“l’arma più potente che ha la borghesia contro di noi ce la portiamo dentro noi
stessi.” (Anonimo)
Se il movimento del ’68 è stato metabolizzato, è diventato parte integrante
della storia italiana, seppur di sbieco, in quanto movimento riformista e
modernizzante, il ’77 è stato rigettato da gran parte della sinistra. Violento
e ironico fino al nichilismo, estraneo alla cultura tradizionale del movimento
operaio, il movimento del ’77 fa giustizia di una nuova sinistra ormai esangue
trascinandosi dietro la critica dell’autonomia del politico che prepara la
stagione del riflusso.
Il movimento del ’77 condivide con il ’68 parte del personale politico, ma trova
la propria ragion d’essere proprio dalla sconfitta definitiva di una idea della
rivoluzione che sappia cambiare i rapporti di forza tra riformisti e
rivoluzionari.
Se il movimento del ’68 e le formazioni politiche che ne erano sorte avevano
sempre sottolineato la contraddizione tra la direzione burocratica del PCI e le
aspirazioni socialiste della sua base, il movimento del ’77 si contrappone
frontalmente al partito di Berlinguer, non elabora nessuna tattica nei suoi
confronti. Il PCI viene visto, dal movimento, come il partito di una classe
operaia garantita, laboriosa, garante della Costituzione Repubblicana, immagine
che è ben riflessa nella amministrazione trentennale di una città come Bologna.
Una Bologna ordinata, asettica e giudiziosa che diverrà simbolo della
socialdemocratizzazione del PCI e anche uno degli epicentri del movimento.
Il movimento del ’77 è un magma di diffuso malessere che in alcuni casi
trascende nella disperazione del gesto esemplare. La disoccupazione giovanile di
massa, la crisi della scuola e dell’Università, che porta alla ribalta del
movimento lo studente fuori corso o fuori sede, si interseca con il nuovo
protagonismo del “proletariato giovanile”[1]
dei quartieri periferici e dell’hinterland e l’emergere del movimento femminista
e omosessuale, dando vita a una esplosiva area di “non garantiti”, di precari e
(auto)emarginati. Il movimento dei “non garantiti”, di fronte allo spettacolo
della politica dei sacrifici, di un sindacato che “si fa Stato”[2],
che si assume in prima persona il compito di “far pagare la crisi”, cerca
ciecamente una via d’uscita, di rompere l’egemonia del riformismo, di frenare la
definitiva integrazione politica del movimento operaio italiano nello Stato
democratico.
Il clima di tutto il ’77 è segnato da un profondo pessimismo unito a una
mancanza di progetto di trasformazione. Anzi è proprio quest’ultimo a essere
rifiutato in nome del “comunismo qui e subito”, comunismo non come “sol
dell’avvenir” ma piuttosto come “movimento che abolisce lo stato di cose
esistenti”. Da questo punto di vista le forme e gli obbiettivi di lotta
rappresentano efficacemente lo stato d’animo del movimento: dal “27” al salario
“garantito”, dalle espropriazioni, alle autoriduzioni e occupazioni come
riappropriazione di spazi di vita. Questi obiettivi “minimi” si coniugano a modi
espressivi creativi, irriverenti e violenti al tempo stesso.
Il rigetto della militanza, vista come noiosa, professionale e inutile, dà la
stura alle tematiche del “personale-politico” del “comunismo da vivere nella
vita di tutti giorni” è ben rappresentato dal calderone intimistico-epistolare
che diviene la rubrica delle lettere (definita dai critici più ingenerosi la
rubrica dei “cuori solitari”) di Lotta Continua di quell’anno.
Io mi sento solo. E quando mi sento solo, quando
vedo che il comunismo per cui lotto non lo riesco a vivere neanche con i
compagni che conosco mi passa la voglia di lottare, di vivere. Certo
risentiamo tutti degli schemi, dei sentimenti che la società ci impone. Ma non
sono d’accordo con chi dice che i rapporti tra compagni non potranno essere
umani fino a quando non ci sarà comunismo.
Siamo stufi (...) di essere avanguardie che
devono “assumersi le loro responsabilità” allo stesso modo dei compagni Indiani
ai quali è demandato il compito di essere ironici e divertenti (...) Dobbiamo
smetterla con la divisione dei ruoli. Io voglio essere un militante complessivo
che lotta per la liberazione dell’uomo totale. Voglio essere avanguardia,
indiano, omosessuale, eterosessuale, freak e voglio fare spinelli (li faccio
già)[3].
Allo stesso tempo però, accanto alla “palude” del movimento, arriva alla
politica una giovane generazione, spesso di estrazione proletaria, che vive
l’impegno in termini radicali, estremi, disperati. Sono quelli che spesso
finiranno per entrare nel tunnel del “lottarmatismo” o vivere il liquefarsi del
movimento come una tragedia individuale insostenibile.
Il movimento ha una fortissima coscienza di sé, si immagina e si autorappresenta
come frangia generazionale, come tribù multiforme che ha i propri riti, ma che
allo stesso tempo manca di memoria e tradizione.
La percezione stessa del tempo è dilatata e compressa in un inseguirsi di
stagioni, di avvenimenti e di cortei che diventano mito. L’autunno dei
collettivi milanesi, il marzo e il settembre bolognesi, il maggio romano non
sono solo gli epicentri fluttuanti delle “lotte”, ma scandiscono migliaia di
esistenze per il resto triturate dalla noia, si trasformano per i protagonisti
immediatamente in storia, in evento indimenticabile, irripetibile.
Su queste basi è del tutto naturale che l’arcipelago dell’Autonomia Operaia
conosca la sua stagione più felice. Sorta immediatamente dopo lo scioglimento di
Potere Operaio, l’Autonomia Operaia si volge, seppur per le generali,
verso le teorizzazioni di A. Heller[4],
che riprende del “Marx giovane” dei Manoscritti economico-filosofici, ma
anche alcune suggestioni marcusiane sulla critica della società capitalista in
quanto società dei consumi contrapposti ai valori d’uso, espressione di
bisogni reali che cessano di essere prodotti nella società. Questi
bisogni, bisogni radicali, che sono l’espressione della coscienza
anticapitalistica, non provengono e non si realizzano nella realtà della
produzione, ma nella “libera manifestazione degli individui sociali” e cioè “nel
tempo libero”.
Autonomia Operaia, soprattutto negli articoli apparsi sul quindicinale
Rosso e nei volumi pubblicati dal Professore padovano Antonio Negri, cerca
di dare una sistemazione teorica alle intuizioni helleriane, anche se
l’originario filone ”aureo” dell’operaismo italiano rimane ben presente nella
loro riflessione. Il soggetto proletario, nella elaborazione degli autonomi,
viene portato fuori dalle mura della fabbrica, in tutto l’agone sociale, dove
del resto avviene la riproduzione del plus-valore (la fabbrica diffusa).
Come forma di lotta avanzata viene teorizzato, in uno dei fortunati pamphlets
negriani, il rifiuto del lavoro, inteso come sabotaggio, sciopero e azione
diretta. La violenza rappresenta un tassello fondamentale della
“autovalorizzazione” proletaria.
Quanto più la forma del dominio si perfeziona,
tanto più è vuota, quanto più il rifiuto operaio cresce tanto più è pieno di
razionalità e di valore (...) Il nostro sabotaggio organizza l’assalto
proletario al cielo. E finalmente non ci sarà più quel maledetto cielo![5]
La teoria dei bisogni viene spesso ridotta, dagli autonomi, alla apologia dei
comportamenti devianti ed estremi del “proletariato giovanile”, a una lotta che
non è per conquistare l’essenziale ma il superfluo, dando il destro alle
critiche più devastanti. Secondo i critici, il comunismo “qui e ora”, - depurato
da ogni illusione, una volta conclusa la breve stagione dell’impegno politico, -
diventa consumismo, la tendenza ad appropriarsi delle merci piuttosto che a
rigettarle, il viatico che apre la strada all’edonismo degli anni ’80 e alle sue
più deteriori manifestazioni.
L’area della Autonomia comunque non è semplicemente riconducibile a questo o
quel dirigente o teorico, ma è un arcipelago variegato che va dai creativi
bolognesi di Radio Alice fino al radicamento sociale tipo PCI anni ’50
dei collettivi romani di Via dei Volsci, passando attraverso una miriade
di collettivi studenteschi, di quartiere e di fabbrica.
Il biennio 1977-’78 comunque non è solo “movimento antagonista”.
La crisi economica che non accenna a finire, la disoccupazione giovanile che
diviene “di massa”, il blocco del turn-over, il decentramento e le
ristrutturazioni in fabbrica, lo sviluppo impetuoso del terziario, riportano
pian piano i rapporti di forza a vantaggio del padronato, anche perché la
volontà di mobilitazione dei lavoratori viene costantemente frustrata dal PCI e
dal Sindacato.
I governi, prima della “non sfiducia” e poi delle “astensioni” diretti da Giulio
Andreotti, permettono l’ingresso del PCI, per la prima volta dal 1947, nella
maggioranza. Il PCI, spalleggiato dalla CGIL, contribuisce in modo decisivo
all’arretramento della classe operaia collaborando attivamente per fare uscire
l’Italia dalla crisi in cui è impantanata.
La politica dei sacrifici, che prevede tra l’altro la parziale sterilizzazione
della scala mobile, un contenimento delle ore di sciopero, accordi aziendali di
mobilità e di produttività assieme alle manovre di svalutazione della moneta,
viene ammantata dal PCI come via della transizione socialista pacifica (dando
una sistemazione nazionale alle prime manifestazioni dell’eurocomunismo) oltre
che come segno tangibile del senso di responsabilità nazionale del PCI.
L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica a cui si debba
ricorrere per superare una fase di difficoltà temporanea congiunturale, per poi
consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e
sociali. (...) Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e
porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi
strutturale e di fondo, e non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri
distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione dei particolarismi e
dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità
significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia (...)[6].
Dietro le fumisterie dell’austerità come “occasione per trasformare l’Italia”
non c’era ovviamente solo l’ascetismo, il moralismo, il rigetto della società
dei consumi e della secolarizzazione dell’universo mentale berlingueriano e
neppure quella profonda riflessione sulle “vie del socialismo” che il gruppo
dirigente del PCI volle far credere. In filigrana si evince la necessità, da
parte del PCI, di dare una dignità teorica a una esigenza pratica: far pagare la
crisi alla classe operaia e tentare l’attuazione di quella modernizzazione,
concepita con il centro-sinistra ma in parte abortita, tanto cara a una parte
importante della borghesia italiana. La riforma della pubblica amministrazione e
della spesa pubblica, il riordino legislativo in settori quali l’edilizia e
l’urbanistica, sono al centro dell’attenzione dei governi tra il 1976-’79.
La crisi che attraversa il corpo militante e il gruppo dirigente dei GCR è,
seppur in forma diversa, altrettanto profonda di quelle del ’68 e del ’74-’75.
In fondo, entrambe le crisi precedenti non avevano messo in discussione il modo
stesso di concepire la politica e non preparavano un mesto ritorno a casa. Nella
crisi del ’77, ai GCR, sembrano mancare anche quegli anticorpi che avevano
permesso loro, alla fine degli anni ’60, di respingere gli aspetti più deteriori
dello spontaneismo. La leadership sembra sfuocata, incapace di proporre una
qualche linea politica, il giornale non lancia parole d’ordine che sappiano
aggregare.
Il principale gruppo trotskista italiano, tra la fine del ’76 e per tutto il
’77, resterà sospeso tra una critica degli aspetti più estremistici e
fantasiosi, e l’assecondamento dell’onda del movimento, incapace di mettere in
risalto compiutamente i segnali di resistenza che provengono dal mondo del
lavoro. L’area della Opposizione Operaia, sorta da una affollata
assemblea di Consigli di Fabbrica al Lirico di Milano, che si pronuncia contro
la “politica dei sacrifici”, non trova nei GCR lo strumento organizzativo
adeguato per dare continuità e prospettive al lavoro nelle fabbriche. La
coscienza che i militanti e i dirigenti della “Quarta” hanno della inadeguatezza
dello “strumento GCR” in fondo è il dramma dei trotskisti italiani in tutti gli
anni ’70.
Parco Lambro e dintorni...
Le periodizzazioni dei calendari non si confanno ai ritmi della politica. Così
possiamo dire che il ’77, in realtà, è già cominciato il 21 giugno del 1976
quando dalle urne non esce il PCI primo partito, la sinistra non ha la
maggioranza assoluta dei seggi e la lista di Democrazia Proletaria
ottiene un disastroso 1,5%.
La crisi di prospettive, che l’estrema sinistra vive già a partire dal
1972,esplode in tutta la sua gravità nell’estate del 1976 durante il “VI
Festival del proletariato giovanile” di Milano a Parco Lambro. La festa è
organizzata da Re Nudo e copromossa da vari gruppi di estrema sinistra,
tra cui anche la Quarta Internazionale.
Al grande successo di pubblico del Festival (oltre 50.000 persone) fa riscontro
lo squallore degli espropri dentro e fuori la festa, gli scontri fisici tra
servizi d’ordine delle diverse organizzazioni e del sesso “per tremila lire”
richiesto “alle compagne”, il consumo massiccio di droghe pesanti, la
contestazione verso le stars musicali alternative infeudate dalle case
discografiche.
In pochi giorni tutte le frattaglie della controcultura, tutta la esaltazione
della politica come “espressione dei propri bisogni” vengono a galla provocando
un lezzo nauseabondo. Il dopo Festival è un coro ad alta voce di autocritiche
sulla “crisi dell’ideologia della festa”.
Neppure i GCR fuoriescono dal coro.
La scintilla che ha dato esca al tutto è stato
l’aumento del prezzo, tra Sabato e Domenica dei polli venduti allo stand di Re
Nudo: da 1000 a 1500 lire. Alcune centinaia di persone hanno assaltato il camion
della Motta che portava i polli e distrutto lo stand di Re Nudo. Per tutta la
Domenica e il Lunedì la tensione cresceva, perché la protesta si estendeva agli
stand alimentari delle organizzazioni: prima quello di LC e degli Autonomi, in
seguito anche il nostro (dove la situazione non è precipitata, perché i nostri
compagni, invece di ricorrere sbrigativamente al servizio d’ordine hanno
preferito intavolare una discussione di massa con il piccolo corteo venuto a
protestare davanti allo stand)[7].
Altri testimoni, a distanza di tempo, a dimostrazione di quanto allora i
trotskisti si siano genuflessi alle spinte più anarcoidi presenti nel movimento,
hanno osservato come lo “stand dei GCR è l’unico, assieme a quello
dell’Autonomia, a non essere saccheggiato, per l’ottimo motivo che sia l’uno che
l’altro offrono ai giovani del ’77 panini gratis”[8].
Nell’autunno del 1976 va a scadenza la crisi di Lotta Continua,
l’organizzazione che maggiormente aveva puntato sulla spontaneità del movimento
(e che non a caso nel movimento principalmente milanese dei Circoli Giovanili
fornirà assieme al MLS il maggiore supporto di servizio) ma anche sulla radicale
trasformazione dell’assetto politico nazionale. Il dibattito dentro questa
organizzazione, sintetizzato nello scontro tra femministe e operai, raccoglie in
realtà un ampio ventaglio di temi che vanno dalla “crisi della militanza” al
rapporto tra “avanguardia e movimenti”, confluisce in un Congresso Nazionale che
sancirà, di fatto, la volontà del gruppo dirigente di lasciare che il partito
vada alla deriva, pur senza formalizzarne lo scioglimento. Adriano Sofri nel suo
intervento introduttivo riassume, con il celebre “dobbiamo imparare a convivere
con il terremoto”, i sentimenti e le incertezze che pervadono i militanti di LC.
I GCR seguono con particolare attenzione i lavori del Congresso e i suoi esiti,
preoccupati anche della dispersione del capitale umano che potrebbe produrre la
mancanza di prospettive politiche e la confusione seguita al 20 giugno.
Maitan, in un articolo pubblicato “a caldo” dopo la fine della kermesse
lottacontinuista, mette in luce gli aspetti, a suo modo di vedere, più
erronei della analisi di questo partito, come il giudizio sul PCI, visto
dal gruppo dirigente di LC come ”un organo di promozione dell’imperialismo
italiano” e sui sindacati considerati “articolazione dello Stato capitalista”.
Tuttavia l’attenzione del dirigente veneziano è concentrata sullo scontro
femministe-operai e sul ritorno alle origini più spontaneistiche che hanno
aleggiato qua e là durante il congresso.
Sul primo punto Maitan, pur ribadendo che il movimento operaio sconta profondi
ritardi nella riflessione sul “rapporto uomo-donna”, e rigettando gli aspetti
del più vetusto maschilismo conclamatisi durante il Congresso, non manca di
segnalare i pericoli insiti nel ridurre tutto il dibattito all’interno della
dinamica “personale-politico”.
(...) Non si tratta di rivendicare un volgare
praticismo. Ma alle compagne femministe di LC andava e va posta una precisa
domanda: non pensate che le lotte di questi mesi abbiano una grande importanza
per lo sviluppo della situazione in Italia? Non credete che dall’esito di queste
lotte dipenderà o no se ci sarà un pericoloso riflusso del movimento delle masse
e del movimento operaio organizzato? Non credete che se la classe operaia
dovesse subire una seria sconfitta, tutto diventerebbe più difficile per lo
stesso movimento femminista?[9]
Per quanto riguarda il secondo aspetto, viene denunciato il ritorno a un certo
primitivismo politico, all’impostazione del “vogliamo tutto”.
L’accesso di febbre neospontaneistica si
accompagna a una mistificazione di fondo. Viene scambiato per “movimento” quello
che, nella migliore delle ipotesi, non ne è che uno spezzone limitato e si
attribuiscono alle masse stati d’animo e orientamenti propri di strati o
addirittura di nuclei assai ristretti. (...) Così l’errore spontaneista è
risultato aggravato: perché se uno spontaneismo che rifletta una tendenza di
massa in una fase data permette il legame con le masse, anche se non fornisce
gli sbocchi politici complessivi, uno spontaneismo che mistifichi la realtà
concreta del movimento porta inevitabilmente a fratture a all’isolamento di chi
lo pratica[10].
Ma nel gruppo dirigente trotskista iniziano a comparire i primi distinguo e le
prime autocritiche anche sull’atteggiamento accondiscendente tenuto per tutto un
periodo nei confronti del magma lottacontinuista.
Per esempio E. Deiana scrive in un intervento all’uopo nella tribuna
precongressuale
Abbiamo creduto di individuare affinità strategiche tra noi e LC perché i
documenti di LC parlano di rottura rivoluzionaria e di organismi di
contro-potere delle masse, ma non abbiamo fatto pesare adeguatamente il fatto
che queste individuazioni erano accompagnate da concezioni aberranti sui
problemi dell’autonomia operaia, della formazione della coscienza di classe, del
rapporto con le organizzazioni riformistiche del movimento operaio di quello tra
le avanguardie e i movimenti di massa[11].
L’errore fondamentale che inficiava la tattica di LC per la Deiana era l’ipotesi
che fossero continuamente all’ordine del giorno “dei massicci scavalcamenti
delle masse sotto l’impulso delle avanguardie”.
La XIX Conferenza Nazionale dei GCR
E’ in questo clima di massiccio sbandamento della estrema sinistra che si tiene
nel febbraio del 1977 la XIX Conferenza Nazionale dei GCR. All’interno
dell’organizzazione convivono spinte diverse, che vanno da coloro che sono
attratti dalle tematiche e dalle argomentazioni del nascente movimento del ’77
ad altri settori che tentano di mantenersi legati al patrimonio internazionale
del trotskismo e intendono concentrare l’attenzione verso il lavoro operaio.
Lidia Cirillo, dirigente dei GCR a Napoli all’inizio degli anni ’70 e poi
dirigente nazionale proprio a partire da quel periodo ricorda:
Era Caronia che era molto suggestionato da
tematiche come quella della “crisi della militanza”, ma il grosso della
organizzazione rigettò queste istanze. In realtà in quel periodo c’è un
rinnovato interesse verso il PCI che era scemato negli anni precedenti. (...) In
quell’anno c’è una grande polemica tra Maitan e Moscato da una parte e Caronia e
Pellegrini dall’altra proprio sull’atteggiamento da tenere verso il movimento.
In realtà la nostra crisi del ’77 era un po’ diversa da quelle che erano
succedute precedentemente. Certo ci fu qualche abbandono dovuto a crisi
esistenziali, ecc. ma principalmente si trattava di una crisi di prospettive. Il
fatto che noi avessimo puntato sull’ipotesi di costruire questa area della
sinistra rivoluzionaria e invece poi il fatto che questa sinistra rivoluzionaria
entrasse in profonda crisi, ci lasciava senza referenti; appunto: senza
prospettive[12].
È proprio Caronia a centrare l’attenzione sulle turbolenze che attraversa l’area
della nuova sinistra sulle colonne di Bandiera Rossa,. prima promuovendo
il dibattito sul Parco Lambro e sulla crisi di LC e poi concentrando
l’attenzione, con una serie di articoli sulla storia dell’Autonomia[13],
sulla “teoria dei bisogni” e sulla “crisi della militanza”
[14].
La relazione al CC di Maitan, che apre il dibattito congressuale, mette in
rilievo i mutamenti intervenuti all’indomani del 20 giugno. Per Maitan lo
schieramento anticapitalistico e quello borghese restano minati da profonde
contraddizioni, che non permettono loro di uscire da una fase di stallo. Da una
parte
Le avanguardie sociali più consapevoli avvertono
più o meno chiaramente di essere strette in una morsa: se non prendono
iniziative in questo momento saranno sempre più disponibili alla politica di
austerità e abbasseranno ulteriormente il tiro; se si muovono rischiano
l’isolamento o il vicolo cieco dell’avventurismo, data la difficoltà estrema di
far apparire una linea alternativa credibile che abbia le gambe per
marciare(...)[15].
dall’altra
Facendo la scelta di accettare un inserimento
maggiore del PCI nelle istituzioni e una sua maggiore capacità di
condizionamento della prassi legislativa e delle stesse scelte del governo, la
classe dirigente italiana ha tratto un chiaro beneficio; più ancora ne trarrà,
se riuscirà a sviluppare positivamente dal suo punto di vista le tendenze
delineatesi negli ultimi mesi, logorando così il movimento di massa, e in ultima
analisi, la stessa forza contrattuale del PCI (...)[16].
Malgrado ciò Maitan invita ad evitare fraintendimenti, in quanto la classe
dominante non avrebbe comunque superato la sua crisi strutturale, che rende
sempre possibili al suo interno profonde lacerazioni.
In questo quadro il giudizio sull’estrema sinistra è assai severo. Per Maitan
essa si è dimostrata non solo incapace di dare riposta a dei problemi di fase ma
anche di iniziare a prospettare un proprio modello di socialismo che la crisi
nel gruppo dirigente cinese rende ancora più evidente. Quindi le principali
organizzazioni dell’estrema sinistra sono spinte a un ritorno allo spontaneismo
sessantottesco.
Il documento sul bilancio organizzativo, approvato nella stessa sessione del CC,
permette di trarre un bilancio anche delle scissioni che sono venute
realizzandosi durante il 1975.
Il denominatore comune di tutti i gruppi scissionisti, per i GCR, è
rappresentato dalla “non accettazione della priorità operaia come asse
centrale di costruzione dell’organizzazione”, che si concretizzava nella
illusione (come nel caso della T5), che fosse possibile una accumulazione più
rapida dei quadri puntando sul movimento studentesco e altri movimenti
“periferici”, in una non accettazione del centralismo democratico come modello
di organizzazione del dibattito interno, nella involuzione dei rapporti tra
tendenze internazionali, come nel caso del gruppo guidato da Dario Renzi,
organicamente legato al partito argentino di Nauhel Moreno.
Come nella tradizione del trotskismo italiano, il dibattito che segue la
relazione introduttiva risulta ricco di posizioni e sfumature.
Si viene agglutinando, innanzitutto, la Tendenza 2 la quale critica
principalmente la concezione del gruppo dirigente, che vede la formazione del
partito rivoluzionario o attraverso operazioni “entriste rapide” o attraverso
una riunificazione dell’estrema sinistra, mentre è necessario lavorare per una
costruzione “lineare” dell’organizzazione, orientando la priorità del lavoro
verso le fabbriche e il sindacato.
Tale operazione politica, ma anche di immagine (si parla insistentemente di
“nuovi GCR”), non è possibile secondo i promotori della tendenza, senza un
bilancio autocritico, non solo sulla crisi del ’68, ma su tutta l’attività dei
GCR negli anni ’70[17].
Alcuni interventi, come quello di Giancarlo Giovine, si concentrano sui temi che
poi durante il ’77 diverranno il cavallo di battaglia dei “movimentisti” nei GCR
(crisi della militanza) mentre il prolisso e confuso intervento di Caronia si
contorce sulle ipotesi della nuova fase politica, sui soggetti della ripresa
della iniziativa di classe e sulla strutturazione dell’organizzazione (che
comunque deve essere costruita dentro il “rimescolamento delle carte della
estrema sinistra italiana”). Caronia ottiene, però, dall’assise congressuale,
che il giornale Bandiera Rossa divenga un giornale più “aperto”, più
disponibile a farsi contaminare dalle idee che provengono dal nuovo movimento
giovanile in gestazione.
L’esplosione del ’77
Durante tutta la primavera del 1977 i GCR sono disorientati, quasi indifferenti
allo squasso del movimento. Il gruppo dirigente guarda ai vecchi gruppi, i quali
a loro volta non fanno altro che cercare di “cavalcare il nuovo movimento”,
contenendo al contempo il perimetro dell’azione della Autonomia. L’interesse
dei GCR resta concentrato sulla unificazione che darà vita a DP e agli spezzoni
di opposizione operaia che si mettono in movimento a partire dall’Assemblea del
Lirico.
I GCR sottolineano come le loro difficoltà organizzative e militanti siano da
attribuirsi soprattutto al rigetto, che prevale nel movimento, di qualsiasi
richiamo al leninismo. Nello stesso periodo, comunque, per la prima volta nel
movimento, il termine stalinista, inizia ad assumere un significato negativo.
Però tale accezione a negativo è più rivolta verso gli atteggiamenti
burocratici, repressivi e prevaricatori del PCI o di certe componenti m-l del
movimento piuttosto che in relazione a una analisi della burocrazia sovietica e
del suo ruolo storico.
La necessità di collegare la prima risposta operaia al movimento degli studenti
è particolarmente sentita. I GCR mantengono un seppur modesto intervento operaio
in alcune , decisive, fabbriche della penisola: l’Italsider di Taranto, la Fiat
Mirafiori, la Face Standard di Milano e altre singole realtà come Trieste,
Napoli, Perugia e Brescia. I GCR rifiutano prima di tutto di abbandonare il
lavoro nei sindacati per formare strutture autonome o alternative:
(...) dobbiamo dirla una volta per tutte: nei
consigli ci si sta, nel sindacato ci si sta. Può dispiacere, ci dispiace, che
questo sindacato sia la struttura di massa degli operai, però questa è la
struttura verso cui gli operai hanno più fiducia (...)[18].
Affermano inoltre, in un Convegno operaio tenuto a Torino proprio nella
primavera e a cui partecipano alcune centinaia di lavoratori, che bisogna
capitalizzare politicamente il malcontento operaio per la “politica dei
sacrifici”:
(...) tutta una serie di quadri di base della
sinistra sindacale, quei settori che rompono con il Partito Comunista, non
accettano più l’impostazione che è stata data finora dalla sinistra sindacale
che è quella di dire “aspettiamo, facciamo un po’ di pressione sul vertice
riformista”, quella che era la tattica del più uno; quando Lama svende quasi
tutto, proporre di svendere un po’ meno serve a poco, di questo se ne rende
conto sempre più gente, né serve fare le battaglie solo di metodo (...) Molti
compagni (...) hanno bisogno di una discussione più ampia, di una
chiarificazione politica più ampia, concretamente pongono il problema
dell’alternativa politica complessiva, del partito, del come arrivarci, su quale
programma (...)[19].
Il movimento del ’77 inizia con le agitazioni universitarie contro la Circolare
Malfatti e conosce una prima svolta con la “cacciata” di Lama dall’Università di
Roma a febbraio e poi con l’uccisione di Francesco Lorusso, militante di LC,
dalla parte della polizia durante degli scontri all’Università di Bologna.
La carica eversiva del movimento è enorme e ha i suoi epicentri in città come
Roma (in cui il movimento non rifluirà mai del tutto fino alla metà degli anni
’80), Bologna, Milano. A Milano, in particolare, si aggancia al malessere dei
giovani operai delle piccole e medie fabbriche. In questo clima Oreste Scalzone
arriva a caratterizzare il ’77 milanese come “un momento di espressione e di
esplosione di una sinistra operaia ‘spartachista’”
[20].
Ma è anche un movimento che, senza prospettive e direzione autorevole, è
costretto continuamente ad alzare il livello dello scontro dall’avventurismo
dell’Autonomia Operaia, di Rosso (che parla grottescamente di guerra
civile in corso), e che viene rapidamente schiacciato tra l’incudine della
repressione e il martello delle organizzazioni terroristiche.
Nei mesi successivi il ministro degli Interni Cossiga vieta per quaranta giorni
ogni manifestazione nella capitale, mentre Bologna è presidiata dai cingolati.
Le procure cominciano la loro opera di repressione con decine e decine di
arresti, perquisizioni, processi per direttissima. Il tema della repressione,
della violenza e della guerriglia diviene un tema scottante. Già nel gennaio del
1977, in occasione del processo a 24 militanti dei NAP (Nuclei Armati
Proletari), l’organo dei trotskisti pubblica un intervento del Circolo
Politico Vomerese di Napoli “Talpa Rossa”, non a caso intitolato “Bisogna
difendere anche i compagni ‘scomodi’”.
(...) Le infiltrazioni vere o presunte non sono
un buon argomento per abbandonare nell’isolamento un settore della sinistra,
magari finendo per equipararlo alla destra (...) La gente comune (...)
attraverso l’orrore per il mostro finisce per chiedersi gli occhi davanti alle
mostruosità dello stato stesso, davanti alle torture della Polizia, del sistema
carcerario (...)
E’ veramente incredibile che proprio i
rappresentanti del movimento operaio e dei lavoratori, che hanno assistito e
subito la violenza delle classi dirigenti, i soprusi e le stesse illegalità
operate dalle istituzioni dello stato, avallino l’idea che l’uso della violenza
da parte di chi si ribella sia qualcosa da condannare e sconfiggere[21].
In un opuscolo pubblicato nel giugno dello stesso anno sulla “violenza
necessaria, utile e dannosa” ribadiscono le loro posizioni di fondo per quando
riguarda i fenomeni di guerriglia urbana che si susseguono pressoché
quotidianamente.
Le P38 in piazza, gli attacchi a freddo alla
polizia, la determinazione a condurre gli scontri quando l’assemblea che ha
indetto la manifestazione ha deciso altrimenti (...) non ci servono a nulla:
anzi, ostacolano il compito di chiarificazione e di costruzione di un fronte di
lotta contro il governo, ostacolano la comprensione delle masse di difendersi in
modo organizzato dallo Stato forte. (...) Non siamo mai stati fra quelli che
affibbiano facilmente le etichette di “provocatori” ai compagni con posizioni
avventuristiche o militariste: non l’abbiamo fatto ieri per le Brigate Rosse non
lo facciamo oggi per gli autonomi. Continuiamo a sostenere la necessità di
difendere tutti i compagni colpiti, anche quando non ne condividiamo le
posizioni, anche quando sono in galera per azioni che giudichiamo dannose per
il movimento. Non riconosciamo a Cossiga né ad alcun altro sbirro o politicante
della borghesia la facoltà di discriminare tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ nel
movimento rivoluzionario. (...)[22].
Questo non inficia, comunque, il giudizio particolarmente negativo che i GCR
hanno della politica degli autonomi, che finiscono per mettere in sordina le
responsabilità del riformismo nel disarmare il movimento operaio, portarlo alla
sconfitta e aprire la strada oltre che alla “caccia all’autonomo” di Cossiga
dell’MLS.
Appuntamento a Bologna
Dopo l’estate, i molteplici spezzoni che avevano alimentato il movimento della
primavera si ritrovano a Convegno a Bologna. Il movimento appare senza
prospettive: da una parte molti dei collettivi dei quartieri hanno finito per
manifestare tutti i limiti del localismo e dello spontaneismo e tendono ad
arenarsi, mentre per altri, l’unico sbocco sembra divenire la scelta
“combattente”. Il Convegno Internazionale contro la repressione a Bologna,
indetto per l’ultimo week-end di settembre, invece, non viene colto dai
partecipanti come un approdo del movimento, ma come un passaggio
dello stesso in vista delle lotte autunnali, o almeno come una boccata
d’ossigeno (dopo tanti lacrimogeni!).
In realtà, al di là degli aspetti folcloristici ed emotivi delle danze, dei
balli, degli incontri, delle risa e dei pianti di qualche decina di migliaia di
“untorelli” (come li aveva sarcasticamente apostrofati Berlinguer alla vigilia
dell’Assise), la parte politica della iniziativa risulta povera di idee e di
analisi.
La prova di forza con il PCI nel bunker bolognese, che faceva seguito alla
teorizzazioni sulla germanizzazione e sulla socialdemocrazia, si
sgonfia subito, mentre la convention dentro il catino del Palasport si
trasforma in una palestra per l’esibizione dei muscoli dei servizi d’ordine
delle varie componenti presenti. La domenica il “grande serpentone” del corteo
finale è inquieto ma pacifico.
E’ l’addio di una generazione e anche di tutta un’epoca[23].
Il corteo che chiude il Convegno, imponente e
suggestivo, sfila per ore e ore. Nonostante l’aggressività verbale degli slogans
non c’è scontro con la polizia. Alla fine un sottile senso di amarezza, di
delusione di frustrazione riaccompagna la gente nei propri territori e luoghi
di vita e di lotta. Tutti si ripromettono di continuare, di andare avanti ma
nessuno sa nascondere a se stesso la drammatica domanda: avanti come? Avanti
dove?[24].
I GCR partecipano in ordine sparso al Convegno. Molti dei dirigenti non si
recano al convegno oppure fanno una fugace apparizione. Caronia, che dovrebbe
coordinare la partecipazione nazionale dell’organizzazione al Convegno (in tutto
una cinquantina di militanti), giunto a Bologna, si rende conto dell’inutilità
della cosa.
C’erano sparsi in giro compagni della “Quarta” un
po’ di tutte le città. Ma mi resi conto dopo solo due ore della inanità di un
qualche coordinamento. Lo scontro politico del Convegno era tra le varie anime
dell’Autonomia e basta. Non c’era “qualcosa da fare”. Vissi quei giorni con
grande partecipazione personale ma abdicai subito dal compito che mi aveva dato
la Direzione dei GCR. Mi ricordo che c’era una compagna di Milano, si chiamava
Flora, che mi disse: “facciamo una riunione”… forse ci saremo anche visti. Non
c’era niente di particolare da fare. Era l’ultimo atto del movimento di massa[25].
Nell’inserto dell’organo dei GCR pubblicato nel post Convegno curato a quattro
mani da Antonio Caronia ed Edgardo Pellegrini si ritrovano le identiche domande:
avanti come? Avanti dove?
Da Bologna non esce ancora una sintesi politica
di tutto il ricco dibattito che c’è stato, non escono ancora indicazioni precise
su come rilanciare i movimenti di massa, in primo luogo il movimento
nell’Università, e come riuscire a fare una breccia, a creare collegamenti
stabili con il movimento operaio. Non esce ancora una linea politica che vada al
di là del “no alla politica dei sacrifici (...)[26].
Per i GCR l’Autonomia ha dimostrato anche in questo Convegno di essere parte di
questo movimento a tutti gli effetti, anche se ha “una politica sbagliata,
aberrante, suicida in alcune delle sue componenti più militariste”. Essa, a
giudizio dei GCR, esce dal Convegno battuta, anche se DP o il MLS non hanno
dimostrato certo brillantezza di linea politica. I veri protagonisti sarebbero
stati invece “la maggioranza dei compagni convenuti” che avrebbero rigettato di
fatto le teorizzazioni naïf sulla germanizzazione e quelle estremistiche
che negano la necessità di una tattica verso il PCI.
Tuttavia la sensazione che molti hanno tornando dal Convegno, nel fascio delle
emozioni personali, è che questa “nuova opposizione” sia anche il laboratorio
per un nuovo modo di far politica, che la prospettiva aperta a Bologna metta in
discussione ancora più profondamente i vecchi paradigmi, ma al contempo contenga
potenzialità di liberazione, di elaborazione e di lotta ancora inesplorati.
È una illusione che accompagna anche alcuni militanti dei GCR, che da questo
punto di partenza rimettono in discussione, come nel caso del direttore del
giornale Caronia, una militanza trotskista di molti anni.
Che i GCR non siano più (o forse non siano mai
stati, dopo il ‘68) uno strumento utilizzabile per l’avanguardia politica e il
processo rivoluzionario in Italia è una cosa di cui sono convinto almeno dal
Congresso di febbraio di quest’anno. (...) Non sono più convinto del patrimonio
teorico e politico del leninismo (...) senza dover parlare di altre categorie
tradizionalmente utilizzate nell’organizzazione (...) e che oggi mi appaiono
inadeguate, perlomeno così come sono utilizzate, a spiegare la politica
dell’URSS, del PCI o della SPD tedesca (...)[27].
Il Convegno di Bologna per Caronia non ha solo dimostrato che “la sinistra
rivoluzionaria esiste e ha un ruolo”, ma soprattutto “la crisi irreversibili
delle organizzazioni tradizionali” da cui non sfuggono certo i GCR. Per Caronia
ciò è dimostrato dall’incapacità di comprendere che la crisi dei “gruppi” non è
crisi di linea politica, ma del modo stesso di fare politica, riflesso anche
dalla scarsa partecipazione dei dirigenti dei GCR a Bologna, che è poi l’indice
della estraneità del trotskismo al movimento stesso[28].
Sono considerazioni che preludono al ritorno a casa per molti.
Negli ultimi mesi del 1977 anche i GCR traggono un bilancio del movimento
dell’anno appena trascorso.
Per il CC dei GCR che si tiene il 21-22 novembre del 1977
Il movimento del ’77, con la sua vitalità e i
suoi segni di logoramento della situazione politica italiana, con le sue
potenzialità e i suoi limiti è stato il prodotto più tipico e maturo della
situazione politica italiana[29].
Il movimento del ’77 viene interpretato soprattutto come miscela della nuova
radicalizzazione della gioventù proletaria e del disorientamento dei “vecchi”
militanti della nuova sinistra.
I settori che si radicalizzavano per la prima
volta e che vivevano la politica del PCI e dei sindacati come un tradimento di
data recente, incontravano sulla loro strada militanti dei gruppi che si erano
sbarazzati della loro esperienza intellettuale (...) con la stessa rapidità e
improvvisazione con cui avevano accettato di farla ruotare intorno a pochi miti,
incapaci di voltarsi indietro a rimeditare sulla loro esperienza (...) una delle
ragioni del riflusso del movimento da aprile è nell’esistenza di due fenomeni,
non meccanicamente prodotto l’uno dell’altro (mobilitazione della base
studentesca e dibattito nell’avanguardia) (...)[30].
Questo CC rappresenta comunque, in qualche modo, una svolta rispetto alla totale
mancanza di linea politica che ha caratterizzato i GCR in precedenza. Viene
riorientata l’attività verso il mondo del lavoro (unica opposizione che può
mettere il bastone tra le ruote al governo di unità nazionale e il cui asse
principale deve essere la battaglia per la riduzione dell’orario a parità di
salario) mentre, per quanto riguarda i rapporti con le forze politiche, c’è un
rinnovato interesse verso DP e la LSR. Con quest’ultima si ipotizza persino la
possibilità di una rapida fusione.
1978: all’ombra del rapimento Moro
Il 1978 è soprattutto l’anno dell’escalation del terrorismo che mette a segno il
colpo più importante della sua storia, con il rapimento del Presidente della DC
e più volte Presidente del Consiglio Aldo Moro.
I gruppi terroristici di sinistra - e in particolare le BR – pur avendo già
messo a segno alcune azioni importanti già negli anni precedenti (sequestro
Sossi e omicidio Coco) - conoscono una crescente legittimazione delle loro
attività con l’estendersi della pratica delle azioni armate e illegali del
movimento del ’77, e con il riflusso, perfino una base di reclutamento.
Ma se la formazione politica dei militanti delle BR è approssimativa
(mitizzazione del PCI stalinista degli anni ’50, condita con le leggende dei
Tupamaros uruguaiani) i nuovi militanti che arrivano direttamente dal ’77 a
ingrossare le fila del terrorismo sono completamente sprovveduti politicamente,
non conoscono neppure l’ABC del marxismo, non riescono a concepire l’attività
politica che come azioni armate, anche se talvolta collegate a situazioni di
lotta. Può sembrare incredibile, ma per tanti di quelle migliaia che
sceglieranno la lotta armata spesso fattori come l’amicizia e la solidarietà
umana saranno decisivi[31].
La percezione che con il ’77 si sia chiusa una fase, il disorientamento, la
confusione portano molte frange del movimento alla disperazione della
tossicodipendenza, al ripiegamento mistico, all’abbandono definitivo della
militanza e anche al vicolo cieco dell’imbracciare il mitra. È la tragedia di
alcune avanguardie operaie delle lotte di fabbrica dei primi anni ’70: la scelta
terrorista diventa il modo per continuare ad avere quel peso di contrattazione
che la ristrutturazione e la formazione di un esercito di forza-lavoro di
riserva tende a esaurire.
Il 1978 è l’anno in cui, in concomitanza con l’attacco delle BR, l’alleanza
DC-PCI diventa ferrea, cementata dalle manifestazioni comuni contro il
terrorismo. I governi di unità nazionale diventano “governi dell’emergenza”,
mentre la CGIL con la svolta dell’Eur sistematizza la teoria dei “sacrifici in
cambio di riforme”. L’attività riformistica legislativa è però deludente: viene
approvata la legge sull’equo canone, la 180, istituito il sistema sanitario
nazionale, legalizzato l’aborto, mentre la legge sulla riconversione industriale
dell’anno prima non decolla, lasciando la disoccupazione a livelli da record.
Nel febbraio del 1978 si tiene a Roma l’Assemblea nazionale “per delegati” della
CGIL, che sancirà la cosiddetta “svolta dell’EUR” e, nel mese successivo, il 16
marzo le BR rapiscono il Presidente della DC Aldo Moro.
Lo sgomento pervade il paese, la reazione dei sindacati e delle istituzioni è
rapidissima e porta a scioperi e manifestazioni. Tuttavia tra gli operai,
specialmente nelle grandi fabbriche del nord, le preoccupazioni si sommano alla
coscienza che la nuova situazione restringerà ancora di più gli spazi di lotta e
di contrattazione ma anche, contraddittoriamente, ad atteggiamenti di aperta
simpatia per la lotta armata.
Un militante dell’Autonomia ricorda:
La mattina che hanno sequestrato Moro c’era il
corteo dell’Unidal (...) che veniva smantellata e trasformata in un’ondata di
licenziamenti, la metà delle maestranze; c’era un corteo autonomo di questi
lavoratori (...) Noi eravamo tutti a questo corteo e a metà mattinata si sparge
la notizia che è successo questo patatrac a Roma. Su un’edizione de ‘La Notte’
dicevano “Moro sequestrato, la scorta uccisa”, e questi numeri de ‘La Notte’
vengono inalberati dagli stessi lavoratori e noi divertiti...Nessuno si rende
conto della gravità della cosa (...)[32].
Livio Maitan, nel numero di Bandiera Rossa pubblicato subito dopo il
rapimento, riprende lo stesso tema facendo notare che l’influenza di Autonomia e
le diffuse simpatie e gli appoggi delle BR nascano prima di tutto dalla
prolungata crisi sociale che ha conosciuto l’Italia e dall’impasse che il
movimento delle masse ha avuto dopo il 20 giugno. E solo il rilancio della
mobilitazione sindacale e la rottura dell’unità nazionale può permettere il
prosciugarsi degli spazi per il terrorismo. Per quanto riguarda le BR, che
pensano aver ottenuto un grande successo, ciò
(...) non impedisce affatto che la loro analisi
della situazione e la loro caratterizzazione dell’attuale quadro politico siano
radicalmente false e gli orientamenti che ne fanno derivare assolutamente
aberranti. La loro “strategia” non è soltanto suicida sul lungo periodo, ma
facilita in modo considerevole sul corto periodo il gioco di coloro che vogliono
imporre una “restaurazione democratica”; questa strategia provoca reazioni in
ultima analisi pericolose per tutto il movimento operaio, da parte degli strati
piccolo-borghesi desiderosi che un ordine venga ristabilito a qualsiasi prezzo;
provoca il disastro anche in settori della classe operaia e offre argomenti ai
burocrati riformisti[33].
Paradossalmente, per Maitan, i sindacati si possono permettere di non
proclamare uno sciopero per la difesa degli interessi operai e invece far
sfilare i lavoratori “per manifestare la loro solidarietà al Presidente del più
rappresentativo partito della classe dominante”[34].
La conclusione di Maitan è sconsolata:
(...) tutto ciò è un esempio eloquente della
confusione che si è creata negli schieramenti politici e dell’arretramento che è
seguito alle lotte dei lavoratori[35].
I GCR, in questa situazione straordinaria, si schierano contro la politica della
“fermezza” e l’uccisione di Moro, rilanciando la parola d’ordine del governo
PCI-PSI “senza partiti borghesi”.
Nessuno si illude di cambiare i riformisti. Ma
tutti dovrebbero sapere che, per batterli, bisogna passare per proposte
unificanti della classe. Le masse ora nei partiti riformisti possono essere
attratte da una proposta alternativa unificante; (…)[36].
Proprio durante il sequestro Moro si tiene, dopo lunga gestazione, il Congresso
nazionale di DP.
I GCR, pur seguendo da vicino il processo di aggregazione che porta alla
nascita di DP, non vedono le condizioni minime per poter partecipare alla
fondazione del nuovo partito, che appare una aggregazione confusa e senza un
chiaro progetto. Pur ribadendo il ruolo spesso decisivo di DP in direzione della
mobilitazione operaia contro la “politica dei sacrifici”, ne vedono, però, anche
a tratti, una subordinazione alla logica della sinistra sindacale. Inoltre
sotto il profilo teorico i trotskisti
contrastano anche l’impostazione che ha DP, emersa nettamente in questo suo
congresso di fondazione. Vi si legge ancora una volta l’equazione tra leninismo
e stalinismo; si concepiscono i mali del movimento operaio nella Terza
Internazionale, non facendo nessuna distinzione tra la sua fase rivoluzionaria e
la sua fase degenerata dello stalinismo[37].
In questa fase i GCR puntano molto di più a una riaggregazione della diaspora
trotskista, e in primo luogo alla unificazione con la LSR, in vista di una
organizzazione che possa competere con DP per l’egemonia nella estrema sinistra.
Il dopo Moro e la XX Conferenza Nazionale dei GCR
Il 9 maggio Moro viene trovato morto in una auto tra Botteghe Oscure e Piazza
del Popolo.
In una nota, pubblicata subito dopo l’uccisione di Moro in Bandiera Rossa,
i Comunisti Rivoluzionari tentano di fare una riflessione a più vasto
raggio, partendo proprio dalla caratterizzazione dei “compagni che sbagliano”
che era stata tanto cara all’estrema sinistra:
È certo - ed è ormai una tautologia politicamente
inutile - che i terroristi, o almeno una gran parte del tessuto di cui si
scompongono, siano “compagni che sbagliano”; questa formulazione ha avuto in
passato una sua funzione; serviva a combattere gli esorcismi e a mettere
l’estrema sinistra di fronte a una realtà che non avrebbe potuto affrontare,
senza averla prima compresa[38].
Una operazione come quella Moro, scrive Bandiera Rossa, non si realizza
in una situazione astratta, ma si colloca in un paese in cui ogni anno ci sono
più di duemila attentati, seppur di diversa taglia e peso politico. Il problema
è comprendere quale è l’ideologia di fondo delle BR che porta a sconquassi
devastanti nel movimento di lotta. I GCR muovono dalle dichiarazioni in
tribunale di Curcio e Franceschini.
“In Italia esiste un doppio potere – ha gridato
Curcio – un potere imperialista che è qui rappresentato da voi e un potere
proletario che si sta organizzando”.
A parte l’agghiacciante senso delle dimensioni e
la riduzione dello Stato e del potere a pura repressione, l’esclusione delle
masse dal proprio orizzonte politico è l’elemento dominante. (…) Nel momento
in cui la guerra è potere contro potere, questa guerra non può tenere conto
delle masse; quindi i loro bisogni e la loro coscienza non esistono. (…) Moro
doveva morire (…) perché quello che conta per le Brigate Rosse non è null’altro
che l’opinione delle poche migliaia di persone al cui interno pensano di poter
reclutare per il rafforzamento del “potere proletario”.
Moro doveva morire perché quello che conta è il
puro rapporto di forza con l’apparato dello Stato, armi contro armi, forza
contro forza, “potere” contro potere.
Lo Stato non ha ceduto. Moro è stato ucciso. I
conti tornano tutti. Tranne che per la classe operaia (…)[39].
Nel luglio del 1978 a Cerreto Lago si tiene la XX Conferenza Nazionale dei GCR.
Durante l’anno i GCR hanno compiuto i primi tentativi di riaggiustamento
politico e organizzativo, dopo il marasma del ’77, che ha minacciato la
sopravvivenza stessa dell’organizzazione. Il centro dell’attenzione, sotto il
profilo organizzativo, è spostato verso la costruzione indipendente basata su
parole d’ordine politiche che sappiano dialogare con le grandi masse, che
guardano ancora alla sinistra tradizionale con fiducia o perlomeno come punto di
riferimento: per l’unità e l’indipendenza di classe, per il fronte unico
operaio, per un governo PCI-PSI appoggiato sui sindacati.
Particolare importanza assume inoltre in questa
fase l’iniziativa di difesa delle libertà e dei diritti democratici, cioè dei
diritti di attività, di espressione, di organizzazione della classe operaia e
dei suoi alleati senza nessuna concessione a formulazioni come “difesa dello
stato democratico” (borghese) o “difesa della Costituzione” (altrettanto
borghese!) (...) Ciò per cui noi ci battiamo è la difesa e l’ampliamento della
libertà e dei diritti democratici che sono stati strappati e imposti alla
borghesia dalle lotte del movimento operaio e degli sfruttati oppressi, in
particolare nell’ultimo decennio(...)[40].
Inoltre viene auspicata una rapida fusione con la LSR, una formazione che ha
dimostrato, a differenza degli altri gruppi italiani che si richiamano al
trotskismo, di essere una formazione dinamica e non settaria e con cui si
condivide l’appartenenza alla stesso Partito Mondiale.
Ma ancora di più è occasione per una messa a punto analitica sul “caso
italiano”.
La difficile congiuntura dell’economia italiana, per i GCR, si situa
all’interno di quella “onda lunga”[41]
negativa del ciclo capitalista, che porta a una accentuata concorrenza
interimperialistica. In Italia la crisi si accompagna all’attacco della
borghesia per la riduzione del “costo del lavoro”, che per i GCR a tutto il ’78
non ha ottenuto risultati particolari grazie alla resistenza operaia, anche se
la politica dei sacrifici inizia a far breccia, producendo divisioni pericolose
nella classe.
Per i GCR dal ’68-’69 si è inoltre assistito in Italia al diffondersi della
crisi strutturale in tutta la società ,con la crisi delle istituzioni
“disciplinari” come la scuola, l’esercito, la magistratura, la crisi della
Chiesa e dell’istituzione familiare.
Ma ora i problemi si pongono in modo diverso, il conflitto è esacerbato dalla
stagnazione del mercato del lavoro, dalla emarginazione di importanti quote di
gioventù.
Se nel ’68 la mobilitazione studentesca si era
misurata su un terreno su cui avere la forza di mantenere alti livelli di
mobilitazione e di ottenere parziali vittorie (selezione, autoritarismo, diritti
democratici, ecc.) nel ’77 i problemi si presentavano in maniera profondamente
diversa. La crisi economica. sociale e politica non solo non lasciava più
margini alle concessioni, ma rendeva indispensabile per la borghesia e per la
burocrazia stessa di stroncare sul nascere la nuova ondata di lotte giovanili
(...) La politica del PCI e delle direzioni sindacali, che non solo non
offrivano una prospettiva alle masse giovanili, ma erano costrette a scegliere
la contrapposizione frontale, è stato l’elemento determinante del rapido
riflusso del movimento, delle tendenze estremiste e spontaneiste che si sono
riprodotte negli strati politicizzati, dall’offuscarsi dell’immagine della
classe operaia come punto di riferimento (...)[42].
La crisi simmetrica di direzione della borghesia e del proletariato, uno dei
cavalli di battaglia analitici dei GCR per tutti gli anni ’70, produce un
sommovimento sociale e una instabilità politica che non trova soluzione. In
questo quadro, formazioni come quelle autonome e terroriste trovano spazio. Se
le prime vanno combattute, nei confronti delle seconde bisogna “adottare una
inconciliabile opposizione”.
Il logoramento del PCI dopo più di due anni di governi di unità nazionale è
lampante. La collaborazione di governo con la DC non ha isolato i settori
reazionari democristiani - come sognava Berlinguer - ma ha posto il PCI nella
posizione complicata del paladino della politica dei sacrifici e della
contrapposizione con i movimenti. Tuttavia i GCR si ostinano a non vedere i
segni di cedimento che manifesta la stessa combattività operaia.
(...) in ultima analisi il governo Andreotti, e
dietro di lui il padronato, non sono riusciti a dare un colpo decisivo ai
lavoratori. La ristrutturazione selvaggia portata avanti in molte fabbriche non
è ancora passata: i lavoratori resistono tenacemente (...)[43].
Bisognerà aspettare meno di due anni per assistere alla più importante sconfitta
operaia del dopoguerra, per vedere il livello di degrado e subalternità
raggiunta dal sindacato, davanti a quei famosi cancelli della FIAT.
[1]
“Il proletariato giovanile”, si condensa organizzativamente soprattutto nei
circoli o collettivi giovanili del proletariato che si costituiscono
semi-spontaneamente a partire dal 1975-76 nelle periferie delle grandi
città. La militanza è legata fortemente al territorio con azioni violente
contro gli spacciatori di droga, il lavoro nero, l’occupazione di spazi per
i centri sociali. Dopo il ’77 una parte di essi confluiscono nelle strutture
nazionali dell’Autonomia oppure si dirige verso l’area della lotta armata.
“Bifo” ha anche tentato una definizione strutturale del proletariato
giovanile: esso avrebbe come “caratteristica di massa” la saltuarietà con il
rapporto di lavoro ed è il portatore della “maturità del comunismo”. Vedi F.
Berardi “Finalmente il cielo è caduto sulla terra” (Milano, 1978).
[2]
Il processo di integrazione-subordinazione del movimento sindacale alle
esigenze del capitale era già stato intuito in modo straordinario da Trotsky
in uno scritto rimasto incompiuto sul suo tavolo al momento della morte.
“The trade unions in the
epoch of imperialism decay” (New York, 1969).
[3]Lettere
a Lotta Continua ora in (A cura di S. Iovinelli S. Novelli) “Lettere
dal ‘Movimento’” (Roma , 1978) pag. 69,147-48, 45
[4]Vedi
A. Heller “La teoria dei bisogni in Marx” (Milano, 1974)
[5]Antonio
Negri “Il dominio e il sabotaggio” pag. 71 (Milano, 1978)
[6]E.
Berlinguer “Conclusioni al Convegno degli intellettuali” (Roma, 15 gennaio
1977) ora in E. Berlinguer “Austerità occasione per trasformare l’Italia”
(Roma, 1977)
[7]
Bandiera Rossa n 14 5 luglio 1976
”Parco Lambro. L’ultimo festival pop?”
[8]
P. E. Fornaciari op. cit. pag. 35
[9]
Bandiera Rossa L. Maitan n 22 23 novembre 1976 “Il Congresso
di Lotta Continua. Molti interrogativi poche risposte.”
[10]
Bandiera Rossa ibidem.
[11]
Bandiera Rossa n 23 7 dicembre 1976 E. Deiana “Su Lotta Continua
abbiamo sbagliato tutto”.
[12]
Intervista dell’autore a L. Cirillo, citata.
[13]
A. Caronia “Da dove viene l’area dell’Autonomia” n 5 del 23 marzo 1977,
“Area dell’Autonomia: la fase della frammentazione” in Bandiera Rossa
n 5 del 23 marzo 1977, n 6 del 1 giugno 1977.
[14]
Bandiera Rossa n 9 15 maggio
1977 A. Caronia ”Alla ricerca dell’identità”.
[15]
GCR “Documenti per il Congresso
Nazionale” relazione al CC del 4-5 dicembre.
[17]
A proposito della “T2” vedi GCR “Documenti per il Congresso Nazionale n 2” e
in particolare “ Un bilancio autocritico: condizione per un rilancio
dell’organizzazione (Documento della Tendenza 2)”, Traccia di Tesi per la
Tendenza 2” e Tendenza 2 “Risoluzione politica del 30 gennaio del 1977”
[Archivio Gambino-Verdoja, Torino]
[18]
Relazione di R. Papandrea al Convegno operaio dei GCR primavera 1977 in
Bandiera Rossa n 8 del 1 maggio 1977 “Le avanguardie, i coordinamenti,
il lavoro nel sindacato”.
[19]
Bandiera Rossa, ibidem.
[20]Testimonianza
di O. Scalzone in N. Balestrini - P. Moroni op. cit. pag. 325-327.
[21]
Bandiera Rossa n 1 gennaio 1977 “Bisogna difendere anche i compagni ‘scomodi’”.
[22]
GCR “Violenza necessaria , inutile, dannosa” (Milano, 1977) pag. 8.
[23]
A tale proposito si tenga presente che solo due anni dopo gran parte di quel
movimento si ritroverà alla fine dell’estate a celebrare sempre a Bologna un
nuovo mito... la cantante pop Patti Smith!
[24]
N. Balestrini - P. Moroni op. cit. pag. 336
[25]
Intervista dell’autore ad A. Caronia”. Citata.
[26]
Bandiera Rossa n 16 7 ottobre 1977 “Ma chi ha detto che non c’è?”.
[27]
Lettera di dimissioni dai GCR di A. Caronia del 7 novembre del 1977
[Archivio Gambino-Verdoja, Torino].
[28]
Vedi inoltre la lettera di A. Caronia del 26 settembre 1977 sul Convegno di
Bologna e la risposta di L. Cirillo a nome dell’organizzazione [Archivio
Gambino-Verdoja, Torino] e Bandiera Rossa n 20 1 dicembre 1977
“Direttore: perché hai lasciato i GCR?”. Nella lettera di risposta di L.
Cirillo si può leggere : “Le divergenze tra il compagno Antonio C. dopo i
fatti del febbraio-maggio non riguardavano il giudizio sulla natura del
movimento ma sulla battaglia che avremmo dovuto fare al suo interno. In un
agitato CC, Antonio C. ed alcuni altri compagni, contestarono la necessità e
l’opportunità di dare un giudizio negativo sulle tendenze estremiste nel
movimento, ritennero una attività da grilli parlanti quella di intervenire
per ribadire il rapporto del movimento con la classe operaia (e quindi con
il PCI e il sindacato) rifiutando esplicitamente la battaglia per la
democrazia nel movimento.”
[29]
GCR “Documento introduttivo al dibattito del CC del 21-22 novembre
1977 - Per una nuova organizzazione rivoluzionaria”.
[31]
A tale proposito può essere istruttiva la lettura delle testimonianze di ex
membri della lotta armata raccolte in (a cura di R. Catanzaro - L. Manconi
“Storie di lotta armata” (Bologna, 1995).
[32]
(a cura di ) R. Catanzaro - L. Manconi ibidem pag. 352.
[33]
Bandiera Rossa n 6 1 aprile 1977 L. Maitan “Essere chiari e
conseguenti sul rapimento Moro”
[34]
I GCR a differenza della LSR non parteciperanno alle manifestazioni
dell’arco costituzionale PdUP compreso e del sindacato contro il terrorismo.
[35]
Bandiera Rossa L. Maitan art. cit.
[36]
Bandiera Rossa n 6 1 marzo 1977 “Una gara di cinismo”.
[37]
Bandiera Rossa n 8 1 maggio 1978 E. Pellegrini “I nostri compiti
prioritari: Intervista con il Compagno Turigliatto”. Vedi anche Bandiera
Rossa n.21 del 20 dicembre del 1977 E. Deiana “Quale Democrazia
Proletaria?”
[38]Bandiera
Rossa n 9-10 del 22 maggio del
1978.
[39]Bandiera
Rossa n 9-10 art. cit.
[40]
GCR “Contro l’unita’ nazionale, per l’unita’ del proletariato” Tesi
approvate dalla XX Conferenza nazionale dei GCR del 7-10 1978 (Torino,
1978).
[41]
I cicli delle “onde lunghe” del capitalismo sono stati teorizzati
dall’economista russo Nikolaj Kondratiev e poi ripresi nel secondo
dopoguerra dal trotskista belga E. Mandel. Essi prevedono al di là delle
congiunture onde ascendenti e discendenti dell’economia capitalistica in
relazione a dei cicli di sviluppo basati su alcuni settori produttivi
trainanti.
[42]
GCR “Contro l’unita’ nazionale...” doc. cit.
[43]
Bandiera Rossa n 18 26 novembre 1978 “Il logoramento dell’unità
nazionale”.
|