la sua natura, che la società capitalistica e statale tende
inevitabilmente a ridurre le masse proletarie alla miseria economica ed
all’abbiezione morale, e che per poter creare un ambiente sociale nel quale sia
possibile il libero sviluppo dell’individuo e l’inizio di una nuova civiltà, di
una nuova e migliore umanità, è necessario prima di tutto abbattere colla forza
l’ordine di cose vigenti, profittando delle crisi a cui è soggetto il regime
capitalistico e della volontà fattiva delle minoranze coscienti e ribelli.
È quindi naturale che noi
consideriamo le questioni principalmente dal punto di vista dell’interesse
rivoluzionario, lasciando ai nostri collaboratori – anarchici più veri e
maggiori – il compito di vigilare alla purezza della dottrina.
Del resto, queste
discussioni sull’utilità e sulla necessità della rivoluzione sono oramai
oziose. La rivoluzione c’è e cammina verso la sua crisi risolutiva. Che non lo
veggano i governi e le classi privilegiate (ma è poi vero che non lo vedono?) si
spiega facilmente con la tradizionale cecità dei governanti alla vigilia della
loro caduta. Che ci siano degli anarchici – e fra i più nutriti di studi storici
e sociologici che non lo veggono neppure loro, può spiegarsi con altre ragioni
che non importa ora ricercare; in ogni modo, questo non altera il fatto: la
rivoluzione s’agita e freme e sta per scoppiare.
Se non
scoppiasse, vorrebbe dire che le forze contrastanti nel seno stesso del
movimento si sarebbero neutralizzate ed avrebbero dato modo alla reazione di
ricacciarci indietro e di vivere ancora fino alla prossima crisi. Può esservi
tra gli avversari del regime borghese chi non comprende come oggi
l’interesse supremo è quello di salvare la rivoluzione?
Ma la rivoluzione perché? Per
la dittatura di Lazzari, per la repubblica di Pirolini? Lasciamo andare.
Pirolini si ricorderà che per fare la repubblica bisogna cacciare il re
solamente quando il re se ne sarà già andato; e il buon Lazzari è troppo vecchio
per farci paura. Vi sono pericoli maggiori che n. g. forse conosce e
disdegna enumerare; ma vogliamo noi, per paura che la rivoluzione non riesca
quale noi la vorremmo, sottometterci indefinitamente alla dittatura
borghese? Certamente la prossima rivoluzione, la rivoluzione imminente, non sarà
anarchica se non in proporzione del nostro numero, del nostro valore, della
nostra preparazione. E noi, perché essa sia più anarchica possibile, dobbiamo
moltiplicare i nostri sforzi, intensificare la nostra propaganda, consolidare le
nostre organizzazioni penetrare maggiormente in mezzo alle masse e cercare di
spingerle il più possibile nella nostra direzione
Ma con tutto questo, è certo
che noi non istituiremo da un giorno all’altro l’anarchia su tutto il globo
terracqueo. L’anarchia non si fa per forza: volerlo, sarebbe la più balorda
delle contraddizioni. L’anarchia trionferà in tutta la sua pienezza quando tutti
saranno anarchici. E siccome nelle condizioni attuali è impossibile che tutti
diventino anarchici è condizione previa del trionfo dell’anarchia la rivoluzione
che rompe violentemente lo stato di cose attuale e rende possibile l’avvento
delle masse a condizioni tali che le rendano capaci di comprendere ed attuare
l’anarchia.
Quello che si può e si deve
fare per forza è l’espropriazione dei capitalisti e la messa a disposizione di
tutti dei mezzi di produzione e di tutta la ricchezza sociale; e, naturalmente
l’abbattimento del potere politico che sta a difesa della proprietà. Quello che
potremo e dovremo difendere, anche con la forza, e il nostro diritto alla
libertà completa di organizzazione autonoma ed alla sperimentazione dei metodi
nostri. Il resto verrà col progressivo estendersi delle nostre idee in
mezzo alle masse.
Tutto questo non possiamo farlo da noi soli,
perché non siamo forti abbastanza – e non sarebbe nemmeno desiderabile che lo
facessimo da soli, perché allora verremmo fatalmente a trovarci nella posizione
di governanti e mancheremmo ai nostri scopi specifici. Di più, siccome la vita
economica non ammette interruzioni e bisogna mangiare tutti i giorni, dove e
quando noi fossimo incapaci di provvedere con le forze nostre
all’approvvigionamento ed agli altri più urgenti bisogni, dovremmo essere
felici che altri lo facesse per noi, riserbando a noi stessi la funzione di
critica, di controllo e di propulsione. La rivoluzione, per essere veramente
emancipatrice non deve essere l’ope-ra particolare di una scuola o di un
partito, ma deve essere opera della massa, di quanto più massa è possibile.
Comprende ora n. g.
perché noi facciamo appello a tutti i lavoratori al disopra di ogni distinzione
di partito? Comprende perché i borghesi, che la rivoluzione temono, si sforzano
per dipingerci nemici dei socialisti. Comprende perché quei capi socialisti e
repubblicani che non vogliono né il socialismo né la repubblica cercano di
boicottarci?
Noi siamo convinti che tutti
i lavoratori ribelli, malgrado le differenze di denominazioni e di diversi
quadri in cui militano, hanno in fondo gli stessi sentimenti, lo
stesso desiderio ardente di emancipazione umana. E noi ci sentiamo fratelli con
tutti e vogliamo lottare il più possibile d’accordo con tutti.
Se attacchiamo spesso e
volentieri certi dirigenti socialisti è perché li vediamo sempre lavorare contro
la rivoluzione, ed i più interessati a mandarli via quali traditori del
socialismo sono proprio i socialisti veri e sinceri.
Se attacchiamo certi capi
repubblicani è perché sappiamo che la repubblica non la vogliono fare,
perché li abbiamo visti mandare al macello i loro ingenui seguaci mentre essi
restavano a casa per trescare nella Reggia e nei ministeri, per far quattrini e
per fare la spia; e di quei capi, che han macchiato e tradito la loro bandiera,
i repubblicani sinceri sono i più interessati a sbarazzarsi.
Ci riflettano i lavoratori
socialisti e repubblicani e vedranno da che parte stanno i loro amici e i loro
nemici.
b. Le due
vie: riforme e rivoluzione
Tutta la cosiddetta
legislazione sociale, tutte le misure statali intese a “proteggere” il lavoro ed
assicurare ai lavoratori un minimo di benessere e di sicurezza e così pure tutti
i mezzi adoperati da capitalisti intelligenti per legare l’operaio alla
fabbrica con premi, pensioni ed altri benefizi, quando non sono una menzogna ed
una trappola, sono un passo verso questo stato servile che minaccia
l’emancipazione dei lavoratori ed il progresso dell’umanità.
Salario
minimo stabilito per legge; limitazione legale della giornata di lavoro;
arbitrato obbligatorio; contratto collettivo di lavoro avente valore giuridico;
personalità giuridica delle associazioni operaie; misure igieniche nelle
fabbriche prescritte dal governo; assicurazioni statali per le malattie, la
disoccupazione, le disgrazie sul lavoro; pensioni per la vecchiaia;
compartecipazione agli utili, ecc. ecc., sono tutte misure per far sì che i
proletari restino sempre proletari ed i proprietari sempre proprietari: tutte
misure che danno ai lavoratori (quando lo danno) un po’ di benessere e dì
sicurezza, ma li privano di quel po’ di libertà che hanno, e tendono a
perpetuare la divisione degli uomini in padroni e servi.
Certamente è bene, aspettando
la rivoluzione – e serve anche a renderla più facile – che i lavoratori cerchino
di guadagnare di più e di lavorare meno ore ed in migliori condizioni; è bene
che i disoccupati non muoiano di fame; che i malati ed i vecchi non siano
abbandonati. Ma questo, ed altro, i lavoratori possono e debbono ottenerlo da
loro stessi, con la lotta diretta contro i padroni, mediante le loro
organizzazioni coll’azione individuale e collettiva, cviluppando in ciascun
individuo il sentimento di dignità personale e la coscienza dei suoi diritti. I
doni dello Stato, i doni dei padroni sono frutti avvelenati che portano con loro
i semi della servitù. Bisogna respingerli.
Riconosciuto che tutte le
riforme, le quali lascian sussistere la divisione degli uomini in proprietari e
proletari e quindi il diritto in alcuni di vivere sul lavoro degli altri, non
potrebbero, se ottenute ed accettare come benefiche concessioni dello Stato e
dei padroni che attenuare la ribellione degli oppressi contro gli oppressori e
condurre alla costituzione di uno stato civile in cui l’umanità sarebbe
definitivamente divisa in classi dominanti e classi soggette, non resta altra
soluzione che la rivoluzione: una rivoluzione radicale che abbatta tutto
l’organismo statale, che espropri i detentori della ricchezza sociale e
metta tutti quanti gli uomini sullo stesso piede d’uguaglianza economica e
politica.
Questa rivoluzione deve
essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per sé stessa un
male. Deve essere violenta perché sarebbe una follia sperare che i privilegiati
riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a
rinunziarvi volontariamente. Deve essere violenta perché la transitoria violenza
rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza
che tiene schiava la grande massa degli uomini.
Vengano pure le riforme se
possono venire. Esse possono essere di beneficio momentaneo e servire a
stimolare nelle masse sempre maggiori desideri e maggiori pretese, se i
proletari serbano vivo il sentimento che i padroni ed i governanti sono i
nemici, che tutto ciò che cedono è strappato loro dalla forza o dalla paura
della forza e sarebbe presto ritirato se la paura cessasse. Ché se invece le
riforme fossero raggiunte per accordi e collaborazione tra dominati e
dominatori, non servirebbe che a ribadire le catene che legano i lavoratori al
carro dei parassiti.
Del resto oggi il pericolo
che le riforme addormentino le masse e riescano a consolidare e perpetuare
l’organizzazione borghese pare superato. Non vi sarebbe che il tradimento
cosciente di coloro, che colla predicazione socialista sono riusciti ad
acquistare la fiducia dei lavoratori, che potrebbe dar loro valore. La cecità
della classe dirigente e l’evoluzione naturale del sistema capitalista
accelerata dalla guerra han fatto si che qualsiasi riforma accettabile dai
proprietari è impotente a risolvere la crisi che travaglia il paese. Dunque la
rivoluzione s’impone, la rivoluzione viene.
Ma come si deve fare, come si deve svolgere
questa rivoluzione? Naturalmente bisogna principiare con l’atto insurrezionale
che spazzi via l’ostacolo materiale, le forze armate del governo, che si oppone
a qualunque trasformazione sociale. Per l’insurrezio-ne è necessario
prepararvisi il meglio che si può, moralmente e materialmente; ed è necessario
sopratutto di profittare di tutti i moti spontanei di popolo e cercare di
generalizzarli e trasformarli in movimenti risolutivi, per evitare il pericolo
che, mentre, i partiti si preparano, la forza popolare si esaurisca in fatti
isolati.
Ma dopo l’insurrezione
vittoriosa, dopo che il governo è caduto, che cosa bisogna fare? Noi, gli
anarchici, vorremmo che in ciascuna località i lavoratori, o più propriamente
quella parte dei lavoratori che ha maggiore coscienza e maggiore spirito
d’iniziativa, pigliasse possesso di tutti gli strumenti di lavoro, di tutta la
ricchezza, terra, materie prime, case, macchine, generi alimentari, ecc., ed
abbozzasse il meglio possibile la nuova forma di vita sociale. Vorremmo che i
lavoratori della terra che oggi lavorano per dei padroni non riconoscessero più
alcun diritto ai proprietari e continuassero ed intensificassero il lavoro per
conto loro, entrando in rapporti diretti cogli operai delle industrie e dei
trasporti per lo scambio dei prodotti; che gli operai delle industrie,
ingegneri e tecnici compresi, pigliassero possesso delle fabbriche e
continuassero ed intensificassero il lavoro per conto proprio e della
collettività, trasformando subito tutte quelle fabbriche che oggi producono cose
inutili o dannose in produttrici delle cose che più urgono per soddisfare i
bisogni del pubblico; che i ferrovieri continuassero ad esercitare le ferrovie
ma per il servizio della collettività; che comitati di volontari o di eletti
dalla popolazione pigliassero possesso, sotto il controllo diretto della massa,
di tutte le abitazioni disponibili per alloggiare il meglio che per il momento
si potesse, tutti i più bisognosi; che altri comitati, sempre sotto il
controllo diretto delle masse, provvedessero all’approvvigionamento ed
alla distribuzione dei generi di consumo; che tutti gli attuali borghesi siano
messi nella necessità di confondersi nella folla di coloro che furono proletari
e lavorare come gli altri per godere gli stessi benefici degli altri. E tutto
questo, subito, nel giorno stesso o nell’in-domani immediato dell’insurrezione
vittoriosa, senza aspettare ordini di comitati centrali o di altre qualsiasi
autorità
Questo è quel che vogliono
gli anarchici, ed è poi quello che naturalmente avverrebbe se la rivoluzione
deve essere davvero una rivoluzione sociale e non ridursi ad un semplice
cambiamento politico, che dopo qualche convulsione riporterebbe le cose allo
stato di prima. Poiché, o si leva subito alla borghesia il potere economico o
questa ripiglierebbe in breve anche il potere politico che l’insurrezione le
avrebbe strappato. E per poter levare alla borghesia il potere economico,
bisogna organizzare immediatamente un nuovo assetto economico basato sulla
giustizia e sull’eguaglianza. I bisogni economici, almeno i più essenziali, non
ammettono interruzioni e bisogna soddisfarli subito. I “comitati centrali” o
non fanno nulla o fanno quando non c’è più bisogno dell’opera loro.
c. La
fretta rivoluzionaria
È completamente erroneo che
per abbattere il capitalismo bisogna aspettare che i milioni di cattolici siano
diventati liberi pensatori, e che gli operai siano tutti (o in maggioranza)
organizzati per la lotta di classe.
Non equivochiamo. È una
verità assiomatica, lapalissiana, che la rivoluzione non si può fare se
non quando vi sono forze sufficienti per farla. Ma è una verità storica che le
forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni sociali non si calcolano
coi bollettini del censimento.
I cattolici resteranno
numerosi come sono, e magari aumenteranno, fino a quando vi sarà una classe,
potente di ricchezza e di scienza interessata a tenere la massa nella schiavitù
intellettuale per potere meglio dominarla. Gli operai non saranno mai tutti
organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre soggette a disfarsi o a
degenerare fino a quando la miseria, la disoccupazione, la paura di perdere il
posto, il desiderio di migliorare di condizioni alimenteranno la rivalità tra
operai e daranno modo ai padroni di profittare di tutte le circostanze, di
tutte le crisi per mettere gli operai in concorrenza gli uni contro gli altri. E
gli elettori resteranno sempre montoni per definizione anche se qualche volta
accade loro di tirar delle cornate.
È cosa provata che date certe
condizioni economiche, dato un certo ambiente sociale, le condizioni
intellettuali e morali della massa restano sostanzialmente le stesse e, fino a
quando un fatto esterno, un fatto idealmente o materialmente violento non viene
a modificare quell’ambiente, la propaganda, l’educazione, l’istruzione restano
impotenti e non riescono ad agire che sopra quel numero d’individui che, in
forza di privilegi naturali o sociali, possono vincere l’ambiente in cui sono
costretti a vivere. Ma quel piccolo numero, quella minoranza cosciente e ribelle
che ogni ordine sociale partorisce in conseguenza delle stesse ingiustizie cui
la massa è soggetta, agisce come fenomeno storico e basta, è sempre bastato, a
far progredire il mondo.
Ogni nuova idea, ogni nuova
istituzione, ogni progresso ed ogni rivoluzione è stata sempre l’opera di
minoranze. È nostra aspirazione, è nostro scopo quello di far assurgere tutti
quanti gli uomini a fattori effettivi, a forze coscienti della vita sociale; ma
per riuscire a questo scopo occorre dare a tutti i mezzi di vita e di sviluppo,
e perciò bisogna abbattere, con la violenza poiché non si può fare altrimenti,
la violenza che questi mezzi nega ai lavoratori.
Naturalmente il “piccolo
numero”, la minoranza, deve essere sufficiente, e ci giudica male chi pensa che
noi vorremmo fare un’insurrezione al giorno senza tener conto delle forze in
contrasto e delle circostanze favorevoli o meno.
Noi abbiamo potuto fare, abbiamo fatto
realmente, in tempi oramai remoti dei minuscoli moti insurrezionali che non
avevano alcuna probabilità di successo. Ma allora eravamo davvero in quattro
gatti, volevamo obbligare il pubblico a discuterci ed i nostri tentativi erano
semplicemente dei mezzi di propaganda.
Ora non si tratta più
d’insorgere per far propaganda: ora possiamo vincere, quindi vogliamo vincere, e
non facciamo tentativi se non quando ci pare di poter vincere. Naturalmente
possiamo ingannarci e, per ragione di temperamento, possiamo credere il frutto
maturo quando ancora è acerbo; ma confessiamo la nostra preferenza per coloro
che vogliono fare troppo presto contro quegli che vogliono sempre aspettare, che
lasciano di proposito passare le migliori occasioni, e per paura di cogliere un
frutto acerbo lasciano tutto marcire.
Insomma noi siamo
perfettamente d’accordo con La Giustizia quando insiste sulla necessità
di fare molta propaganda e di sviluppare il più possibile le organizzazioni
proletarie di lotta; ma ci stacchiamo recisamente da essa quando pretende che
per agire bisogna aspettare di avere attirato a noi la maggioranza di quella
massa inerte che non sarà convertita se non dai fatti, che non accetterà
la rivoluzione se non dopo che la rivoluzione sarà iniziata.
d.
Movimenti stroncati
L’occupazione delle fabbriche
– I metallurgici
cominciarono il movimento per questioni di tariffe. Si trattava di uno sciopero
di nuovo genere. Invece di abbandonare le fabbriche, restarvi dentro senza
lavorare, e farvi guardia notte e giorno perché i padroni non potessero far la
serrata. Ma era il 1920. Tutta l’Italia proletaria fremeva di febbre
rivoluzionaria, e presto la cosa cambiò di carattere Gli operai pensarono che
era il momento di impossessarsi definitivamente dei mezzi di produzione Si
armarono per la difesa, trasformarono molte fabbriche in vere fortezze ed
incominciarono ad organizzare la produzione per loro conto, I padroni cacciati
o dichiarati in stato d’arresto… Era il diritto di proprietà abolito di fatto,
la legge violata in tutto ciò che serve a difendere lo sfruttamento
capitalistico; era un nuovo regime, un nuovo modo di vita sociale che
s’inaugurava. Ed il governo lasciava fare, perché si sentiva impotente ad
opporsi; lo ha confessato più tardi scusandosi in parlamento della mancata
repressione.
Il movimento si allargava e
tendeva ad abbracciare altre categorie; qua e là i contadini occupavano
le terre. Era la rivoluzione che incominciava e si sviluppava in un modo, direi
quasi, ideale. I riformisti naturalmente vedevano la cosa di mal occhio, e
cercavano di farla abortire. Lo stesso Avanti! non sapendo a che santi
votarsi, tentò di far passare noi per pacifisti, perché in Umanità Nova
avevamo detto che se il movimento si estendeva a tutte le categorie, se operai
e contadini avessero seguito l’esempio dei metallurgici, cacciando i padroni e
prendendo possesso dei mezzi di produzione, la rivoluzione si sarebbe fatta
senza spandere una goccia di sangue.
Ma non serviva. La massa era
con noi; eravamo sollecitati a recarci nelle fabbriche a parlare, incoraggiare,
consigliare, ed avremmo dovuto dividerci in mille per soddisfare tutte le
richieste. Dovunque andavamo erano i discorsi nostri quelli che gli operai
applaudivano, ed i riformisti dovevano ritirarsi o camuffarsi. La massa era con
noi, perché noi interpretavamo meglio i suoi istinti, i suoi bisogni, i suoi
interessi.
Eppure, bastò il lavoro
subdolo della gente della Confederazione Generale del Lavoro ed i
suoi accordi con Giolitti, per far credere ad una specie di vittoria mediante la
truffa del controllo operaio ed indurre gli operai a lasciare le
fabbriche, proprio nel momento in cui maggiori erano le possibilità di riuscita.
Ho citato due casi, ed avrei
potuto citarne altri: il movimento del caro-viveri, lo sciopero di Torino e del
Piemonte nell’inverno del 1920, gli scioperi di Milano, ecc.; ed arriverei
sempre alle stesse constatazioni. In piazza, nell’azione, la massa è con noi e
disposta ad agire; ma poi nel più bello si lascia abbindolare, sì ferma scorata
e disillusa, e noi ci troviamo sempre vinti ed isolati.
Perché? Secondo me gli è
perché siamo disorganizzati, o non abbastanza organizzati. Gli altri hanno i
mezzi di trasmettere rapidamente dappertutto le notizie, vere o false, che
convengono per influire sull’opinione ed indirizzare l’azione nel senso che
vogliono. Per mezzo delle loro leghe, sezioni, federazioni, disponendo di
fiduciari in tutti i centri, di indirizzi sicuri, ecc., essi possono lanciare
un movimento quando serve ai loro fini ed arrestano quando quei fini sono
raggiunti. E per stroncare qualsiasi movimento hanno un mezzo semplicissimo:
quello di far credere in ogni località che tutto sia finito e che bisogna
pensare a salvare il salvabile
Le situazioni ch’io ho
descritto si riprodurranno certamente in Italia e forse a breve scadenza.
Vogliamo ancora trovarci nello stato d’impreparazione impotenti ad opporci
efficacemente alle manovre degli addormentatori ed a cavare da una data
situazione rivoluzionaria tutto il maggior frutto ch’essa può dare?
4.
UN’ORGANIZZAZIONE
ED
UN PROGRAMMA
a. La
condotta degli anarchici nel movimento operaio
A
quanto ho detto sulla questione dell’organizzazione operaia mi sia permesso
aggiungere qualche parola sull’organizzazione degli anarchici com’è intesa
dall’Unione Anarchica Italiana. L’Unione Anarchica Italiana è una
federazione di gruppi autonomi uniti per aiutarsi reciprocamente nella
propaganda e nell’attuazione di un programma liberamente accettato. Essa tiene
periodicamente dei Congressi, e tra un Congresso e l’altro è rappresentata da
una Commissione di Corrispondenza che è nominata dal Congresso e varia
ogni volta di personale e di sede. Le deliberazioni dei Congressi non sono
impegnative se non per quei gruppi che le accettano dopo averne preso
cognizione; e per questa ragione il modo di rappresentanza, qualunque esso
sia, non ha importanza, non potendo dar luogo a ingiustizie e sopraffazioni.
Ogni gruppo, od ogni particolare federazione di gruppi manda i delegati che può
qualunque sia il numero dei suoi componenti, senza inconvenienti poiché il
Congresso non fa leggi obbligatorie per tutti, ma serve come indicazione delle
varie opinioni: e l’opinione dominante si concreta in deliberazioni che sono
poi sottoposte ai gruppi e hanno sempre valore di consigli e suggerimenti.
La
Commissione di Corrispondenza serve a facilitare le relazioni tra i gruppi, a
procurare alle iniziative di ciascuno l’appoggio degli altri ed a rendere più
facile un’azio-ne concertata. Ma non ha nessuna autorità e nessun mezzo per
imporre la propria volontà.
Ciascun
gruppo e ciascun individuo corrisponde, se crede, direttamente cogli altri senza
passare per il tramite della Commissione di Corrispondenza: ciascuno è libero
di stampare quello che crede, di prendere le iniziative che può, di fare
insomma tutto ciò che vuole nell’interesse della causa comune. Unico vincolo il
programma generale, la cui accettazione è condizione necessaria per entrare
nell’Unione.
Questi
principi sono accettati da tutti i membri dell’Unione poiché
costituiscono il patto che li ha uniti. E coloro che, per ignoranza o per fini
inconfessabili tentano di far credere che l’Unione Anarchica Italiana sia
un’organizzazione autoritaria dicono cosa contraria al vero.
L’Unione
non intende avere il monopolio dell’organizzazione anarchica. Ogni anarchico
può restare isolato od unirsi in altre Organizzazioni. L’Unione è felice
d’ogni attività anarchica esercitata dentro e fuori del suo seno, ed è disposta
a dare e ricevere aiuti a tutti e da tutti, sempre che si tratti di cose che non
contraddicano il suo programma.
b. Il
programma comunista anarchico
l programma dell’Unione
Anarchica Italiana è il programma comunista anarchico rivoluzionario,
che già da cinquant’anni fu sostenuto in Italia nel seno della I Internazionale
sotto il nome di programma socialista, che più tardi si distinse col nome di
socialista anarchico, e che poi, in seguito e per reazione alla crescente
degenerazione autoritaria e parlamentare dei movimento socialista, si disse
semplicemente anarchico.
1. Che cosa vogliamo
Noi
crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla
cattiva organizzazione sociale, e che gli uomini volendo e sapendo, possono
distruggerli.
La società attuale è il
risultato delle lotte secolari che gli uomini han combattuto tra di loro. Non
comprendendo i vantaggi che potevano venire a tutti dalla cooperazione e dalla
solidarietà, vedendo in ogni altro uomo (salvo al massimo i più vicini per
vincoli di sangue) un concorrente ed un nemico, han cercato di accaparrare,
ciascun per sé, la più grande quantità di godimenti possibili, senza curarsi
degli interessi degli altri. Data la lotta, naturalmente i più forti, o i più
fortunati, dovevano vincere ed in vario modo sottoporre ed opprimere i vinti.
Fino a che l’uomo non fu
capace di produrre di più di quello che bastava strettamente al suo
mantenimento, i vincitori non potevano che fugare e massacrare i vinti ed
impossessarsi degli alimenti da essi raccolti.
Poi, quando con la scoperta
della pastorizia e dell’agricoltura un uomo potè produrre più di ciò che gli
occorreva per vivere, i vincitori trovarono più conveniente ridurre i vinti in
schiavitù e farli lavorare per loro.
Più tardi, i vincitori si
accorsero che era più comodo, più produttivo e più sicuro sfruttare il lavoro
altrui con un altro sistema: ritenere per sé la proprietà esclusiva della terra
e di tutti ì mezzi di lavoro, e lasciar nominalmente liberi gli spogliati, i
quali poi non avendo mezzi di vivere, erano costretti a ricorrere ai proprietari
ed a lavorare per conto loro, ai patti che essi volevano.
Così, man mano, attraverso
tutta una rete complicatissima di lotte di ogni specie, invasioni, guerre,
ribellioni, repressioni, concessioni strappate, associazioni di vinti unitisi
per la difesa, e di vincitori unitisi per l’offesa, si è giunti allo stato
attuale della società in cui alcuni detengono ereditariamente la terra e tutta
la ricchezza sociale, mentre la gran massa degli uomini, diseredata di tutto, è
sfruttata ed oppressa dai pochi proprietari.
Da questo dipendono lo stato
di miseria in cui si trovano generalmente i lavoratori, e tutti i mali che dalla
miseria derivano: ignoranza, delitti, prostituzione. Da questo, la costituzione
di una classe speciale (governo), la quale, fornita di mezzi materiali di
repressione, ha missione di legalizzare e difendere i proprietari contro le
rivendicazioni dei proletari; e poi si serve della forza che ha, per creare a sé
stessa dei privilegi e sottomettere, se può, alla sua supremazia anche la stessa
classe proprietaria. Da questo, la costituzione di un’altra classe speciale (il
clero), la quale con una serie di favole sulla volontà di Dio, sulla vita
futura, ecc., cerca d’indurre gli oppressi a sopportare docilmente
l’oppres-sione, ed al pari del Governo oltre di fare gli interessi dei
proprietari, fa anche i suoi propri. Da questo, la formazione di una scienza
ufficiale che è, in tutto ciò che può servire agl’interessi dei dominatori, la
negazione della scienza vera. Da questo, lo spirito patriottico, gli odi di
razza, le guerre, e le paci armate talvolta più disastrose delle guerre stesse.
Da questo, l’amore trasformato in tormento o in turpe mercato. Da ciò l’odio più
o meno larvato, la rivalità, il sospetto fra tutti gli uomini, l’incertezza e la
paura per tutti.
Tale stato di cose noi
vogliamo radicalmente cambiare. E poiché tutti questi mali derivano dalla lotta
fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta da ciascuno per conto suo e
contro tutti, noi vogliamo rimediarvi sostituendo all’odio l’amore, alla
concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la
cooperazione fraterna per il benessere di tutti, alla oppressione ed
all’imposizione la libertà, alla menzogna religiosa e pseudoscientifica la
verità. Dunque:
1.
Abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e
degli strumenti di lavoro, perché nessuno abbia il mezzo di vivere sfruttando il
lavoro altrui, e tutti, avendo garantiti i mezzi per produrre e vivere, siano
veramente indipendenti e possano associarsi agli altri liberamente; per
l’interesse comune e conformemente alle proprie simpatie.
2.
Abolizione dei Governo e di ogni potere che faccia la legge e la imponga
agli altri: quindi abolizione di monarchie, repubbliche, parlamenti, eserciti,
polizie, magistratura, ed ogni qualsiasi istituzione dotata di mezzi coercitivi.
3.
Organizzazione della vita sociale per opera di libere associazioni e
federazioni di produttori e consumatori, fatte e modificate secondo la volontà
dei componenti, guidati dalla scienza e dall’esperienza e liberi da ogni
imposizione che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, vinto dal
sentimento stesso della necessità ineluttabile, volontariamente si sottomette.
4.
Garantiti i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli ed a
tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi.
5.
Guerra alle religioni ed a tutte le menzogne, anche se si nascondono
sotto il manto della scienza. Istituzione scientifica per tutti e fino ai suoi
gradi più elevati.
6.
Guerra alle rivalità ed ai pregiudizi patriottici. Abolizione delle
frontiere: fratellanza fra tutti i popoli.
7.
Ricostruzione della famiglia in quel modo che risulterà dalla pratica
dell’amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o
fisica, da ogni pregiudizio religioso
2. Vie e mezzi
Abbiamo esposto a sommi capi
qual’è lo scopo che vogliamo raggiungere quale l’ideale pel quale lottiamo.
Ma non basta desiderare
una cosa: se si vuole ottenerla davvero bisogna impiegare i mezzi adatti al suo
conseguimento. E questi mezzi non sono arbitrari, ma derivano, necessariamente,
dal fine cui si mira e dalle circostanze nelle quali si lotta; giacché
ingannandosi sulla scelta dei mezzi, non si raggiungerebbe il fine propostosi,
ma un altro, magari opposto che sarebbe conseguenza naturale, necessaria, dei
mezzi adoperati. Chi si mette in cammino e sbaglia strada, non va dove vuole, ma
dove lo porta la strada percorsa.
Occorre dunque, dire quali
sono i mezzi che, secondo noi, conducono allo scopo prefissoci, e che noi
intendiamo adoperare.
Il nostro ideale non è di
quelli il cui conseguimento dipende dall’individuo considerato isolatamente. Si
tratta di cambiare il modo di vivere in società, di stabilire tra gli uomini
rapporti di amore e solidarietà, di conseguire la pienezza dello sviluppo
materiale, morale e intellettuale, non per un dato partito, ma per tutti quanti
gli esseri umani – e questo non è cosa che si possa imporre colla forza, ma deve
sorgere dalla coscienza illuminata di ciascuno ed attuarsi mediante il libero
consentimento di tutti.
Nostro primo compito quindi
deve essere quello di persuadere la gente. Bisogna che noi richiamiamo
l’attenzione degli uomini sui mali che soffrono e sulla possibilità di
distruggerli. Bisogna che suscitiamo in ciascuno la simpatia pei mali altrui ed
il desiderio vivo del bene di tutti.
A chi ha fame e freddo noi
mostreremo come sarebbe possibile, e facile, assicurare a tutti la soddisfazione
dei bisogni materiali. A chi è oppresso e vilipeso, noi diremo come si può
vivere felicemente in una società di liberi e uguali; a chi è tormentato
dall’odio e dal rancore, noi additeremo la via per raggiungere, amando i propri
simili, la pace e la gioia del cuore.
E quando saremo riusciti a
far nascere nell’animo degli uomini il sentimento di ribellione contro i mali
ingiusti ed inevitabili di cui si soffre nella società presente, ed a far
comprendere quali sono le cause di questi mali e come dipenda dalla volontà
umana l’eliminarli; quando avremo ispirato il desiderio vivo, prepotente, di
trasformare la società per il bene di tutti, di coloro che li han preceduti
nella convinzione, si uniranno e vorranno, e potranno, attuare i comuni ideali.
Sarebbe – lo abbiam già detto
– assurdo ed in contraddizione col nostro scopo di voler imporre la libertà,
l’amore fra gli uomini, lo sviluppo integrale di tutte le facoltà umane, per
mezzo della forza. Bisogna dunque contare sulla libera volontà degli altri, e la
sola cosa che possiamo fare è quella di provocare il formarsi ed il manifestarsi
di detta volontà. Ma sarebbe però egualmente assurdo e contrario al nostro scopo
l’ammettere che coloro i quali non la pensano come noi c’impediscano di attuare
la nostra volontà, sempre che essa non leda il loro diritto ad una libertà
uguale alla nostra.
Libertà dunque per tutti di
propagare ed esperimentare le proprie idee, senza altro limite che quello che
risulta naturalmente dall’eguale libertà di tutti.
Ma a questo si oppongono – e
si oppongono colla forza brutale – coloro che sono i beneficiari degli attuali
privilegi e dominano e regolano tutta la vita sociale presente.
Essi hanno in mano tutti i mezzi di
produzione; e quindi sopprimono non solo la possibilità di esperimentare nuovi
modi dì convivenza sociale, non solo il diritto dei lavoratori di vivere
liberamente col proprio lavoro, ma anche lo stesso diritto all’esi-stenza; ed
obbligano chi non è proprietario a lasciarsi sfruttare ed opprimere se non vuole
morire di fame.
Essi hanno polizie,
magistrature, eserciti creati appositamente per difendere i loro privilegi; e
perseguitano, incarcerano, massacrano coloro che vogliono abolire quei privilegi
e reclamano i mezzi di vita e la libertà per tutti.
Gelosi dei loro interessi
presenti ed immediati, corrosi dallo spirito di dominazione paurosi
dell’avvenire. essi, i privilegiati, sono, generalmente parlando, incapaci di
uno slancio generoso, sono incapaci benanco di una più larga concezione dei loro
interessi. E sarebbe follia sperare ch’essi rinunzino volontariamente alla
proprietà ed al potere, e si adattino ad essere gli eguali dì coloro che oggi
tengono sottoposti.
Lasciando da parte
l’esperienza storica (la quale dimostra che mai una classe privilegiata si è
spogliata, in tutto o in parte dei suoi privilegi, e mai un governo ha
abbandonato il potere se non vi è stato obbligato dalla forza o dalla paura
della forza), bastano i fatti contemporanei per convincere chiunque che la
borghesia ed i governi intendono impiegare la forza materiale per difendersi,
non solo contro l’espropriazione totale, ma anche contro le più piccole pretese
popolari, e son pronti sempre alle più atroci persecuzioni, ai più sanguinosi
massacri. Al popolo che vuole emanciparsi non resta altra via che quella di
opporre la forza alla forza.
Risulta da quanto abbiamo
detto che noi dobbiamo lavorare, per risvegliare negli oppressi il desiderio
vivo di una radicale trasformazione sociale, e persuaderli che unendosi, essi
hanno la forza di vincere; dobbiamo propagare il nostro ideale e preparare le
forze morali e materiali necessari a vincere le forze nemiche, e ad organizzare
la nuova società. E quando avremo la forza sufficiente dobbiamo, profittando
delle circostanze favorevoli che si producono o creandole noi stessi, fare la
rivoluzione sociale, abbattendo, colla forza, il governo, espropriando, colla
forza, i proprietari; mettendo in comune i mezzi di vita e di produzione, ed
impedendo che nuovi governi vengano ad imporre la loro volontà e ad ostacolare
la riorganizzazione sociale fatta direttamente dagli interessati.
Tutto questo però è meno semplice di quello
che potrebbe a prima giunta parere. Noi abbiamo da fare cogli uomini quali sono
nell’attuale società, in condizioni morali e materiali disgraziatissime; e
c’inganneremo pensando che basta la propaganda per elevarli a quel grado di
sviluppo intellettuale e morale che è necessario all’attua-zione dei nostri
ideali.
Tra l’uomo e l’ambiente
sociale vi è un’azione reciproca. Gli uomini fanno la società come essa è e la
società fa gli uomini come essi sono, e da ciò risulta una specie di circolo
vizioso. Per trasformare la società bisogna trasformare gli uomini e per
trasformare gli uomini bisogna trasformare la società.
La miseria abbruttisce l’uomo
e per distruggere la miseria bisogna che gli uomini abbiano coscienza e volontà.
La schiavitù educa gli uomini ad essere schiavi e per liberarsi dalla schiavitù
v’è bisogno di uomini aspiranti alla libertà. L’ignoranza fa sì che gli uomini
non conoscano le cause dei loro mali e non sappiano rimediarvi, e per
distruggere l’ignoranza bisogna che gli uomini abbiano il tempo ed il modo
d’istruirsi.
Il governo abitua la gente a
subire la legge ed a credere che la legge sia necessaria alla società; e per
abolire il governo bisogna che gli uomini siano persuasi della sua inutilità e
del suo danno.
Come uscire da questo circolo
vizioso?
Fortunatamente la società
attuale non è stata formata dalla volontà illuminata di una classe dominante,
che abbia potuto ridurre tutti i dominati a strumenti passivi ed incoscienti dei
suoi interessi. Essa è il risultato di mille lotte intestine, di mille fattori
naturali ed umani agenti casualmente senza criteri direttivi; e quindi non vi
sono divisioni nette né tra gli individui né tra le classi.
Infinite sono le varietà dì condizioni
materiali; infiniti i gradi di sviluppo morale ed intellettuale; e non sempre –
diremmo quasi molto raramente – il posto che uno occupa in società corrisponde
alle sue facoltà ed alle sue aspirazioni. Spessissimo alcuni individui cadono in
condizioni inferiori a quelle a cui sono abituati, ed altri, per circostanze
eccezionalmente favorevoli, riescono ad elevarsi a condizioni superiori a quelle
in cui sono nati. Una parte notevole del proletariato è già arrivata ad uscire
dallo stato di miseria assoluta, abbrutente, o non ha mai potuto esservi
ridotta; nessun lavoratore, o quasi nessuno si trova nello stato di incoscienza
completa, di completa acquiescenza alle condizioni che gli fanno i padroni. E le
stesse istituzioni, quali sono state prodotte dalla storia, contengono delle
contraddizioni organiche che sono come dei germi di morte, i quali sviluppandosi
producono la dissoluzione dell’istituzione e la necessità della trasformazione.
Da ciò la possibilità dei
progresso; ma non la possibilità di portare, per mezzo della propaganda, tutti
gli uomini al livello necessario perché vogliano e facciano l’anarchia, senza
un’anteriore graduale trasformazione dell’ambiente.
Il progresso deve camminare
contemporaneamente, parallelamente negli individui e nell’ambiente; dobbiamo
profittare di tutti i mezzi di tutte le possibilità, dì tutte le occasioni che
ci lascia l’ambiente attuale, per agire sugli uomini e sviluppare la loro
coscienza ed i loro desideri; dobbiamo utilizzare tutti i progressi avvenuti
nella coscienza degli uomini per indurli a reclamare ed imporre quelle maggiori
trasformazioni sociali che sono possibili e che meglio servono ad aprire la via
a progressi ulteriori
Noi non dobbiamo aspettare dì poter fare
l’anarchia ed intanto limitarci alla semplice propaganda. Se facessimo così,
presto avremmo esaurito il campo; avremmo convertiti cioè, tutti quelli che
nell’ambiente sono suscettibili di comprendere ed accettare le nostre idee e la
nostra ulteriore propaganda resterebbe sterile; o se delle trasformazioni
d’ambiente elevassero nuovi strati popolari alla possibilità di ricevere idee
nuove, ciò avverrebbe senza l’opera nostra, forse contro l’opera nostra e quindi
con pregiudizio delle nostre idee.
Noi dobbiamo cercare che il
popolo, nella sua totalità o nelle sue frazioni, pretenda, imponga, prenda da sé
tutti i miglioramenti, tutte le libertà che desidera, man mano che giunge a
desiderarle ed ha la forza di imporle; e propagandando sempre tutto intero il
nostro programma e lottando sempre per la sua attuazione integrale, dobbiamo
spingere il popolo a pretendere ed imporre sempre di più fino a che non ha
raggiunto l’eman-cipazione completa.
3. La lotta economica
L’oppressione che, oggi, più
direttamente preme sui lavoratori, e che è la causa principale dì tutte le
soggezioni morali e materiali cui i lavoratori sottostanno, è l’oppres-sione
economica, vale a dire lo sfruttamento che i padroni e i commercianti esercitano
su di loro, grazie all’accaparramento di tutti i grandi mezzi di produzione e di
scambi.
Per sopprimere radicalmente e
senza pericolo di ritorno questa oppressione, occorre che il popolo tutto sia
convinto del diritto che esso ha all’uso dei mezzi di produzione, e che attui
questo suo diritto primordiale espropriando i detentori dei suolo e di tutte le
ricchezze sociali e mettendo quello e queste a disposizione di tutti.
Ma si può ora stesso metter
mano a questa espropriazione? Si può oggi passare direttamente, senza gradi
intermedi, dall’inferno in cui si trova ora il proletariato, al paradiso della
proprietà comune?
I fatti dimostreranno di che
cosa i lavoratori sono oggi capaci. Compito nostro è quello di preparare il
popolo, moralmente e materialmente, a questa necessaria espropriazione; e di
tentarla e ritentarla, ogni volta che una scossa rivoluzionaria ce ne presenta
l’occasione fino al trionfo definitivo Ma in che modo possiamo preparare il
popolo? In che modo preparare le condizioni che rendano possibile, non solo il
fatto materiale dell’espropriazione, ma l’utilizzazione, a vantaggio di tutti,
della ricchezza comune?
Abbiamo detto
antecedentemente che la sola propaganda, parlata o scritta, è impotente a
conquistare alle nostre idee tutta quanta la grande massa popolare. Occorre una
educazione pratica, la quale sia a volta a volta causa ed effetto di una
graduale trasformazione dell’ambiente Occorre che a mano a mano che si
sviluppati nei lavoratori il senso di ribellione contro le ingiuste e inutili
sofferenze di cui son vittime, ed il desiderio di migliorare le loro condizioni,
essi, uniti e solidali tra loro, lottino per il conseguimento di quel che
desiderano. E noi, e come anarchici e come lavoratori, dobbiamo provocarli ed
incoraggiarli alla lotta e lottare con loro.
Ma sono possibili, in regime
capitalistico, questi miglioramenti? Sono essi utili, dal punto di vista della
futura emancipazione integrale dei lavoratori?
Qualunque siano i risultati
pratici della lotta per i miglioramenti immediati, l’utilità principale sta
nella lotta stessa. Con essa gli operai imparano ad occuparsi dei loro interessi
di classe, imparano che il padrone ha interessi opposti al loro e che essi non
possono migliorare le loro condizioni ed anche meno emanciparsi, se non unendosi
e diventando più forti dei padroni. Se riescono ad ottenere quello che vogliono,
staranno meglio: guadagneranno di più, lavoreranno meno, avranno più tempo e più
forza per riflettere alle cose che loro interessano, e sentiranno subito
desideri maggiori, bisogni maggiori. Se non riescono, saran condotti a studiare
le cause dell’insuccesso ed a riconoscere la necessità di maggiore unione, di
maggiore energia; e comprenderanno infine che a vincere sicuramente e definitiva
niente occorre distruggere il capitalismo. La causa della rivoluzione, la causa
dell’elevamento morale del lavoratore e della sua emancipazione non possono che
guadagnare dal fatto che i lavoratori si uniscono e lottano per ì loro
interessi.
Ma, ancora una volta, è
possibile che i lavoratori riescano, nell’attuale stato di cose, a migliorare
realmente le loro condizioni?
Ciò dipende dal concorso di una infinità di
circostanze. Malgrado ciò che dicono alcuni, non esiste una legge naturale
(legge dei salari), la quale determina la parte che va al lavoratore sul
prodotto del suo lavoro: o, se legge si vuol formulare, essa non potrebbe essere
che questa: il salario non può scendere normalmente ai disotto di quel tanto che
è necessario alla vita, né può normalmente salire tanto da non lasciare nessun
profitto al padrone.
È chiaro che nel primo caso
gli operai morrebbero e quindi non riscuoterebbero più salario, e nel secondo i
padroni cesserebbero di far lavorare e quindi non pagherebbero più salari. Ma
tra questi i due estremi impossibili vi sono una infinità di gradi, che vanno
dalle condizioni miserabili di molti lavoratori agricoli fino a quelle quasi
decenti degli operai dei buoni mestieri nelle grandi città.
Il salario, la lunghezza
della giornata e tutte le altre condizioni del lavoro sono il risultato della
lotta tra padroni e lavoranti. Quelli cercano di dare ai lavoranti il meno che
possono e di farli lavorare fino a esaurimento completo; questi cercano, o
dovrebbero cercare, di lavorare il meno e guadagnare il più che possono. Dove i
lavoratori si contentano di tutto, o, anche essendo scontenti. non sanno opporre
valida resistenza ai padroni, sorto presto ridotti a condizioni animalesche di
vita: dove invece essi hanno un concetto alquanto elevato del modo come
dovrebbero vivere degli esseri umani, e sanno unirsi e, mediante il rifiuto di
lavoro e la minaccia latente o esplicita di rivolta, imporsi rispetto ai
padroni, essi sono trattati in modo relativamente sopportabile. In modo che può
dirsi che il salario dentro certi limiti, è quello che l’operaio (non come
individuo, s’intende, ma come classe) pretende.
Lottando dunque, resistendo
contro i padroni, i lavoratori possono impedire, fino ad un certo punto. che le
loro condizioni peggiorino ed anche ottenere dei miglioramenti reali. E la
storia del movimento operaio ha già dimostrato questa verità.
Bisogna però non esagerare la portata di
questa lotta combattuta tra operai e padroni sul terreno esclusivamente
economico. I padroni possono cedere, e spesso cedono, innanzi alle esigenze
operaie energicamente espresse, fino a quando non si tratti di pretese troppo
grosse, ma quando gli operai incominciassero (ed è urgente elle incomincino) a
pretendere un tale trattamento che assorbirebbe tutto il profitto dei padroni e
riuscirebbe così ad una espropriazione indiretta, è certo che i padroni
farebbero appello si governo e cercherebbero di costringere gli operai a restare
nella loro posizione di schiavi salariati.
Ed anche prima, ben prima che gli operai
possano pretendere di ricevere in compenso del loro lavoro l’equivalente di
tutto ciò che han prodotto, la lotta economica diventa impotente a continuare a
produrre il miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Gli operai producono tutto e senza di loro
non si può, vivere: quindi sembrerebbe che rifiutando il lavoro essi potessero
imporre tutto ciò che vogliono. Ma l’unione di tutti i lavoratori anche di un
sol mestiere, anche di un sol paese, è difficile ad ottenere, ed all’unione
degli operai si oppone l’unione dei padroni. Gli operai vivono alla giornata e,
se non lavorano, presto mancano di pane; mentre i padroni dispongono, mediante
il denaro, di tutti i prodotti già accumulati, e quindi possono tranquillamente
aspettare che la fame abbia ridotti a discrezione i loro salariati. L’invenzione
o l’introduzione di nuove macchine rende inutile l’opera di un gran numero di
operai ed accresce il grande esercito dei disoccupati, che la fame costringe a
vendersi a qualunque condizione. L’immigrazio-ne apporta subito nei paesi dove
gli operai riescono a star meglio, delle folle di lavoratori famelici che,
volendo o no, offrono ai padroni il modo di ribassare i salari. E tutti questi
fatti, derivanti necessariamente dal sistema capitalistico, riescono a
controbilanciare il progresso della coscienza e della solidarietà operaia:
spesso camminano più rapidamente di questo progresso e lo arrestano e lo
distruggono. Ed in tutti i casi resta sempre il fatto primordiale che la
produzione, in sistema capitalistico, è organizzata da ciascun capitalista per
il suo profitto individuale e non già per soddisfare come sarebbe naturale, nel
miglior modo possibile, i bisogni dei lavoratori. Quindi il disordine, lo
sciupio di forze umane, la scarsezza voluta dei prodotti, i lavori inutili e
dannosi, la disoccupazione, le terre incolte, il poco uso delle macchine ecc. –
tutti mali che non si possono evitare se non levando ai capitalisti il possesso
dei mezzi di lavoro e quindi la direzione della produzione.
Presto
dunque si presenta per gli operai, che intendono emanciparsi o anche solo di
migliorare seriamente le loro condizioni, la necessità di attaccare il governo,
il quale, legittimando il diritto di proprietà e sostenendola colla forza
brutale, costituisce una barriera innanzi al progresso, che bisogna abbattere
colla forza se non si vuole restare indefinitamente nello stato attuale e
peggio.
Dalla lotta economica bisogna passare alla
lotta politica, cioè alla lotta contro il governo; ed invece di opporre ai
milioni dei capitalisti gli scarsi centesimi a stento accumulati dagli operai,
bisogna opporre ai fucili ed ai cannoni che difendono la proprietà, quei mezzi
migliori che il popolo potrà trovare per vincere la forza con la forza.
4. La lotta politica
Per lotta politica intendiamo
la lotta contro il governo. Governo è l’insieme di quegl’individui che detengono
il potere, comunque acquistato, di far la legge ed imporla ai governanti, cioè
al pubblico.
Conseguenza dello spirito di
dominio e della violenza con cui alcuni uomini si sono imposti agli altri, esso
è, nello stesso tempo, creatore e creatura del privilegio e suo difensore
naturale.
Erroneamente si dice che il
governo compie oggi la funzione di difensore del capitalismo, ma che abolito il
capitalismo esso diventerebbe rappresentante e gerente degli interessi generali.
Prima di tutto il capitalismo non si potrà distruggere se non quando i
lavoratori, cacciato il governo, prendano possesso della ricchezza sociale ed
organizzino la produzione ed il consumo nell’interesse di tutti, da loro stessi,
senza aspettare l’opera di un governo il quale, anche a volerlo, non sarebbe
capace di farlo.
Ma v’è di più: se il
capitalismo fosse distrutto e si lasciasse sussistere un governo, questo,
mediante la concessione di ogni sorta di privilegi lo creerebbe di nuovo poiché
non potendo accontentar tutti avrebbe bisogno di una classe economicamente
potente che lo appoggi in cambio della protezione legale e materiale che ne
riceve.
Per conseguenza, non si può
abolire il privilegio e stabilire solidamente e definitivamente la libertà e
l’uguaglianza sociale se non abolendo il governo, non questo o quel governo, ma
l’istituzione stessa del governo.
Però, in questo, come in
tutti i fatti d’interesse generale, più che in qualunque altro occorre il
consenso della generalità: e perciò dobbiamo sforzarci di persuadere la gente
che il governo è inutile e dannoso, e che si può vivere meglio senza governo.
Ma, come abbiamo già
ripetuto, la sola propaganda è impotente a convincere tutti – e se noi volessimo
limitarci a predicare contro il governo, aspettando altrimenti inerti, il giorno
in cui il pubblico sarà convinto della possibilità ed utilità di abolire
completamente ogni specie di governo, quel giorno non verrebbe mai.
Sempre predicando contro ogni
specie di governo, sempre reclamando la libertà integrale, noi dobbiamo favorire
tutte le lotte per le libertà parziali, convinti che nella lotta s’impara a
lottare e che incominciando a gustare un po’ di libertà si finisce col volerla
tutta. Noi dobbiamo sempre essere col popolo, e quando non riusciamo a fargli
pretender molto, cercare che almeno cominci a pretender qualche cosa: e dobbiamo
sforzarci perché apprenda, poco o molto che voglia, a volerlo conquistare da sé,
e tenga in odio ed in disprezzo chiunque sta o vuole andare al governo.
Poiché il governo tiene oggi
il potere di regolare, mediante le leggi, la vita sociale ed allargare o
restringere la libertà dei cittadini, noi non potendo ancora strappargli questo
potere, dobbiamo cercare di diminuirglielo e dì obbligarlo a farne l’uso meno
dannoso possibile Ma questo lo dobbiamo fare stando sempre fuori e contro il
governo, premendo su di lui mediante l’agitazione della piazza minacciando di
prendere per forza quello che si reclama. Mai dobbiamo accettare una qualsiasi
funzione legislativa, sia essa generale o locale, poiché facendo così
diminuiremmo l’efficacia della nostra azione e tradiremmo l’avvenire della
nostra causa.
La lotta contro il governo si
risolve, in ultima analisi, in lotta fisica, materiale.
Il governo fa la legge. Esso
dunque deve avere una forza materiale (esercito e polizia) per imporre la legge,
poiché altrimenti non vi ubbidirebbe che chi vuole ed essa non sarebbe più
legge, ma una semplice proposta che ciascuno è libero di accettare e di
respingere. Ed i governi questa forza l’hanno, e se ne servono per potere con
leggi fortificare il loro dominio e fare gl’interessi delle classi privilegiate,
opprimendo e sfruttando i lavoratori.
Limite all’oppressione del governo è la forza
che il popolo si mostra capace di opporgli. Vi può essere conflitto
aperto o latente, ma conflitto v’è sempre; poiché il governo non si arresta
innanzi il malcontento ed alla resistenza popolare se non quando sente il
pericolo dell’insurrezione.
Quando il popolo sottostà
docilmente alla legge, o la protesta è debole e platonica, il governo fa i
comodi suoi senza curarsi dei bisogni popolari; quando la protesta diventa viva,
insistente, minacciosa, il governo, secondo che è più o meno illuminato, cede o
reprime. Ma sempre si arriva all’insurrezione, perché se il governo non cede, il
popolo acquista fiducia in sé e pretende sempre di più, fino a che
l’incompatibilità tra la libertà e l’autorità diventa evidente e scoppia il
conflitto violento.
È necessario dunque
prepararsi moralmente e materialmente perché allo scoppio della lotta violenta
la vittoria resti al popolo.
L’insurrezione vittoriosa è il fatto più efficace per l’emancipazione popolare,
poiché il popolo, scosso il giogo, diventi libero di darsi a quelle istituzioni
che egli crede migliori, e la distanza che passa tra la legge, sempre in
ritardo, ed il grado di civiltà a cui è arrivata la massa della popolazione, è
varcata d’un salto. L’insurrezione determina la rivoluzione, cioè il rapido
attuarsi delle forze latenti accumulate durante la precedente evoluzione.
Tutto sta in ciò che il
popolo è capace di volere. Nelle insurrezioni passate il popolo, inconscio delle
ragioni vere dei suoi mali, ha voluto sempre molto poco, e molto poco ha
conseguito.
Che cosa vorrà nella prossima
insurrezione? Ciò dipende in parte dalla nostra propaganda e dall’energia che
sapremo spiegare.
Noi dovremmo spingere il
popolo ad espropriare i proprietari e mettere in comune la roba, ed organizzare
la vita sociale da sé stesso, mediante associazioni liberamente costituite,
senza aspettare gli ordini di nessuno e rifiutando di nominare o riconoscere
qualsiasi governo, qualsiasi corpo costituito, che sotto un nome qualunque
(costituente, dittatura, ecc.) si attribuisca, sia pure a titolo provvisorio, il
diritto di far la legge ed imporre agli altri con la forza la propria volontà.
E se la massa dei popolo non
risponderà all’appello nostro, noi dovremo – in nome del diritto che abbiamo di
esser liberi anche se gli altri vogliono restare schiavi e per l’efficacia
dell’esempio – attuare da noi quanto più potremo delle nostre idee, e non
riconoscere il nuovo governo, e mantenere viva la resistenza, e far si che le
località dove le nostre idee saranno simpaticamente accolte si costituiscano in
comunanze anarchiche, respingano ogni ingerenza governativa, stabiliscano libere
relazioni con le altre località e pretendano di vivere a modo loro.
Noi dovremo, soprattutto,
opporci con tutti i mezzi alla ricostituzione della polizia e dell’esercito, e
profittare dell’occasione propizia per eccitare i lavoratori delle località non
anarchiche a profittare della mancanza di forza repressiva per imporre quelle
maggiori pretese che a noi riesca indurli ad avere.
E comunque vadano le cose
continuare sempre a lottare, senza un istante di interruzione, contro i
proprietari e contro i governanti avendo sempre in vista la emancipazione
completa, economica, politica e morale di tutta quanta l’umanità.
5. Conclusione
Noi vogliamo dunque abolire
radicalmente la dominazione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, noi vogliamo
che gli uomini affratellati da una solidarietà cosciente e voluta cooperino
tutti volontariamente al benessere di tutti; noi vogliamo che la società sia
costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per
raggiungere il massimo benessere possibile, il massimo possibile sviluppo morale
e materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza.
E per raggiungere questo
scopo supremo noi crediamo necessario che i mezzi di produzione siano a
disposizione di tutti, e che nessun uomo, o gruppo di uomini possa obbligare gli
altri a sottostare alla sua volontà né esercitare la sua influenza altrimenti
che con la forza della ragione e dell’esempio.
Dunque, espropriazione dei
detentori dei suolo e del capitale a vantaggio di tutti, abolizione del governo.
Ed aspettando che questo si possa fare: propaganda dell’ideale; organizzazione
delle forze popolari; lotta continua, pacifica o violenta secondo le
circostanze, contro il governo e contro i proprietari per conquistare quanto più
si può di libertà e di benessere per tutti.
c.
Organizzatori ed antiorganizzatori
Noi conosciamo bene tutte le
deficienze del giornale e, sempre pronti a lasciare il nostro posto a chi fosse
giudicato dai compagni più adatto di noi, accettiamo intanto con piacere e
gratitudine tutti i suggerimenti che ci pervengono, quantunque il più delle
volte non possiamo utilizzarli, sia per incapacità nostra (noi non possiamo
farci più intelligenti e migliori scrittori di quello che siamo), sia per le
difficoltà tecniche e materiali fra le quali ci dibattiamo. E riceviamo con
rispetto anche le critiche che ci sembrano ingiustificate; ma pretendiamo che
non si calunnino le nostre intenzioni, non si travisino i fatti, non si alteri
il nostro pensiero, non ci si faccia dire quello che non abbiamo detto e non si
affetti di ignorare quello che diciamo continuamente.
Siccome nel movimento
anarchico vi è una notevole frazione “individualista” o “antiorganizzatrice” o
“antipartitista”, gli amici-nemici d’Umanità Nova si affannano a dire che
noi formiamo, o vorremmo formare, una specie di corporazione chiusa,
intollerante, dogmatica; che vogliamo fare d’Umanità Nova l’organo
esclusivo dell’Unione Anarchica Italiana (la quale sarebbe poi, secondo
gli stessi, un’organizzazione autoritaria, accentrata con mire dittatoriali,
ecc.); e che noi cestiniamo sistematicamente tutti gli scritti che non
corrispondono alla “nostra” tendenza.
Ma qual è questa “nostra”
tendenza? Io che scrivo sono partigiano dell’organizza-zione operaia e
dell’organizzazione nel partito; vale a dire che, pigliando il nome “partito”
nel senso vero d’insieme di tutti coloro che “parteggiano” e lottano per la
stessa causa, io credo utile che gli anarchici si uniscano in una o più
organizzazioni, transitorie o permanenti, locali o generali, secondo le
circostanze e gli scopi immediati o definitivi che si vogliano raggiungere, per
coordinare gli sforzi e fare quelle cose a cui non basterebbero le forze
degl’individui isolati. E conseguentemente sono aderente all’Unione Anarchica
Italiana, nonché ad altri aggruppamenti che si propongono lavori speciali
che non entrano nel compito generale dell’Unione. Però nella redazione di
Umanità Nova non tutti la pensano allo stesso modo, né tutti aderiscono
all’Unione Anarchica Italiana; e v’è anche chi si dichiara
individualista ed antiorganizzatore. Ciononostante, troviamo modo di andare
d’accordo, perché pensiamo che si può servire la causa con metodi e mezzi
differenti, purché l’uno non cerchi di annientare gli sforzi dell’altro.
Per conto mio non vi è
differenza sostanziale, differenza di principi tra “individualisti” e “comunisti
anarchici”, tra “organizzatori” e “antiorganizzatori”; e si tratta più che
altro di questioni di parole e di malintesi, inaspriti ed ingigantiti da
questioni personali. Lasciando da parte oggi la questione dell’’individualismo”
perché ne ho trattato recentemente rispondendo ad “un compagno venuto
dall’America”, vi è forse tra gli anarchici chi è contrario in massima ad ogni
organizzazione operaia? Si può essere avversi a questo o a quel modo di
organizzazione, e gli anarchici tutti non possono non criticare tutte le
organizzazioni esistenti ed anche tutte quelle possibili nell’attuale ambiente
sociale; si può combattere l’illusione sindacalista che le organizzazioni
operaie bastano per sé sole a risolvere la questione sociale, e noi l’abbiamo
combattuta più di ogni altro – ma non credo che vi siano degli anarchici i quali
vorrebbero veder sparire ogni organizzazione operaia e ritornare i lavoratori
alle condizioni di un secolo fa, quando essi non contavano nulla come
lavoratori, e se si battevano lo facevano per conto ed al comando dei borghesi
senza alcuna coscienza di classe e senza altre speranze di miglioramento che
quella che basavano sulla bontà dei governi e dei padroni. Né credo che
vi sia qualcuno che vorrebbe veder ridotto il vasto movimento operaio, che
travaglia il mondo, alla sola esistenza di sparuti gruppi rivoluzionari, che
sarebbero impotenti a fare qualsiasi cosa importante se non potessero
appoggiarsi a quella parte della massa che nelle associazioni ha acquistato una
coscienza di classe. Se m’inganno, allora lo dicano, e discuteremo.
Ed in quanto
all’organizzazione o alle organizzazioni nel senso del partito, vi è forse chi
vorrebbe che gli anarchici restassero isolati gli uni dagli altri? Certamente
che no. Ed infatti meno qualche raro pensatore (possibile più che reale) il
quale può isolarsi materialmente dai suoi contemporanei e cercare la necessaria
cooperazione intellettuale dei suoi simili nella parola stampata, non v’è
nessuno che possa fare le minima cosa senza associarsi, unirsi con altri. Anche
i fatti più caratteristicamente individuali domandano l’intesa intima di
parecchi! Non chiede tutta un’organizzazione la pubblicazione di un giornale? O
una qualsiasi opera di propaganda e d’educazione alquanto importante? O la
preparazione di una azione risolutiva?
Non potendo dir altro, gli
avversari del “partito” si scagliano contro l’organizza-zione “permanente”,
senza pensare che un’organizzazione è fatta per durare fino a che dura la
ragione per la quale è stata fatta; e che come vi sono dei fatti speciali da
compiere in breve che richiedono un’intesa temporanea, così ve ne sono degli
altri come quello della lotta per l’anarchia, che domandano un’intesa
permanente, la quale cambia gradualmente nei suoi componenti, che poco a poco
muoiono, o restano vittime, o si stancano e sono sostituiti dai giovani
sopravvenuti, ma non ha nessuna ragione per prescrivere volontariamente un
limite di tempo alla sua esistenza. O quando s’organizza la pubblicazione di un
giornale, non si fa come se questo giornale dovesse viver sempre?
Oppure dicono che essi sono
contro un “partito” autoritario, accentrato, che nega e soffoca l’iniziativa
dei singoli. E chi dice il contrario? Non stiamo continuamente predicando alla
gente che bisogna agire, senza aspettare ordini di capi? Che la disciplina deve
consistere nella fedeltà ai propri impegni e nell’obbligo morale di appoggiare i
compagni nelle azioni che si approvano, e non già nel fare quello che uno non
vuol fare, o peggio ancora nel non fare quello che uno crede buono ed utile di
fare? E non diciamo continuamente che le risoluzioni di congressi e di comitati
non obbligano che coloro che le accettano e fino a quando non hanno lealmente
dichiarato di non accettarle più?
Ma un partito può degenerare
e diventare autoritario. È vero… se non e composto di anarchici coscienti; e per
questo noi (e come noi l’Unione Anarchica Italiana e qualunque altra
organizzazione anarchica) non possiamo che fare la propaganda anarchica.
Possono dire che noi non la facciamo continuamente nei nostri scritti, nelle
nostre conferenze, nelle nostre conversazioni e lettere private?
Ma realmente, dato lo spirito
degli anarchici, il pericolo non è quello che un “partito anarchico” diventi
autoritario, ma piuttosto quello ch’esso non giunga a prendere consistenza e non
renda quindi quella somma d’azione che gli anarchici potrebbero dare se
solamente sapessero armonizzare e sommare il loro entusiasmo, il loro coraggio,
il loro spirito di sacrificio. E questo è provato dalla storia di tutte le
organizzazioni e tentativi di organizzazioni che gli anarchici han fatto in
tutto il mondo da quando esiste un movimento anarchico…
d. La
fine dell’anarchismo criticata da Luigi Galleani
I compagni del periodico
anarchico L ‘Adunata dei Refrattari, di Newark, negli Stati Uniti, hanno
nel dicembre passato ripubblicato in volume la serie di brillanti articoli con
cui Luigi Galleani rispondeva, circa 20 anni or sono, a F.S. Merlino, il quale
aveva affermato, in un’intervista con Cesare Sobrero, che l’anarchismo era
morto, o moribondo. Ed hanno fatto opera buona, poiché sarebbe stato un
peccato davvero che quel lavoro fosse andato dimenticato e perduto.
In
sostanza è una esposizione chiara, serena, eloquente del comunismo anarchico,
secondo la concezione kropotkiniana: concezione, che io personalmente trovo
troppo ottimista, troppo facilona, troppo fidente nelle armonie naturali,
ma che non resta meno per questo il contributo più grande che sia stato
dato finora alla propagazione dell’anarchismo.
Non starò ad esporre le tesi
sostenute dal Galleani, perché sono in generale le stesse idee che noi tutti
abbiamo sempre professate e propagate ed anche perché si tratta di un lavoro
tanto sostanzioso e conciso che mal si presta ai riassunti ed agli estratti, ed
è così bene scritto che a toccarlo si rischia di sciuparlo. Noterò soltanto un
punto di dissenso apparente ed uno di dissenso reale.
Il dissenso apparente sta
nella questione dell’organizzazione – non dell’organiz-zazione
operaia intorno alla quale io sono, come sanno i lettori di questa rivista,
quasi completamente d’accordo col Galleani – ma dell’organizzazione
propria degli anarchici come partito, come insieme di uomini che vogliono la
stessa cosa e che hanno interesse ad unire e coordinare i loro sforzi. Galleani
fa una critica severa quanto giusta di una supposta organizzazione
autoritaria, che è una cosa completa mente diversa da quella che gli
anarchici organizzatori predicano e, quando possono, praticano. Ma è una
questione di parola. Se invece di dire organizzazione si dicesse
associazione, intesa, unione o altra parola simile, Galleani
sarebbe certamente il primo a riconoscere che gli sforzi isolati e discordanti
sono impotenti a raggiungere lo scopo. Infatti egli aveva creato in America,
intorno a Cronaca Sovversiva, tutt’una accolta di consensi e di
cooperazioni che, se mai, aveva proprio il difetto autoritario di dipendere
troppo dall’impulso di una sola persona.
Il punto di dissenso reale è
un altro, ed è grave perché può influenzare tutta l’azione pratica degli
anarchici oggi e, più ancora, nei giorni di crisi storiche Galleani dice: “Noi
non possiamo offrire della città libera e felice che qualche magnifico profilo
disegnato dalla speranza, dalla fantasia e da qualche logica e positiva
induzione, piuttosto che da una realtà matematica e sicura. Non
possiamo d’altronde, senza arbitrio e senza ridicolo, erigerne l’architettura
severa e completa. La più ideale delle costruzioni potrebbe parere meschina,
forse anche grottesca ai nostri nepoti che la casa dovrebbero abitare, e la casa
sapranno farsi da sé adeguata ai loro bisogni, rispondere al loro gusto, degna
dell’era più progredita e delle superiori civiltà in cui saranno chiamati a
vivere”.
E sta benissimo Ma poi
aggiunge: “Il nostro compito è più modesto ed anche più perentorio: dobbiamo
lasciare ad essi [ai nipoti] il terreno sgombro dalle fosche ruine, dalle turpi
galere, dai privilegi esosi, dai monopoli rapaci, dagli eunuchi rispetti umani,
dai convenzionalismi bugiardi, da pregiudizi avvelenati tra cui ci aggiriamo
povere ombre in pena; dobbiamo lasciare ad essi sgombra la terra dalle chiese,
dalle caserme, dai tribunali, dai lupanari e soprattutto dall’ignoranza e dalla
paura che li custodiscono assai più fedelmente che non le sanzioni del codice e
i gendarmi”.
Qui appare l’idea, purtroppo
assai sparsa in mezzo ai nostri compagni, che compito degli anarchici sia
semplicemente quello di demolire, lasciando ai posteri l’opera di
ricostruzione. Ed è idea nefasta.
La vita sociale, come la vita
individuale, non ammette interruzione. Sarebbe, per esempio, ridicolo, e
mortale se si facesse davvero, il volere distruggere tutti i forni malsani,
tutti i mulini antieconomici, tutte le culture arretrate rimettendo ai posteri
la cura di cercare ed applicare metodi migliori per coltivare il grano, far la
farina e cuocere il pane. E così per la maggior parte delle istituzioni sociali,
che compiono male qualche funzione necessaria, ma la compiono; e non possono
esser distrutte se non sostituendole con qualche cosa di meglio.
Non si tratta di prescrivere
la linea da seguire ai posteri, i quali profitteranno degli sforzi e delle
esperienze nostre e faranno, c’è da sperarlo, molto meglio di quello che
sapremmo far noi. Si tratta di quello che dobbiamo e dovremo far noi, se non
vogliamo lasciare il monopolio dell’azione pratica ad altri, che
indirizzerebbero il movimento verso orizzonti opposti ai nostri. Quindi
necessità di studi e di preparazione per poter realizzare il più possibile delle
nostre idee a mano a mano che si opera la demolizione.
Questo, almeno, per chi
pensa, come me, che l’anarchia sia una cosa da fare, e non semplicemente da
sognare.
e. Nota
all’articolo “Individualismo anarchico” di Adams
La risposta di Adams
al mio articolo del n. 13 mi fa vedere ch’io non riuscii a bene esprimere il mio
pensiero, e m’induce quindi ad aggiungere qualche schiarimento. Io dissi che
“nei loro moventi morali e nei loro fini ultimi anarchismo individualista e
anarchismo comunista Sono la stessa cosa o quasi”. A questa mia affermazione si
può opporre, lo so, mille testi e non pochi fatti di sedicenti anarchici
individualisti i quali dimostrerebbero che tra anarchici individualisti ed
anarchici comunisti vi è addirittura un abisso morale che li divide. Ma io nego
che quella specie di individualisti possa includersi tra gli anarchici, malgrado
ch’essi amino chiamarsi tali.
Se anarchia significa non
governo, non dominio, non oppressione dell’uomo sull’ uomo come mai può
chiamarsi anarchico, senza mentire a se stesso ed agli altri, uno che vi dice
francamente che per soddisfare il suo Io opprimerebbe gli altri senza
scrupolo alcuno e senza altro limite che quello segnatogli dalla sua forza?
Egli può essere un ribelle, perché si trova in posizione d’oppresso e lotta per
diventare oppressore, come altri più nobili ribelli lottano per distruggere ogni
genere d’oppressione; ma anarchico non può esser di certo. Egli è un aspirante
borghese, un aspirante tiranno che, impotente a realizzare da sé e per le vie
legali i suoi sogni di dominio e di ricchezza si accosta agli anarchici per
sfruttarne la solidarietà morale o materiale.
La questione, secondo me, non
è dunque tra “comunisti” e “individualisti”, ma tra anarchici e non anarchici.
Ed è stato grande torto il nostro, o almeno di molti di noi, quello di
discutere certo preteso “individualismo anarchico” come se fosse davvero una
tra le varie tendenze dell’anarchismo, invece di combatterlo come una delle
tante maschere dell’autoritarismo.
Ma, dice Adams “se si
leva all’anarchismo individualista tutto ciò che non è anarchico non c’è più
anarchismo individualista di sorta”. E qui non siamo d’accordo.
Moralmente l’anarchismo basta
a se stesso: ma per tradursi nei fatti ha bisogno di forme concrete di vita
materiale, ed é la preferenza di una forma all’altra che differenzia l’una
dall’altra le vane scuole anarchiche. Comunismo, individualismo, collettivismo,
mutualismo e tutti i programmi intermedi ed eclettici non sono, nel campo
anarchico, che il modo creduto migliore per realizzare nella vita economica la
libertà e la solidarietà, il modo creduto più rispondente a giustizia ed a
libertà di distribuire tra gli uomini i mezzi di produzione ed i prodotti del
lavoro.
Bakunin era anarchico, ed era
collettivista, nemico fiero del comunismo perché in esso vedeva la negazione
della libertà e quindi della dignità umana. E con Bakunin e lungo tempo dopo di
lui furono collettivisti (proprietà collettiva del suolo, delle materie prime
e degli strumenti di lavoro, e attribuzione del prodotto integrale del lavoro a
ciascun produttore, detratta la quota parte necessaria per i carichi sociali)
quasi tutti gli anarchici spagnoli, che pur erano tra gli anarchici più
coscienti e più conseguenti. Altri per la stessa ragione di difesa e garanzia
della libertà si dichiararono individualisti e vogliono che ciascun abbia in
proprietà individuale la parte che gli spetta dei mezzi di produzione e quindi
la libera disposizione dei prodotti del suo lavoro. Altri escogita sistemi più o
meno complicati di mutualità. Ma insomma è sempre la ricerca di una più sicura
garanzia della libertà che forma la caratteristica degli anarchici e li divide
in scuole diverse.
Noi crediamo che la
distribuzione dei mezzi di produzione naturali e la determinazione del valore di
scambio delle cose necessarie in qualunque sistema fuori del comunismo, mal si
potrebbero attuare senza lotte e senza ingiustizie che poi potrebbero finire
colla costituzione di nuove forme d’autorità e di governi. Ma d’altra parte non
ci nascondiamo il pericolo che un comunismo voluto applicare prima che ne sia
ben radicato il desiderio e la coscienza e più largamente che non lo permettano
le condizioni obiettive della produzione e dei rapporti sociali meni al sorgere
di una burocrazia parassitaria che accetterebbe tutto nelle sue mani e
diventerebbe il peggiore dei governi.
E perciò noi restiamo
comunisti nel sentimento o nell’aspirazione, ma vogliam lasciare libero campo
alla sperimentazione di tutti i modi di vita che si possono immaginare e
desiderare. Per noi è necessario ed è sufficiente che tutti abbiano piena
libertà e che nessuno possa monopolizzare i mezzi di produzione e vivere del
lavoro altrui.
Adams
poi parla della necessità di “un movimento anarchico organizzato, omogeneo,
continuativo e collegato per un’azione comune di lotta e di rivendicazione” e
dice che la nostra propaganda a fatti deve consistere “non nell’aspettare ad
agire, muoversi, organizzarsi, ecc, che tutti quelli che si dicono anarchici
siano d’accordo su quello che si deve fare, ma nel fare subito, noi stessi,
tutti quanti siamo d’accordo, secondo il nostro programma teorico e tattico
senza astenercene per uno sciocco timore d’urtare le suscettibilità dei
dissenzienti delle varie frazioni o tendenze”.
Ed io convengo perfettamente
con lui; ma mi pare ch’egli si sbagli quando pensa che se quello ch’egli
desidera non si è fatto finora, o si è fatto poco e male, sia la colpa degli
“individualisti”. Secondo me la colpa è di uno stato d’animo degli anarchici
che li ha fatti riluttanti ad ogni piano pratico di azione e che deriva da
errori teorici propagati fin dalle origini del nostro movimento. E questi errori
dipendono da una specie di provvidenzialismo naturale, che ha fatto credere che
le vicende umane avvengono automaticamente, naturalmente, senza preparazione,
senza organizzazione, senza piani preconcetti. Come molti di noi credono che la
rivoluzione verrà da sé, quando i tempi saranno maturi, per opera spontanea
della massa, così credono pure che dopo la rivoluzione la spontaneità popolare
basterà a tutto e che non v’è bisogno di prevedere e di preparare nulla. E
questa è la ragione dei mali che Adams lamenta, e non già gli “individualisti”
che dopo tutto sono sempre stati in mezzo a noi una scarsissima minoranza,
generalmente senza credito e senza influenza.
Non sono stati
gl’individualìsti che hanno inventata la massima, secondo me diametralmente
opposta al vero, che “l’anarchia è l’ordine naturale”!
5.
IL GOVERNO RIVOLUZIONARIO
E
LA DITTATURA DEL PROLETARIATO
a.
Prefazione a Luigi Fabbri, Dittatura e Rivoluzione
Carissimo Fabbri, sulla
questione che tanti si preoccupa, quella della dittatura del proletariato, mi
pare che siamo fondamentalmente d’accordo.
A me sembra che su questa
questione l’opinione degli anarchici non potrebbe esser dubbia, ed infatti
prima della rivoluzione bolscevista non era dubbia per nessuno. Anarchia
significa non-governo e quindi a maggior ragione non-dittatura, che è governo
assoluto senza controllo e senza limiti costituzionali.
Ma quando è scoppiata la
rivoluzione bolscevista parecchi nostri amici hanno confuso ciò che era
rivoluzione contro il governo preesistente, e ciò che era nuovo governo che
veniva a sovrapporsi alla rivoluzione per frenarla e dirigerla ai fini
particolari di un partito – e quasi quasi si sono dichiarati bolscevisti essi
stessi.
Ora, i bolscevisti sono
semplicemente dei marxisti, che sono onestamente e conseguentemente restati
marxisti, a differenza dei loro maestri e modelli, i Guesde, i Plekanoff, gli
Hyndmann, gli Scheidemann, i Noske, ecc, ecc., che han fatto la fine che tu sai.
Noi rispettiamo la loro sincerità, ammiriamo la loro energia, ma come non siamo
stati mai d’accordo con loro sul terreno teorico, non sapremmo solidarizzarci
con loro quando dalla teoria si passa alla pratica.
Ma forse la verità è
semplicemente questa: che i nostri amici bolscevizzanti coll’espressione
“dittatura del proletariato” intendono semplicemente il fatto rivoluzionario dei
lavoratori che prendono possesso della terra e degli strumenti di lavoro e
cercano di costituire una società, di organizzare un modo di vita in cui non vi
sia posto per una classe che sfrutti ed opprima i produttori.
Intesa così, la “dittatura
del proletariato” sarebbe il potere effettivo di tutti i lavoratori intenti ad
abbattere la società capitalistica, e diventerebbe l’anarchia non appena fosse
cessata la resistenza reazionaria e nessuno più pretendesse di obbligare con la
forza la massa ad ubbidirgli ed a lavorare per lui. Ed allora il nostro dissenso
non sarebbe più che una questione di parole. Dittatura del proletariato
significherebbe dittatura di tutti, vale a dire non sarebbe più dittatura, come
governo di tutti non è più governo, nel senso autoritario, storico, pratico
della parola.
Ma i partigiani veri della
“dittatura del proletariato” non la intendono così, e ce lo fanno ben vedere in
Russia. Il proletariato naturalmente c’entra come c’entra il popolo nei regimi
democratici, cioè semplicemente per nascondere l’essenza reale della cosa. In
realtà si tratta della dittatura di un partito, o piuttosto dei capi di un
partito; ed è dittatura vera e propria, coi suoi decreti, colle sue sanzioni
penali, coi suoi agenti esecutivi e soprattutto colla sua forza armata, che
serve oggi anche a difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni, ma che
servirà domani per imporre ai lavoratori la volontà dei dittatori, arrestare la
rivoluzione, consolidare i nuovi interessi che si vanno costituendo e difendere
contro la massa una nuova classe privilegiata.
Anche il generale Bonaparte
servì a difendere la rivoluzione francese contro la reazione europea, ma nel
difenderla la strozzò. Lenin, Trotski e compagni sono di sicuro dei
rivoluzionari sinceri, così come essi intendono la rivoluzione, e non
tradiranno; ma essi preparano i quadri governativi che serviranno a quelli che
verranno dopo per profittare della rivoluzione ed ucciderla. Essi saranno le
prime vittime del loro metodo, e con loro, io temo, cadrà la rivoluzione. È la
storia che si ripete: mutatis mutandis, è la dittatura di Robespierre che
porta Robespierre alla ghigliottina e prepara la via a Napoleone.
Queste sono le mie idee
generali sulle cose di Russia. In quanto ai particolari le notizie che abbiamo
sono ancora troppo varie e contraddittorie per potere arrischiare un giudizio.
Può anche darsi che molte cose che ci sembrano cattive siano il frutto della
situazione e che nelle circostanze speciali della Russia non fosse possibile
fare diversamente di quello che hanno fatto. È meglio aspettare, tanto più che
quello che noi diremmo non può avere nessuna influenza sullo svolgimento dei
fatti in Russia, e potrebbe in Italia essere male interpretato e darci l’aria di
far eco alle calunnie interessate della reazione.
L’importante è quello che
dobbiamo fare noi – siamo sempre lì, io sto lontano ed impossibilitato a fare
la parte mia…
b. Gli
anarchici ed i socialisti
Passiamo ora alla questione
di quello che intendiamo fare dopo l’insurrezione vittoriosa. Questa è la
questione essenziale, poiché è il nostro modo di ricostruire che costituisce
propriamente l’anarchismo e che ci distingue dai socialisti. L’insurrezione, i
mezzi per distruggere sono cosa contingente, e a rigore si potrebbe essere
anarchici anche essendo pacifisti, come si può essere socialisti essendo
insurrezionisti.
Si è detto che gli anarchici
sono antistatalisti ed è giusto: ma che cosa è lo Stato? Stato è parola
soggetta a cento interpretazioni, e noi preferiamo adoperare parole chiare che
non dan luogo ad equivoci.
Malgrado la cosa possa
sembrar nuova a chi non ha penetrato il concetto fondamentale dell’anarchismo,
la verità è che i socialisti sono dei violenti, mentre noi siamo contrari ad
ogni violenza, salvo quando essa ci è imposta, per ragion di difesa, dalla
violenza altrui. Siamo per la violenza oggi perché è il mezzo necessario per
abbattere la violenza borghese; saremmo per la violenza domani se ci si volesse
imporre violentemente un modo di vita che non ci convenisse. Ma il nostro
ideale, l’anarchia, è una società fondata sul libero accordo delle libere
volontà dei singoli. Siamo contro l’autorità perché l’autorità è violenza, in
pratica, di pochi contro i molti; ma saremmo contro l’autorità lo stesso, se
essa fosse, secondo l’utopia democratica, la violenza della maggioranza contro
la minoranza.
I socialisti sono
dittatoriali o parlamentari. La dittatura, s’intitoli pure dittatura del
proletariato, é il governo assoluto di un partito, o piuttosto dei capi di un
partito che impongono a tutti il loro speciale programma, quando non siano i
loro speciali interessi. Essa si annunzia sempre provvisoria, ma, come ogni
potere, tende sempre a perpetuarsi e ad ingrandire il proprio potere, e finisce
o col provocare la ribellione ò col consolidare un regime di oppressione.
Noi anarchici non possiamo
non essere avversari di ogni e qualsiasi dittatura. I socialisti, che preparano
gli animi a subire la dittatura, pensino almeno ad assicurarsi che al potere
vadano i dittatori che essi desiderano, giacché, se il popolo è disposto ad
ubbidire, c’è sempre pericolo che ubbidisca ai più abili, cioè ai più malvagi.
Resta il parlamento, la
democrazia. Noi, anche nella migliore ed utopistica ipotesi che i corpi eletti
riescano a rappresentare la volontà della maggioranza non potremmo mai
riconoscere nella maggioranza il diritto d’imporre la propria volontà alla
minoranza per mezzo della legge, cioè per mezzo della forza bruta. Ma vuoi dire
questo che noi non vogliamo organizzazioni coordinazione, divisione e
delegazione di funzioni?
Niente affatto. Noi
comprendiamo tutta la complessità della vita civile e non vogliamo rinunziare a
nessuno dei vantaggi della civiltà; ma vogliamo che tutto, anche le necessarie
limitazioni di libertà sia il risultato del libero accordo, in cui la volontà
di ciascuno non è violentata dalla forza altrui, ma è temperata dall’interesse
che tutti hanno ad accordarsi, nonché dai fatti naturali indipendenti dalla
volontà umana.
L’idea della libera volontà sembra spaventare
i socialisti. Ma, in tutto ciò che dipende dagli uomini, non è sempre la
volontà che decide? E perché allora la volontà degli uni piuttosto che degli
altri? E chi deciderebbe della volontà che ha diritto a prevalere? La forza
brutale? quella che sarebbe riuscita ad assicurarsi un corpo di poliziotti
abbastanza forte?
Noi crediamo che si potrà raggiungere
l’accordo ed arrivare al miglior modo di convivenza sociale solo se nessuno può
imporre la volontà sua colla forza, e ciascuno quindi dovrà cercare, per
necessità di cose oltre che per impulso di spirito fraterno, il modo di
conciliare i desideri propri con quelli degli altri. Un maestro di scuola, mi
si passi l’esempio, che abbia il diritto di bastonare i discepoli e si fa
ubbidire colla sferza, risparmia ogni lavoro intellettuale per comprendere
l’animo dei fanciulli a lui affidati ed alleva dei selvaggi; un maestro invece
che bastonare non può o non vuole cerca di farsi amare e ci riesce.
Noi siamo comunisti; ma il
comunismo imposto dai birri, no. Questo comunismo non solo violerebbe la libertà
che ci è cara, non solo non riuscirebbe a produrre effetti benefici perché gli
mancherebbe il cordiale concorso delle masse e dovrebbe contare solo sull’azione
sterile e perniciosa dei burocrati, ma condurrebbe certamente alla ribellione,
la quale, essendo per le circostanze anti-comunista, rischierebbe di finire in
una restaurazione borghese.
Questa differenza di
programma tra noi ed i socialisti ci farà nemici l’indomani della rivoluzione,
ed indurrà gli anarchici, che probabilmente saranno in minoranza, a preparare
una nuova insurrezione violenta contro i socialisti? Non necessariamente.
L’anarchia, l’abbiamo
ripetuto spesso, non si fa per forza e noi non potremmo voler imporre agli altri
le nostre concezioni, senza cessare di essere anarchici, Ma noi anarchici
vorremo vivere anarchicamente per quanto le circostanze esteriori e le capacità
nostre ce lo permetteranno.
Se i socialisti ci lasceranno
libertà di propaganda, di organizzazione, di sperimentazione; se non vorranno
obbligarci colla forza ad ubbidire alle loro leggi quando noi sapessimo vivere
ignorandole, allora non vi sarà nessuna ragione di conflitto violento.
Una volta conquistata la
libertà ed assicuratoci il diritto di disporre dei mezzi di produzione, noi
contiamo, per il trionfo dell’Anarchia, solo sulla superiorità delle nostre
idee. Ed intanto potremmo concorrere tutti, ciascuno coi metodi suoi, al bene
comune. Chè se invece i governanti socialisti volessero con la forza dei
poliziotti, sottoporre i recalcitranti alloro dominio, allora… sarebbe la
lotta.
c. Le due
vie: libertà o dittatura
Al contrario degli anarchici
vi sono molti rivoluzionari i quali non hanno fiducia nell’i-stinto costruttivo
nelle masse, credono di avere essi la ricetta infallibile per assicurare la
felicità universale, temono la possibile reazione, temono forse più la
concorrenza di altri partiti ed altre scuole di riformatori sociali, e vogliono
perciò impossessarsi del potere e sostituire al governo “democratico” di oggi un
governo dittatoriale.
Dittatura dunque: ma chi
sarebbero i dittatori? Naturalmente, pensano essi, i capi del loro partito.
Dicono ancora per abitudine contratta o per desiderio cosciente di evitare le
spiegazioni chiare, “dittatura del proletariato” ma questa è una burletta
oramai sfatata.
Ecco come si spiega Lenin, o
chi per lui (vedi Avanti! del 20 luglio 1920): “La dittatura significa
l’abbattimento della borghesia per opera di un’“avanguardia rivoluzionaria
[questa è la rivoluzione e non già la dittatura], in contrasto con la concezione
che sia anzitutto necessario ottenere una maggioranza nelle elezioni. Per mezzo
della dittatura si ottiene la maggioranza non già per mezzo della maggioranza la
dittatura”. [E sta bene; ma se è una minoranza che, impossessatasi del potere,
deve poi conquistare la maggioranza è una menzogna il parlare di dittatura del
proletariato. Il proletariato è evidentemente la maggioranza].
“La dittatura significa
l’impiego della violenza e del terrore” [Per opera di chi e contro chi? Poiché
si suppone la maggioranza ostile e non può trattarsi, nel concetto dittatoriale
di folla scatenata che prende nelle sue mani la cosa pubblica, evidentemente la
violenza ed il terrore dovranno essere praticati contro tutti coloro che non si
piegano ai voleri dei dittatori per mezzo di sgherani al servizio di essi
dittatori].
“La libertà di stampa e di
riunione equivarrebbe ad autorizzare la borghesia ad avvelenare l’opinione
pubblica.” [Dunque dopo l’avvento della dittatura “del proletariato” che
dovrebbe essere la totalità dei lavoratori, vi sarà ancora una borghesia che
invece di lavorare avrà i mezzi di avvelenare “l’opinione pubblica” ed una
opinione pubblica da avvelenare estranea a quei proletari che dovrebbero
costituire la dittatura? Vi saranno dei censori onnipotenti che giudicheranno
di quello che si può o non si può stampare e dei questori a cui bisognerà
domandare il permesso per tenere un comizio. Inutile dire quale sarebbe la
libertà lasciata a chi non è ligio ai dominatori del momento].
“Soltanto dopo la espropriazione degli
espropriatori, dopo la vittoria, il proletariato attirerà a sé le masse della
popolazione che prima seguiva la borghesia”. [Ma ancora una volta che cosa è
questo proletariato che non è la massa che lavora? Proletariato non significa
dunque chi non ha proprietà ma chi ha certe date idee ed appartiene ad un dato
partito?].
Lasciamo dunque questa falsa espressione di
dittatura del proletariato atta a produrre tanti equivoci e discutiamo della
dittatura quale essa è veramente, cioè il governo assoluto di uno o più
individui i quali, appoggiandosi su di un partito o su di un esercito,
s’impadroniscono della forza sociale ed impongono “colla violenza e col
terrore” la loro volontà.
Quale sarà questa volontà
dipende dalla specie di persone che all’atto pratico riusciranno ad
impossessarsi del potere. Nel caso nostro si suppone che sarà la volontà dei
comunisti e quindi una volontà ispirata al desiderio del bene di tutti.
È già una cosa molto dubbia,
poiché generalmente gli uomini meglio dotati delle qualità necessarie per
arraffare il potere non sono i più sinceri ed i più devoti alla causa pubblica;
e se si predica alle masse la necessità di sottomettersi ad un nuovo governo
non si fa che spianare la via agli intriganti ed agli ambiziosi.
Ma supponiamo pure che i nuovi governanti, i
dittatori che dovrebbero realizzare gli scopi della rivoluzione siano dei veri
comunisti, pieni di zelo, convinti che dall’opera loro, dall’energia loro
dipenda la felicità del genere umano. Sarebbero degli uomini sul tipo dei
Torquemada e dei Robespierre che, a fine di bene, in nome della salute privata o
pubblica, soffocherebbero ogni voce discorde, distruggerebbero ogni alito di
vita libera e spontanea: e poi, impotenti a risolvere i problemi pratici da
loro sottratti alla competenza degli interessati, dovrebbero per amore e per
forza lasciare il posto ai restauratori del passato.
La grande giustificazione
della dittatura sarebbe l’incapacità delle masse e la necessità di difendere la
rivoluzione dai tentativi reazionari. Se davvero le masse fossero armento bruto
incapace di vivere senza il bastone del pastore, se non vi fosse già una
minoranza sufficientemente numerosa e cosciente capace di trascinare le masse
colla predicazione e coll’esempio, allora comprenderemmo meglio i riformisti, i
quali temono la sollevazione popolare e s’illudono di potere poco a poco, a
forza di piccole riforme,che sono poi piccoli rammendi, minare lo Stato
borghese e preparare le vie al socialismo; comprenderemmo meglio gli
educazionisti che non valutando abbastanza l’influenza dell’am-biente sperano di
poter cambiare la società cambiando prima tutti gli individui; non potremmo
comprendere affatto i partigiani della dittatura, che vogliono educare ed
elevare le masse “colla violenza e col terrore” e dovrebbero elevare a primi
fattori di educazione i gendarmi ed i censori.
In realtà nessuno potrebbe
istituire la dittatura rivoluzionaria se prima il popolo non avesse fatta la
rivoluzione, mostrando così a fatti la sua capacità di farla; ed allora la
dittatura non farebbe che sovrapporsi alla rivoluzione, sviarla, soffocarla ed
ucciderla.
In una rivoluzione politica
in cui si mira solo a buttar giù il governo lasciando in piedi tutta
l’organizzazione sociale esistente, può una dittatura impossessarsi del potere,
mettere i suoi uomini al posto dei funzionari scacciati ed organizzare dall’alto
il nuovo regime. Ma in una rivoluzione sociale, dove sono rovesciate tutte le
basi della convivenza sociale, dove la produzione indispensabile deve essere
ripresa subito per conto e vantaggio dei lavoratori, dove la distribuzione deve
essere immediatamente regolata secondo giustizia, la dittatura non potrebbe far
nulla, O il popolo provvederebbe da sé nei diversi comuni e nelle diverse
industrie, o la rivoluzione sarebbe fallita.
Forse in fondo i partigiani
della dittatura (e già alcuni lo dicono apertamente) non desiderano subito che
una rivoluzione politica, vale a dire che vorrebbero senz’altro impossessarsi
del potere e poi gradualmente trasformare la società per mezzo di leggi e di
decreti. In tal caso essi avrebbero probabilmente la sorpresa di vedere al
potere ben altri che loro stessi; e in tutti i casi dovrebbero prima d’ogni
altra cosa pensare a organizzare la forza armata (i poliziotti) necessaria ad
imporre il rispetto delle loro leggi. Intanto la borghesia che sarebbe restata
sostanzialmente la detentrice della ricchezza, superato il momento critico
dell’ira popolare, preparerebbe la reazione, riempirebbe la polizia di propri
agenti, sfrutterebbe il disagio e la disillusione di coloro che si aspettavano
l’immediata realizzazione del paradiso terrestre… e ripiglierebbe il potere o
attirando a sé i dittatori, o sostituendoli con uomini suoi.
Quella paura della reazione,
addotta a giustificazione del regime dittatoriale dipende appunto dal fatto che
si pretende fare la rivoluzione lasciando sussistere ancora una classe
privilegiata in condizione di poter riprendere il potere.
Se invece s’incomincia con
l’espropriazione completa, allora borghesi non ve ne sarà più; e tutte le forze
vive del proletariato, tutte le capacità esistenti saranno impiegate nell’opera
di ricostruzione sociale.
Del resto, in un paese come
l’Italia (per applicare il già detto al paese in cui svolgiamo la nostra
attività), in un paese come l’Italia, dove le masse sono pervase da istinti
libertari e ribelli, dove gli anarchici rappresentano una forza considerevole,
più che per le loro organizzazioni, per l’influenza che possono esercitare, un
tentativo di dittatura non potrebbe essere fatto senza scatenare la guerra
civile tra lavoratori e lavoratori e non potrebbe trionfare se non per mezzo
della più feroce tirannia. Allora, addio comunismo! Non v’è che una via
possibile di salvezza: la Libertà.
d.
Prefazione all’edizione spagnola di Luigi Fabbri, Dittatura e Rivoluzione
Dopo circa due anni da quando
fu scritto, il libro di Luigi Fabbri a proposito della rivoluzione russa
conserva tutta la sua freschezza e resta il lavoro più completo e più organico
che io conosca sull’argomento. Anzi gli avvenimenti posteriori che si sono
svolti in Russia sono venuti a confermare il valore del libro dando
un’ulteriore e più evidente conferma sperimentale alle deduzioni che il Fabbri
cavava dai fatti allora conosciuti e dai principi generali sostenuti dagli
anarchici.
Materia del libro è un caso
particolare del vecchio eterno conflitto tra libertà e autorità che ha riempito
di sé tutta la storia passata e travaglia più che mai il mondo contemporaneo, e
dalle cui vicende dipende la sorte della rivoluzione in atto e di quelle che
stanno per venire.
La rivoluzione russa si è
svolta con lo stesso ritmo di tutte le rivoluzioni passate. Dopo un periodo
ascendente verso una maggiore giustizia ed una maggiore libertà, che è durato
fino a quando l’azione popolare attaccava ed abbatteva i poteri costituiti, è
sopravvenuto, non appena un nuovo governo è riuscito a consolidarsi, il periodo
della reazione, l’opera, a volte lenta e graduale, a volte rapida e violenta,
del nuovo potere, intesa a distruggere quanto più è possibile delle conquiste
della Rivoluzione e a stabilire un ordine che assicuri la permanenza al potere
della nuova classe governante e difenda gli interessi dei nuovi privilegiati e
di quelli tra i vecchi che sono riusciti a sopravvivere alla tormenta.
In Russia, grazie a
circostanze eccezionali il popolo abbatté il regime zarista, costruì per libera
e spontanea iniziativa i suoi soviet (che furono comitati locali di operai e
contadini, rappresentanti diretti dei lavoratori e sottoposti al controllo
immediato degli interessati), espropriò gli industriali ed i grandi proprietari
fondiari ed incominciò ad organizzare sulla base dell’uguaglianza e della
libertà e con criteri di giustizia, sia pure relativa, la nuova vita sociale.
Così la Rivoluzione si andava
sviluppando e, compiendo il più grandioso esperimento sociale che la storia
ricordi si apprestava a dare al mondo l’esempio di un grande popolo che mette
in opera per sforzo proprio tutte le sue facoltà, e raggiunge la sua
emancipazione ed organizza la sua vita conformemente ai suoi bisogni, ai suoi
istinti, alla sua volontà, senza la pressione di una forza esteriore che lo
inceppi e lo costringa a servire gli interessi di una casta privilegiata.
Disgraziatamente però, tra gli uomini che maggiormente contribuirono a dare il
colpo decisivo al vecchio regime, vi erano dei fanatici dottrinari, ferocemente
autoritari perché fermamente convinti di possedere “la verità” e di avere la
missione di salvare il popolo il quale, secondo la loro opinione non
poteva salvarsi se non per le vie indicate da loro. Costoro, profittando del
prestigio che dava loro la parte presa nella rivoluzione e soprattutto della
forza che veniva loro dalla propria organizzazione, riuscirono ad impossessarsi
del potere, riducendo all’impotenza gli altri, ed in specie gli anarchici, che
avevano contribuito alla rivoluzione quanto e più di loro, ma non potettero
opporsi validamente alla loro usurpazione, perché disgregati senza intese
preventive, quasi senza alcuna organizzazione.
Da allora la rivoluzione era
condannata. Il nuovo potere, come è nella natura di tutti i governi, volle
assorbire nelle sue mani tutta la vita del paese e sopprimere ogni iniziativa,
ogni movimento che sorgesse dalle viscere popolari. Creò in sua difesa prima un
corpo di pretoriani, poi un esercito regolare ed una potente polizia che
uguagliò e superò in ferocia e mania liberticida quella stessa del regime
zarista. Costituì un’innumere burocrazia; ridusse i soviet a puri
strumenti del potere centrale o li sciolse colla forza delle baionette;
soppresse con la violenza, spesso sanguinaria ogni opposizione; volle imporre
il programma sociale agli operai e ai contadini riluttanti, e così scoraggiò e
paralizzò la produzione. Difese bensì con successo il territorio russo dagli
attacchi della reazione europea, ma non riuscì con questo a salvare la
rivoluzione poiché l’aveva strozzata esso stesso, pur cercando di difendere le
apparenze formali. Ed ora si sforza di farsi riconoscere dai governi borghesi,
di entrare con loro in rapporti cordiali, di ristabilire il sistema
capitalistico… insomma di seppellire definitivamente la rivoluzione. Così tutte
le speranze che la rivoluzione russa aveva suscitate nel proletariato mondiale
saranno state tradite. La Russia non tornerà certo allo stato di prima, poiché
una grande rivoluzione non passa mai senza lasciar tracce profonde, senza
scuotere ed innalzare l’animo popolare e senza creare delle nuove possibilità
per l’avvenire. Ma i risultati ottenuti resteranno ben inferiori a quello che
avrebbero potuto essere e si sperava che fossero, ed enormemente sproporzionati
alle sofferenze patite ed al sangue versato.
Noi non vogliamo troppo
approfondire la ricerca delle responsabilità. Certo molta colpa del disastro
spetta alle direttive autoritarie che si dettero alla rivoluzione; molta colpa
spetta anche alla singolare psicologia dei governanti bolscevichi, che pur
sbagliando e riconoscendo e confessando i loro errori, restano sempre convinti
lo stesso d’essere infallibili e vogliono sempre imporre con la forza le loro
mutevoli e contraddittorie volontà. Ma è altrettanto, o più vero ancora, che
quegli uomini si sono trovati alle prese con difficoltà inaudite e che forse
molto di quello che a noi sembra errore e malvagità, fu l’effetto ineluttabile
della necessità.
E perciò noi volentieri ci
asterremmo dal dare un giudizio, lasciando che giudichi più tardi la storia
serena ed imparziale, se è vero che una storia serena ed imparziale sia mai
possibile. Ma v’è in Europa tutto un partito che è abbacinato dal mito russo e
vorrebbe imporre alle prossime rivoluzioni gli stessi metodi bolscevichi che
hanno uccisa la rivoluzione russa; ed è urgente quindi mettere in guardia le
masse in generale, ed i rivoluzionari in specie, contro il pericolo dei
tentativi dittatoriali dei partiti bolscevizzanti. E il Fabbri ha reso un
segnalato servizio alla causa mostrando all’evidenza la contraddizione che v’è
tra dittatura e rivoluzione.
L’argomento principe di cui
si servono i difensori della dittatura che si continua a chiamare dittatura
del proletariato, ma è poi in realtà – ormai tutti ne convengono – dittatura
dei capi di un partito sopra tutta quanta la popolazione, l’argomento principe,
dico, è la necessità di difendere la rivoluzione contro i tentativi interni di
restaurazione borghese e contro gli attacchi che verrebbero dai governi esteri,
se il proletariato dei loro paesi non sapesse tenerli in rispetto facendo, o
almeno minacciando di fare, esso stesso la rivoluzione appena l’esercito fosse
impegnato in una guerra.
Non v’è dubbio che bisogna difendersi; ma dal
sistema che si adopera nella difesa dipende in gran parte la sorte della
rivoluzione. Che se per vivere si dovesse rinunziare alle ragioni ed agli scopi
della vita, se per difendere la rivoluzione si dovesse rinunziare alle
conquiste che sono lo scopo primo della rivoluzione, allora varrebbe meglio
essere vinti onoratamente e salvare le ragioni dell’avvenire, anziché vincere
tradendo la propria causa. La difesa interna bisogna assicurarla distruggendo
radicalmente tutte le istituzioni borghesi e rendendo impossibile ogni ritorno
al passato. È vano il volere difendere il proletariato contro i borghesi
mettendo questi in condizioni d’inferiorità politica. Fino a che vi sarà gente
che ha e gente che non ha, quelli che hanno finiranno sempre col burlarsi delle
leggi; anzi, appena svaniti i primi bollori popolari, sono essi che andranno al
potere e faranno le leggi.
Vane le misure di polizia,
che possono ben servire ad opprimere, ma non serviranno mai per liberare. Vano,
e peggio che vano micidiale, il cosiddetto terrore rivoluzionario. Certo è tanto
grande l’odio, il giusto odio, che gli oppressi covano nell’animo loro, sono
tante le infamie commesse dai governi e dai signori, sono tanti gli esempi, di
ferocia che vengono dall’alto, tanto il disprezzo della vita e delle sofferenze
umane che ostentano le classi dominanti, che non c’è da meravigliarsi se in un
giorno di rivoluzione la vendetta popolare scoppia tremenda ed inesorabile. Noi
non ce ne scandalizzeremmo e non cercheremmo di frenarla se non con la
propaganda, poiché il volerla frenare altrimenti porterebbe alla reazione. Ma è
certo, secondo noi, che il terrore è un pericolo e non già una garanzia di
successo per la rivoluzione. Il terrore in generale colpisce i meno
responsabili; mette in valore i peggior elementi, quelli stessi che avrebbero
fatto i birri e i carnefici sotto il vecchio regime e sono felici di sfogare,
in nome della rivoluzione, i loro cattivi istinti e soddisfare sordidi
interessi.
E questo se si tratta del
terrore popolare esercitato direttamente dalle masse contro i loro oppressori
diretti. Ché se poi il terrore dovesse essere organizzato da un centro, fatto
per ordine di governo per mezzo della polizia e dei tribunali cosiddetti
rivoluzionari, allora esso sarebbe il mezzo più sicuro per uccidere la
rivoluzione e sarebbe esercitato, più che a danno dei reazionari, contro gli
amanti di libertà che resistessero agli ordini del nuovo governo ed
offendessero gli interessi dei nuovi privilegiati.
Alla difesa, al trionfo della rivoluzione si
provvede interessando tutti alla sua riuscita, rispettando la libertà di tutti
e levando a chiunque non solo il diritto, ma la possibilità di sfruttare il
lavoro altrui. Non bisogna sottomettere i borghesi ai proletari, ma abolire
borghesia e proletariato assicurando a ciascuno la possibilità di lavorare nel
modo che vuole e mettendo tutti gli uomini validi nell’impossibilità di vivere
senza lavorare.
Una rivoluzione sociale, che
dopo aver vinto sta ancora in pericolo di essere sopraffatta dalla classe
spossessata è una rivoluzione che si é arrestata a mezzo cammino; e per
assicurarsi la vittoria non ha che da andare sempre più avanti sempre più in
fondo.
Resta la questione della
difesa contro il nemico di fuori. Una rivoluzione che non vuol finire sotto i
talloni di un soldato fortunato non può difendersi che per mezzo di milizie
volontarie, facendo in modo che ogni passo fatto dagli stranieri sul territorio
insorto li faccia cadere in un tranello, cercando di offrire tutti i vantaggi
possibili ai soldati mandati per forza e trattando senza pietà gli ufficiali
nemici che vengono volontariamente. Si deve organizzare il meglio possibile
l’azione guerresca; ma è essenziale evitare che coloro i quali si specializzano
nella lotta militare esercitino, in quanto militari, una qualsiasi azione sulla
vita civile della popolazione.
Noi non neghiamo che dal
punto di vista tecnico più un esercito è retto autoritariamente e più ha
probabilità di vittoria, e che il concentramento di tutti i poteri nelle mani
di uno solo – se capita che quest’uno sia un genio militare – costituirebbe un
grande elemento di successo. Ma la questione tecnica non ha che una importanza
secondaria – e se per rischiare una sconfitta da parte dello straniero si
dovesse rischiare di uccidere noi stessi la rivoluzione, si servirebbe molto
male la causa.
L’esempio della Russia serve
a tutti. Il farsi mettere il freno nella speranza di essere meglio guidati non
può condurre che alla schiavitù. Tutti i rivoluzionari studino il libro di
Fabbri. È necessario per esser bene preparati ad evitare gli errori in cui sono
caduti i Russi.
6.
L’ALLUVIONE FASCISTA
a. Ricominciando: il compito dell’ora presente
Dico la mia opinione sui
bisogni del nostro movimento nell’ora attuale. I compagni giudicheranno ed
agiranno con quella disciplina anarchica che non e l’ubbidienza ai voleri di
altri, ma spontanea coerenza con le proprie convinzioni.
Quando tornai in Italia,
nelle circostanze che tutti conoscono, la rivoluzione era all’ordine del
giorno. Proletariato, borghesia, governo, partiti, tutti vivevano nella
speranza o nel timore di una prossima, imminente sollevazione popolare, dalla
quale poteva risultare un radicale cambiamento negli ordini politici ed
economici. Ma, come sempre, occorreva la spinta iniziale per determinare il
movimento ed occorreva l’intesa di nuclei coscienti e fattivi per indirizzare
detto movimento a scopi determinanti ed impedire che esso si esaurisse in
disordini inutili e sanguinosi, senza risultati tangibili e duraturi.
La situazione era urgente. Lo
stato di tensione spirituale in cui si trovavano le masse non poteva durare a
lungo; il governo o la borghesia sarebbero usciti dallo stato di depressione
morale e d’impotenza materiale in cui erano caduti, e difatti già
incominciavano ad apprestare i mezzi di repressione; né le condizioni
economiche, colle crescenti esigenze dei lavoratori e la progressiva diminuzione
della produzione, potevano ammettere il prolungarsi di una condizione di ansia
e di incertezza che impediva al capitalismo di funzionare mentre non permetteva
il lavoro libero, associato, senza sfruttamento padronale, che avrebbe dovuto
risolvere il problema.
Il partito socialista che
comprendeva allora anche coloro che poi si sono costituiti in partito comunista,
e che era di gran lunga il più forte tra i partiti anticostituzionali, cercava
di procrastinare nella convinzione, o col pretesto, che il tempo lavorava per
noi, che ogni giorno passato aumentava la probabilità di vittoria.
A me sembrava il contrario, e
perciò desideravo che quel che si poteva fare si facesse subito. La storia
passata non m’ispirava soverchia fiducia nella capacità e soprattutto nella
volontà rivoluzionaria dei dirigenti socialisti, e d’altra parte come anarchico
non potevo non avere le peggiori prevenzioni contro il regime burocratico e
dittatoriale che, in caso dì vittoria, i socialisti avrebbero tentato
d’imporci.
Ma come fare? Noi eravamo troppo poco numerosi
per potere, con qualche probabilità di successo, prendere da soli l’iniziativa
dell’azione; e pure bisognava fare il possibile perché la situazione tanto
eccezionalmente favorevole alla rivoluzione non andasse miseramente sciupata!
Perciò io fui tra i più caldi fautori del “fronte unico” che fu uno sforzo per
trascinare all’azione coloro che, avendo promesso la rivoluzione, gli uni per
scopi sporcamente elettorali, gli altri per un transitorio entusiasmo provocato
dai fatti di Russia, non potevano decentemente confessare che essi la
rivoluzione non la volevano, perché, a non parlare che delle ragioni oneste, non
la credevano possibile.
I fatti mi hanno dato torto. Il “fronte unico”
non era stato voluto realmente che dagli anarchici e quando venne il momento di
agire si sfasciò miseramente.
Il modo come si strozzò il magnifico
movimento, che poteva ben essere risolutivo dell’occupazione delle fabbriche,
la fine vergognosa dell’agitazione pro vittime politiche cessata non appena
furono arrestati i membri anarchici del comitato mostrarono quanto torto avevamo
avuto fidando nel concorso degli “affini”.
Noi dicemmo parole dure,
gridammo al tradimento; ed avevamo ragione se consideriamo le
promesse che i socialisti avevano fatto alle masse, se ci ricordiamo il modo
come essi soffocavano ogni agitazione promettendo la rivoluzione sicura a breve
scadenza. L’Avanti!, per esempio, per indurre gli operai a
lasciare tranquillamente le fabbriche assicurava che la rivoluzione
si sarebbe fatta “tra poche settimane”!
Ma se trascuriamo i modi poco
leali e guardiamo il fondo delle cose, se consideriamo il tipo di organizzazione
adottato dai socialisti ed il personale che costituisce la loro classe
dirigente, e principalmente la maniera come essi concepiscono il divenire
rivoluzionario, allora dovremo convenire che non furono essi i traditori,
ma noi gl’ingenui.
b. Che
fare?
“Che fare?” è la domanda che
con più o meno forza tormenta sempre l’animo di tutti gli uomini lottanti per
un ideale e che risorge imperiosa nei momenti di crisi, quando un insuccesso,
una disillusione spinge al riesame della tattica seguita, alla critica degli
errori eventuali, ed alla ricerca di mezzi più efficaci. E ben fa il compagno
Outcast a rimettere la questione sul tappeto ed invitare i compagni a
riflettere ed a decidere sul da farsi.
La situazione oggi è per noi
difficile ed in certe regioni addirittura disastrosa. Ma insomma chi era
anarchico resta anarchico, e, se da una parte siamo indeboliti dalle molteplici
sconfitte, abbiamo guadagnato dall’altra una preziosa esperienza, che aumenterà
in seguito la nostra efficienza, se poco poco sappiamo farne tesoro. Le
defezioni, del resto rare, che si sono prodotte nel campo nostro in fondo ci
giovano perché ci hanno sbarazzato di elementi deboli ed infidi. Che fare
dunque?
Non m’intratterrò
dell’agitazione fatta all’estero contro la reazione italiana. Certamente tutto
ciò che serve a far conoscere al proletariato mondiale le vere condizioni
d’Italia e le infamie inaudite che sono state commesse e continuano a
commettersi dagli scherani della borghesia per soffocare e distruggere ogni
movimento emancipatore, non può che giovare. Già leggiamo di un comizio
internazionale di protesta contro il fascismo che ha avuto luogo a New York il
18 corrente – siam sicuri che i nostri amici e quanti han senso di libertà e di
giustizia faranno tutto quello che possono in America, Inghilterra, Francia,
Spagna, ecc.
Ma a noi interessa soprattutto quello che si deve fare qui in Italia, perché
siamo noi che dobbiamo farlo, e perché, se è bene tener conto di tutte le forze
ausiliarie, è essenziale però non contare troppo sugli altri e cercare la salute
in noi stessi, nell’ opera nostra.
Noi in questi ultimi anni ci
siamo accostati per un’azione pratica ai diversi partiti d’avanguardia e ne
siamo usciti sempre male. Dobbiamo per questo isolarci, rifuggire dai contatti
impuri, e non muoverci o tentare di muoverci se non quando potremo
farlo con le sole nostre forze ed in nome del nostro programma integrale?
Io non lo credo. Poiché la rivoluzione non
possiamo farla da soli, cioè poiché non possiamo colle nostre sole forze
attirare e spingere all’azione le grandi masse necessarie alla vittoria, e
poiché anche aspettando un tempo illimitato le masse non potranno diventare
anarchiche prima che la rivoluzione sia incominciata, e noi resteremo
necessariamente una minoranza relativamente piccola fino al giorno in cui
potremo cimentare le nostre idee nella pratica rivoluzionaria, negare il nostro
concorso agli altri ed aspettare per agire di essere in grado di farlo da soli,
sarebbe in pratica, e malgrado le parole grosse ed i propositi radicali, un fare
opera addormentatrice ed impedire che s’incominci colla scusa di volere con un
salto arrivare di botto alla fine.
So bene – se non lo sapessi
da lungo tempo lo avrei appreso recentemente – che salvo individui e gruppi che
mordono il freno della disciplina dei partiti autoritari e vi restano colla
speranza che i loro capi un qualche giorno si decideranno ad ordinare l’azione
generale noi, gli anarchici, siamo i soli a volere la rivoluzione davvero, ed a
volerla il più presto possibile Ma so anche che le circostanze sono spesso più
forti della volontà degli individui e che una volta o l’altra, se i nostri
cugini dei vari lati non vorranno morire ignomigniosamente come partiti e fare
omaggio alla monarchia di tutte le loro idee e di tutte le loro tradizioni, di
tutti i loro sentimenti migliori, dovranno decidersi a rischiare la lotta
finale. Oggi potrebbero anche esservi spinti dalla necessità di difendere la
loro libertà, i loro beni, la loro vita.
Noi dovremmo quindi essere
sempre disposti a secondare chi vuole agire, anche se questo implica il rischio
di essere poi lasciati soli e traditi. Ma nel dare agli altri il nostro
concorso, o meglio nel cercare sempre di utilizzare le forze degli altri e
profittare di tutte le possibilità di azione, noi dobbiamo restare sempre noi
stessi, e metterci in grado di far sentire la nostra influenza e contare almeno
in proporzione delle nostre forze reali. E per questo importa intendersi,
collegarsi, organizzarsi nel modo più efficace possibile.
Altri, per fini che non vogliamo qualificare
continui pure a svisare e calunniare i nostri scopi. Tutti i compagni che
vogliono fare davvero, giudicheranno che cosa convenga loro di fare. In questo
momento, come in tutti i periodi di depressione e di stasi, siamo afflitti da
una recrudescenza di bizantinismo; e v’è chi si diverte a discutere se siamo un
partito o un movimento, se bisogna unirsi in unioni o federazioni e mille altre
simili sciocchezze; forse sentiremo dire un’altra volta che “i gruppi non
debbono avere né segretario né cassiere, ma debbono incaricare un compagno di
custodire il denaro”. I bizantini son capaci di tutto; ma gli uomini fattivi
lascino cuocere nel loro brodo quelli in buona fede e soprattutto quelli in
cattiva fede, e pensino a fare. Ciascuno faccia quello che gli pare, con chi gli
pare, ma faccia.
Nessun uomo di buona fede e
di buon senso negherà che per agire con efficacia bisogna intendersi, unirsi,
organizzarsi. Oggi la reazione tende a soffocare ogni movimento pubblico, e
naturalmente il movimento tende a “nascondersi sotto terra”, come dicevano i
russi. Ritorniamo alla necessità dell’organizzazione segreta, e sia. Ma
l’organizzazio-ne segreta non può esser tutto e non può comprendere tutti.
Noi abbiamo bisogno di
mantenere e di accrescere il nostro contatto colle masse, abbiamo bisogno di
cercare nuovi proseliti facendo la più ampia propaganda possibile, abbiamo
bisogno di serbare nel movimento tutti quegli elementi che non sono adatti per
un’organizzazione segreta e quelli che per essere troppo conosciuti
rischierebbero di comprometterla. Non bisogna dimenticare che i membri più utili
per un’organizzazione segreta sono quelli di cui gli avversari non sanno le
idee, e che possono lavorare senza essere sospettati.
Non bisogna dunque, secondo me, disfare nulla
di quello che esiste. Bisogna aggiungervi dell’altro: e quest’altro sia fatto in
modo che risponda ai bisogni del momento. Non si aspetti l’iniziativa degli
altri: che ciascuno prenda le iniziative che crede nella sua località, nel suo
ambiente, e cerchi poi, colle dovute precauzioni, di collegare la propria alle
altrui iniziative per arrivare a quell’intesa generale che è necessaria per
un’azione che valga. Siamo, è vero, in un momento di depressione. Ma oggi la
storia cammina veloce: apprestiamoci per i prossimi avvenimenti.
c.
Discorrendo di rivoluzione
Noi abbiamo sempre ricercata
l’alleanza di tutti quelli che vogliono fare la rivoluzione per potere abbattere
la forza materiale del comune nemico, ma abbiamo sempre altamente proclamato che
questa alleanza doveva durare solo il tempo dell’atto insurrezionale, e che
subito dopo o magari, se possibile e necessario, durante la stessa insurrezione
cercheremmo di attuare le idee nostre opponendoci alla costituzione di
qualsiasi governo, di qualsiasi centro autoritario, e trascinando le masse alla
presa di possesso immediata di tutti i mezzi di produzione e di tutta la
ricchezza sociale ed all’organizzazione diretta della nuova vita sociale
conformemente al grado di sviluppo ed alla volontà delle stesse masse nelle
varie località.
Purtroppo i partiti sovversivi autoritari
italiani han mostrato di non avere capacità e voglia di fare la rivoluzione e
dureranno a non potere e non volere farla sino a quando saranno affetti dalla
lue parlamentaristica. Ma ciò non impedisce che noi, non potendo fare la
rivoluzione da soli, dobbiamo spiare tutte le occasioni che potrebbero, magari
contro la volontà dei capi, determinare un movimento insurrezionale. E d’altra
parte, se anche vedessimo la possibilità di fare da soli una insurrezione
vittoriosa, non dovremmo noi – poiché il nostro scopo non è fare un colpo di
mano per impossessarci del potere, ma è quello di suscitare tutte le energie
popolari ad iniziare l’era della libera evoluzione – non dovremmo noi far
appello a tutti i partiti sovversivi, a tutte le organizzazioni proletarie per
cercare di trascinare nel movimento tutta la massa che sta divisa tra i vari
partiti e le varie organizzazioni?
Noi non vogliamo “aspettare che le masse
diventino anarchiche per fare la rivoluzione”, tanto più che siamo convinti che
esse non lo diventeranno mai se prima non si abbattino violentemente le
istituzioni che le tengono in schiavitù. E siccome noi abbiamo bisogno del
concorso delle masse, sia per costituire una forza materiale sufficiente, sia
per raggiungere il nostro scopo specifico di combattimento radicale
dell’organismo sociale per opera diretta delle masse, noi dobbiamo accostarci
ad esse, prenderle come sono, e come parti di esse spingerle il più avanti che
sia possibile. Questo, s’intende, se vogliamo davvero lavorare per l’attuazione
pratica dei nostri ideali e non già contentarci di predicare al deserto per la
semplice soddisfazione del nostro orgoglio intellettuale. (…)
I lavoratori non seppero
opporre la violenza alla violenza perché erano stati educati a credere nella
legalità, e perché, anche quando ogni illusione era diventata impossibile e
gl’incendi e gli assassini si moltiplicavano sotto lo sguardo benevolo delle
autorità, gli uomini in cui avevano fiducia predicarono loro la pazienza, la
calma, la bellezza e la saggezza di farsi battere “eroicamente” senza resistere
– e perciò furono vinti ed offesi negli averi, nelle persone, nella dignità,
negli affetti più sacri.
Forse, quando tutte le
istituzioni operaie erano state distrutte, le organizzazioni sbandate, gli
uomini più invisi e considerati più pericolosi, uccisi o imprigionati o
comunque ridotti all’impotenza, la borghesia ed il governo avrebbero voluto
mettere un freno ai nuovi pretoriani che oramai aspiravano a diventare i padroni
di quelli che avevano serviti. Ma era troppo tardi. I fascisti oramai sono i più
forti ed intendono farsi pagare ad usura i servizi resi. E la borghesia
pagherà, cercando naturalmente di ripagarsi sulle spalle del proletariato. In
conclusione, aumentata miseria, aumentata oppressione.
In quanto a noi, non abbiamo
che da continuare la nostra battaglia, sempre pieni di fede, pieni di
entusiasmo. Noi sappiamo che la nostra via è seminata di triboli, ma la
scegliemmo coscientemente e volontariamente, e non abbiamo ragione per
abbandonarla. Così sappiano tutti coloro i quali han senso di dignità e pietà
umana e vogliono consacrarsi alla lotta per il bene di tutti, che essi debbono
essere preparati a tutti i disinganni, a tutti i dolori, a tutti i sacrifici.
Poiché non mancano mai di
quelli che si lasciano abbagliare dalle apparenze della forza ed hanno sempre
una specie di ammirazione segreta per chi vince, vi sono anche dei sovversivi i
quali dicono che “i fascisti ci hanno insegnato come si fa la rivoluzione”.
No, i fascisti non ci hanno
insegnato proprio nulla. Essi hanno fatto la rivoluzione, se rivoluzione si vuoI
chiamare, col permesso dei superiori ed in servizio dei superiori. Tradire i
propri amici, rinnegare ogni giorno le idee professate ieri, se così conviene
al proprio vantaggio, mettersi al servizio dei padroni, assicurarsi
l’acquiescenza delle autorità politiche e giudiziarie, far disarmare dai
carabinieri i propri avversari per poi attaccarli in dieci contro uno,
prepararsi militarmente senza bisogno di nascondersi, anzi ricevendo dal governo
armi, mezzi di trasporto ed oggetti di casermaggio, e poi esser chiamato dal re
e mettersi sotto la protezione di dio… è tutta roba che noi non potremmo e non
vorremmo fare. Ed è tutta roba che noi avevamo preveduto che avverrebbe il
giorno in cui la borghesia si sentisse seriamente minacciata.
Piuttosto l’avvento del
fascismo deve servire di lezione ai socialisti legalitari, i quali credevano,
ahimè! credono ancora, che si possa abbattere la borghesia mediante i voti della
metà più uno degli elettori, e non vollero crederci quando dicemmo loro che se
mai raggiungessero la maggioranza in parlamento e volessero – tanto per fare
delle ipotesi assurde – attuare il socialismo dal parlamento, ne sarebbero
cacciati a calci nel sedere.
e. I
nostri propositi
Anarchici, noi restiamo
anarchici malgrado tutto e malgrado tutti. Noi siamo stati vinti in quel
periodo di lotta che si è chiuso colla “presa di Roma” dell’ottobre 1922. Ma non
sarà una sconfitta, del resto prevedibile, che ci farà rinunziare alla lotta,
né alla speranza e certezza di vincere. Non vi rinunzieremo nemmeno per cento,
mille sconfitte, poiché sappiamo che nei progressi umani è stato sempre a forza
di perdere che s’è finito col vincere.
Invece, noi studieremo le
ragioni che furono causa del nostro insuccesso per trovarci meglio preparati ad
agire con risultati migliori quando circostanze nuove ci richiameranno
all’azione pratica.
Quali furono i nostri errori?
Quali le nostre deficienze? Quale la nostra parte di responsabilità nella
sconfitta?
A parte le questioni tecniche
di organizzazione e di preparazione, che non vanno trattate in questo luogo,
gli anarchici, o almeno il più degli anarchici, han creduto le cose molto più
facili di quello che realmente sono, e si sono beatamente cullati in una specie
di provvidenzialismo, che ha fatto creder loro che bastano un ideale
luminoso ed uno spirito eroico perché poi tutto si accomodasse da sé. Han
creduto nella “spontaneità delle masse”, nell’“ordine naturale” ed in
altri miti creati dal desiderio ed anche da pigrizia intellettuale… e la
“natura” è restata sorda e cieca come sempre, e le masse hanno ondeggiato da un
polo all’altro secondo che le spingeva ora l’illusione di un facile paradiso,
ora la speranza dì qualche meschino vantaggio materiale, ora lo scoraggiamento e
la livida paura.
No! le cose non si accomodano
da sè, e le masse, fino a che non saranno illuminate, sono materia bruta, buona,
secondo che i coscienti ed i volenti le guidano, per ogni opera bella come per
ogni mostruosità.
In
fondo, resta sempre vero il proverbio che “il mondo è di chi se lo piglia”, cioè
favorisce gli uni o gli altri, cammina avanti o indietro secondo gl’impulsi che
riceve. Ma a volerselo pigliare si è in molti e pèr scopi vani e
contrastanti. Bisogna quindi che si tenga conto di tutte le forze operanti per
dirigerne la risultante il più possibile verso la propria meta.
Sapere quello che si vuole,
misurare quello che si può, ed invece di perdersi nei sogni, preparare un
programma pratico applicabile mano mano alle questioni che giornalmente si
presentano e non già buono solo per quando l’anarchia sarà fatta. Ecco quello
che occorre. Santo è l’ideale; ma esso non si realizza da sé per “leggi
storiche” o per interventi provvidenziali. C’è una via, o piuttosto ci sono
delle vie per giungere all’ideale, e queste vie noi ci proponiamo specialmente
di studiare.
In alto i cuori. I tempi sono
tristi, e dalle parole che dicono alcuni nostri collaboratori in questo primo
numero spira una certa aria di pessimismo. Ma non importa. Il pessimismo, quando
non è vile adattamento, quando è coscienza delle difficoltà, serve a meglio
temprare gli animi alla lotta. La grandezza degli ostacoli sia la misura dello
sforzo che tutti dobbiamo fare.
f. Dopo
un’eventuale trionfo insurrezionale
Io non parlerò del modo come
può essere combattuta ed abbattuta la tirannia che oggi opprime il popolo
italiano. Qui noi ci proponiamo di fare semplicemente opera di chiarificazione
delle idee e di preparazione morale in vista di un avvenire, prossimo o
lontano, perché non ci è possibile far altro. E del resto, quando credessimo
giunto il momento di una più fattiva azione… ne parleremmo anche meno. Mi
occuperò dunque solo, e ipoteticamente, dell’indomani di una insurrezione
trionfante e dei metodi di violenza che alcuni vorrebbero adoperare per “fare
giustizia” ed altri credono necessari per difendere la Rivoluzione contro le
insidie dei nemici.
Mettiamo da parte “la
giustizia”, concetto che è servito sempre di pretesto a tutte le oppressioni, a
tutte le ingiustizie e che spesso non significa altro che vendetta. L’odio ed
il desiderio di vendetta sono sentimenti irrefrenabili che l’oppressione
naturalmente risveglia ed alimenta; ma se essi possono rappresentare una forza
utile a scuotere il giogo, sono poi una forza negativa quando si tratta di
sostituire all’oppressione non un’oppres-sione novella, ma la libertà e la
fratellanza fra gli uomini. E perciò noi dobbiamo sforzarci di suscitare quei
sentimenti superiori che attingono l’energia nel fervido amore del bene, pur
guardandoci dallo spezzare l’impeto, fatto di fattori buoni e cattivi,
necessario a vincere. Lasciamo che la massa agisca come la passione la spinge,
se per meglio indirizzarla occorresse metterle un freno che si tradurrebbe in
una nuova tirannia – ma ricordiamoci sempre che noi anarchici non possiamo
essere né dei vendicatori, né dei “giustizieri”. Noi vogliamo essere dei
liberatori e dobbiamo agire come tali per mezzo della predicazione e
dell’esempio.
Occupiamoci della questione
più importante, che è poi la sola cosa seria messa innanzi, in quest’argomento,
dai miei critici: la difesa della rivoluzione. Vi sono ancora molti che sono
affascinati dall’idea del “terrore”. Ad essi sembra che ghigliottina,
fucilazioni, massacri, deportazioni, galera (“forca e galera” mi diceva
recentemente un comunista dei più noti) siano armi potenti ed indispensabili
della rivoluzione, e trovano che se tante rivoluzioni sono state sconfitte e
non han dato il risultato che se ne aspettava è stato a causa della bontà, della
“debolezza” dei rivoluzionari, che non hanno perseguitato, represso, ammazzato
abbastanza.
È un pregiudizio corrente in
certi ambienti rivoluzionari, che ha origine dalla rettorica e dalle
falsificazionì storiche de gli apologisti della Grande Rivoluzione
Francese e che è stato rinvigorito in questi ultimi anni dalla propaganda dei
bolscevichi. Ma la verità è proprio l’opposto; il terrore è sempre stato
strumento di tirannia. In Francia servì alla bieca tirannia di Robespierre e
spianò la via a Napoleone ed alla susseguente reazione. In Russia han
perseguitato ed ucciso anarchici e socialisti, han massacrato operai e contadini
ribelli, ed han stroncato insomma lo slancio di una rivoluzione che
poteva davvero aprire alla civiltà un’era novella.
Coloro che credono nella
efficacia rivoluzionaria, liberatrice della repressione e della ferocia hanno
la stessa mentalità arretrata dei giuristi i quali credono che
si possa evitare il delitto e moralizzare il mondo per mezzo di pene severe.
Il terrore, come la guerra, risveglia i
sentimenti atavici belluini ancora mai coperti da una vernice di civiltà, e
porta ai primi posti gli elementi peggiori che sono nella popolazione. E
piuttosto che servire a difendere la rivoluzione serve a discreditarla, a
renderla odiosa alle masse e, dopo un periodo di lotte feroci, mette capo
necessariamente a quello che oggi chiamerebbero “normalizzazione”, cioè alla
legalizzazione e perpetuazione della tirannia. Vinca una parte o l’altra, si
arriva sempre alla costituzione di un governo forte, il quale assicura agli uni
la pace a spese della libertà ed agli altri il dominio senza troppi pericoli.
So bene che gli anarchici
terroristi (quei pochi che vi Sono) respingono ogni terrore organizzato,
fatto per ordine di un governo da agenti prezzolatì, e vorrebbero che fosse la
massa che direttamente mettesse a morte i suoi nemici. Ma questo non farebbe che
peggiorare la situazione. Il terrore può piacere ai fanatici, ma conviene
soprattutto ai veri malvagi avidi di denaro e di sangue. E non bisogna
idealizzare la massa e figurarsela tutta composta di uomini semplici, che
possono bensì commettere degli eccessi, ma sono sempre animati da buone
intenzioni. I birri ed i fascisti servono i borghesi, ma escono dal seno della
massa!
Il fascismo ha accolto molti
delinquenti e così ha, fino ad un certo punto, purificato preventivamente
l’ambiente in cui si svolgerà la rivoluzione; ma non bisogna credere che tutti i
Dumini e tutti i Cesarino Rossi siano fascisti. Vi sono di quelli che per una
ragione qualsiasi non hanno voluto o non han potuto diventare fascisti; ma sono
disposti a fare in nome della “rivoluzione” quello che i fascisti fanno in nome
della “patria”. E d’altronde, come gli scherani di tutti i regimi sono stati
sempre pronti a mettersi al servizio dei nuovi regimi e diventarne i più zelanti
strumenti, così i fascisti di oggi si affretteranno domani a dichiararsi
anarchici, o comunisti o quel che si voglia, pur di continuare a fare i
prepotenti e sfogare i loro istinti malvagi E se non potranno nei loro paesi
perché conosciuti e compromessi, andranno a fare i rivoluzionari altrove e
cercheranno di emergere mostrandosi più violenti, più “energici” degli altri e
trattando da moderati, da codini, da “pompieri” da contro-rivoluzionari quelli
che la rivoluzione concepiscono come una grande opera di bontà e di amore.
Certamente la rivoluzione va
difesa e sviluppata con logica inesorabile; ma non si deve e non si può
difenderla con mezzi che contraddicono ai suoi fini. Il grande mezzo di difesa
della rivoluzione resta sempre quello di togliere ai borghesi i mezzi economici
del dominio, di armare tutti (fino a quando non si possa indurre tutti a
gettare le armi come giocattoli inutili e pericolosi) e di interessare alla
vittoria tutta la grande massa della popolazione. Se per vincere si dovesse
elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere.
g.
Repubblica?
Si afferma che, mutata la
situazione attuale, si farà la repubblica. E sia! Conveniamo anche noi che, non
potendo noi per mancarla di consensi e di forze sufficienti, instaurare oggi la
libera federazione delle comunità anarchiche, la sola soluzione pratica
immediata del problema politico è la repubblica. Ma che specie di repubblica
sarà quella che dovrà governarci e, naturalmente opprimerci e sfruttarci?
Giuseppe Mazzini diceva, ed i repubblicani ripetono approvando: “L’argomento
continuamente ripetuto che per fondare la repubblica si richiedono anzi tutto
repubblicani e virtù repubblicane, somma a dire che l’educazione repubblicana
deve darsi dalle monarchie e, in altri termini, che la fede in un principio
deve insegnarsi dal principio contrario. Le repubbliche. si formano appunto per
creare, con l’educazione repubblicana, i repubblicani”.
Ma allora chi farà questa
repubblica che dovrà creare i repubblicani? Il popolo per mezzo del suffragio
universale? Il popolo, nella sua stragrande maggioranza non è repubblicano, e
non può esserlo perché, secondo lo stesso Mazzini, è stato educato dalla
monarchia ad un principio contrario. Perciò si potrà ben fare una repubblica
come se ne son fatte tante in America ed in Europa per la mancanza di
pretendenti monarchici abbastanza forti e prestigiosi e per altre circostanze
politiche; ma sarà, al pari di tutte le altre esistenti, una repubblica
fondata, come le monarchie, sui privilegi di pochi e sulla miseria e l’ignoranza
dei molti, non già quella repubblica vagheggiata dal Mazzini, che dovrebbe
creare repubblicani e virtù repubblicane.
Infatti la repubblica esiste
da secoli in Svizzera, esiste da oltre un secolo nelle Americhe, da
cinquantacinque anni in Francia, e in nessun luogo vediamo un popolo
repubblicano nel senso elevato che Mazzini dava alla parola. Dappertutto domina
il capitalismo, dappertutto durano gli stessi mali che si lamentano nelle
monarchie, dappertutto urge sempre il pericolo della reazione e la minaccia di
un fascismo nazionale.
L’esperienza storica degli ultimi
centocinquanta anni smentisce tutte le speranze poste nel suffragio universale
e nel governo popolare. La democrazia, intesa come strumento di liberazione e
di giustizia, ha fatto fallimento dovunque e sempre; essa non ha fatto che
illudere il popolo con la parvenza di una bugiarda sovranità, ha tradito la
volontà della stessa maggioranza ed ha sostituito l’onnipotenza di una piccola
oligarchia di capitalisti e di politicanti a quella dei re e degli imperatori.
Per emanciparsi bisogna essere capaci e degni di emancipazione, e per arrivare
a quella capacità ed a quella dignità bisogna prima essere emancipati. Come si
esce da questo circolo vizioso?
Esclusa la monarchia, più o
meno costituzionale, escluso il cosiddetto governo della maggioranza
(democrazia), non restano altri modi di reggimento politico che la dittatura e
l’anarchia. Forse nel pensiero intimo di Mazzini era la dittatura (“la
dittatura dei migliori”), che avrebbe dovuto educare il popolo alle virtù
repubblicane e fondare la vera repubblica. Ma né Mazzini, né quelli che egli
avrebbe giudicati migliori, avevano le qualità che occorrono per conquistare ed
esercitare la dittatura. Uomini di fede e d’alta moralità, sacerdoti dì
un’idea, inceppati dai più nobili scrupoli, essi avrebbero potuto, se i tempi
fossero stati propizi, fondare forse una religione ed una chiesa, ma certamente
non avrebbero potuto dominare uno Stato e resistere all’assalto degl’interessi
contrari. Di ben altra stoffa e ben meno pura, sono fatti i dittatori!
Esempi contemporanei ci
dispensano dal fare una critica estesa del sistema dittatoriale. Esso, senza
parlare delle difficoltà pratiche che lo rendono impotente a risolvere i
problemi sociali, è la negazione della libertà e dell’iniziativa, e quindi non
può dare quell’educazione che si acquista solo coll’esercizio della libertà.
Perciò noi siamo decisamente avversi – ed in questo crediamo avere consenzienti
i repubblicani – ad ogni dittatura, sia che si presenti apertamente come dominio
di uno o pochi individui, sia che si nasconda dietro la maschera di un partito o
di una classe.
Resta l’anarchia. Ma se
l’anarchia non può farsi subito perché la grande massa non la comprende e non
la vuole? Certo l’anarchia qual regime generale applicato in tutti i luoghi ed
a tutte le funzioni della vita sociale non può farsi domani; ma può sempre
farsi, quando vi sia libertà sufficiente, in quei luoghi ed in quelle categorie
dove si trovano anarchici forti abbastanza per applicare le loro idee.
Dunque, non governo di uno,
di pochi o di molti, non governo della maggioranza, ma libertà per tutti di
fare quello che sono capaci di fare, senza ledere l’eguale libertà degli altri.
Ed in fondo è così, con spirito e con metodi essenzialmente, anche se
incoscientemente, anarchici, per libera iniziativa di individui e di
aggruppamenti volontari, che il mondo ha progredito, che la civiltà è andata
faticosamente costituendosi. I governi, autocratici o democratici, monarchici o
repubblicani sono stati sempre fattori di conservazione e di reazione, sempre
difensori dei privilegi stabiliti, sempre ostacolo al progresso; e si è andato
avanti solo quando, ed in quanto, delle forze, intellettuali e materiali, sono
riuscite a sfuggire alla pressione governativa.
Il problema dunque è di conquistare almeno un
minimo di libertà, indispensabile ad ogni progresso. In Italia avremo la
repubblica, e noi contribuiremo al suo trionfo concorrendo ad abbattere
l’ostacolo comune che preclude il cammino a noi ed ai repubblicani; ma non
diventeremo repubblicani per questo. Noi profitteremo delle circostanze per
rinforzare la nostra compagine, per allargare la nostra propaganda e mireremo
sempre all’immediata espropriazione dei capitalisti, come condizione preliminare
di ogni vera libertà.
Io non sono repubblicano,
perché repubblica significa democrazia, cioè, nel senso più genuino della
parola, governo della maggioranza. Ed io sono contrario al governo della
maggioranza come al governo della minoranza – anche lasciando da parte la
questione, pure importantissima, del modo come fatalmente, in qualunque regime
elettoralistico, si fabbrica una maggioranza e se ne falsifica la
opinione. Perciò sono anarchico.
Gli aggettivi “sociale”,
“federalista” ecc. appiccicati alla parola repubblica mi sono sempre sembrati
una burletta. Vi possono essere dei repubblicani socialisti, come ve ne possono
essere borghesi o clericali, dei repubblicani unitari e accentratori, come dei
repubblicani federalisti e discentratori, i quali potranno fare la propaganda
per far votare le leggi che loro piacciono. Ma la repubblica resta la
repubblica, cioè una forma di governo a cui dà sostanza la volontà di quelli
che riescono a farsi passare come rappresentanti della maggioranza – e se la
sua proclamazione non sarà preceduta da una profonda rivoluzione sociale che
distrugga nel fatto il privilegio economico, essa sarà necessariamente
capitalistica e accentratrice, e forse anche clericale.
Un governo repubblicano, come
qualsiasi altro governo, tende innanzi tutto a consolidare e ad allargare il
suo potere; ed il solo limite alle sue invasioni contro la libertà dei singoli,
individui o collettività, sta nella resistenza che si riesce ad opporgli. Il
compito degli anarchici, poiché non possono per mancanza di forza e di consensi
fare l’anarchia dappertutto, è di creare alimentare, organizzare quella
resistenza, rifiutare per conto loro qualsiasi contributo obbligatorio allo
Stato (servizio militare, pagamento d’imposte, ecc.) e reclamare e pretendere
per loro e per quelli che con loro consentono, piena libertà e libero accesso ai
mezzi di produzione.
h. Perchè
voglio rimanere in Italia
Non voglio abbandonare
l’Italia, sebbene, malgrado l’apparenza di libertà che mi è concessa, io sia
prigioniero come se fossi chiuso in una cella o in una tomba. Tutti i miei
movimenti sono sorvegliati; i poliziotti non mi lasciano un momento; la
corrispondenza è censurata se ricevo una visita, se qualcuno, per la strada, mi
rivolge la parola o mi saluta, se vado a trovare un amico, inchieste e rapporti
seguono immediatamente compromettendo spesso le persone con le quali sono in
relazione.
È una situazione
intollerabile e ne soffro assai. Può darsi che, essendo in Francia, io abbia
l’opportunità, insieme con te e coi nostri compagni, tra i rifugiati e
proscritti italiani, numerosissimi a Parigi, di fare un lavoro più utile. Come
tu dici, potrei spendervi, ai fini della nostra propaganda il bisogno d’attività
che mi tormenta.
Ciononostante, non voglio allontanarmi da
Roma. Mussolini non è immortale; il regime abominevole che la dittatura
fascista impone all’Italia non può più durare a lungo; un giorno verrà e
presto, forse, in cui questo regime odioso crollerà. Ebbene, io voglio essere
qui. Quasi tutti gli amici nostri sono carcerati o proscritti Quando avverrà il
crollo dei fascismo, rientreranno in massa e con tanto più ardore alla lotta,
quanto più a lungo ne saranno stati, loro malgrado, lontani; ma non
conosceranno abbastanza bene la situazione: saranno poco o male informati sul
corso degli avvenimenti, sulla mentalità delle masse popolari, sui centri di
agitazione antifascista e sulle possibilità di azione rivoluzionaria, ed
avranno necessariamente di quelle esitazioni, di quelle mancanze d’audacia, di
quegli eccessi di temerità, di quegli errori tattici che possono riuscire
fatali ai movimenti rivoluzionari.
Ebbene! Io sarò qui. So bene
che non ci sono uomini indispensabili ma in determinate circostanze, ce ne sono
degli utilissimi ed io spero che il giorno in cui, scosso il giogo
dittatoriale e debellato il virus fascista, il proletariato d’Italia
ritornerà allo spirito di rivolta e al senso della libertà, io spero che quel
giorno la mia presenza e la mia lunga esperienza non saranno inutili.
Comprendi, ora, per quali gravi ragioni, e malgrado il dispiacere che ne provo,
ricuso di abbandonare il posto, di vigilanza oggi e di lotta domani, che gli
eventi mi assegnano?
5. Alla ricerca
dell’anarchismo: problemi della transizione
1. IL GRADUALISMO ANARCHICO
a. La
rivoluzione in pratica
Noi vogliamo fare la
rivoluzione al più presto possibile, profittando di tutte le occasioni che si
possono presentare. Meno un piccolo numero di “educazionisti”, i quali credono
nella possibilità di elevare le masse alle idealità anarchiche prima che siano
cambiate le condizioni materiali e morali in cui esse vivono e quindi rimettono
la rivoluzione a quando tutti saranno capaci di vivere anarchicamente, gli
anarchici sono tutti d’accordo in questo desiderio di rovesciare al più presto
possibile i regimi vigenti: anzi spesso sono essi soli quelli che mostrano una
reale volontà di farlo.
Del resto, rivoluzioni ne
sono avvenute, ne avvengono e ne avverranno indipen-dentemente dalla volontà e
dall’azione degli anarchici; e poiché gli anarchici non sono che una
piccolissima minoranza della popolazione e l’anarchia non è cosa che si possa
fare per forza, per imposizione violenta di alcuni, è chiaro che le rivoluzioni
passate e quelle prossime future non sono state e non potranno essere
rivoluzioni anarchiche.
In Italia due anni or sono la
rivoluzione stava per scoppiare e noi facemmo tutto quello che potemmo per farla
scoppiare, e trattammo da traditori del proletariato i sociali-sti ed i
confederali che, in occasione dei moti contro il caro-vita, degli scioperi del
Piemonte, della sommossa di Ancona, dell’occupazione delle fabbriche,
arrestarono lo slancio delle masse e salvarono il traballante regime monarchico.
Che cosa avremmo fatto se la
rivoluzione fosse scoppiata davvero? Che cosa faremo nella rivoluzione che
scoppierà domani? Che cosa han fatto, che cosa avrebbero potuto e dovuto fare i
nostri compagni nelle recenti rivoluzioni avvenute in Russia, in Baviera, in
Ungheria ed altrove?
Noi non possiamo far
l’anarchia, o almeno l’anarchia estesa a tutta una popolazione ed a tutti i
rapporti sociali perché finora nessuna popolazione è anarchica, e non possiamo
accettare un altro regime senza rinunziare alle nostre aspirazioni e perdere
ogni ragion di essere in quanto anarchici. E allora che cosa possiamo e dobbiamo
fare?
Questo era il
problema messo in discussione a Bienne, e questo è il problema che maggiormente
interessa nel momento attuale, così gravido di possibilità, quando ci potremmo
trovare improvvisamente di fronte a situazioni tali che c’impongano di agire
subito e senza esitazione o di sparire dal campo della lotta dopo di aver
facilitata la vittoria agli altri.
Non si trattava di dipingere
una rivoluzione quale noi la vorremmo, una vera rivoluzione anarchica quale
sarebbe possibile se tutti, o almeno la grande maggioranza degli uomini
abitanti un dato territorio fossero anarchici. Si trattava invece di cercare
quello che di meglio si potrebbe fare in favore della causa anarchica in un
rivolgimento sociale quale può avvenire nella realtà presente.
I partiti autoritari hanno un
programma determinato e vogliono imporlo colla forza; perciò aspirano ad
impossessarsi del potere, non importa se con mezzi legali od illegali, e quindi
trasformare la società a modo loro, mediante una nuova legislazione. E da
questo dipende il fatto che essi, rivoluzionari a parole e spesso anche nelle
intenzioni, esitano poi a fare la rivoluzione quando le occasioni si
presentano; essi non sono sicuri della acquiescenza sia pure passiva, della
maggioranza, non hanno forza militare sufficiente per far eseguire i loro
ordini su tutto il territorio, mancano di uomini devoti competenti in tutte le
infinite branche dell’attività sociale… e sono quindi indotti a rinviare sempre
l’azione a più tardi, fino a quando la sommossa popolare non li spinga quasi
riluttanti al governo, dove poi vorrebbero restare indefinitivamente, e perciò
cercano di frenare, sviare, arrestare la rivoluzione che li ha innalzati.
Noi al contrario abbiamo
bensì un ideale per il quale combattiamo, che vorremmo veder realizzato, ma non
crediamo che un ideale di libertà, di giustizia, di amore possa realizzarsi per
mezzo della violenza governativa. Noi non vogliamo andare al potere e non
vogliamo che nessuno vi vada. Se non possiamo impedire, per mancanza di forza,
che governi esistano e si costituiscano, noi ci sforziamo e ci sforzeremo perché
questi governi restino o diventino più deboli che sia possibile, e perciò siamo
sempre pronti ad agire quando si tratta di abbattere o di indebolire un
governo, senza troppo (dico troppo e non punto) preoccuparci di quello che
verrà dopo.
Per noi la violenza non serve
e non può servire che a respingere la violenza e quando invece è adoperata per
raggiungere dei finì positivi, o fallisce completamente, o riesce a stabilire
l’oppressione e io sfruttamento degli uni sugli altri. La costituzione di una
società di liberi, ed il suo progressivo miglioramento non può essere che il
risultato della libera evoluzione; ed il nostro compito di anarchici è appunto
quello di difendere, di assicurare la libertà dell’evoluzione.
Abbattere, o concorrere ad
abbattere il potere politico, qualunque esso sia, con tutta la sequela di forze
repressive che lo sostengono; impedire, o cercare d’impedire che si
costituiscano nuovi governi e nuove forze repressive, e in tutti i casi non
riconoscere mai alcun governo e restare sempre in lotta contro di esso e
reclamare, e pretendere potendo anche colla forza, il diritto di organizzarci e
vivere come ci pare ed esperimentare le forme sociali che ci sembrano migliori,
sempre, s’intende, che non ledano l’eguale libertà degli altri: ecco la nostra
missione.
Fuori di questa lotta contro
l’imposizione governativa che genera e rende possibile lo sfruttamento
capitalistico; quando avessimo spinto ed aiutato la massa del popolo ad
impossessarsi della ricchezza esistente e specialmente dei mezzi di
produzione, quando fossimo arrivati al punto che nessuno possa imporre agli
altri con la violenza la propria volontà e nessuno possa colla forza sottrarre
agli altri il prodotto del loro lavoro, noi non potremmo più che agire mediante
la propaganda e l’esempio.
Distruggere le istituzioni i meccanismi, le
organizzazioni sociali esistenti? Certamente, se si tratta d’istituzioni
repressive, ma esse in fondo non sono che piccola cosa nella complessità della
vita sociale. Polizia, esercito, carcere, magistratura, cose potenti per il
male, non esercitano che una funzione parassitaria. Sono altre le istituzioni e
le organizzazioni che, bene o male, riescono ad assicurare la vita all’umanità;
e queste istituzioni non si possono utilmente distruggere se non sostituendole
con qualche cosa di meglio.
Lo scambio delle materie
prime e dei prodotti, la distribuzione delle sostanze alimentari, le ferrovie,
le poste e tutti i servizi pubblici esercitati dallo Stato o dai privati, sono
stati organizzati in modo da servire interessi monopolistici e capitalistici,
ma rispondono ad interessi reali della popolazione. Non possiamo disorganizzarli
(e del resto non ce lo permetterebbe la popolazione interessata) se non
riorganizzandoli in modo migliore. E questo non si può fare in un giorno; né,
allo stato delle cose, noi abbiamo le capacità necessarie a farlo. Felicissimi
dunque se, aspettando che possano farlo gli anarchici, lo facciano altri, magari
con criteri diversi dai nostri.
La vita sociale non ammette
interruzioni, e la gente vuol vivere il giorno della rivoluzione, il giorno
dopo, e sempre. Guai a noi, guai all’avvenire delle nostre idee, se noi
dovessimo assumere la responsabilità di una distruzione insensata che
compromettesse la continuità della vita!
Discutendo di queste materie
fu sollevata a Bienne la questione del danaro questione grave quanto altre mai.
D’abitudine nel campo nostro si risolve semplicisticamente la questione dicendo
che il danaro si deve abolire. E sta bene, se si tratta di una società
anarchica, o di una ipotetica rivoluzione da fare di qui a cento anni, sempre
nell’ipotesi che le masse possano diventare anarchiche e comuniste prima che una
rivoluzione abbia cambiate radicalmente le condizioni in cui vivono. Ma oggi la
questione è ben altrimenti complicata.
Il danaro è mezzo potente di
sfruttamento e di oppressione; ma è anche il solo mezzo (fuori della più
tirannica dittatura, o del più idillico accordo) escogitato finora
dall’intelligenza umana per regolare automaticamente la produzione e la
distribuzione. Per ora, forse più che preoccuparsi dell’abolizione del denaro,
bisognerebbe cercare un modo perché il denaro rappresenti davvero lo sforzo
utile fatto da chi lo possiede.
Ma veniamo alla pratica immediata, che è la
questione che veramente si discuteva a Bienne. Figuriamoci che domani avvenga
una insurrezione vittoriosa. Anarchia o non anarchia, bisogna che la
popolazione continui a mangiare ed a soddisfare a tutti i bisogni primordiali.
Bisogna che le grandi città siano approvvigionate più o meno come d’abitudine.
Se i contadini e i carrettieri, ecc., si rifiutano di fornire i generi che sono
nelle loro mani ed i loro servizi gratuitamente, senza riceverne il danaro che
essi sono abituati a considerare ricchezza reale, che cosa si fa? Obbligarli
colla forza? allora non solo addio anarchia, ma addio ogni qualsiasi
rivolgimento per il meglio. La Russia insegni. Dunque?
Ma, rispondono generalmente i
compagni, i contadini comprenderanno i vantaggi del comunismo o almeno della
permuta diretta tra merce e merce. Sta benissimo; ma non certo in un giorno, e
la gente non può restare senza mangiare nemmeno un giorno.
Io non ho inteso proporre
delle soluzioni. Intendo piuttosto richiamare l’attenzione dei compagni sopra
problemi gravissimi, di fronte ai quali ci troveremo nella realtà di domani.
b. Ancora
sulla rivoluzione in pratica
Il mio
ultimo articolo sull’argomento ha attirato l’attenzione di parecchi compagni e
mi ha procurato osservazioni e domande numerose. Forse non fui abbastanza
chiaro; forse anche disturbai le abitudini mentali di alcuni che più di
tormentarsi il cervello amano adagiarsi sulle formule tradizionali e sono
infastiditi da tutto ciò che li costringe a pensare. In ogni modo io cercherò di
spiegarmi meglio, contento se coloro a cui quello che dico sembra alquanto
eretico vorranno intervenire nella discussione e concorrere a determinare un
programma pratico di azione, che possa servirci di guida nei prossimi
rivolgimenti sociali.
I nostri propagandisti si
sono finora occupati principalmente della critica della società attuale e della
dimostrazione della desiderabilità e della possibilità di un nuovo ordinamento
sociale fondato sul libero accordo, in cui tutti potessero trovare, nella
fratellanza e nella solidarietà e colla più completa libertà, le condizioni per
il massimo sviluppo materiale, morale ed intellettuale. Essi cercavano anzitutto
d’infiammare gli animi colla concezione di quello stato di perfezione
individuale e sociale che altri chiama utopia e noi chiamiamo ideale, e
compivano opera buona e necessaria, perché stabilivano la mèta verso la quale
debbono tendere i nostri sforzi; ma erano (eravamo) deficienti e pressoché
incuranti nella ricerca delle vie e dei mezzi che a quella mèta possono
condurci. Ci occupammo molto della necessità di distruggere radicalmente le
cattive istituzioni sociali, ma non prestammo sufficiente attenzione a quello
che bisognava fare, o lasciar fare, di positivo, nell’atto e nell’immediato
indomani della distruzione perché la vita degl’individui e della società potesse
continuare nel miglior modo possibile, pensando, o agendo come se pensassimo,
che le cose si sarebbero accomodate da loro stesse, per legge naturale, senza
il cosciente intervento della volontà per indirizzare gli sforzi verso lo scopo
prefisso. Ed a questo si deve probabilmente l’insuccesso relativo dell’opera
nostra.
È tempo oramai di guardare il
problema della trasformazione sociale in tutta la sua vasta complessità e
cercare di approfondire il lato pratico della questione. La rivoluzione
potrebbe avvenire domani, e noi dobbiamo metterci in grado di agire nel suo
seno colla più grande efficacia possibile.
Poiché in questo transitorio
momento la trionfante reazione c’impedisce di fare molto per allargare la
propaganda in mezzo alle masse, utilizziamo il tempo per approfondire e
chiarificare le nostre idee sul da farsi, intanto che cerchiamo di affrettare
coi voti e coll’opera il momento di agire e di attuare. Io mettevo a base delle
mie osservazioni due principi.
Primo: L’anarchia non si fa
per forza. Il comunismo anarchico, applicato in tutta la sua ampiezza e
portante tutti i suoi benefici effetti, non è possibile se non quando grandi
masse di popolo, che abbracciano tutti gli elementi necessari ad attuare una
civiltà superiore alla presente, lo comprendano e lo vogliano. Si possono
concepire dei gruppi selezionati, i cui membri vivano tra di loro e con gruppi
consimili in rapporti di volontaria e libera comunanza, e sarà bene che ve ne
siano e dovrà essere compito nostro il costituirne, per la sperimentazione e
per l’esempio; ma questi gruppi non saranno ancora la società comunista
anarchica e saranno Piuttosto casi di devozione e di sacrificio in favore della
causa, fino a quando non saranno riusciti a conglobare tutta o gran parte della
popolazione. Non si tratterà dunque, l’indomani della rivoluzione violenta, se
rivoluzione violenta deve essere, di attuare il comunismo anarchico, ma di
avviarsi verso il comunismo anarchico.
Secondo: la conversione delle
masse all’anarchia ed al comunismo – e nemmeno al più blando dei socialismi –
non è possibile fino a che durano le attuali condizioni politiche ed
economiche. E siccome queste condizioni, che mantengono i lavoratori in
schiavitù, per il beneficio dei privilegiati, sono mantenute e perpetuate per
mezzo della forza brutale, è necessario cambiarle violentemente per l’opera
dell’azione rivoluzionaria di minoranze coscienti. Dunque, se è ammesso il
principio che l’anarchia non si fa per forza, senza la volontà cosciente delle
masse, la rivoluzione non può essere fatta per attuare direttamente ed
immediatamente l’anarchia, ma piuttosto per creare le condizioni che rendano
possibile una rapida evoluzione verso l’anarchia.
È stata spesso ripetuta la
frase: “La rivoluzione sarà anarchica o non sarà”. L’af-fermazione può sembrare
molto “rivoluzionaria”, molto “anarchica”; ma in realtà è una sciocchezza
quando non è un mezzo peggiore dello stesso riformismo per paralizzare le buone
volontà ed indurre la gente a star tranquilla, a sopportare in pace il
presente, aspettando il paradiso futuro.
Evidentemente, “la
rivoluzione anarchica” o sarà anarchica o non sarà. Ma non vi sono state
rivoluzioni nel mondo, quando non ancora si concepiva la possibilità in una
società anarchica? E non ve ne saranno più fino a quando le masse non saranno
convertite all’anarchismo? E poiché non riusciamo a convertire all’anarchismo le
masse abbrutite dalle condizioni in cui vivono, dobbiamo rinunziare ad ogni
rivoluzione ed acconciarci a vivere in regime monarchico-borghese?
La verità è che la
rivoluzione sarà quello che potrà essere, ed è nostro compito affrettarla il più
possibile e sforzarci perché essa sia il più radicale possibile. Ma intendiamoci
bene. La rivoluzione non sarà anarchica, se come è purtroppo il caso, le masse
non saranno anarchiche. Ma noi siamo anarchici, dobbiamo restare anarchici ed
agire come anarchici, prima, durante e dopo della rivoluzione.
Senza gli anarchici, senza
l’opera degli anarchici, se gli anarchici aderissero ad una qualsiasi forma di
governo e ad una qualsiasi costituzione cosiddetta di transazione, la prossima
rivoluzione invece di segnare un progresso della libertà e della giustizia ed
un avviamento verso la liberazione integrale dell’umanità, darebbe luogo a nuove
forme di oppressione e di sfruttamento forse peggiori delle attuali, o nella
migliore ipotesi non produrrebbe che un miglioramento superficiale, in gran
parte illusorio e completamente spro-porzionato allo sforzo, ai sacrifici, ai
dolori di una rivoluzione, quale quella che si annunzia per un avvenire più o
meno prossimo.
Nostro compito dopo aver
concorso ad abbattere il regime attuale è quello di impedire, o cercare
d’impedire, che si costituisca un nuovo governo; o non riuscendovi, lottare
almeno perché il nuovo governo non sia unico, non accentri nelle sue mani tutto
il potere sociale, resti debole e vacillante, non riesca a disporre di
sufficiente forza militare e finanziaria, e sia riconosciuto ed ubbidito il
meno possibile. In tutti i casi, noi anarchici non dobbiamo mai parteciparvi,
mai riconoscerlo e restare in lotta contro di esso come siamo in lotta contro
il governo attuale.
Noi dobbiamo restare in mezzo
alle masse, spingerle all’azione diretta, alla presa di possesso degli
strumenti di produzione ed all’organizzazione del lavoro e della distribuzione
dei prodotti, all’occupazione degli ambienti abitabili, all’esecuzione dei
servizi pubblici senza aspettare deliberazioni od ordini di autorità superiori –
e a quest’opera noi dobbiamo concorrere con tutte le nostre forze, e per questo
cercare fin da ora dì acquistare quante più cognizioni c’è possibile.
Ma se dobbiamo essere
intransigenti nell’opposizione contro tutti gli organi di compressione e di
repressione contro tutto ciò che tende ad ostacolare colla forza la volontà
popolare e la libertà delle minoranze, noi dobbiamo ben guardarci dal
distruggere quelle cose e disorganizzare quei servizi utili non possiamo
sostituire in modo migliore. Noi dobbiamo ricordarci che la violenza, necessaria
purtroppo per resistere alla violenza, non serve per edificare niente di buono:
che essa è la nemica naturale della libertà, la genitrice della tirannia e che
perciò deve essere contenuta nei limiti della più stretta necessità. La
rivoluzione serve, è necessaria, per abbattere la violenza dei governi e dei
privilegiati; ma la costituzione di una società di liberi non può essere che
l’effetto della libera evoluzione. Ed alla libertà dell’evoluzione,
continuamente minacciata fino a che esisterà negli uomini sete di dominio e di
privilegi, gli anarchici debbono vegliare.
c.
Anarchismo e riforme
A parte l’odiosità della
parola, che è stata abusata e discreditata dai politicanti, l’anarchismo è stato
sempre e non potrà mai essere altro che riformista. Noi preferiamo dire
riformatore per evitare ogni possibile confusione con coloro che sono
ufficialmente classificati come “riformisti” e vogliono con piccoli e spesso
illusori miglioramenti rendere più sopportabile e quindi consolidare il regime
attuale, oppure s’illudono in buona fede di potere eliminare i lamentati mali
sociali riconoscendo e rispettando, in pratica se non in teoria, le
fondamentali istituzioni politiche ed economiche che di quei mali sono la causa
ed il sostegno. Ma insomma è sempre di riforme che si tratta, e la differenza
essenziale sta nel genere di riforma che si vuole e nel modo come si crede di
poter raggiungere la nuova forma cui si aspira.
Rivoluzione significa, nel senso storico
della parola, riforma radicale delle istituzioni, conquistata rapidamente per
mezzo della insurrezione violenta del popolo contro il potere ed i privilegi
costituiti; e noi siamo rivoluzionari ed insurrezionisti perché vogliamo non
già migliorare le istituzioni attuali ma distruggerle completamente, abolendo
ogni dominio dell’uomo sull’uomo ed ogni parassitismo sul lavoro umano; perché
vogliamo far questo il più presto possibile e perché siamo convinti che le
istituzioni nate dalla violenza, si sostengono colla violenza e non cederanno
che ad una violenza sufficiente.
Ma la rivoluzione non si può fare quando si
vuole. Dovremo noi restare inerti, aspettando che i tempi maturino da loro? E
anche dopo un’insurrezione vittoriosa, potremo noi di punto in bianco realizzare
tutti i nostri desideri e passare come per miracolo dall’in-ferno governativo e
capitalistico al paradiso del comunismo libertario, che è la completa libertà
dell’individuo nella voluta solidarietà d’interessi con gli altri uomini?
Queste sono illusioni che
possono allignare in mezzo agli autoritari i quali considerano la massa come
materia bruta alla quale chi possiede il potere può dare, a forza di decreti e
con l’aiuto dei fucili e delle manette, l’impronta che vuole. Ma non hanno presa
in mezzo agli anarchici. Noi abbiamo bisogno del consenso della gente, e quindi
dobbiamo persuadere colla propaganda e coll’esempio, dobbiamo educare e
cercare di modificare l’ambiente in modo che l’educazione possa raggiungere un
numero sempre più grande di persone.
Tutto è graduale nella storia
come nella natura. Come la diga cede d’un tratto (cioè rapidissimamente, ma
sempre condizionata dal tempo) o perché l’acqua si è andata accumulando fino a
superare con la sua pressione la resistenza oppostagli, oppure per il
disgregarsi progressivo delle molecole che ne compongono il materiale, così le
rivoluzioni scoppiano per il crescere delle forze che aspirano alla
trasformazione sociale fino al punto sufficiente per abbattere il governo
esistente e per l’indebolimento crescente, per ragioni interne, delle forze di
conservazione.
Siamo riformatori oggi in
quanto cerchiamo di creare le condizioni più favorevoli ed il personale più
cosciente e più numeroso che si può per menare a bene una insurrezione di
popolo; saremo riformatori domani, ad insurrezione trionfante e a libertà
conquistata, in quanto cercheremo, con tutti i mezzi che la libertà consente,
cioè con la propaganda, con l’esempio, con la resistenza anche violenta contro
chiunque volesse coartare la nostra libertà, cercheremo, dico, di conquistare
alle nostre idee un numero sempre più grande di adesioni. Ma non riconosceremo
mai – ed in questo il nostro “riformismo” si distingue da certo
“rivoluzionarismo” che va ad affogarsi nelle urne elettorali di Mussolini o di
altri – non riconosceremo mai le istituzioni, prenderemo o conquisteremo le
riforme possibili con lo spirito con cui si va strappando al nemico il terreno
occupato per procedere sempre più avanti, e resteremo sempre nemici di qualsiasi
governo, sia quello monarchico di oggi, sia quello repubblicano o bolscevico di
domani.
d.
Gradualismo
Nelle polemiche che sorgono
tra gli anarchici sulla tattica migliore per giungere o avvicinarsi alla
realizzazione dell’anarchia – e sono polemiche utili, anzi necessarie, quando
sono ispirate alla mutua tolleranza ed alla mutua fiducia e non trascendono in
odiose questioni personali – avviene sovente che gli uni in tono di rimprovero
chiamano gli altri gradualisti e questi respingono la qualifica come se fosse
un’ingiuria. Ed intanto il fatto è che, nel senso proprio della parola,
gradualisti siamo tutti, e tutti, sia pure in modi diversi, dobbiamo esserlo
per la logica stessa dei nostri principi.
È vero che certe parole,
specialmente in politica, cambiano continuamente di significato e spesso ne
assumono uno contrario a quello originale, logico e naturale. Gioverebbe
mettere un freno a questo sistema di usare le parole in un senso diverso dal
loro proprio, che è fonte di tante confusioni e tanti malintesi. Ma chi potrebbe
riuscirvi, specie quando il cambiamento è prodotto dall’interesse che hanno i
politicanti a coprire con buone parole i loro fini malvagi?
Potrebbe darsi dunque che la parola
gradualista, applicata agli anarchici, finisse coll’indicare davvero quelli che
colla scusa di fare le cose gradualmente, a misura che diventano possibili,
finiscono col non muoversi più o col muoversi in una direzione opposta a quella
che conduce all’anarchia. E allora bisognerebbe respingere il nome; ma la cosa
resterebbe vera lo stesso, cioè che tutto nella natura e nella vita procede a
gradi e che, applicando al caso nostro, l’anarchia non può venire che poco a
poco.
L’anarchismo, dicevo, deve essere
necessariamente gradualista. Si può concepire l’anarchia come la perfezione
assoluta, ed è bene che quella concezione resti sempre presente alla nostra
mente, quale faro ideale che guida i nostri passi. Ma è evidente che
quell’ideale non può raggiungersi d’un salto, passando di botto dall’inferno
attuale al paradiso agognato.
I partiti autoritari, quelli
cioè che credono morale ed espediente imporre colla forza una data costituzione
sociale, possono sperare (vana speranza del resto!) che, quando si saranno
impossessati del potere, potranno a forza di leggi, decreti… e gendarmi
sottoporre tutti e durevolmente al loro volere. Ma una tale speranza ed un tale
volere non sono concepibili negli anarchici, i quali non vogliono nulla imporre
salvo il rispetto della libertà e contano per la realizzazione dei loro ideali
sulla persuasione e sui vantaggi sperimentati della libera cooperazione.
Ciò non significa che io
creda (come a scopo polemico mi ha fatto dire un giornale riformista poco
informato o poco scrupoloso) che per fare l’anarchia bisogna aspettare che tutti
siano anarchici. Io credo al contrario – e perciò sono rivoluzionario – che
nelle condizioni attuali solo una piccola minoranza favorita da circostanze
speciali possa arrivare a concepire l’anarchia, e che sarebbe una chimera lo
sperare nella conversione generale se prima non si cambia l’ambiente, nel quale
prosperano l’autorità ed il privilegio. Ed appunto per questa credo che bisogna,
appena è possibile, cioè appena si sia conquistata la libertà sufficiente e vi
sia in un dato luogo un nucleo di anarchici abbastanza forte per numero e
capacità da bastare a sé stesso ed irradiare intorno a sé la propria influenza,
bisogna, dico, organizzarsi per applicare l’anarchia o quel tanto di anarchia
che diventa mano a mano possibile.
Poiché non si può convertire
la gente tutta in una volta e non si può isolarsi per necessità di vita e per
l’interesse della propaganda bisogna cercare il modo di realizzare quanto più di
anarchia è possibile in mezzo a gente che non è anarchica o lo è in gradi
diversi. Il problema dunque non è se bisogna o no procedere gradualmente, ma
quello di cercare quale è la via che più rapidamente e più sinceramente conduce
all’attuazione dei nostri ideali.
Oggi in tutti i paesi del
mondo la via è preclusa dai privilegi conquistati attraverso una lunga storia di
violenze e di errori, da certe classi, che oltre la supremazia intellettuale e
tecnica che deriva loro da quei privilegi, dispongono per difendere la loro
posizione della forza bruta assoldata nelle classi soggette e ne usano, quando
occorre, senza scrupoli e senza limite. Perciò è necessaria una rivoluzione, la
quale distrugga lo stato di violenza nel quale oggi si vive e renda possibile
la pacifica evoluzione verso sempre maggiore libertà, maggiore giustizia,
maggiore solidarietà
Quale dovrebbe essere la
tattica degli anarchici prima, durante e dopo la rivoluzione? Quello che
sarebbe necessario fare prima della rivoluzione per prepararla ed attuarla la
censura forse non lo lascerebbe dire; ed in ogni modo è sempre un argomento che
si tratta male in presenza del nemico. Ci sarà però lecito il dire che bisogna
restare sempre se stessi, propagare ed educare il più possibile, fuggire ogni
transazione col nemico e tenersi pronti, almeno spiritualmente, per afferrare
tutte le occasioni che si possono presentare.
Durante la rivoluzione?
Incominciamo col dire che la rivoluzione non la possiamo fare noi soli; e non
sarebbe, a parte la questione della forza materiale, nemmeno desiderabile il
farla da soli; perché se non si mettono in movimento tutte le forze spirituali
del paese e con esse tutti gl’interessi e tutte le aspirazioni palesi o latenti
che stanno nel popolo, la rivoluzione sarebbe un aborto. E nel caso, poco
probabile, che vincessimo da soli, ci troveremmo nell’assurda posizione o di
imporsi, comandare, costringere gli altri e quindi cessare di essere anarchici
ed uccidere la rivoluzione stessa col nostro autoritarismo, oppure di “fare per
viltade il gran rifiuto”, cioè ritrarci indietro e lasciare che altri profitti
dell’opera nostra per scopi opposti ai nostri.
Bisognerebbe dunque agire di conserva con
tutte le forze progressiste esistenti, con tutti i partiti d’avanguardia ed
attirare nel movimento, sommuovere, interessare le grandi masse, lasciando che
la rivoluzione, della quale noi saremmo un fattore fra gli altri, produca quello
che può produrre. Ma non per questo dovremmo rinunziare al nostro scopo
specifico: al contrario dovremmo tenerci ben uniti tra noi e ben distinti dagli
altri per combattere in favore del nostro programma: abolizione del potere
politico ed espropriazione dei capitalisti. E se, nonostante i nostri sforzi,
riuscissero a costituirsi nuovi poteri che vogliono ostacolare l’iniziativa
popolare ed imporre il loro volere, noi dovremmo non parteciparvi, non
riconoscerli mai cercare che il popolo rifiuti loro i mezzi per governare, cioè
i soldati e le contribuzioni, fare in modo ch’essi restino deboli… fino al
giorno in cui si potrà abbatterli del tutto. In tutti i casi reclamare ed
esigere, magari colla forza, la nostra piena autonomia ed il diritto ed i mezzi
per organizzarci a modo nostro ed esperimentare i metodi nostri.
E dopo la rivoluzione, cioè
dopo la caduta del potere esistente ed il trionfo definitivo delle forze
insorte? Qui entra veramente in campo il gradualismo. Bisogna studiare tutti i
problemi pratici della vita: produzione, scambio, mezzi di comunicazione
relazioni fra gli aggruppamenti anarchici e quelli che vivono sotto
un’autorità, tra collettività comunistiche e quelli che vivono in regime
individualistico, rapporti tra città e campagna, utilizzazione a vantaggio di
tutti delle forze naturali e delle materie prime, distribuzione delle industrie
e delle colture secondo le condizioni naturali dei vari paesi, istruzione
pubblica, cura dei fanciulli e degl’impotenti servizi igienici e medici, difesa
contro i delinquerti comuni e quelli più pericolosi, che tentassero
ancora di sopprimere la libertà degli altri a vantaggio di individui o di
partiti, ecc, ecc. E d’ogni problema preferire quelle soluzioni che non solo
sono economicamente più convenienti, ma che rispondono meglio al bisogno di
giustizia e di libertà e lasciano più aperta la via ai futuri miglioramenti,
Nel caso, anteporre la giustizia, la libertà, la solidarietà ai vantaggi
economici.
Non bisogna proporsi di tutto distruggere
credendo che poi le cose si aggiusteranno da loro. La civiltà attuale è frutto
di una evoluzione millenaria ed ha risolto in qualche modo il problema della
convivenza di milioni e milioni di uomini, spesso affollati sopra territori
ristretti, e quello della soddisfazione di bisogni sempre crescenti e sempre più
complicati. I suoi benefici sono diminuiti – e per la gran massa quasi
annullati – dal fatto che l’evoluzione si è compiuta sotto la pressione
dell’autorità e nell’interesse dei dominatori; ma se si toglie l’autorità ed il
privilegio, restano sempre i vantaggi acquisiti, i trionfi dell’uomo sulle
forze avverse della natura l’esperienza accumulata dalle generazioni estinte, le
abitudini di socievolezza contratte nella lunga convivenza e negli esperimentati
benefici del mutuo appoggio – e sarebbe stolto, e del resto impossibile,
rinunziare a tutto questo.
Noi dobbiamo dunque
combattere l’autorità ed il privilegio, ma profittare di tutti i benefici della
civiltà; e nulla distruggere di quanto soddisfi, sia pur malamente ad un
bisogno umano se non quando abbiamo qualche cosa di meglio da sostituirvi.
Intransigenti contro ogni imposizione ed ogni sfruttamento capitalistico, noi
dovremo essere tolleranti con tutte le concezioni sociali che prevalgono nei
vari raggruppamenti umani, purché non ledano la libertà ed il diritto uguale
degli altri; e contentarci di progredire gradualmente a misura che si eleva il
livello morale degli uomini e crescono i mezzi materiali ed
intellettuali di cui dispone l’umanità – facendo, questo s’intende, il più che
possiamo – con lo studio, il lavoro, la propaganda, per affrettare l’evoluzione
verso ideali sempre più alti.
Io ho qui sopra prospettato
dei problemi più che delle soluzioni; ma credo di avere esposto succintamente i
criteri che debbono guidarci nella ricerca e nell’applicazione delle soluzioni,
le quali saranno certamente varie e variabili a seconda delle circostanze ma
dovranno sempre uniformarsi, per quanto dipende da noi, ai principi basilari
dell’a-narchismo: nessun comando dell’uomo sull’uomo, nessuno sfruttamento
dell’uomo da parte dell’uomo. Ai compagni tutti il compito di pensare, studiare,
prepararsi – e farlo sollecitamente ed intensamente, perché i tempi sono
“dinamici” ed occorre tenersi pronti per ciò che può accadere.
2.
GRADUALISMO. CHIARIMENTI,
DIVERGENZE ED ERRORI
a.
Rimasticature autoritarie
Dalle scarse notizie che
accidentalmente arrivano fino a me, rilevo che vi sono alcuni compagni che si
sono rimessi a sostenere che per far trionfare l’anarchia sarà necessario,
quando scoppierà la rivoluzione, obbligare la gente a fare a modo nostro, fino
a quando essa si sarà convinta che noi abbiamo ragione e farà spontaneamente
quello che al principio le faremo fare per forza. Insomma assumere la funzione
di governo.
S’intende che il governo che vorrebbero
costituire quei singolari anarchici dovrebbe essere una cosa blanda e
provvisoria, dovrebbe governare il meno possibile e durare pochissimo: ma anche
ridotto ai minimi termini dovrebbe sempre essere un governo, cioè un gruppo di
uomini che si attribuiscono la facoltà d’imporre al popolo le proprie idee… ed
i propri interessi. E questo per essere pratici, per aderire alla realtà, ecc.
Sembra sentire i discorsi che facevano i guerraioli quando predicavano la
guerra per distruggere la guerra!
La cosa non è nuova. Durante tutto il corso
del nostro movimento vi sono stati degl’individui che, pur dicendosi anarchici
anzi più anarchici degli altri, hanno espresso concetti e propositi ultra
autoritari: soppressione per i nostri avversari delle libertà elementari di
parola, stampa, riunione, ecc.; lavoro forzato sotto il comando di soprastanti
anarchici; fanciulli strappati alle famiglie per educarli anarchicamente;
polizia rossa, armata rossa, terrore rosso. E per quanto sia evidente la
contraddizione tra l’idea di libertà che è l’anima dell’anarchismo, e l’idea di
coercizione, pure a rifletterci bene non v’è di che troppo meravigliarsi. Nati e
cresciuti in una società in cui ognuno è costretto a comandare o essere
comandato, influenzati da una tradizione millenaria d’oppressione e di servitù,
non avendo altro mezzo per emanciparsi che quello di ricorrere alla violenza,
per abbattere la violenza che ci opprime, è difficile pensare e sentire da
anarchici, è difficile soprattutto concepire e rispettare il limite che separa
la violenza che è giusta e necessaria difesa dei propri diritti, dalla violenza
che è violazione di diritti altrui. E perciò v’è sempre chi ricade
nell’autoritarismo e per arrivare all’anarchia vuole agire come agiscono i
governi, vuole insomma essere governo. Naturalmente le intenzioni sono sempre
buone; siamo anarchici sì, essi dicono, ma siccome le masse sono tanto
arretrate bisogna spingerle avanti colla forza. Qualche cosa come insegnare ad
uno a camminare legandogli le gambe!
Io non voglio qui dilungarmi
su questo errore di voler educare la gente alla libertà, all’iniziativa ed alla
fiducia in se stessa per mezzo della coercizione. Né voglio insistere sul fatto
che chi sta al governo ci vuol restare, sia pure col sincero proposito di fare
il bene, e quindi prima di tutto pensa a costituire un partito o una
classe di cointeressati ed una forza armata fedele e disciplinata per tenere a
freno i ricalcitranti; cose che accadrebbero ai governanti “anarchici” come
agli altri, sia perché sono una necessità della situazione, sia perché noi
anarchici non siamo poi di tanto migliori della comune umanità. Questo menerebbe
a ripetere tutte le ragioni che l’anarchismo oppone all’autoritarismo, ragioni
che quei compagni, i quali, a quanto mi si dice non sono dei novellini, debbono
conoscere al pari di me.
Voglio solo far notare, che,
come avviene spessissimo, quelli che più si vantano di essere pratici e di non
perdersi nei sogni, sono poi quelli che più sognano cose impossibili. Infatti,
è chiaro che per impossessarsi del governo e non esporci ad un fiasco sicuro
che ci discrediterebbe e c’impedirebbe per molto tempo ogni azione utile,
bisognerebbe disporre di una forza numerica e di una capacità tecnica
sufficienti. Noi probabilmente non avremo al principio della prossima
rivoluzione, quella forza e quella capacità, ma, supposto che l’avessimo, che
bisogno ci sarebbe allora di farsi governo e mettersi sopra una via che
necessariamente ci condurrebbe verso una mèta opposta a quella che vogliamo
raggiungere? Essendo così forti, noi potremmo facilmente mettere la gente sulla
buona via per mezzo della propaganda e dell’esempio, e sviluppare e difendere la
rivoluzione con metodo perfettamente anarchico, cioè col concorso volontario ed
entusiasta della massa interessata al suo trionfo.
Questo per quelli
che intendessero impossessarsi deI governo come anarchici per fare l’anarchia,o
almeno indirizzare la rivoluzione verso l’anarchia. Che se si volesse andare al
governo insieme coi partiti autoritari, i quali mirerebbero innanzi tutto a
soffocare l’iniziativa popolare e ad assicurare lo sviluppo e la permanenza
delle istituzioni governative, allora sarebbe il caso di defezione pura e
semplice, e conservare il nome d’anarchici sarebbe una menzogna e un inganno.
Col risultato che, dopo di aver messo le nostre forze al servizio dei nuovi
dominatori ed averli aiutati a consolidarsi al governo, non appena non si
avrebbe più bisogno di noi, saremmo ignominiosamente scacciati e resteremmo
impotenti e disonorati.
Invece, pur minoranza come
siamo, restando in mezzo alle masse per spingerle ad abbattere l’autorità
politica ed il privilegio economico e ad organizzare da loro stesse la nuova
vita sociale e dandone noi stessi l’esempio, in grande o in piccolo secondo le
forze che potremo raccogliere nelle varie località e nelle varie corporazioni
operaie, senza prendere responsabilità che non possiamo assolvere, noi potremo
dare alla rivoluzione un carattere profondamente rinnovatore e preparare la via
per il trionfo dell’anarchia integrale. Non riusciremo forse ad impedire la
costituzione di un nuovo governo, ma potremo impedire ch’esso diventi forte e
tirannico ed obbligarlo a rispettare, per noi e per quelli che si unirebbero a
noi, la massima libertà possibile ed il diritto all’uso gratuito dei mezzi
necessari alla produzione. In ogni caso, anche vinti, daremo un esempio fecondo
di risultati concreti in un prossimo avvenire.
b. A
proposito di revisionismo
Voglio esprimere la mia
opinione sulla causa per la quale alcuni compagni, certamente sinceri e pieni di
ardore per il trionfo dell’anarchia, sono indotti a rimettere in discussione le
basi stesse dell’anarchismo. Fenomeni simili si producono in tutti i partiti
all’indomani di una sconfitta, e non vi sarebbe nulla di strano che lo stesso
avvenisse in mezzo a noi. Ma a me pare che, nel caso nostro, questa ricerca
affannosa di vie novelle, piuttosto che la conseguenza di nuove e più ardite e
più vere concezioni, sia l’effetto della persistenza di vecchie illusioni che
quei compagni, malgrado la lunga esperienza, sperano ancora di poter realizzare
immediatamente, come lo si sperava agli inizi del movimento.
Sessanta e più anni or sono
noi pensavamo che l’anarchia ed il comunismo potessero sorgere come conseguenza
diretta, immediata di un’insurrezione vittoriosa. Non si tratta, dicevamo, di
giungere un giorno all’anarchia e al comunismo, ma di cominciare la rivoluzione
sociale coll’anarchia e col comunismo. Bisogna, ripetevamo nei nostri manifesti,
che la sera del giorno stesso in cui saranno vinte le forze governative ciascuno
possa soddisfare pienamente i suoi bisogni essenziali, sentire senz’altro
ritardo i benefici della rivoluzione. Era insomma l’idea che, accettata un po’
più tardi da Kropotkin, fu da lui popolarizzata e quasi fissata come programma
definitivo dell’anarchismo. Secondo noi bastava distruggere gli ostacoli
materiali, cioè sconfiggere la forza armata che difendeva i proprietari, e tutto
sarebbe andato da sé. E badavamo soprattutto a perfezionare il nostro ideale,
facendoci l’illusione che la massa ci seguisse, anzi credendo di non essere che
gl’interpreti degl’istinti profondi di essa massa.
Eravamo
in pochi, ma avevamo una fiducia illimitata sull’efficacia della propaganda. Il
nostro ragionamento in proposito era dei più ingenui: se, noi pensavamo, essendo
in dieci a far propaganda in un mese siamo diventati venti, ora che siamo in
venti in un altro mese diventeremo quaranta, e poi da quaranta ottanta e così
di seguito. Raddoppiando il numero di mese in mese presto avremo avuto la forza
necessaria per fare la rivoluzione. La rapida organizzazione dei corpi di
mestiere e lo spirito di solidarietà tra gli oppressi in lotta per
l’emancipazione avrebbero risolte tutte le difficoltà. L’Associazione
Internazionale dei Lavoratori (la Prima Internazionale) che stava
allora nel suo più fondo periodo, sembrava già pronta per sostituire la sua
organizzazione a quella della società borghese.
Data questa idea, è chiaro
che ci doveva sembrare che l’anarchia stesse per sorgere subito,
spontaneamente, per la volontà e la capacità di tutta la popolazione, o almeno
della parte cosciente e attiva della popolazione, appena fosse liberata dalla
forza bruta che la teneva soggetta. Ma coll’andar del tempo lo studio e più la
dura esperienza ci mostrarono che molte delle nostre convinzioni erano effetto
del nostro desiderio e delle nostre speranze e non corrispondevano ai fatti
reali.
Stando così le cose, che cosa bisognava fare?
Abbandonare la lotta, diventare scettici ed indifferenti, o rinunziare
all’anarchia ed aderire ad un partito autoritario? Alcuni lo fecero; ma i più
tra noi, quelli che avevano nell’animo “il fuoco sacro” furono compresi più che
mai della nobiltà e della grandezza della missione che gli anarchici si erano
data. Essi restarono convinti che l’aspirazione alla libertà integrale (quello
che potrebbe chiamarsi lo spirito anarchico) è stata sempre la causa di ogni
progresso individuale e sociale, e che invece tutti i privilegi politici ed
economici (che sono poi i diversi aspetti di una stessa oppressione) se non
trovano nell’anarchismo più o meno cosciente un ostacolo sufficiente, tendono
a respingere indietro l’umanità verso la più fosca barbarie. Essi compresero
che l’anarchia non poteva venire che gradualmente, a misura che la massa arriva
a concepirla e desiderarla; ma che non verrebbe mai se mancasse la spinta di
una minoranza più o meno coscientemente anarchica, che agisce in modo da
preparare l’ambiente necessario. Restare anarchici, agire da anarchici in tutte
le possibili circostanze restava il dovere da noi liberamente scelto ed
accettato.
Ho detto più sopra che,
secondo me, i cosiddetti revisionisti, ancora sotto l’influenza dei pregiudizi
dell’anarchismo primitivo, s’illudono di poter fare il comunismo e l’anarchia
d’un colpo solo; ma siccome comprendono anch’essi che la massa è ancora
impreparata, cadono nell’assurdo di volerla preparare coi metodi autoritari. Lo
dicono poco chiaramente, credo anzi che essi stessi non se ne rendano conto
esatto, ma il fatto mi sembra questo: essi vorrebbero fare il comunismo
rimandando la libertà a più tardi, e vorrebbero educare il popolo alla libertà
per mezzo della tirannia.
A me pare, e credo che questa
sia oramai l’opinione di quasi tutti gli anarchici, che la rivoluzione non può
cominciare col comunismo, o sarebbe, come la Russia, un comunismo da
convento, da caserma e da galera, peggiore dello stesso capitalismo. Essa deve
attuare subito quello che si può, ma non più di quello che si può; basterebbe
per cominciare attaccare con tutti i mezzi possibili l’autorità politica ed il
privilegio economico, disciogliere l’esercito e tutti i corpi di polizia,
armare tutta quanta la popolazione, requisire a vantaggio di tutti le sostanze
alimentari e provvedere alla continuità dell’approvvigionamento e spingere le
masse, soprattutto spingere le masse ad agire senza aspettare ordini dall’alto.
E badare a non distruggere se non quello che si può sostituire con
qualche cosa di migliore. Poi si procederà verso l’organizzazione del comunismo
volontario o quelle altre forme, probabilmente varie e multiple, di convivenza
sociale che i lavoratori, illuminati dall’esperienza, preferiranno.
Se gli anarchici volessero
assumere da soli la funzione di governo (cosa del resto che non
avrebbero la forza di fare), o, peggio ancora, volessero unirsi ai partiti
autoritari per dettar leggi e regole obbligatorie, non farebbero che tradire se
stessi e la rivoluzione. Allora essi, invece di spingere verso l’anarchia colla
propaganda e coll’esempio, contribuirebbero, volenti o nolenti, a strappare al
popolo quelle conquiste ch’esso avrebbe fatte nel periodo insurrezionale:
farebbero insomma quello che han fatto sempre tutti i governi.
e. Un
governo che non è governo?
Dunque Pardaillan è
d’accordo con me e con tutti gli anarchici nel “respingere assolutamente” un
governo che sia quello che generalmente s’intende per governo e che è stato ed è
ogni governo esistito ed esistente, cioè un organo che fa la legge e la impone a
tutti mediante la forza materiale. Solamente egli ha un debole per la parola
governo e per conservarla, pur restando anarchico, vorrebbe cambiarne il
significato. Egli mi domanda: “Possono gli anarchici, senza cessare di esser
tali, concepire un governo che non abbia il significato antilibertario del
solito governo?”
Rispondo: Si. Se io, per
esempio, cambio il significato della parola carnefice, posso benissimo concepire
un carnefice dall’animo buono e sensibile che non farebbe male una mosca; o se
do alla parola sedia il significato di lampada elettrica posso benissimo
concepire una sedia che mi faccia lume. Ma a che servirebbe rivoluzionare in tal
modo il dizionario? Evidentemente ad intenderci meno che mai. E perché il
Pardaillan, il quale vorrebbe che gli anarchici costituissero una forza
capace d’influire potentemente sul corso degli eventi, non esita a porsi in
contrasto con la massa degli anarchici e creare nuovi ragioni di scissione e
quindi di debolezze per la fisima di chiamare governo quello che non sarebbe
governo?
Egli ragiona così: Il popolo
è abituato ad essere governato ed ubbidisce al governo qualunque esso sia; può
in certi momenti abbattere un dato governo, ma lo fa con l’idea di vederlo
sostituito da un governo migliore. Chi è più svelto ad occupare il posto
lasciato vuoto dal governo caduto e dire “il governo sono io” è subito
riconosciuto ed ubbidito. Facciamo in modo d’essere noi i primi a dire il
governo siamo noi e potremo fare non l’anarchia, ma quel tanto di bene che si
potrà, ed intanto toglieremo ai politicanti la possibilità di sfruttare la
situazione.
Mi perdoni il compagno
Pardaillan, se glielo dico un po’ ruvidamente: il suo ragionamento ed il suo
proposito mi sembrano tanto ingenui da raggiungere quasi l’infanti-lità, poiché
certamente non sarebbe cosa seria il dirsi governo e non fare quello che deve
fare un governo e che la gente aspetta da esso, cioè dare degli ordini e farli
eseguire per mezzo della polizia, dell’esercito, dei magistrati e dei
carcerieri.
Pardaillan
dice che ha l’impressione
(non so da dove ricavata) che io, accettando la proposta di dare un significato
libertario alla parola governo per servircene noi a modo nostro, sia già
disposto a cercare insieme a loro (i revisionisti) il modo migliore per
impedire a questo governo di diventare quello che assolutamente non deve essere.
Ma se il governo sarà composto di anarchici, chi s’incaricherebbe di tenerli
nei limiti assegnatigli da Pardaillan? Non potrebbero essere che
gli anarchici che non sono al governo, vale a dire che gli anarchici dovrebbero
trattare il governo formato dai loro compagni come tratterebbero qualunque altro
governo. E allora?
No: sarà colpa del mio modo
di esprimermi, ma Pardaillan mi ha compreso proprio a rovescio. Io credo
– gioco di parole a parte – che noi non potremmo diventare governo se non in
combutta coi partiti autoritari e dopo che gli anarchici avessero perduto
quell’ardente desiderio di libertà per tutti, che forma la loro specifica ragion
d’essere. E credo che se per singolarissime circostanze noi riuscissimo a
sembrare governo, presto vorremmo essere governo sul serio, e non saremmo
migliori degli altri.
Ma supponiamo pure che
riuscissimo ad impadronirci del governo ed avere a nostra disposizione le forze
dello Stato senza avere prima cessato di essere anarchici, e supponiamo che
riuscissimo a resistere all’influenza corruttrice della nuova posizione e
restassimo intenti solo a garantire la libertà di tutti ed a promuovere il bene
generale, che cosa ne risulterebbe?
Il popolo, dice Pardaillan,
è abituato ad esser governato e se abbatte un governo è sempre pronto ad
accettarne un altro. È vero; ma questo popolo accettando un governo aspetta che
esso governi, cioè che emani ordini e decreti e mandi dappertutto i suoi
funzionari per farli eseguire. Se gli ordini non vengono, se non vengono le
nuove autorità con i relativi gendarmi, allora o il popolo fa da sé ed in
questo caso entrerebbe nella via dell’anarchismo, o accetta un altro governo
che governi davvero.
Mi pare che Pardaillan
fraintenda completamente, se non lo scopo supremo degli anarchici, certo
l’attuale compito loro nel movimento sociale. Il nostro compito è quello di
spingere il popolo a reclamare e prendersi tutte le libertà possibili e a
provvedere da sé ai propri bisogni senza aspettare gli ordini di una qualsiasi
autorità. Nostro compito è quello di dimostrare l’inutilità e la dannosità del
governo, provocando ed incoraggiando, colla predicazione e con l’azione, tutte
le buone iniziative individuali e collettive…
In conclusione, Pardaillan
vorrebbe impossessarsi del governo per impedire che se ne impossessassero
gli altri. Io penso al contrario che se governo v’ha da essere, se cioè noi
fossimo impotenti ad impedire che si formi un nuovo governo, sarebbe preferibile
che lo formino gli autoritari anziché gli “anarchici”. Un governo di autoritari
potrebbe trovare un freno nell’opposizione degli anarchici ed esaurirsi a
misura che il popolo impara ad organizzarsi e fare da sé. Ma di un governo di
anarchici” chi ce ne libererebbe?…
Si rassicurino i compagni
“revisionisti”. Noi siamo tutt’altro che “dogmatici” Noi siamo travagliati come
loro dalla ricerca del meglio; noi sappiamo come loro che c’è tante idee da
rivedere, tanti problemi da approfondire; ed accogliamo con simpatia qualunque
opinione sulla nostra condotta passata, qualunque critica,qualunque proposta
anche contrarie alle opinioni nostre per vedere ciò che se ne può cavare in pro
della causa comune. Ma siamo e vogliamo restare anarchici, e gli scritti dei
“revisionisti” fanno l’im-pressione – parlo per me personalmente – che si voglia
fare un’evoluzione verso metodi autoritari. Di qui la scissione ed il tono aspro
della polemica.
Vi sono quattro problemi che,
secondo me, sono per gli anarchici di tutti i paesi i problemi massimi dell’ora
presente:
1.
concorrere all’insurrezione con tutte le forze rivoluzionarie
progressiste senza lasciarsi assorbire e dominare dai partiti più numerosi, più
ricchi e meglio organizzati;
2.
utilizzare le organizzazioni operaie per la demolizione e la
ricostruzione pur evitando i mali ed i pericoli del sindacalismo;
3.
assicurare l’alimentazione del popolo senza l’intervento di un potere
centrale che, avendo il monopolio delle cose di prima necessità, diventerebbe
il peggiore e più potente dei tiranni;
4.
provvedere all’armamento di tutta la popolazione: cosa indispensabile
perché se qualcuno (individuo, partito o classe) avesse il monopolio della
forza armata, egli sarebbe in fin dei conti il dominatore di tutto e di tutti.
Il mio voto è che si lavori
tutti alla soluzione – teorica e pratica – di questi problemi, senza escludere
naturalmente gli altri cento problemi che altri potrà formulare. Se potremo
trovarci tutti d’accordo tanto meglio; e se no faccia ciascuno a suo modo tutto
quello che può. Il campo della lotta è immenso; c’è posto per tutte le
buone volontà.
d.
Critica all’attendismo dei compagni spagnoli
Roma, 9giugno 1931
In quanto alla corrispondenza
dalla Spagna pare anche a me che quei compagni non si rendono un conto chiaro di
quello che stanno facendo i governi di Madrid e di Barcellona, i quali, al pari
d’ogni governo, cercano innanzi tutto di consolidarsi al potere appoggiandosi su
vecchi e nuovi privilegi. Sorti da un movimento popolare debbono mostrarsi più
liberali del regime decaduto, ma fatalmente, per necessità d’esistenza e per
istinto di comando, faranno tutto il possibile per ostacolare lo sviluppo della
rivoluzione.
Secondo me, bisognerebbe
profittare di questi primi tempi di debolezza e di disorganizzazione
governative, per strappare allo Stato ed al capitalismo il più che si può. Più
tardi la Costituente ed il potere esecutivo cercheranno di ritogliere al
popolo i vantaggi ottenuti, e non rispetteranno che quelle conquiste popolari
che stimeranno troppo pericoloso attaccare.
Trovo veramente troppo
esageratamente ottimista il dire che la “libertà politica non è limitata da
nessuna autorità” quando sappiamo che la guardia civile (che corrisponde ai
nostri carabinieri) e stata conservata e leggiamo che qua e là in tutta la
Spagna, da Sevilla a San Sebastiano, si spara sulla folla e si proclamano stati
d’assedio. Il fatto di aver permesso un comizio in un teatro di Barcellona prova
solo che il governo non lo ha creduto pericoloso, o non si è sentito abbastanza
forte per impedirlo. Il compito dei rivoluzionari sarebbe quello di profittare
della presente debolezza del governo per imporgli la dissoluzione dei corpi di
polizia, l’armamento generale della popolazione, la demolizione del Castello di
Montiuich, ecc.
Non sono poi nemmeno d’accordo con quei
compagni dell’“Ufficio libertario di corrispondenza” nel pensare che la
situazione, dal nostro punto di vista e per gli scopi nostri, sia più
favorevole in Catalogna che nelle altre parti della Spagna. Il proletariato
catalano, secondo l’idea che me ne feci nelle due volte che sono stato in quei
paesi, è il proletariato più cosciente, più serio, più avanzato che vi sia nel
mondo. Metto quindi in lui le più grandi speranze; ma mi pare che se in
Catalogna si può fare più facilmente che altrove una radicale rivoluzione
politica, vi sono invece maggiori difficoltà per raggiungere l’emancipazione
economica, senza la quale le libertà politiche finiscono col non contar nulla e
sparire. E credo che la difficoltà viene proprio dal grande sviluppo industriale
del paese. A causa dell’industria la massa degli operai catalani si trova
legata alla borghesia da una certa solidarietà d’interessi. Se cessa
l’esportazione, se si disorganizza il commercio (e ciò non potrebbe non
avvenire in caso di rivoluzione economica) l’operaio della città catalana resta
senza lavoro e non mangia. Quindi una rivoluzione economica non si potrebbe
fare che sopra vasta scala, quando il proletariato delle città e quello delle
campagne di molta parte della Spagna agissero d’accordo. Con energia ed unione,
gli operai catalani potrebbero, io credo, fin da ora costringere i padroni a dar
lavoro a tutti (cioè a dividere fra tutti il lavoro che c’è), e pagare salari
sufficienti per una vita decente; ma non potrebbero sopprimere completamente i
padroni, i quali hanno in mano non solo gli strumenti di lavoro, che si possono
toglier loro con facilità, ma anche l’organizzazione dello scambio colle altre
regioni della Spagna e dell’estero, che è più difficile sostituire da un giorno
all’altro.
Invece in altre regioni, e
specialmente al Sud, in Andalusia, la situazione mi sembra più favorevole. Là la
massa vive coi prodotti della campagna, e vive male perché il più dei prodotti è
portato via dai proprietari ed inoltre grandi estensioni di terre sono lasciate
incolte. I lavoratori andalusi, che hanno spirito ribelle ed aspirano da secoli
al possesso della terra, potrebbero occupare le terre incolte e coltivarle per
loro conto, e nello stesso tempo impedire ai proprietari delle terre
coltivabili di asportare e mandare via i prodotti. Sarebbe l’espropriazione pura
e semplice, e non si avrebbe da resistere che ai tentativi di repressione
militari, i quali sarebbero impotenti di fronte ad un movimento di una certa
importanza.
Ma io parlo da lontano e
posso facilmente sbagliarmi. In ogni modo mi pare che la situazione spagnuola
presenta infinite possibilità e dà la speranza che il movimento possa
svilupparsi e metter capo ad una vera rivoluzione sociale. Io pagherei non so
che per poter andare in Spagna e mi arrabbio per la mia impotenza. Sono sempre
sotto gli occhi dei poliziotti e non posso fare un passo senza averli attorno.
Roma, 7 marzo 1932
Sono stato quasi due mesi
senza sapere nulla dalla Spagna. Solo da qualche giorno ricomincio a ricevere
dei giornali di Spagna e vado apprendendo quello che è avvenuto in questi ultimi
tempi. Peccato! quale situazione è stata sciupata! Ma forse c’è ancora da
sperare. Sono così incompletamente e male informato che non oso esprimere una
opinione decisa sulla condotta dei compagni spagnoli: sono essi che stanno sul
posto, sono essi che hanno la responsabilità morale e materiale, e quindi sono
essi che debbono decidere. Nullameno mi pare di poter dire che gli anarchici ed
i sindacalisti spagnoli non seppero profittare dell’occasione che offriva loro
la rivoluzione del 14 aprile con il susseguente entusiasmo popolare, Secondo me
fu un errore grandissimo il rimettersi a fare degli scioperi per limitati
miglioramenti economici, come quelli che si fanno in tempi tranquilli. Quello
era il tempo della lotta politica; non già s’intende nel senso in cui
generalmente i compagni spagnoli prendono la parola politica; ma nel senso di
lotta contro il potere politico. Bisognava armarsi, esigere la dissoluzione
della Guardia Civica e degli altri corpi di polizia, obbligare i padroni
(se per il momento non si poteva abolirli) a dar lavoro a tutti i disoccupati,
ecc. In ogni modo, disertare le urne e restare in posizione d’aperta ostilità
contro il Governo di Madrid e quello della Generalidad di Catalogna. E
come sarebbe stato bello, almeno quale atto simbolico, la demolizione del
Castello di Montiuich…
3.
I PROBLEMI DELLA RICOSTRUZIONE
a.
Discorrendo di Rivoluzione
Ci si accusa di “mania
ricostruttoria”; si dice che parlare di “indomani della rivoluzione”, come
facciamo noi, è una frase che non significa nulla perché la rivoluzione è un
profondo cambiamento di tutta la vita sociale, che è già cominciata e che
durerà secoli e secoli.
Tutto questo è un semplice
equivoco di parole. Se si piglia la rivoluzione in quel senso, essa è sinonimo
di progresso, è sinonimo di vita storica, che attraverso mille vicende metterà
capo, se i nostri desideri si realizzano, al trionfo totale dell’anarchia in
tutto quanto il mondo. Ed in quel senso era un rivoluzionario Bovio e sono
rivoluzionari anche Treves e Turati e magari lo stesso d’Aragona. Quando ci
mettete di mezzo i secoli, ognuno vi concederà tutto quello che volete. Ma
quando noi parliamo di rivoluzione, quando di rivoluzione parla il popolo, come
quando si parla di rivoluzione nella storia s’intende semplicemente insurrezione
vittoriosa.
Le insurrezioni saranno
necessarie fino a che vi saranno dei poteri che colla forza materiale
costringeranno le masse all’obbedienza; ed è probabile, purtroppo, che di
insurrezioni se ne dovranno fare parecchie prima che si sia conquistato quel
minimo di condizioni indispensabili perché sia possibile l’evoluzione libera e
pacifica e l’umanità possa camminare senza lotte cruente ed inutili sofferenze
verso i suoi alti destini. Ma ora dobbiamo occuparci della prossima
insurrezione, che come ogni insurrezione non potrà durare che un breve tempo,
prepararci a quello che dobbiamo fare mentre essa dura e nel suo immediato
indomani per trarne il massimo profitto possibile in favore dei nostri ideali.
Poiché non possiamo e non
vogliamo imporre le nostre idee a nessuno ed in fin dei conti se la gente crede
necessario un governo noi non possiamo impedire che se lo faccia e se lo goda,
noi dobbiamo reclamare per noi e per coloro che riusciremo ad attirare nella
nostra orbita, il diritto ai mezzi di lavoro e la piena libertà di non
riconoscere il governo costituito; e questa libertà siamo disposti a difendere,
potendo, anche colle armi. Ma se non riconosciamo il governo bisogna pure che
troviamo un modo di vivere per liberi accordi, senza governo, nonché un modo
per mantenere le necessarie relazioni economiche colle masse che ad un governo
stanno sottoposte.
Noi abbiamo sempre reclamata
la libertà di propaganda e di esperimentazione. Che cosa esperimenteremmo se non
avessimo qualche idea concreta da mettere in pratica? Noi fidiamo per la
propagazione delle nostre idee, in periodo insurrezionale e post-insurrezionale,
sulla efficacia dell’esempio, ma quali esempi potremmo dare se non sapessimo
che cosa fare? Se non riusciamo a vivere meglio degli altri, come potremmo
sperare che le masse accettassero i metodi nostri? Se un governo intelligente,
conoscendo la nostra incompetenza, la nostra impreparazione, ci facesse il tiro
birbone di lasciarci per un momento la libertà che noi reclamiamo, che figura
faremmo se non sapessimo come organizzare una vita sociale rispondente ai nostri
ideali?
La nostra missione di
anarchici, secondo alcuni, sarebbe solo quella di distruggere. Ma mentre
distruggiamo dobbiamo pur vivere, cioè consumare; vorremo noi che gli altri
lavorassero e producessero per provvedere ai nostri bisogni, mentre noi ci
dedichiamo all’opera geniale del distruggere? E poi, distruggere che cosa? Una
volta distrutta la forza brutale che ci opprime, non si distrugge più se non
quello che si sostituisce con qualche cosa di meglio.
Io non credo negli schemi
logici, direi quasi nelle fantasticherie storico/filosofi-che di Vico e di
Ferrari, le quali del resto non si applicano realmente che alle forme più
appariscenti, ma meno sostanziali della vita sociale. Non v’è generazioni che
distruggono e generazioni che edificano. La vita è un tutto inscindibile, e la
distruzione e la creazione sono atti contemporanei. Vi sono soltanto periodi in
cui si crea e si distrugge rapidamente, ed altri in cui si crea e si distrugge
meno rapidamente. .
b.
Intorno al “nostro” anarchismo
Ho l’impressione, sia per
quello che appare nei vani nostri periodici in Italia e fuori, sia per quello
che i compagni ci mandano e che resta in gran parte impubblicato per mancanza
di spazio o per soverchia insufficienza di composizione, ho l’impressione,
dico, che non siamo ancora riusciti a far comprendere a tutti gli scopi che ci
proponiamo con questa pubblicazione. V’è infatti chi, interpretando a modo suo
il nostro espresso desiderio di praticità e di realizzazione, crede che noi
intendiamo “iniziare un processo revisionista dei valori dell’anarchismo
teorico” e, secondo le proprie tendenze e le proprie preferenze teme, o spera,
che noi si voglia rinunziare, in pratica, se non in teoria, alle nostre
concezioni rigorosamente anarchiche.
Non v’è da tanto. In realtà
noi non crediamo, come qualcuno ci ha fatto dire, che vi sia “antinomia tra
teoria e pratica”. Crediamo invece che in generale la teoria è vera solo se è
confermata dalla pratica, e che nel caso nostro se non si può fare subito
l’anarchia non è già per deficienza della teoria, ma perché non tutti sono
anarchici, e gli anarchici non hanno ancora la forza di conquistare almeno la
loro libertà e di imporne il rispetto. Insomma noi restiamo fermi nelle idee che
fin dall’origine sono state l’anima del movimento anarchico e non abbiamo
proprio nulla da rinnegare. Diciamo questo non a titolo di merito, poiché se
credessimo di essere nel passato caduti in errore sentiremmo il dovere di
confessarlo e di correggerci; ma lo diciamo perché è un fatto. E chi conosce
gli scritti di propaganda sparsi un po’ dappertutto dai fondatori di questa
rivista ben difficilmente riuscirebbe a trovare una sola contraddizione tra
quello che diciamo ora e quello che dicevamo già più di cinquant’anni or sono.
Non è dunque di “revisione”
che si tratta, ma di sviluppo delle idee e della loro applicazione alle
contingenze attuali. Quando le idee anarchiche erano una novità che meravigliava
e sbalordiva e non si poteva che far la propaganda in vista di un lontano
avvenire e gli stessi tentativi insurrezionali ed i processi volontariamente
provocati ed affrontati non servivano che a richiamare l’attenzione pubblica a
scopo di propaganda, poteva bastare la critica della società attuale e
l’esposizione dell’ideale a cui si aspirava. Anche le questioni di tattica non
erano in fondo che questioni sui mezzi migliori per propagare le idee e
preparare gl’individui e le masse alle agognate trasformazioni. Ma oggi i tempi
sono più maturi, le circostanze sono cambiate, e tutto fa credere che, in un
tempo che potrebbe essere imminente ma che certo non è molto lontano, ci
troveremo nella possibilità e nella necessità di applicare le teorie ai fatti
reali e mostrare che non solo abbiamo più ragione degli altri per la superiorità
del nostro ideale di libertà, ma anche perché le nostre idee ed i nostri metodi
sono i più pratici per il raggiungimento del massimo di libertà e di benessere
possibile allo stato attuale della civilizzazione.
La stessa reazione
imperversante e trepida mantiene il paese in uno stato di equilibrio instabile
che lascia aperta la via a tutte le speranze come a tutte le catastrofi. E gli
anarchici possono da un momento all’altro esser chiamati a mostrare il loro
valore e ad esercitare sugli avvenimenti una pressione che potrà a prima giunta
non essere preponderante, ma che sarà tanto più grande quanto maggiore sarà il
loro numero e la loro capacità morale e tecnica. È necessità quindi di
approfittare di questo periodo transitorio, che non può essere se non di calma
preparazione, per mettere insieme il più possibile di forze morali e materiali
e tenersi pronti per tutto quello che potrà avvenire.
Il fatto che non bisogna
perder di vista è questo: noi siamo una minoranza relativamente piccola, e
resteremo tale fino al giorno in cui un cambiamento nelle circostanze esteriori
– condizioni economiche migliorate e libertà aumentata – non metterà le masse
in condizioni di potere meglio comprenderci e noi in posizione di potere
esplicare praticamente l’opera nostra. Ora, le condizioni economiche non
miglioreranno sensibilmente e stabilmente e la libertà non aumenterà seriamente
fino a che vigerà il sistema capitalistico e l’organizzazione statale che sta a
difesa del privilegio. Quindi il giorno in cui per cause che sfuggono in gran
parte alla nostra volontà ma che esistono e dovranno produrre i loro effetti,
l’equilibrio sarà rotto e scoppierà la rivoluzione, noi ci troveremo come ora in
esigua minoranza tra le varie forze in conflitto. Che cosa dovremo fare?
Disinteressarsi del movimento
sarebbe un suicidio morale per ora e per sempre, poiché senza l’opera nostra,
senza l’opera di quelli che vogliono spingere la rivoluzione fino alla
trasformazione totale di tutti gli ordinamenti sociali, fino all’abolizione di
tutti i privilegi di tutte le autorità, la rivoluzione finirebbe senza aver
nulla trasformato d’essenziale, e noi ci troveremmo nelle stesse condizioni
d’ora. In un’altra futura rivoluzione saremmo sempre piccola minoranza e
dovremmo ancora disinteressarci del movimento, e cioè rinunziare alla ragione
stessa della nostra esistenza che è quella di combattere sempre per la
diminuzione (fino a che non si potrà conseguire l’abolizione completa)
dell’autorità e del privilegio – almeno per noi che crediamo che la propaganda,
l’educa-zione non possa, in ogni dato ambiente sociale, che raggiungere un
numero limitato d’in-dividui, e che occorre cambiare le condizioni ambientali
prima che sia possibile l’eleva-zione morale di un nuovo strato d’individui. Che
fare dunque?
Provocare, se ci è possibile,
noi stessi il movimento, parteciparvi in ogni modo con tutte le nostre forze,
imprimervi il carattere più libertario e più egualitario che per noi si potrà,
appoggiare tutte le forze di progresso, difendere il meglio quando non si può
raggiungere l’ottimo; ma conservare sempre ben distinto il nostro carattere di
anarchici che non vogliono il potere, e mal sopportano che altri lo prenda.
V’è tra gli anarchici – noi
diremmo tra sedicenti anarchici – chi pensa che, non essendo le masse capaci ora
di organizzarsi anarchicamente e di difendere la rivoluzione con metodi
anarchici, dovremmo noi stessi impossessarci del potere ed “imporre l’anar-chia
con la forza”. (La frase, come sanno i nostri lettori, è stata pronunziata
letteralmente, in tutta la sua crudezza). Io non starò a ripetere qui che chi
crede nella potenza educativa della forza brutale e nella libertà promossa e
sviluppata per opera dei governi, può essere tutto quello che vuole, potrebbe
anche aver ragione contro di noi, ma certamente non può dirsi anarchico se non
mentendo a se stesso ed agli altri…
e.
Demoliamo e poi?
A proposito della recensione
ch’io feci nel numero 9 di “Pensiero e Volontà” del libro di Galleani La fine
dell’anarchismo? il compagno Benigno Bianchi mi scrive: “Credo che non ti
rincrescerà se ti scrivo per richiamare la tua attenzione su un tuo periodo che
potrebbe provocare malintesi incresciosi. Intendo parlare del secondo capoverso
delle parole del Galleani riportate nel tuo articolo. In detto passo il Galleani
dice della necessità di sgombrare ai nepoti il terreno dai pregiudizi, dai
privilegi, dalle chiese, dalle galere, dalle caserme, dai lupanari, ecc. È
perciò necessario distruggere e non costruire. Tu rispondi candidamente che
sarebbe ridicolo, e mortale se si facesse davvero, il voler distruggere tutti i
forni malsani, tutti i mulini anti-economici, tutte le culture arretrate
rimettendo ai posteri la cura di cercare ed applicare metodi migliori per
coltivare il grano, per fare la farina e cuocere il pane. O buon Errico, il
cuocere il pane, in un modo o nell’altro è indispensabile, come è
necessario coltivare il grano e macinarlo ed il voler distruggere questi mezzi
come altri consimili, più che l’essere ridicolo è vera pazzia! Quindi queste
cose si rinnoveranno, si trasformeranno si perfezioneranno; ma non vorrai mica
rinnovare e perfezionare le galere, le chiese, le caserme, i lupanari e nemmeno
i monopoli ed i privilegi di cui parlava il Galleani. A me pare che il paragone
non regga e conseguentemente cade tutto l’ordito dell’articolo critico in
parola. La serietà della Rivista e l’autorità della tua parola mal sopportano
questi stiracchiamenti polemici”.
Naturalmente le osservazioni
del compagni Bianchi non mi rincrescono punto. Al contrario, io la ringrazio di
avermi fornito l’occasione di ritornare sopra una questione ch’io considero di
vitale importanza per lo sviluppo e la riuscita del nostro movimento.
Lasciamo da parte Galleani.
Se l’ho male interpretato egli può dirlo meglio di chiunque altro, ed io sono
sempre pronto a fare ammenda. Discutiamo l’argomento in sé.
L’esempio del pane da me citato pare al
Bianchi uno stiracchiamento polemico: a me invece sembra calzante. Io ho
l’abitudine (non so se è un pregio o un difetto) di cercare sempre esempi
elementari, semplici, direi anche grossolani, perché essi scartano tutti gli
artifici retorici e mettono a nudo il nocciolo delle questioni. I mezzi per fare
il pane sono indispensabili, quindi, dice il Bianchi, sarebbe pazzia pensare
alla loro distruzione anziché al loro perfezionamento. Ma il pane non è la sola
cosa indispensabile – io dico anzi che sarebbe molto difficile trovare una
qualsiasi istituzione attuale, anche fra le peggiori, anche le galere, i
lupanari, le caserme, i privilegi, i monopoli, che non risponda direttamente o
indirettamente ad un bisogno sociale e che sia possibile distruggere realmente e
permanentemente se non si sostituisce con qualche cosa che soddisfi meglio il
bisogno che l’ha generata.
Non mi domandate, diceva un
compagno, che cosa sostituiremo al colera: questo è un male, ed il male bisogna
distruggerlo e non sostituirlo. È vero, ma il guaio è che il colera perdura e
ritorna se non si sostituiscono condizioni igieniche migliori a quelle che
permettono il sorgere ed il propagarsi dell’infezione.
Il pane è una cosa
necessaria, siamo d’accordo. Ma la questione del pane è più complessa di quello
che può sembrare a chi vive in un piccolo centro agricolo e magari produce egli
stesso il grano necessario alla sua famiglia. Fornire il pane a tutti e un
problema che abbraccia tutta quanta l’organizzazione sociale; il modo di
possedere e di lavorare la terra, i mezzi di scambio, i trasporti,
l’importazione del grano se quello che si produce nel paese è insufficiente, la
distribuzione tra i vari centri abitati e poscia tra i singoli consumatori;
vale a dire implica le soluzioni da dare alle questioni della proprietà, del
valore, della moneta, del commercio, ecc. Oggi la produzione e la distribuzione
del pane si fa in modo che i lavoratori restano sfruttati ed umiliati, i
consumatori restano derubati, e a spese dei produttori e dei consumatori
prospera tutto un esercito di parassiti. Noi vogliamo invece che il pane si
produca e si distribuisca per il maggior bene di tutti, senza sciupio di forze
e di materiale, senza oppressione di alcuno, senza parassitismi, con giustizia e
con bontà; e dobbiamo cercare il modo di realizzare la nostra aspirazione o
quanto più è possibile, in un dato momento, di quella nostra aspirazione i
nipoti faranno certamente meglio di noi; ma noi dobbiamo fare come sappiamo e
possiamo – e farlo subito, il giorno stesso della crisi, poiché, se per
l’interruzione del servizio ferroviario, o le manovre dei padroni mugnai e
fornai, o l’occultamento del prodotti, i grandi centri venissero a mancare di
pane (e altre cose di prima necessità) la rivoluzione sarebbe perduta e
trionferebbe la reazione sotto forma di restaurazione, e sotto forma di
dittatura.
Distruggiamo i monopoli,
d’accordo. Ma i monopoli, quando non siano quelli dei bottoncini da camicia o
del rossetto per le labbra di certe signorine, i grossi monopoli (acqua,
elettricità, carbone, trasporti di terra e di mare, ecc.) rispondono sempre ad
un servizio pubblico necessario; e non si distruggono quei monopoli, o se ne
produce il sollecito ritorno, se nell’atto stesso che si mandano via i
monopolisti non si continua il servizio e, possibilmente, in modo migliore di
quello che avveniva sotto di loro.
Bisogna abolire le galere,
questi tetri luoghi di pena e di corruzione dove, mentre i detenuti gemono, i
guardiani si fanno il cuore duro e diventano peggiori dei guardati: d’accordo.
Ma quando si scopre un satiro che stupra e strazia dei corpicini di povere bimbe
bisogna pur provvedere a metterlo in stato di non poter nuocere, se non si vuole
ch’egli faccia altre vittime e finisca poi coll’essere linciato dalla folla. Ci
penseranno i futuri? No, dobbiamo pensarci noi, perché questi fatti avvengono
oggi Nel futuro, speriamo, i progressi della scienza ed il mutato ambiente
sociale avranno rese impossibili quelle mostruosità. Distruggere i lupanari,
questa turpe vergogna umana, vergogna più per chi ne sta fuori che per le
disgraziate che vi stanno dentro: certamente. Ma il lupanare si riformerà
subito, pubblico o clandestino, sempre che vi saranno donne che non trovano
lavoro adatto e vita conveniente. Quindi necessità di un’organizzazione del
lavoro in cui vi sia posto per tutti, e un’organizzazione del consumo in modo
che tutti possano soddisfare i loro bisogni.
Abolire il gendarme
quest’uomo che protegge con la forza tutti i privilegi ed è il simbolo vivente
dello Stato: d’accordissimo. Ma per potere abolirlo permanentemente e non
vederlo ricomparire sotto altro nome ed altra uniforme, occorre saper vivere
senza di esso, cioè senza violenza, senza sopraffazioni senza ingiustizie,
senza privilegi. Abolire l’ignoranza: d’accordo. Ma evidentemente bisogna prima
istruire ed educare, e prima ancora creare condizioni sociali, che permettano a
tutti di profìttare dell’educazione e dell’istruzione. “Lasciare ai nepoti una
terra senza privilegi, senza chiese, senza tribunali, senza lupanari, senza
caserme, senza ignoranza, senza stolide paure”. Sì, questo è il nostro sogno e
per realizzare questo sogno noi combattiamo. Ma questo significa lasciar loro
una nuova organizzazione sociale, nuove e migliori condizioni morali e
materiali. Non si può sgomberare il terreno e lasciarlo nudo, se su di esso
debbono vivere degli uomini: non si può distruggere il male senza sostituirvi
il bene, o almeno qualche cosa che sia meno male.
Non si tratta d’imporre
niente ai nepoti. È da sperare, ripeto, ch’essi faranno meglio di noi; ma noi
dobbiamo fare oggi quel che sappiamo e possiamo, per vivere noi, e per lasciare
ai nepoti qualche cosa di più che belle parole e vaporose aspirazioni. È uno
stato d’animo che, malgrado molta propaganda in contrario, persiste ancora in
parecchi compagni e che, secondo me, sarebbe urgente cambiare.
La convinzione, che è anche
la mia, della necessità di una rivoluzione per eliminare le forze materiali che
stanno a difendere il privilegio e ad impedire ogni reale progresso sociale, ha
fatto sì che molti han dato importanza esclusiva al fatto insurrezionale senza
pensare a quello che bisogna fare perché una insurrezione non resti uno sterile
atto di violenza a cui poi verrebbe a rispondere un altro atto di violenza
reazionaria. Per questi compagni tutte le questioni pratiche, le questioni di
organizzazione, il modo di provvedere al pane quotidiano sono oggi questioni
oziose: sono cose, essi dicono che si risolveranno da sé, o le risolveranno i
posteri.
Ricordo il 1920, quando ero
incaricato della direzione di Umanità Nova. Era l’epoca in cui i
socialisti cercavano d’impedire la rivoluzione, e purtroppo vi riuscirono,
dicendo che, in caso di movimento insurrezionale, le comunicazioni coll’estero
sarebbero interrotte e che saremmo morti tutti di fame per mancanza di grano: vi
fu perfino chi disse che la rivoluzione non sì poteva fare perché in Italia non
si produce caucciù! Io, preoccupato della questione essenziale
dell’alimentazione e convinto che la deficienza di grano si poteva compensare
utilizzando tutte le terre disponibili per la cultura di piante e semi
nutritivi a rapido sviluppo, pregai il nostro compagno dottor Giovanni Rossi,
agronomo provetto, di scrivere una serie di articoli con nozioni pratiche di
agricoltura dirette appunto allo scopo che avevamo in vista. Rossi gentilmente
li fece. Era cosa evidentemente utilissima ma era cosa pratica e perciò non
piacque a tutti. Vi fu un compagno, irritato perché io gli avevo rifiutato
l’inserzione non so più se di una poesia o di una novella, il quale mi disse
bruscamente: “Già, tu preferisci che in Umanità Nova si parli di aratri,
di fagioli, di cavoli e simili sciocchezze!” Ed un altro compagno,
che la pretendeva allora a superanarchico, tirava incoscientemente la
conseguenza logica di quello stato d’animo. Messo colle spalle al muro in una
discussione, come quella che facciamo adesso mi rispose: “Ma queste sono cose
che non mi riguardano. A provvedere il pane ed il resto ci debbono pensare i
dirigenti”.
E la conclusione è proprio
questa: o alla riorganizzazione sociale ci pensiamo tutti, ci pensano i
lavoratori da loro stessi e ci pensano subito, mano mano che vanno distruggendo
il vecchio, e si avrà una società più umana, più giusta, più aperta ai
progressi futuri; o ci penseranno “i dirigenti” e avremo un nuovo governo, che
farà quello che han fatto sempre i governi, cioè farà pagare alla massa gli
scarsi e cattivi servizi che rende, togliendole la libertà e lasciandola
sfruttare da parassiti e privilegiati di tutte le specie.
d. E poi?
Il mio articolo del n. 10
Demoliamo e poi? ha lasciato perplesso qualche compagno, forse perché
scuoteva delle vecchie abitudini mentali, o forse piuttosto perché io non
sviluppai abbastanza il mio pensiero e riuscii oscuro. Cercherò di spiegarmi
meglio. C’è, per esempio, il compagno Salvatore Carrone il quale immagina
nientedimeno! ch’io, dopo o durante la rivoluzione, vorrei conservare
provvisoriamente gendarmi tribunali, galere, e tutto l’apparato repressivo
dello Stato; e getta il suo grido d’allarme contro questo che ci lascerebbe nel
circolo vizioso: la reazione che provoca la rivoluzione e la rivoluzione che
sbocca in una nuova reazione. E giustamente osserva che “la rivoluzione può
essere guidata da uomini di cuore, di buon senso e volenterosi di fare il bene,
ma a poco a poco attorno a questi buoni s’infiltrano torbidi elementi che
avendo una vasta rete d’accoliti sparsi nella nazione, accerchiano i buoni e
fatalmente li spodestano, o questi per reggersi al potere tradiscono la
rivoluzione, adoperando per la bisogna appunto il gendarme, e il tribunale coi
suoi accessori”.
Perfettamente d’accordo, ed
io non ho mai detto cosa diversa. Io dico che per abolire il gendarme e tutte
le istituzioni sociali malefiche bisogna sapere che cosa vogliamo sostituirvi,
non in un domani più o meno lontano, ma subito, il giorno stesso della
demolizione. Non si distrugge, realmente e permanentemente, se non quello che
si sostituisce; e rimandare a più tardi la soluzione dei problemi che si
presentano coll’urgenza della necessità sarebbe dare alle istituzioni che sì
pretende abolire il tempo di rifarsi della scossa ricevuta ed imporsi di nuovo,
forse con altri nomi, ma certo colla stessa sostanza. Le nostre soluzioni
potranno essere accettate da una parte sufficiente della popolazione ed avremo
fatto l’anarchia, o un passo verso l’anarchia; o potranno non essere comprese ed
accettate e allora la nostra opera servirà per propaganda, e poserà innanzi al
grande pubblico il programma del prossimo avvenire. Ma in ogni caso delle
soluzioni nostre dobbiamo averle: soluzioni provvisorie, rivedibili, e
correggibili sempre al lume dell’esperienza, ma necessarie se non vogliamo
subire passivamente le soluzioni degli altri, limitandoci alla poco proficua
funzione dì brontoloni incapaci ed impotenti.
A proposito dì gendarmi io
citavo il caso del satiro e dicevo della necessità di provvedere a metterlo
nell’impossibilità di nuocere. Il Carrone sembra propendere per il linciaggio. È
una soluzione primitiva, selvaggia, che ripugna alla mentalità moderna, ma è
una soluzione; e varrebbe sempre meglio che la beata fiducia che quelle cose,
fatta la rivoluzione, non avverranno più, o il magro espediente di rimandare il
problema ai nepoti. Sennonché avverrebbe com’è sempre avvenuto in casi simili
(ed anche recentemente a Roma ed altrove) che la folla irritata, commossa, non
sapendo con chi prendersela, si scagli chi sa su quanti poveri diavoli indicati
al suo furore da donne rese isteriche dallo sdegno e dalla paura. E allora la
gente calma invocherebbe l’intervento della polizia, di una qualsiasi polizia
professionale… che a sua volta molesterebbe molti innocenti e d’abitudine non
riuscirebbe a trovare il colpevole.
Che cosa bisognerebbe dunque
fare? Persuadere la gente che la sicurezza pubblica, la difesa della incolumità
e della libertà di ciascuno deve essere affidata a tutti; che tutti debbono
vigilare, che tutti debbono mettere all’indice il prepotente ed intervenire in
difesa del debole, che i compaesani, i vicini, i compagni di lavoro debbono
all’occorrenza farsi giudici e, nei casi estremi, come quello in discussione,
affidare chi è riconosciuto colpevole alla custodia ed alla cura di un
manicomio, aperto sempre al controllo del pubblico. Ed in ogni caso evitare che
la difesa contro i delinquenti diventi una professione e serva di pretesto alla
costituzione di tribunali permanenti e di corpi armati, che diventerebbero
presto strumenti di tirannide.
Ma insomma questa della
delinquenza non è che una questione secondaria, per quanto sia la prima che si
affaccia alla mente di coloro a cui si parla per la prima volta dell’inutilità e
della nocuità del governo. Nessuno pretenderà che qualche satiro o qualche
prepotente sanguinano possano arrestare il corso della rivoluzione!
L’importante,
l’immediatamente urgente è l’organizzazione della vita materiale, la
soddisfazione cioè dei bisogni primordiali ed il lavoro che a quei bisogni deve
provvedere. Poiché quello che non riusciremo noi a fare ed a far fare con metodi
nostri sarà fatto necessariamente da altri con metodi autoritari.
L’anarchia non si realizzerà
se non quando si saprà vivere senza autorità, ed in quelle proporzioni in cui si
riuscirà a fare a meno dell’autorità. Ma ciò non vuoi dire che bisogna, come il
Carrone pensa o crede ch’io pensi, “aiutare in caso di rivoluzione il partito
più affine colla speranza che questo faccia meno reazione durante l’opera nostra
di sostituire il bene al male”.
Noi possiamo avere rapporti di cooperazione
coi partiti non anarchici finché abbiamo con loro un nemico comune da
combattere e che non potremmo abbattere da soli; ma dal momento che un partito
va al potere e diventa governo, noi non possiamo avere con lui che rapporti di
nemico a nemico.
Certamente noi abbiamo
interesse, finché esiste un governo, che questo sia il meno oppressivo,
cioè il meno governo possibile. Ma la libertà, anche una libertà relativa, non
si ottiene da un governo aiutandolo. Si ottiene solo facendogli sentire il
pericolo di troppo comprimere.
4.
IL RUOLO DEL MOVIMENTO ANARCHICO
a. A
proposito di “revisionismo anarchico”
Premetto che di “atti di
contrizione” non ne ho fatto alcuno. Io potrei facilmente documentare che quello
che dico adesso sono andato dicendolo da anni; e se ora v’insisto di più ed
altri vi fa più attenzione di prima si è perché i tempi sono più maturi, in
quanto l’e-sperienza ha persuasi molti, i quali prima si pascevano di quel beato
ottimismo kropotkiniano, che io solevo chiamare “provvidenzialismo ateo”, a
scendere dalle nuvole e tener calcolo delle cose quali sono, tanto differenti da
quelle che si vorrebbe che fossero. Ma lasciamo questi ricordi storici
d’interesse personale, e veniamo alla questione generale ed attuale.
Noi di questa rivista, al pari di altri
compagni in altre pubblicazioni nostre, non abbiamo per nulla preteso di avere
bella e pronta la soluzione infallibile ed universale di tutti i problemi che ci
si affacciano alla mente; ma, riconosciuta la necessità di un programma pratico,
adattabile alle varie circostanze che possono presentarsi nello svolgersi della
vita sociale prima, durante e dopo la rivoluzione, abbiamo invitato tutti i
compagni che hanno delle idee da esporre e delle proposte da fare a concorrere
all’ela-borazione di detto programma. Quindi, quelli che trovano che tutto è
andato bene finora e che bisogna continuare come per il passato, non hanno che
da difendere il loro punto di vista; mentre gli altri che d’accordo con noi
pensano che bisogna prepararsi intellettualmente e materialmente alla funzione
pratica spettante agli anarchici, anziché aspettare passivamente il verbo
nostro dovrebbero cercare di dare essi stessi il loro contributo al dibattito
che li interessa.
Per conto mio, io credo che non vi sia “una
soluzione” ai problemi sociali, ma mille soluzioni diverse e variabili, come è
diversa e variabile, nel tempo e nello spazio, la vita sociale. In fondo, tutte
le intuizioni, tutti i progetti, tutte le utopie sarebbero egualmente buone a
risolvere il problema, cioè a contentar la gente, se tutti gli uomini avessero
gli stessi desideri e le stesse opinioni e si trovassero nelle stesse
condizioni. Ma questa unanimità di pensiero e questa identità di condizioni sono
impossibili e a dir vero non sarebbero nemmeno desiderabili; e perciò nella
nostra condotta attuale e nel nostro progetto d’avvenire dobbiamo tener presente
che non viviamo, e non vivremo neppure domani in un mondo popolato da soli
anarchici: invece siamo e saremo ancora per lungo tempo una minoranza
relativamente piccola. Isolarsi non è generalmente possibile, e qualora lo
fosse sarebbe a detrimento della missione che ci siamo dati, nonché del nostro
benessere personale. Bisogna dunque trovare il modo di vivere in mezzo ai non
anarchici nel modo il più anarchico possibile e con il maggior vantaggio
possibile per la propaganda e per l’attua-zione delle nostre idee.
Noi vogliamo fare la rivoluzione, perché
crediamo nella necessità di un cambiamento radicale, che non può essere
pacifico a causa della resistenza dei poteri costituiti, negli ordinamenti
politici ed economici vigenti per creare un nuovo ambiente sociale che renda
possibile quell’elevamento morale e materiale delle masse che la propaganda,
l’educazione, è impotente a produrre nelle circostanze attuali, ma non potremmo
fare una rivoluzione esclusivamente “nostra” appunto perché siamo piccola
minoranza, perché non abbiamo il consenso delle masse e non vorremmo, anche
potendolo, imporre con la forza la volontà nostra per non andare contro i fini
che ci proponiamo. Dunque, per uscire dal circolo vizioso, dobbiamo contentarci
di fare una rivoluzione il più “nostra” che sia possibile, favorendo e
partecipando, moralmente e materialmente, ad ogni movimento diretto nel senso
della giustizia e della libertà e maggiore giustizia. E questo non significa
“accodarci” agli altri partiti, ma spingerli avanti e mettere le masse in
presenza dei vari metodi affinché possano giudicare e scegliere. Potremo essere
abbandonati, traditi, come ci è avvenuto altre volte; ma bisogna ben correrne il
rischio se non si vuoi restare praticamente inattivi e rinunziare ad apportare
la forza delle nostre idee e della nostra azione nel corso della storia.
Altra osservazione. Il
socialismo nel senso largo; della parola, l’aspirazione al socialismo si
presenta quale problema di distribuzione in quanto è lo spettacolo della miseria
dei lavoratori di fronte all’agiatezza ed al lusso dei parassiti e la rivolta
morale contro la patente ingiustizia sociale che hanno spinto i sofferenti e
tutti gli uomini di cuore a ricercare ed immaginare dei modi migliori di
convivenza sociale. Ma la realizzazione del socialismo – sia esso anarchico o
autoritario, mutualista o individualista, ecc. – è eminentemente problema di
produzione. Quando la roba non c’è, è vano cercare il miglior modo di
distribuirla, e se gli uomini sono ridotti a contendersi il tozzo di pane, i
sentimenti di amore e di fratellanza si trovano in gran pericolo di cedere il
passo alla lotta brutale per la vita. Oggi fortunatamente i mezzi di produzione
abbondano. La meccanica, la chimica, l’agraria, ecc, hanno centuplicata la
potenza produttiva del lavoro umano. Ma bisogna lavorare, e per lavorare
utilmente bisogna sapere: sapere come si deve lavorare e come si può
economicamente organizzare il lavoro. Se gli anarchici vogliono agire
efficacemente fra la concorrenza dei diversi partiti bisogna che si
approfondiscano, ciascuno nel ramo in cui si sente più adatto, nello studio di
tutti i problemi teorici e pratici del lavoro utile.
Ancora. Noi non siamo più in
tempi ed in paesi in cui bastava ad una famiglia un pezzo di terra, una vanga,
un pugno di semi, una vacca ed un po’ di galline per vivere soddisfatta. Oggi i
bisogni si sono moltiplicati e complicati in modo enorme. L’ineguale
distribuzione naturale delle materie prime obbliga ogni agglomerazione d’uomini
ad avere rapporti internazionali. La stessa densità della popolazione rende,
nonché miserabile, assolutamente impossibile la vita dell’eremita, se fossero
molti ad avere di quei gusti.
Noi abbiamo bisogno di
ricevere i prodotti di tutto il globo, noi vogliamo la scuola, la ferrovia, la
posta, il telegrafo, il teatro, la pubblica igiene, il libro, il giornale, ecc.
Tutto questo, che è il frutto della civiltà, bene o male funziona: funziona a
vantaggio principalmente delle classi privilegiate, ma funziona; ed i benefici
possono con relativa facilità essere estesi a tutti, quando fosse abolito il
monopolio della ricchezza e del potere.
Vogliamo noi distruggerlo? O siamo in grado di
organizzarlo subito in modo migliore? La vita sociale, specialmente la vita
economica non ammette interruzione. Bisogna mangiare ogni giorno, bisogna ogni
giorno alimentare i fanciulli, i malati, gl’impotenti; e vi sarebbe anche chi
dopo aver fatto le schioppettate durante la giornata vorrebbe la sera andare al
cinema. Per provvedere a questi bisogni improrogabili – lasciamo stare il
cinema – vi è tutta un’organizzazione commerciale, che compie male, ma in
qualche modo compie la sua funzione. Bisogna evidentemente utilizzarla,
togliendole quanto più è possibile del suo carattere sfruttatore ed
accaparratore.
È tempo di finirla con quella
retorica – poiché non si tratta che di retorica – che voleva compendiare tutto
il programma anarchico nel famoso “demoliamo”. Demoliamo, si, o cerchiamo di
demolire, ogni tirannia, ogni privilegio. Ricordiamoci però, che governo e
capitalismo sono solamente delle superstrutture che tendono a restringere i
benefizi della civiltà ad un piccolo numero d’individui, e che per abolirli non
occorre rinunziare a nessuno dei prodotti dell’ingegno e del lavoro umano. E
quindi è ben più quello che bisogno conservare di quello che bisogna
distruggere.
In quanto a noi non dobbiamo
distruggere se non quello che possiamo sostituire con cosa migliore. Ed intanto
lavorare in tutti i rami per migliorarci e migliorare: rifiutandoci s’intende
ad accettare ed esercitare qualunque funzione coercitiva.
Ho gettato giù qualche
osservazione. Altre ne farò quando capiterà l’occasione. I compagni le tengano
nel conto che credono, e se pare loro che ne valga la pena, ne facciano
argomento di discussione. Ma per carità, non aspettino da noi la formula magica.
Noi non siamo e non vogliamo parere dei padri eterni.
b. Gli
anarchici nel momento attuale
Vi è in una sezione del
nostro movimento un gran fervore di discussioni sui problemi pratici che la
rivoluzione dovrà risolvere. Ed è questo un gran bene e di ottimo augurio,
anche se le soluzioni proposte finora non sono né abbondanti né soddisfacenti.
È passato il tempo in cui si
pensava che l’insurrezione bastasse a tutto, e che una volta vinti l’esercito e
la polizia ed abbattuti tutti i poteri costituiti, il resto, che era poi
l’essenziale, verrebbe da sé. Siamo dunque d’accordo nel pensare che oltre il
problema di assicurare la vittoria contro le forze materiali dell’avversario vi
è anche il problema di far vivere la rivoluzione dopo la vittoria. Siamo
d’accordo che una rivoluzione la quale producesse il caos non sarebbe vitale. Ma
non bisogna esagerare: non bisogna credere che noi si debba e si possa fin d’ora
trovare una soluzione ideale per tutti i possibili problemi. Non bisogna
voler troppo prevedere e troppo determinare, altrimenti invece di preparare
l’anarchia faremmo dei sogni irrealizzabili oppure cadremmo nell’autoritarismo
e, coscientemente o no. ci proporremmo di agire come un governo che in nome
della libertà e della volontà popolare sottopone il popolo al proprio dominio.
Mi accade infatti di leggere
le più strane cose: strane se si considera che sono scritte da anarchici.
Un compagno, ad esempio, dice che “le folle avrebbero ragione d’inveire contro
di noi se dopo di averle invitate ai dolorosissimi sacrifici di una rivoluzione
si dicesse loro: fate ciò che la volontà vi suggerisce, raggruppatevi, producete
convivete come meglio vi aggrada”.
Ma come! non abbiamo noi
sempre detto alle folle che non debbono aspettarsi il bene né da noi né da
altri, che il bene debbono conquistarselo da loro stesse e che avranno solo
quello che sapranno prendere e conserveranno solo quello che sapranno difendere?
È giusto e naturale che noi, iniziatori e propulsori e parte della massa noi
stessi, dobbiamo cercare di spingere il movimento nella direzione che ci sembra
migliore e perciò essere preparati il più possibile per le cose che si debbono
fare, ma resta sempre fondamentale il principio che la decisione spetta alla
libera volontà degli interessati.
Leggo pure: “Creeremo un
regime che se non sia del tutto libertario abbia l’impronta nostra e soprattutto
dia adito alla progressiva attuazione dei nostri postulati”. Che cosa è questo’?
Un piccolo governo, bono bono, che avrà cura di suicidarsi al più presto per far
luogo all’anarchia!!! Ma non eravamo già d’accordo nel pensare che ogni governo
ha tendenza non a suicidarsi, ma a perpetuarsi e diventare sempre più dispotico,
e che missione degli anarchici è quella di combattere, anche se obbligati a
subirlo, qualunque regime non fondato sulla libertà piena e intera? E non
dicevamo anche che gli anarchici al potere non potrebbero fare diversamente
dagli altri?
Un altro compagno, tra quelli che più si
preoccupano della necessità di avere un “piano” e che in sostanza non spera che
nei sindacati operai, dice: “A rivoluzione trionfata, si affidi alla classe
lavoratrice – già da noi precedentemente educata a questa grande funzione
sociale – la gestione di tutti i mezzi dl produzione, di trasporto, di scambio,
ecc.”. Già da noi precedentemente educata a questa grande funzione sociale! Ma
tra quanti secoli quel compagno vuol fare la invocata rivoluzione? E almeno
bastassero i secoli! Ma il fatto è che non si educa la massa se essa non si
trova nella possibilità e nella necessità di fare da sé, e che l’organizzazione
rivoluzionaria dei lavoratori, utile e necessaria finché si vuole, non può
estendersi e durare indefinitamente: arrivata ad un certo punto, se non sbocca
nell’azione rivoluzionaria, o il governo la strozza, o essa da se stessa si
corrompe o si sfascia – e bisogna ricominciare da capo. Come è vero che gli
uomini “pratici” sono spesso i più ingenui utopisti!
Ma tutta questa discussione
non saprebbe forse alquanto di accademia se nel caso concreto si trattasse di un
paese in cui la libera organizzazione dei lavoratori è distrutta ed interdetta,
la libertà di stampa, di riunione, di associazione soppresse ed i propagandisti
anarchici, socialisti, comunisti, repubblicani sono o rifugiati all’utero, o
relegati nelle isole, o chiusi in prigione, o messi altrimenti in condizioni di
non poter né parlare, né muoversi e quasi neppure respirare? Si può
ragionevolmente sperare che il prossimo rivolgimento, in un paese ridotto nelle
condizioni descritte, sarà la rivoluzione sociale in tutto il senso ampio e
profondo che noi diamo alla parola? Non sembra che oggi il possibile e
l’urgente sia piuttosto la riconquista delle condizioni necessarie alla
propaganda e all’or-ganizzazione?
A me sembra che la ragione
per cui si veggono tante difficoltà e si cade in tante incertezze e
contraddizioni si è che o si vuole fare l’anarchia senza anarchici, o perché si
crede che la propaganda basti a convertire all’anarchia tutta o gran parte della
popolazione prima che le condizioni ambientali siano radicalmente mutate.
Vi è chi suol dire che “la
rivoluzione sarà anarchica o non sarà”. Ancora una di quelle frasi d’effetto che
guardate in fondo o non dicono nulla o dicono uno sproposito. Infatti, se
s’intende dire che la rivoluzione quale la vorremmo noi deve essere anarchica,
si fa una vera tautologia, cioè un giro di parole che non spiega nulla, come se
si dicesse, per esempio, la carta bianca deve essere bianca. Se poi s’intende
dire che non vi può essere altra rivoluzione che quella anarchica, allora si
dice uno sproposito perché vi sono stati e certamente vi saranno ancora nella
vita delle società umane dei movimenti che, cambiando radicalmente le condizioni
esistenti danno una nuova direzione alla storia successiva, e perciò meritano il
nome di rivoluzioni. Ed io non saprei ammettere che tutte le rivoluzioni passate
pur non essendo anarchiche siano state inutili, né che saranno inutili quelle
future che non saranno ancora anarchiche. Anzi inclino a credere che il trionfo
completo dell’anarchia, piuttosto che per rivoluzione violenta, verrà per
evoluzione, gradualmente, quando una precedente o delle precedenti rivoluzioni
avranno distrutti i più grossi ostacoli militari ed economici, che si oppongono
allo sviluppo morale delle popolazioni, all’aumento della produzione fino al
livello dei bisogni e dei desideri e all’armonizzazione degl’interessi
contrastanti.
In ogni modo, se teniamo
conto delle nostre scarse forze e delle disposizioni prevalenti tra le masse e
se non vogliamo prendere per realtà i nostri desideri, dobbiamo aspettarci che
la prossima, forse imminente, rivoluzione non sarà anarchica, e perciò quello
che più urge è di pensare a quello che possiamo e dobbiamo fare in una
rivoluzione in cui non saremo che una minoranza relativamente piccola e mal
armata.
Alcuni compagni, forse
suggestionati ancora dalle vanterie socialiste e dalle illusioni che fece
nascere la rivoluzione russa, credono che il compito degli autoritari sia più
facile del nostro perché essi hanno un “piano”; impossessarsi del potere e
imporre con la forza i loro sistemi.
Ciò non è vero. Il desiderio
di afferrare il potere socialisti e comunisti ce l’hanno certamente, ed in date
circostanze possono riuscirci. Ma i più intelligenti tra loro sanno bene che
stando al potere potrebbero bensì tiranneggiare il popolo e sottoporlo ad
esperimenti capricciosi e pericolosi, potrebbero sostituire alla borghesia
attuale una nuova classe privilegiata, ma il socialismo non potrebbero farlo, il
“piano” non potrebbero applicarlo. Come si può mai distruggere una società
millenaria e fondare una nuova e migliore società con decreti fatti da pochi
uomini ed imposti colle baionette! Ed è questa la ragione onesta (delle altre
menti confessabili ragioni non voglio occuparmi) per la quale in Italia
socialisti e comunisti negarono il loro concorso ed impedirono la rivoluzione
quando c’era la possibilità di farla. Essi sentivano che non avrebbero potuto
dominare la situazione ed avrebbero dovuto o lasciar libero il campo agli
anarchici o farsi strumenti della reazione. Nei paesi poi dove al potere ci sono
andati si sa quello che hanno fatto.
Il compito nostro, se
solamente avessimo la forza materiale per sbarazzarci della forza materiale che
ci opprime, sarebbe di molto più facile, perché noi non pretendiamo dalla massa
se non quello che la massa è capace e vogliosa di fare, limitandoci a fare
tutto quello che possiamo per svilupparne la capacità e la volontà. Dobbiamo
guardarci però dal diventare noi stessi meno anarchici perché la massa non è
capace d’anarchia. Se la massa vorrà un governo, noi probabilmente non
potremo impedire che un nuovo governo si formi, ma non dovremo meno per questo
fare il possibile per persuadere la gente che il governo è inutile e dannoso e
per impedire che il nuovo governo s’imponga anche a noi ed a quelli che non lo
vogliono. Noi dovremo adoperarci perché la vita sociale, e specialmente la vita
economica, continui e migliori senza l’intervento del governo, e perciò
dobbiamo essere preparati il più possibile pei problemi pratici della produzione
e della distribuzione, ricordandoci d’altronde che i più adatti ad organizzare
il lavoro sono quelli che lo fanno, ciascuno nel proprio mestiere.
Noi dovremo cercare di essere
parte attiva, e se possibile preponderante, nell’atto insurrezionale. Ma,
abbattute le forze repressive che servono a tenere il popolo nella schiavitù,
disfatti l’esercito, la polizia, la magistratura, ecc., armata tutta la
popolazione perché possa opporsi ad ogni ritorno offensivo della reazione,
indotti i volonterosi a prendere in mano l’organizzazione della cosa pubblica
ed a provvedere, con criteri di giustizia distributiva, ai bisogni più urgenti
servendosi con parsimonia delle ricchezze esistenti nelle varie località,
dovremo adoperarci perché si eviti ogni sperpero e si rispettino e si
utilizzino quelle istituzioni, quei costumi, quelle abitudini, quei sistemi di
produzione, di scambi, d’assistenza che compiono, sia pure in modo insufficiente
e cattivo, delle funzioni necessarie, cercando bensì di far sparire ogni
traccia di privilegio, ma guardandoci dal distruggere ciò che non si può ancora
sostituire con qualche cosa che risponda meglio al bene di tutti. Spingere gli
operai ad impossessarsi delle fabbriche, federarsi tra loro e lavorare per conto
delle collettività, e così spingere i contadini ad impossessarsi delle terre e
dei prodotti usurpati dai signori ed intendersi cogli operai pei necessari
scambi.
Se non potremo impedire la
costituzione di un nuovo governo, se non potremo abbatterlo subito, dovremo in
tutti i casi negargli ogni concorso. Negare il servizio militare, negare il
pagamento delle imposte. Non ubbidire per principio, resistere fino all’ultima
estremità ad ogni imposizione delle autorità e rifiutarsi assolutamente ad
accettare qualunque posto di comando.
Se non potremo abbattere il
capitalismo, dovremo esigere per noi e per tutti quelli che vogliono il diritto
all’uso gratuito dei mezzi di produzione necessari per una vita indipendente.
Consigliare quando avremo consigli da dare, insegnare se sappiamo più degli
altri; dar l’esempio della vita per libero accordo; difendere, anche colla
forza, se è necessario e se è possibile, la nostra autonomia contro
qualunque pretesa governativa… ma comandare mai. Cosi non faremo l’anarchia,
perché l’anarchia non si fa contro la volontà della gente, ma almeno la
prepareremo.
e.
Questione di tattica
La presente, incerta,
tormentata, instabile situazione politico-sociale dell’Europa e del mondo, che
dà luogo a tutte le speranze ed a tutti i timori, rende più che mai urgente il
bisogno di tenersi pronti per i più o meno prossimi, ma immancabili
rivolgimenti. E perciò si ravviva la discussione, del resto sempre attuale, del
modo come adattare le nostre aspirazioni ideali alla realtà contingente dei vari
paesi, e passare dal predicazione ideale alla pratica realizzazione. E, come è
naturale in un movimento quale è il nostro, che non riconosce autorità di uomini
e di testi ed è tutto fondate sulla libera critica, varie sono le opinioni e
varia la tattica seguita.
Così,
alcuni dedicano tutta la loro attività a perfezionare predicare l’ideale, senza
poi troppo guardare se sono compresi e seguiti e se quell’ideale sia o non
applicabile nello stato attuale della mentalità popolare e delle esistenti
risorse materiali Essi, più o meno esplicitamente ed in gradi che variano da
persona a persona, restringono il compito degli anarchici, oggi alla
demolizione degli attuali istituti oppressivi e repressivi, domani alla vigile
sorveglianza contro il costituirsi di nuovi governi e nuovi privilegi,
trascurando tutto il resto, che è poi il grave, ineluttabile ed improrogabile
problema della riorganizzazione sociale sopra basi libertarie. Essi credono, per
quel che riguarda i problemi di ricostruzione, che tutto si accomodi da sé,
spontaneamente, senza preparazione precedente e senza piani prestabiliti,
grazie ad una mitica capacità creativa della massa, o in forza di una pretesa
legge naturale per la quale, non appena eliminata la violenza statale ed il
privilegio capitalistico, gli uomini diventerebbero tutti buoni ed
intelligenti, sparirebbero subito gli antagonismi d’interessi, e l’abbondanza,
la pace, l’armonia regnerebbero sovrane nel mondo.
Altri invece, animati soprattutto dal
desiderio di essere, o sembrare pratici, preoccupati dalle prevedibili
difficoltà della situazione all’indomani della rivoluzione, consci della
necessità di conquistare l’adesione del grosso pubblico, o almeno di vincerne
le ostili prevenzioni causate dall’ignoranza dei nostri propositi, vorrebbero
formulare un programma, un piano completo di riorganizzazione sociale, che
rispondesse a tutte le difficoltà e potesse soddisfare quelli che, con frase
tradotta dall’inglese, han preso a chiamare “l’uomo della strada”, cioè l’uomo
qualunque che non ha partito preso, non ha idee determinate, giudica a volta a
volta secondo che è ispirato dalle passioni e dagli interessi del momento.
Da parte mia, credo che gli
uni e gli altri hanno la loro parte di ragione e la loro parte di torto; e che,
se non fosse la malaugurata tendenza all’esagerazione ed all’esclusi-vismo, le
due opinioni potrebbero contemperarsi e completarsi l’una con l’altra per
adeguare la nostra condotta alle esigenze dell’ideale ed alle necessità della
situazione, e raggiungere cosi la massima efficienza pratica, pur restando
strettamente fedeli al nostro programma di libertà e giustizia integrali.
Negligere tutti i problemi di ricostruzione, o prestabilire piani completi ed
uniformi sono due errori, due eccessi, che per vie diverse menerebbero alla
nostra sconfitta in quanto anarchici ed al trionfo di nuovi o vecchi regimi
autoritari. La verità sta nel mezzo.
È assurdo il credere che,
abbattuti i governi ed espropriati i capitalisti, “le cose si accomoderanno da
sé”, senza l’azione di uomini che abbiano un’idea preconcetta sul da farsi e si
mettano subito all’opera per farlo. Forse ciò potrebbe accadere – e magari
sarebbe preferibile che così accadesse – se si avesse tempo di aspettare che la
gente, tutta la gente, trovasse modo provando e riprovando, di soddisfare nel
miglior modo i propri bisogni e i propri gusti, d’accordo con i bisogni e con i
gusti degli altri. Ma la vita della società, come la vita degli individui non
ammette interruzioni. L’indomani immediato della rivoluzione anzi il giorno
stesso dell’insurrezione, bisogna provvedere all’alimentazione ed agli altri
bisogni urgenti della popolazione, e quindi occorre assicurare la continuazione
della produzione necessaria (pane, ecc.), il funzionamento dei principali
servizi pubblici (acqua, trasporti, elettricità, ecc.) e lo scambio ininterrotto
tra le città e le campagne.
Più tardi le maggiori
difficoltà spariranno: il lavoro organizzato direttamente da coloro che
realmente lavorano diventerà facile ed attraente; l’abbondanza della produzione
rendere inutile ogni calcolo sul rapporto tra prodotti fatti e prodotti
consumati e ciascuno potrà davvero “prendere nel mucchio” quello che gli piace;
le mostruose agglomerazioni cittadine si dissolveranno, la popolazione si
distribuirà razionalmente su tutto il territorio abitabile, ed ogni località,
ogni raggruppamento, pur conservando ed aumentando a benefizio di tutti tutte le
comodità fornite dalle grandi imprese industriali e pur restando legato a tutta
l’umanità per sentimento di simpatia e di solidarietà umane, potrà in generale
bastare a sé stesso e non essere afflitto dalle opprimenti e dispendiose
complicazioni della vita economica attuale. Ma queste, e mille altre belle cose
che si possono immaginare, riguardano l’avvenire, mentre ora urge pensare al
modo di vivere oggi, nella situazione che la storia ci ha tramandata e che la
rivoluzione, cioè un atto di forza, non potrà cambiare radicalmente, da un
giorno all’altro, come con un colpo di bacchetta magica. E poiché, bene o male,
bisogna vivere, se noi non sapremo o non potremo fare il necessario), lo
faranno altri con scopi e risultati opposti a quelli a cui miriamo noi.
Non bisogna trascurare “l’uomo della strada”,
che è poi in tutti i paesi la grande maggioranza della popolazione, e senza il
cui concorso non v’è emancipazione possibile; ma non bisogna neppure fare troppo
affidamento sulla sua intelligenza e sulla sua capacità d’iniziativa. L’uomo
ordinario, “l’uomo della strada”, ha molte ottime qualità, ha immense
potenzialità che danno sicura speranza ch’esso potrà un giorno formare l’umanità
ideale che noi vagheggiando; ma esso ha intanto un grave difetto che spiega in
gran parte il sorgere ed il persistere delle tirannie: esso non ama pensare, ed
anche nei suoi conati di emancipazione segue sempre più volentieri chi gli
risparmia la fatica di pensare e prende su di sé la responsabilità di
organizzare, dirigere… e comandare. Esso, purché non lo si disturbi troppo
nelle sue abitudini, è soddisfatto se altri pensa per lui e gli dice quello che
deve fare anche se a lui non resta che il dovere di lavorare e di ubbidire.
Questa debolezza, questa tendenza della folla ad aspettare e seguire gli ordini
di chi si mette alla sua testa, ha mandato a male tante rivoluzioni e continua
ad essere il pericolo che minaccia le rivoluzioni prossime future.
Se la folla non fa da sé e
subito, bisogna bene che provvedano al necessario gli uomini di buona volontà,
capaci di iniziativa e di decisione. Ed è in questo, cioè nel modo di
provvedere alle necessità urgenti, che dobbiamo distinguerci nettamente dai
partiti autoritari. Gli autoritari intendono risolvere la questione
costituendosi in governo ed imponendo colla forza il loro programma. Essi
possono anche essere in buona fede e credere sinceramente di fare il
bene di tutti, ma in realtà, ostacolando la libera azione popolare, non
riuscirebbero ad altro che a creare una nuova classe privilegiata interessata a
sostenere il nuovo governo, ed in sostanza a sostituire una tirannia con
un’altra.
Gli anarchici devono bensì
sforzarsi di rendere il meno faticoso possibile il passaggio dallo stato di
servitù a quello di libertà, fornendo al pubblico il più possibile d’idee
pratiche ed immediatamente applicabili, ma debbono guardarsi bene
dall’incoraggiare quell’inerzia intellettuale e quella tendenza a lasciare fare
agli altri ed ubbidire, che abbiamo lamentate. La rivoluzione, per riuscire
veramente emancipatrice, dovrà svolgersi liberamente in mille modi diversi,
corrispondenti alle mille diverse condizioni morali e materiali degli uomini
d’oggi per la libera iniziativa di tutti e di ciascuno. E noi dovremo suggerire
e realizzare il più possibile quei modi di vita che meglio corrispondono ai
nostri ideali, ma soprattutto dobbiamo sforzarci di suscitare nelle masse lo
spirito d’iniziativa e l’abitudine di fare da sé.
Noi dobbiamo evitare anche le
apparenze del comando, ed agire colla parola e con l’esempio come compagni tra
compagni; e ricordandoci che a voler troppo forzare le cose nel senso nostro e
far trionfare i nostri piani, correremmo il rischio di tarpare le ali alla
rivoluzione ed assumere noi stessi, più o meno inconsciamente, quella funzione
di governo, che tanto deprechiamo negli altri.
E come governo noi non varremmo certamente
meglio degli altri. Forse anche saremmo più pericolosi per la libertà, perché
convinti fortemente di aver ragione e di fare il bene, saremmo inclini, da veri
fanatici, a considerare quali contro-rivoluzionari e nemici del bene tutti
quelli che non pensassero ed agissero come noi. Ché se poi quello che gli altri
fanno non fosse quello che vorremmo noi, la cosa non avrebbe importanza, sempre
che fosse salvaguardata la libertà di tutti. Ciò che veramente importa è che la
gente faccia come vuole, perché non vi sono conquiste assicurate se non quelle
che il popolo fa coi propri sforzi, non vi sono riforme definitive se non quelle
reclamate ed imposte dalla coscienza popolare.
Su Bakunin, Malatesta così scriveva in “Pensiero e volontà”, Roma, 1 luglio
192: “lo fui bakunista, come lo furono tutti i miei compagni di quelle,
ahimè! ormai lontane generazioni. Oggi ‑ e già da lunghi anni ‑ non mi direi
più tale. Le idee si sono sviluppate e modificate. Oggi trovo che Bakunin
fu, nell’economia politica e nell’interpretazione della storia, troppo
marxista; trovo che la sua filosofia si dibatteva, senza possibilità
d’uscita, nella contraddizione tra la concezione meccanica dell’universo e
la fede nell’efficacia della volontà sui destini dell’uomo e dell’umanità.
Ma tutto questo importa poco. Le teorie sono concetti incerti e mutabili; e
la filosofia, fatta generalmente d’ipotesi campate sulle nuvole, ha in
sostanza poca o nessuna influenza sulla vita. E Bakunin resta sempre,
malgrado tutti i possibili dissensi, il nostro grande maestro ed il nostro
forte ispiratore. Di lui è sempre viva la critica radicale del principio
d’autorità e dello Stato che lo incarna; viva è sempre la lotta contro le
sue menzogne, le due forme colle quali sì opprimono e si sfruttano le masse:
quella democratica e quella dittatoriale; e viva è la confutazione
magistrale di quel falso socialismo ch’egli chiamava addormentatore, e che
mira, cosciente o incoscientemente, a consolidare il dominio dalla borghesia
addormentando i lavoratori con vane riforme. E vivi sono soprattutto l’odio
intenso contro tutto ciò che degrada ed umilia l’uomo e l’amor illimitato
per 1a libertà, per tutta la libertà”.
Titolo originale: “Pietro Kropotkin. Ricordi e critiche di un vecchio
amico”, in Studi Sociali, Montevideo, 15 aprile 1931.
Titolo originale “Un po’ di teoria”, in En‑Dehors, Parigi, 17 agosto
1892.
Lettera inviata a Luisa Minguzzi Pezzi a Firenze da Londra il 29 aprile1892
(rintracciata in C.P.C. dell’A.C.S.R , Fascicolo E. Malatesta, ora in
GESTRI, L., “Dieci lettere inedite di Cipriani, Malatesta e Merlino”, in
Movimento operaio e socialista, XVII (1971), pp.325‑27.
Titolo originale “Errori e rimedi. Schiarimenti”, in L’Anarchia, n.
u., Londra, agosto 1896.
Titolo originale “Questioni rivoluzionarie”, in La Révolte, Parigi,
10 ottobre 1890. Si tratta di una lettera assai più ampia: la prima parte è
riprodotta nel paragrafo successivo
Titolo originale “II compito degli anarchici”, in La Questione Sociale,
Paterson, sett‑ott. 1899. AI suo rientro in Europa, Malatesta lanciava da
Londra, sempre nel 1899, un breve opuscolo largamente diffuso in Italia,
clandestinamente, dal titolo Aritmetica elementare. In realtà esso
era un “appello a tutti gli uomini di progresso” contro la monarchia: mirava
cioè all’unione di tutti i partiti antimonarchici invitando
all’insurrezione, senza pregiudiziale alcuna per i principi che ciascun
partito professava e senza impegni circa quanto ciascuno di essi avrebbe
creduto di dover tare dopo la caduta della monarchia. La parte sostanziale
dell’opuscolo venne ripubblicata insieme ad altro scritto del 1920 di
Malatesta e ad un saggio del 1920 di Ettore Molinari, sotto il titolo
Contro la monarchia / Le due vie / I fattori economici pel successo della
rivoluzione sociale, Ginevra, Il Risveglio, 1932.
Titolo originale “Un’intervista”, fatta a Malatesta da Ciancabilla allora
redattore dell’Avanti! e poi anarchico. L’intervista venne pubblicata
sull’Avanti! del 3 ottobre 1897. Ciancabilla per non denunciare la
presenza di Malatesta in Ancona, finge di averlo intervistato “in una
piccola stazione di provincia, tra l’arrivo e la partenza di un treno”.
All’inizio dell’intervista, sulla situazione di crisi del movimento in
Italia Malatesta, allora rientrato clandestinamente dall’Inghilterra e
stabilitosi ad Ancona, attribuiva un’influenza solo indiretta alle leggi
eccezionali. Secondo Malatesta la crisi era preesistente ed interna al
movimento.
Titolo originale “Conferma”, in L’Agitazione, 14 ottobre 1897. All’inizio
dell’articolo, Malatesta accenna alle illazioni del Resto del Carlino
che avrebbe scorto nell’intervista da lui concessa a Ciancabilla e nelle sue
affermazioni un avvicinamento ai socialisti legalitari, rifiutandole
sdegnosamente, come provenienti da un organo del nemico di classe
dichiarato.
11) Titolo originale “Chiarimento” in L’Agitazione del 28 ottobre
1897.
In Pensiero e Volontà, 15 maggio 1924.
Dalla lettera a Luigi Fabbri datata Roma 18 maggio 1931, poi pubblicata in
Studi Sociali del 30 settembre 1932.
L’Unione Anarchica Italiana fu costituita al congresso di Bologna
dell’ 1-4 Luglio 1920. Essa adottava la dichiarazione dei principi formulata
da Malatesta e più volte ristampata con il titolo Il nostro programma
o Programma Comunista Anarchico. Il congresso faceva seguito a quello
di Firenze del 12-14 Aprile 1919, che aveva costituito l’Unione
Comunista-Anarchica Italiana.
In Volontà del 17 giugno 1914, probabilmente scritto da Malatesta.
Nel supplemento al n. 17 di Volontà dell’aprile 1914, gli anarchici
anconetani avevano indirizzato un manifesto ai socialisti riuniti a
congresso nazionale nella loro città, Il manifesto, scritto certamente da
Malatesta, invitava i socialisti a porsi su una piattaforma rivoluzionaria
insieme con gli anarchici, a “tornare alle origini”, a smetterla con le
posizioni equivoche ed a schierarsi contro lo Stato e fuori dello Stato.
Il programma era stato già pubblicato a puntate nella Questione Sociale
di Patterson del 1899 ed era stato poi raccolto in opuscolo dal gruppo
socialista-anarchico L’Avvenire di New London, Connecticut, nel 1903
e ripubblicato a Patterson nel 1905. Nell’edizione del 1920 proposta al
congresso e da esso pienamente accettata, Malatesta aveva apportato alcune
modifiche. Il programma è ancor oggi adottato dalla Federazione Anarchica
Italiana, nonostante il mutamento dei tempi e delle condizioni
obiettive e nonostante il mutamento del patto federale organizzativo della
FAI.
In Umanità Nova, 7 ottobre 1922. L’articolo è parte della relazione
delle discussioni del Convegno Internazionale Anarchico di Bienne (Svizzera)
tenuto in occasione del cinquantenario del congresso
antiautoritario di Saint-Imier del settembre 1872.
In Umanità Nova, 25 novembre 1922.
In Pensiero e Volontà, 1 aprile 1924.
In Pensiero e Volontà, 16 giugno 1926. L’articolo fa seguito alla
recensione di Malatesta al libro di Luigi Galleani, riprodotta in
precedenza.
In Pensiero e Volontà, 1 agosto 1926.
In Pensiero e Volontà, 1 maggio 1924.
In Almanacco Libertario pro vittime politiche, Ginevra, 1931.
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