Ultimo Aggiornamento : 10-09-2003 : Last Release
Nei segni che confondono la borghesia, la nobiltà e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione! - KARL MARX -
 
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LA GUERRA DI CIAMPI E I NOSTRI COMPITI
 

 

Com'era prevedibile, gli  accadimenti iracheni del 12
novembre richiamano un'attenzione fortissima in questo
paese. Quotidiani, radio e televisione non parlano
d'altro e avanza con forza il tentativo di cavalcare
la vicenda per lanciare un nuovo patriottismo, per
consacrare definitivamente il valore dell'unità
nazionale, così da  portare  alla fine d'ogni
conflitto interno. In prima fila su questo fronte
troviamo, naturalmente, il grosso delle forze
politiche che fanno capo al centrodestra. La loro è
una campagna che ha dei tratti peculiari. L'Italia, il
suo ruolo nel mondo, vengono esaltati nell'ambito di
un rapporto privilegiato con gli States. Ora, questo
discorso è  minato da una grave contraddizione
interna. Nei fatti, le relazioni tra il belpaese e gli
USA sono attualmente improntate ad una indiscutibile
subalternità e ciò rende poco credibile la propaganda
patriottarda di Forza Italia e soci. Tanto più che il
Cavaliere, su certa stampa, è addirittura oggetto di
calzanti sberleffi, legati al suo voler a tutti i
costi emulare i neoconservatori statunitensi, i
teorici, cioè, della cosiddetta guerra preventiva e
del disegno neocoloniale di riassetto del Medio
Oriente iniziato proprio con l'aggressione all'Iraq.
Non può far presa, dunque, un titolo come "è il nostro
11 settembre", sparato in prima pagina su LIBERO
giovedì e destinato ad esser percepito dai più come
una forzatura di chi "vo' fa l'americano".
I formidabili limiti culturali e politici del
centrodestra nostrano ci salvaguardano, quindi, da
ogni serio rigurgito nazionalista?
Purtroppo non è così. Si pensi a Ciampi, attualmente
in visita negli Stati Uniti. Dopo aver saputo dei
fatti di Nassiriya ha subito tuonato che non si darà
tregua a chi ha ucciso i "nostri ragazzi" che stavano
lì per fare il loro dovere e tutelare la pace. Il
Presidente della Repubblica, garante dell'equilibrio
istituzionale e indefesso promotore dell'unità del
paese, cioè della sua assoluta concordia interna, si
sta producendo in un uso ottimale dell'evento in
questione.
E non poteva che essere così.
E' lui che più di tutti parla di patria,
pronunciandosi in solenni elogi nei confronti dei
soldati italiani che partecipano alle innumerevoli
imprese dell'imperialismo in ogni parte del mondo.
E' Ciampi, ancora, che -rendendosi conto dei pericoli
insiti in un revisionismo troppo spericolato, che
rischia di privare l'Italia di miti fondativi- ha
rilanciato il valore della Resistenza. Presentandone
una versione oleografica, tale da eliminare le spinte
radicali che, nei fatti, l'hanno attraversata e da
ridurla -nella esclusione di qualsiasi ipotesi di
guerra civile- alle sole ragioni di una guerra di
liberazione dall'invasore.
Insomma, la Resistenza viene letta in quanto
definitivo compimento del Risorgimento e dei suoi
valori, nel solco della tradizione ideale di Mazzini e
Garibaldi.
D'altra parte, la riconsiderazione di momenti  del
passato promossa da Ciampi, mira anzitutto a definire
l'immagine di una penisola in grado di affrontare i
problemi con la cooperazione di tutti, attraverso
quegli "scatti di orgoglio" collettivi che sarebbero
propri di ogni "grande paese". Risulta evidente quanto
questa sgradevole retorica si collochi nel quadro
della consapevole rivendicazione di un forte ruolo
internazionale per l'Italia . Un ruolo che passa
anzitutto per l'Europa, che non è vista come entità
limitante, anzi. L'Italia, nell'ottica del Presidente
della Repubblica, deve ricordarsi di essere una
fondatrice dell'Europa Unita e sostenerne un'ulteriore
sviluppo,  un potenziamento tale da renderla in grado
di competere su tutti i fronti con gli Stati Uniti.
Di più, l'Italia, per il suo ruolo nell'UE, dovrebbe
essere anche un ponte tra le due sponde
dell'Atlantico. La competizione non dovrebbe mai
portare a deflagrazioni vere e proprie, come può
accadere se ci si pone nell'ottica di scontro frontale
che sembra appartenere, talvolta, alla Francia.
Occorre dare vita ad una gestione comune, tra USA, UE
ed altre potenze, delle cosiddette controversie
internazionali. Non si può scavalcare la sacra sede
dell'ONU perché è lì che si può trovare il giusto
equilibrio tra interessi, è lì che si può decidere in
base a quali criteri spartirsi le torte di ogni
"missione di civiltà". Ora, questo verbo l'ex
governatore della Banca d'Italia, era deciso a
portarlo in America già prima del 12 novembre 2003. Lo
aveva sottolineato un editoriale del "Corriere della
Sera" del giorno prima, ove si sosteneva con vigore
questa linea, tanto più attuale nel momento in cui gli
USA, che non riescono a superare l'impasse irachena,
sembrerebbero propensi a ridimensionare la loro
protervia unilateralista.
Ma ora sono morti i "nostri ragazzi". Il cui
"sacrificio" viene dopo mesi di iniziativa
"umanitaria" (cioè di attività repressiva svolta
contro componenti politiche avanzate come il Partito
Operaio Comunista Iracheno) e va fatto pesare.
All'interno ed all'esterno.
All'interno perché la critica agli "eccessi" yankee
non può voler dire rinunciare a partecipare a
spedizioni imperialiste, a maggior ragione se in
qualche modo avallate dall'ONU e partecipate dall'UE.
All'esterno, perché Ciampi, al di là dei toni da Libro
Cuore adottati, vuol cinicamente usare la medaglietta
conquistata sul campo con i morti di Nassiriya, per
proporsi agli USA come partner più autorevole. Un
partner in grado di dire la sua, di chiedere che
vengano frenate alcune delle spinte che imperversano
al Pentagono e che Washington accetti di condividere,
almeno in parte, il dominio sul pianeta.
Questa, dunque, è la guerra di Ciampi. Questo è il
messaggio patriottico che, ancorato ad una prospettiva
politica complessiva, rischia di avere quella
incidenza che non può certo essere raggiunta dal
continuo sproloquio di Berlusconi.
Ma se è con discorsi di tal fatta che ci si deve
misurare, allora occorre rivedere alcune impostazioni,
ancora dominanti tra le stesse realtà antagoniste. Va
accantonato definitivamente l'antiamericanismo. Esso,
non solo non rende conto della complessità della
società statunitense, attraversata peraltro da un
movimento contro la guerra minoritario ma ricco di
spunti libertari, ma arriva anche a  fare da velo ad
una piena comprensione dello scenario internazionale.
L'antiamericanismo spinge, infatti, a ricondurre alla
subalternità nei confronti degli USA posizioni in
ultima istanza legate al consolidamento di un'Europa
imperialista, come quelle sostenute da Ciampi e dai
principali partiti della sinistra. E porta , inoltre,
ad applaudire la Francia. Cioè un paese che -a tratti-
esce fuori da una ipotesi di cogestione del pianeta
con gli USA, ma in ragione di spiccati contrasti di
interesse e non d'una politica di pace (allarmante è
l'attuale spinta al potenziamento del proprio arsenale
militare da parte di Parigi). Per non dire poi della
cecità che l'antiamericanismo favorisce nei confronti
di una questione come quella rappresentata dal
costituendo Esercito europeo. C'è chi non si accorge
che esso è in via di realizzazione, ignorando quindi
un tassello importante della cosiddetta gestione
multilaterale delle crisi, nonchè l'origine -nel
contesto di estrema precarietà della vita che stiamo
subendo- di un ulteriore taglio delle spese sociali in
favore di quelle militari.
In sostanza, il quadro attuale, che vede il rilancio
del patriottismo abbinarsi ad ipotesi anche diverse da
quelle propugnate dalla più forte e -al momento- più
pericolosa potenza del pianeta, deve spingerci ad un
salto di qualità. Sviluppare una campagna contro
l'occupazione coloniale dell'Iraq, per liberarlo dalle
truppe straniere e perché i suoi popoli possano
autodeterminarsi e gestire in proprio le risorse
contese dalle principali potenze, contestare una ad
una le varie "missioni di pace" nel mondo, è quanto
mai necessario. Ma, nel portare avanti questa
battaglia, occorre ricalibrare i nostri discorsi,
preparandosi a contrastare non solo la sfacciata
prepotenza yankee, ma anche il più mite -nelle
parvenze- governo multilaterale delle crisi.
Di più: non c'è opposizione efficace al riemergere del
sacro fuoco nazionalista se non si ha il rilancio di
un autentico internazionalismo. Il quale non coincide
né col generico solidarismo, né con una mitizzazione
di lotte svolte in altri contesti tale da impedirne
una conoscenza reale. L'internazionalismo, in un
momento in cui lorsignori agitano spettri come la
"guerra di civiltà", consiste soprattutto in una
interazione tra diversi che sanno di avere problemi (e
nemici) simili.
Il che rimanda prima di tutto ad uno sforzo da
svolgere quotidianamente nelle nostre metropoli.
Cercando di collegare, nelle lotte contro la
precarietà del lavoro e della vita e nelle campagne
contro le imprese belliche, tutti i soggetti sociali
sfruttati. Quelli d'origine italiana come gli
immigrati, spesso provenienti dai paesi che subiscono
maggiormente l'imperialismo.
E' anche qui, dunque, che si possono porre le basi per
costruire un movimento planetario che sappia, a un
tempo, superare ogni frontiera e valorizzare le
differenze. Facendo coincidere l'opposizione a tutte
le guerre con la negazione dell'ordine
economico-sociale che su di esse si regge.

CORRISPONDENZE METROPOLITANE - Collettivo di
Controinformazione e di inchiesta, Roma
(appuntamento ogni martedì, ore 21, presso la sede del
Comitato di quartiere Alberone, in via Appia Nuova
357)
 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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