Ultimo Aggiornamento : 20-09-2003 : Last Release
Nei segni che confondono la borghesia, la nobilità e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione! - KARL MARX -
 
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ANTIAMERICANISTI DI PROFESSIONE

 

Il giardino degli antiamericani suicidi

di Valerio Evangelisti, "Carmilla", N. 5/2002




Il dilagare dell'antiamericanismo, a cui assistiamo ultimamente, è un
fenomeno davvero inquietante. Certa gente, ingrata, si scorda il debito che
abbiamo tutti nei confronti degli Stati Uniti, del loro popolo, della loro
cultura. Un debito enorme, difficile da estinguere. Eppure c'è chi si dedica
al facile sport della denigrazione, o a quello, non meno grave, dell'oblio.
Vogliamo fare i nomi? Facciamoli. Giuliano Ferrara, Oriana Fallaci, Fiamma
Nierenstein, Maria Giovanna Maglie, Gianni Riotta, Vittorio Feltri e decine
e decine di altri, fino ad Alberto Sordi e a Paolo Villaggio. Il peggio è
che tutti costoro si sono convertiti all'antiamericanismo viscerale subito
dopo l'11 settembre, e cioè nel momento stesso in cui gli Stati Uniti non
dovevano essere lasciati soli. Disprezzo, ignoranza o cos'altro? Credo
ignoranza, o almeno voglio pensarlo. Basterebbe un semplice test. Domandare
ad alcuni dei personaggi che ho elencato chi sia Jello Biafra. Sembra
impossibile ma non lo sanno, così come non sanno chi fossero i Dead Kennedys
(se non nel senso letterale dell'espressione). Nessuno di loro ha mai letto
Due tette e niente testa di Naomi Jaffe e Bernardine Dohrn, Fallo! di Jerry
Rubin, Cogliere l'occasione di Bobby Seale, La controrivoluzione globale di
Huberman e Sweezy, Lavoro e capitale monopolistico di Harry Braverman, Col
sangue agli occhi di George Jackson, La crisi fiscale dello Stato di James
O' Connor, La prossima volta il fuoco di James Baldwin.
Sto citando ovviamente alla rinfusa: è evidente che nessuno può conoscere
tutti i libri esistenti. Ma se uno vuole occuparsi di Stati Uniti d'America,
qualcosina dovrebbe sapere. Altrimenti nasce il sospetto che una lacuna
limitata e superficiale ne nasconda altre abissali; che non sapere chi sia
Jello Biafra segnali l'ignoranza più completa di chi fossero Big Bill
Haywood ed Elizabeth Gurley Flynn, Eugene Debs e Daniel DeLeon. Gli
antiamericani di professione non sanno certamente nulla degli scioperi
durante la guerra di secessione, dell'organizzazione degli Knights of Labor,
dell'epopea dinamitarda dei Molly Maguires, dell'anarchismo di Johann Most.
Non hanno mai udito parlare delle lotte multietniche di Lawrence e Paterson,
dello sterminio pianificato e sistematico degli Industrial Workers of the
World. Conoscono Arlo Guthrie per qualche vecchio film, ma ignorano Woody.
La nascita della CIO li lascia indifferenti (a loro preme solo la CIA).
Interpellati su tutto ciò e su altro ancora, risponderebbero che si tratta
di fenomeni marginali. Un punto di vista del tutto identico a quello di Bin
Laden. Ma è marginale il fatto che, negli Stati Uniti, il movimento
studentesco degli anni Sessanta sia riuscito a bloccare la guerra nel
Vietnam? E' marginale che si sia saldato con la disaffezione dei soldati e
il rigetto dei veterani, capaci di disfarsi di medaglie e nastrini in
impressionanti riti collettivi?
Marginale un accidente. Esiste, ed è sempre esistita, un'America non
inquadrata nelle scelte delle élites al potere. Capace, all'occorrenza, di
rovesciarle, malgrado una repressione senza riscontri al mondo, per volontà
di annientamento. Da Joe Hill a Wesley Everest, castrato e impiccato
dall'American Legion, da Sacco e Vanzetti ai Rosenberg, da Fred Hampton a
Mumia Abu-Jamal a Silvia Baraldini, il capitale statunitense si è sempre
liberato senza troppe cerimonie degli elementi perturbatori. In linea con la
politica condotta sul piano internazionale, priva di scrupoli nel sostenere
regimi inverecondi e nell'abbatterne altri solo indocili, con totale
disprezzo per la loro sovranità.
Non è mai riuscito, però, né a sintetizzare l'anima del paese, né a
cancellarne completamente i sussulti libertari. In piena "era Reagan",
quando in America Centrale governi votati al genocidio erano proposti a
modello e i militanti delle squadre della morte venivano promossi eroi,
negli USA operavano oltre 2000 comitati di sostegno al Salvador. Attori di
fama come Christopher Walken, Martin Sheen, Ed Harris si mettevano in marcia
verso il Nicaragua minacciato da bande mercenarie. Si faccia un parallelo
con i Sordi e i Villaggio che, patetici su un palco, agitano uno straccetto
a stelle e strisce. L'America era la prima. La seconda è la sua miserevole
caricatura. Anzi, diciamo pure che ne è l'antitesi.
Gli antiamericani di professione, arrivati fin qui, diranno che la
tolleranza delle espressioni di dissenso è l'ennesima dimostrazione della
grandezza delle forme di governo statunitensi, capaci di tollerare gli
anticorpi. Balle. Molti dei nomi che ho elencato corrispondono ad omicidi,
ad arresti arbitrari, a forme di emarginazione. Degli scrittori che ho
citato, almeno due sono morti di morte violenta, mentre altri si sono fatti
anni di prigione. Le organizzazioni cui taluni di essi appartenevano, tipo
gli IWW, le Pantere Nere, il Partito Comunista, sono state oggetto di
infiltrazioni, assassinii individuali, provvedimenti di messa al bando. Le
espressioni artistiche sono state meno colpite, certo. Però l'attrice Jean
Seberg fu costretta dall'FBI ad abortire e poi spinta al suicidio. Il
documentario di Barbara Trent The Panama Deception, che documenta la verità
sul massacro compiuto dai marines a Panama nel 1989, negli USA non ha mai
circolato, pur avendo vinto l'Academy Arward. Il film di Haskell Wexler
Latino (Urla di guerra dal Nicaragua) venne proiettato in una decina di
cinema, tra New York e San Francisco, sebbene tra i finanziatori avesse
nientemeno che George Lucas. Un'apposita commissione, l'USIA, visiona
tuttora i film in produzione a Hollywood, e nega o accorda il suo benestare
alla realizzazione e all'esportazione a seconda dei contenuti.
Il popolo americano, sia nelle sue espressioni antagonistiche, sia nella sua
componente maggioritaria estranea alla politica (e poco interessata al ruolo
di gendarme del mondo), è dunque sottoposto a violente forme di
disinformazione che, se inefficaci, possono sfociare nella brutalità più
spietata. Quel popolo va aiutato, capito, incoraggiato - perché no, amato.
Lo chiedeva di recente una accorata Lettera di 102 intellettuali americani
ai loro amici europei, che si apriva con una riflessione importante: "Il
sofisma fondamentale di coloro che fanno l'apologia della guerra è
confondere i 'valori americani' con gli effetti dell'esercizio del potere
degli Stati Uniti all'estero". Continuava mettendo in guardia dal "timore di
essere etichettati 'antiamericani': la stessa etichetta che viene
assurdamente applicata agli Americani che si oppongono alle politiche
belliciste, le cui proteste sono
facilmente annegate nel fiotto di considerazioni scioviniste che domina i
media statunitensi". E asseriva che "la maggior parte dei cittadini
americani non sanno che gli effetti del potere degli Stati Uniti all'estero
non hanno niente a che vedere con i 'valori' celebrati nel loro paese e che,
di fatto, servono spesso a privare la gente di altri paesi della stessa
possibilità di provare a fruire di quei valori, se lo desidera." Chi scrive
su questa rivista avverte il preciso dovere di raccogliere l'appello. Si è
nutrito di una letteratura che, se non è nata in America, là ha comunque
trovato il suo massimo rigoglio. Ha concepito mondi alternativi attraverso
la fantascienza avventurosa e favolosa, ha sogghignato amaro tramite Robert
Sheckley e Philip K. Dick, ha conosciuto gli inferni metropolitani sulle
pagine di Hammett, Goodis, Thompson, ha coniugato l'aspro realismo di
Steinbeck e di Dos Passos con la modernità ribelle di Sol Yurick e di Chuck
Pahlanjuk, ha imparato da Ellroy la scabra attinenza col presente della
narrativa di genere. Un debito enorme, che oggi gli impone di difendere
l'America che ama da chi la denigra fingendo di esaltarla, mentre esalta
solo il suo governo e la sporcizia e il sangue di cui dissemina il mondo.
E' una lotta per certi versi analoga a quella contro l'antisemitismo feroce
di chi vorrebbe amalgamare all'ebraismo, o a qualcosa a esso attinente,
l'attuale violenza del governo di Israele. E' un contare sulla cattiva
memoria. Come se ci si fosse già dimenticati che due anni fa (sembra una
vita) i ragazzini palestinesi uccisi erano più di un'ottantina, quando è
caduto il primo israeliano; dopo di che la progressione della barbarie era
avviata. Ma, soprattutto, come non si sapesse che tantissimi ebrei, di
Israele e di tutto il mondo, avevano espresso fin dal primo istante il loro
raccapriccio, per atti che ferivano la loro storia prima ancora che le loro
credenze. Il parteggiare per il governo israeliano nel momento stesso in cui
umilia un altro popolo, l'esaltare l'amministrazione Bush allorché promuove
guerre senza fine e rispolvera il peggiore arsenale dell'imperialismo (con
tentato golpe in America Latina incluso nel campionario), sono in realtà
altrettante espressioni di un atteggiamento sempre più corrente: quello di
irridere alle vittime e di attribuire ogni possibile ragione agli aguzzini,
magari presentando questi ultimi, con una serie di sofismi, nei panni
abusivi dei perseguitati. E' un rovesciamento di valori morali di portata
epocale, che lascia scorgere la sostanza spirituale del capitalismo scorta
da Max Weber nell'etica protestante: successo e potenza sono segni certi di
conformità al bene, debolezza e sconfitta riflettono adesione al male e tare
ripugnanti. Così si acclama a gran voce la giornalista che incita all'odio
contro gli immigrati, il commentatore che denuncia l'arroganza dei
palestinesi acquattati nei loro villaggi ridotti in macerie, il saggista che
ci dimostra l'inferiorità connaturata di civiltà devastate dal colonialismo.
Vincere non è solo bello: è anche giusto. Schiacciare gli sconfitti
significa punirli della loro abiezione. Chi si ribella all'inversione dei
valori è un ingenuo abbarbicato alla favoletta del politically correct, e
merita la sorte di coloro per cui si schiera. Adottato questo schema, si ha
la cifra esatta di tante prese di posizione recenti. Comunque Carmilla non
può occuparsi di tutto. Questo numero vuole essere anzitutto un duro colpo
all'antiamericanismo. Da leggere con la cuffia sulle orecchie mentre si
riascoltano i Circle Jerks e i Public Enemy, gli Steppenwolf e Woody
Guthrie. Le voci vere di un'America vera, che va aiutata a sottrarsi al
destino indicato da Richard Wright nel più bello dei suoi romanzi, Fame
americana: "Se questo paese non riesce a trovare la via di un sentiero
umano, se non può informare il proprio comportamento con un senso profondo
della vita, allora tutti noi, neri e bianchi, finiremo nella stessa fogna".
 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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