I
Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi
personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha
dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come
farsa. Caussidière invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la
Montagna del 1848-1851 invece della Montagna del 1793-1795 il nipote invece
dello zio. È la stessa caricatura nelle circostanze che accompagnano la seconda
edizione del 18 brumaio!
Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in
circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano
immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La
tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello
dei viventi e proprio quando sembra ch'essi lavorino a trasformare se stessi e
le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi
rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli
al loro servizio; ne prendono a. prestito i nomi, le parole d'ordine per la
battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile
travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia.
Così Lutero si travestì da apostolo Paolo; la rivoluzione del 1789-1814 indossò
successivamente i panni della Repubblica romana e dell'Impero romano; e la
rivoluzione del 1848 non seppe fare di meglio che la parodia, ora del 1789, ora
della tradizione. rivoluzionaria del 1793-1795. Così il principiante che ha
imparato una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna ma
non riesce a possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando si
muove in essa senza reminiscenze, e dimenticando in essa la propria lingua
d'origine.
Al solo considerare queste evocazioni storiche di morti, si palesa tosto una
spiccata differenza. Camille Desmoulins Danton, Robespierre, Saint-Just,
Napoleone, tanto gli eroi quanto i partiti e la. massa della vecchia Rivoluzione
francese adempirono, in costume romano e con frasi romane, il compito dei tempi
loro, quello di liberare dalle catene e di instaurare la moderna società
borghese, Gli uni spezzarono le terre feudali, e falciarono le teste feudali
cresciute sopra di esse. L'altro creò nell'interno della Francia le condizioni
per cui poté cominciare a svilupparsi la libera concorrenza, poté essere
sfruttata la, proprietà. fondiaria suddivisa, e poté essere impiegata la forza
produttiva industriale, della nazione liberata dalle sue catene; e al di là dei
confini della Francia spazzò, dappertutto le istituzioni feudali, nella misura
in cui 1 ciò era necessario per creare alla società borghese in Francia un
ambiente corrispondente sul continente europeo. Una volta instaurata la nuova
formazione sociale disparvero, i mostri antidiluviani; e con essi disparve la
romanità risuscitata i Bruti, i Gracchi, i Publicola, i tribuni, i senatori e lo
stesso Cesare.
La società borghese, nella sua, fredda realtà, si era creati i suoi veri
interpreti e portavoce nei Say, nei Cousin, nei Royer-Collard, nei Benjamin
Constant e nei Guizot. I suoi, veri generali sedevano al banco del commerciante,
e la testa di lardo di Luigi XVIII era la sua testa politica. Completamente
assorbita nella produzione, della ricchezza nella lotta pacifica della
concorrenza , essa finì col dimenticare che i fantasmi dell'epoca romana avevano
vegliato attorno alla sua culla. Ma per quanto poco eroica sia la società
borghese, per metterla mondo 'erano però stati necessari l'eroismo,
l'abnegazione, il terrore, la guerra civile e le guerre tra i popoli. E i suoi
gladiatori avevano trovato nelle, austere tradizioni classiche della repubblica
romana gli ideali e le forme artistiche, le illusioni di cui avevano bisogno per
dissimulare a se stessi il contenuto grettamente borghese delle loro lotte e per
mantenere la loro passione all'altezza della grande tragedia storica. Così, in
un'altra tappa dell'evoluzione, un secolo prima, Cromwell e il popolo inglese
avevano preso a prestito dal Vecchio Testamento le parole, le passioni e le
illusioni per la loro rivoluzione borghese. Raggiunto lo scopo reale, condotta a
termine la trasformazione borghese della società inglese, Locke dette lo sfratto
ad Abacuc.
La resurrezione dei morti servì, dunque in quelle rivoluzioni a magnificare
le nuove lotte, non a parodiare le antiche; a esaltare nella fantasia i compiti
che si ponevano, non a sfuggire alla loro realizzazione; a ritrovare lo spirito
della rivoluzione, non a rimetterne in circolazione il fantasma.
Dal 1848 al 1851, della vecchia rivoluzione, non circolò altro che lo
spettro, a partire da Marrast, il républicain en gants jaunes, che si
camuffò con la maschera del vecchio Bailly, sino all'avventuriero che nasconde
le sue fattezze repugnanti e triviali sotto la mortuaria maschera di ferro di
Napoleone. Un popolo intiero, il quale credeva di aver dato a se stesso, colla
rivoluzione,' la capacità di un progresso più rapido, si vede, bruscamente
ricacciato in un'epoca scomparsa, e affinché non' sia possibile nessuna
illusione circa il ritorno passato, ricompaiono le vecchie date, il vecchio
calendario, vecchi nomi, i vecchi editti, caduti da tempo nel regno degli
eruditi di antiquaria, e i vecchi sbirri, che da tempo sembravano andati in
decomposizione. La nazione sente di trovarsi nella situazione di quell'inglese
pazzo a Bedlam, che crede di vivere al tempo degli antichi Faraoni, e ogni
giorno si lagna delle improbe fatiche cui deve sobbarcarsi come minatore nelle
miniere d'oro dell'Etiopia, sepolto vivo in quelle prigioni sotterranee, con una
fioca lanterna fissata sul capo, il guardiano di schiavi alle calcagne con una
lunga frusta, e all'uscita della galleria un'accozzaglia di schiavi barbari, i
quali né comprendono i forzati. che lavorano nelle miniere, né si comprendono
tra di loro, perché non parlano una lingua comune. "E tutto questo - geme
l'inglese maniaco - viene fatto a me, libero cittadino della Gran, Bretagna, per
estrarre oro per gli antichi Faraoni." "Per pagare i debiti della, famiglia,
Bonaparte" - geme la nazione francese. L'inglese, fino a che ebbe l'uso della
ragione, non poté liberarsi dall'idea fissa della estrazione dell'oro. I
francesi, fino a che furono in rivoluzione, non poterono sbarazzarsi dei ricordi
napoleonici, come ha provato l'elezione del 10 dicembre. Essi volevano sfuggire
ai pericoli della rivoluzione e ritornare alle "pignatte delle carni" egiziane,
e la risposta fu il 2 dicembre 1851. Non hanno soltanto la caricatura del
vecchio Napoleone; hanno Napoleone in persona, nelle fattezze caricaturali che
gli si addicono alla metà del secolo decimonono.
La rivoluzione sociale del secolo decimonono non può trarre la propria
poesia, dal passato, ma solo dall'avvenire. Non può cominciare a essere se
stessa prima di aver liquidato ogni fede superstiziosa nel passato. Le
precedenti rivoluzioni avevano bisogno di reminiscenze storiche per farsi delle
illusioni sul proprio contenuto. Per prendere coscienza del proprio contenuto,
la rivoluzione. dei secolo decimonono deve lasciare che i morti seppelliscano i
loro morti. Prima la frase sopraffaceva il contenuto; ora il contenuto trionfa
sulla frase.
La rivoluzione del febbraio fu per la vecchia società un colpo di sorpresa,
e il popolo fece di questo colpo di mano riuscito un avvenimento di
importanza storica mondiale, che apriva un'epoca nuova. Il 2 dicembre la
rivoluzione di febbraio viene fatta sparire col. trucco d'un baro, e ciò che
appare rovesciato non è più la monarchia, ma le concessioni liberali che le
erano state strappate con un secolo di lotte. Invece della conquista di un nuovo
contenuto da parte della società stessa, sembra soltanto che lo Stato sia
tornato alla sua forma più antica, al dominio puro e insolente della spada e
della tonaca. E' così che al coup de main del febbraio 1848 risponde il
coup de téte del dicembre 1851. La farina del diavolo va in crusca. Ma
frattanto il tempo non è passato invano. Negli anni dal 1848 al 1851 la società
francese ha ricuperato - e con un metodo più rapido, perché rivoluzionario - gli
studi e le esperienze che, se la rivoluzione si fosse compiuta in modo regolare
e, per così dire, scolastico, avrebbero dovuto precedere la rivoluzione di
febbraio, affinché essa fosse qualcosa di più di un sommovimento superficiale.
La società sembra ora esser tornata più indietro del suo punto di partenza; in
realtà è soltanto ora ch'essa deve crearsi il punto di partenza rivoluzionario,
la situazione, i rapporti, le condizioni nelle quali soltanto la rivoluzione
moderna diventa una cosa seria.
Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo decimottavo, passano
tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano
l'un l'altro gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala
l'estasi è lo stato d'animo d'ogni, giorno. Ma hanno una vita effimera, presto
raggiungono il punto culminante: e allora una nausea si impadronisce della
società. prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo
periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie invece,
quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono ad
ogni istante il, loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa
compiuta per ricominciare daccapo si fanno beffe in modo ;spietato e senza
riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi
tentativi; sembra., che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga
dalla terra nuove forze e si levi di nuova più formidabile di fronte ad esse; si
ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri
scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno
,indietro e le circostanze stesse gridano:
Hie Rhodus, hic salta!
Qui è la rosa, qui devi ballare.
Del resto, pur senza aver seguito a passo a passo il corso degli avvenimenti
in Francia, anche un osservatore mediocre doveva avere, il presentimento che la
rivoluzione andava incontro a un fallimento inaudito.
Era sufficiente ascoltare i presuntuosi latrati di trionfo coi quali i
signori democratici si felicitavano reciprocamente per gli effetti miracolosi
della seconda [ domenica] di maggio del 1852. La seconda [domenica] di maggio
era diventata per loro un'idea fissa un dogma, come pei chiliasti il giorno in
cui Cristo avrebbe dovuto risorgere un'altra volta e dar principio al regno
millenario. La debolezza aveva trovato un rifugio. come sempre nella fede nei
miracoli; credeva di aver battuto il nemico perché lo aveva esorcizzato nella
propria fantasia; perdeva ogni comprensione del presente, rapita nell'inerte
esaltazione dell'avvenire e delle azioni ch'essa aveva in animo di compiere e
non voleva ancora tradurre in atto. Gli eroi, che si sforzavano di smentire la
propria manifesta incapacità inviandosi in .vicenda le loro condoglianze e
accozzandosi in un sol mucchio, avevano già fatto le loro valigie, si erano
cinte anticipo corone d'alloro ed erano occupati a scontare in Borsa le
repubbliche in partibus per le quali, nel silenzio delle loro anime
modeste, avevano già avuto la previdenza di organizzare il personale
governativo. Il 2 dicembre li colpì come un fulmine a ciel sereno; e i popoli,
che nei periodi di depressione e di scoraggiamento lasciano volentieri
stordire la loro paura segreta da coloro che gridano più forte, si
saranno forse convinti che sono passati i tempi in cui lo schiamazzo delle oche
poteva salvare il Campidoglio.
La Costituzione, l'Assemblea nazionale, i partiti dinastici, i repubblicani
azzurri e rossi, gli eroi dell'Africa, i fulmini della. tribuna, i lampi della
stampa quotidiana; tutta la letteratura, le celebrità politiche e le
nomee intellettuali, il diritto civile e quello penale, la liberté, l'égalité,
fraternité e la seconda [domenica] di maggio del 1852, tutto è
svanito come una fantasmagoria davanti alla formula magica lanciata da un uomo
che i suoi avversari stessi riconoscono essere tutt'altro che un mago. Il
suffragio universale sembra sopravvissuto un momento soltanto per
fare in faccia a tutto il mondo il proprio testamento olografo e
dichiarare in nome del popolo stesso: "Tutto ciò che esiste merita di andare
alla malora ".
Non basta direi come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla
sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il
momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con
queste spiegazioni l'enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo
diverso. Rimane da spiegare come una azione dì 36 milioni di abitanti abbia
potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in
schiavitù senza far resistenza.
Ricapitoliamo a grandi tratti le fasi percorse dalla rivoluzione francese dal
24 febbraio 1848 sino al dicembre 1851.
Tre sono i periodi principali che è impossibile confondere: periodo di
febbraio; dal 4 maggio 1848 sino al 29 maggio 1849: il periodo della
costituzione della repubblica o dell'Assemblea nazionale
costituente; dal 29 maggio 1849 sino al 21dicembre 1851: il periodo della
repubblica costituzionale o dell'Assemblea nazionale legislativa.
Il primo periodo, dal 24 febbraio o dalla caduta di Luigi Filippo sino
al 4 maggio 1848, quando si riunì l'Assemblea costituente, cioè il periodo di
febbraio propriamente detto, può considerato come il prologo della
rivoluzione. Il suo carattere si espresse ufficialmente nel fatto che il
governo da essa improvvisato si dichiarò da sé provvisorio, e al pari del
governo tutto ciò che in questo periodo venne proposto, tentato, dichiarato, non
lo fu che provvisoriamente. Nessuno e nulla osò reclamate per sé il
diritto all'esistenza e all'azione reale.Tutti gli elementi che avevano
preparato o determinato la rivoluzione, l'opposizione dinastica, la borghesia
repubblicana, la piccola borghesia repubblicana democratica, i lavoratori
socialdemocratici, trovarono posto provvisoriamente nel governo di febbraio.
Né poteva essere altrimenti. Le giornate di febbraio miravano in origine a
una riforma elettorale, per cui la cerchia dei privilegiati politici in seno
alla classe abbiente stessa doveva essere allargata, e il dominio esclusivo
dell'aristocrazia finanziaria doveva essere rovesciato. Ma quando il conflitto
scoppiò per davvero, quando il popolo salì sulle barricate, quando la Guardia
nazionale rimase passiva, l'esercito non oppose nessuna resistenza seria e la
monarchia prese la fuga, allora la repubblica sembrò imporsi da sé; ogni partito
la interpretò a modo suo. Poiché essa era stata conquistata dal proletariato con
le armi in pugno, questi le impresse il suo suggello e la proclamò repubblica
sociale. Così venne additato il contenuto generale della rivoluzione
moderna, contrastante nel modo più singolare con tutto ciò che, dato il grado di
educazione raggiunto dalla massa, date le circostanze e le condizioni del tempo,
poteva essere messo in opera lì per li col materiale esistente. D'altro lato, le
pretese di tutti gli altri elementi che avevano cooperato alla rivoluzione di
febbraio trovarono un riconoscimento nella parte leonina ch'essi ricevettero nel
governo. In nessun periodo troviamo quindi una miscela più eterogenea di frasi
alate e di indecisione e goffaggine reali, delle più entusiastiche aspirazioni
di rinnovamento e del dominio più solido del vecchio trantran, della più
apparente armonia di tutta la società e dell'antagonismo più profondo fra i suoi
elementi. Mentre il proletariato di Parigi si inebriava ancora nella visione
della grande prospettiva che gli si apriva dinanzi e si abbandonava a gravi
discussioni sui problemi sociali, le vecchie potenze della società si erano
raggruppate, riunite e messe d'accordo, e trovarono un appoggio inatteso nella
massa della nazione, nei contadini e nei piccoli borghesi, i quali, cadute le
barriere della monarchia di luglio, si precipitavano tutti ad un tempo sulla
scena politica.
Il secondo periodo, che va dal 4 maggio 1848 sino alla fine del Maggio
1849, è il periodo della costituzione, della fondazione della repubblica
borghese. Immediatamente dopo le giornate di febbraio non soltanto
l'opposizione dinastica era stata presa, alla sprovvista, dai repubblicani e
questi dai socialisti, ma tutta la Francia era stata presa alla sprovvista da
Parigi. L'Assemblea nazionale, che si riunì il 4 maggio 1848, essendo uscita dal
suffragio della nazione, rappresentava la nazione. Era una protesta vivente
contro le pretese delle giornate di febbraio e doveva ridurre i risultati della
rivoluzione a misura borghese. Invano il proletariato parigino. il quale
comprese immediatamente il carattere. di quest'Assemblea nazionale, tentò alcuni
giorni dopo la sua riunione, il 15 maggio, di negarne con la violenza
l'esistenza, di scioglierla, di scomporre di nuovo nei suoi singoli elementi
costitutivi l'organismo attraverso il quale lo spirito reazionario della nazione
lo minacciava. Com'è noto, il 15 maggio non ebbe nessun altro risultato
all'infuori di quello di allontanare dalla pubblica scena, per tutta la durata
del periodo che stiamo considerando, Blanqui e i suoi compagni, cioè i veri capi
del partito proletario.
Alla monarchia borghese di Luigi Filippo può succedere soltanto la
repubblica borghese, il che vuol dire che se prima una parte limitata della
borghesia regnava in nome dei re, ora deve dominare in nome del popolo la
totalità della borghesia. Le rivendicazioni del proletariato parigino sono
fandonie utopistiche, con le quali si deve farla finita. A questa dichiarazione
dell'Assemblea nazionale costituente, il proletariato parigino rispose coll'insurrezione
di giugno, l'avvenimento più
grandioso nella storia delle guerre civili europee. La repubblica borghese,
trionfò.Essa aveva per sé l'aristocrazia finanziaria, la borghesia industriale,
il ceto medio, i piccoli borghesi, l'esercito, la canaglia organizzata in
Guardia mobile, gli intellettuali, i preti e la popolazione rurale. Il
proletariato non aveva al suo fianco altro che se stesso. Più di 3.000 insorti
vennero massacrati dopo la vittoria; 15.000 deportati senza processo. Con questa
disfatta il proletariato si ritira tra le quinte della scena
rivoluzionaria. Esso cerca di farsi nuovamente avanti ogni volta che il
movimento sembra prendere un nuovo slancio, ma con un'energia sempre più ridotta
e con un risultato sempre più piccolo.
Non appena uno degli strati sociali a lui sovrastanti entra in fermento
rivoluzionario, il proletariato stabilisce con esso un collegamento, e in questo
modo condivide tutte le sconfitte che i vari partiti subiscono l'uno dopo
l'altro. Ma questi colpi successivi diventano via via tanto più deboli quanto
più si ripartiscono su tutta la superficie della società. I rappresentanti più
cospicui del proletariato nell'Assemblea e nella stampa no vittime, l'uno
dopo l'altro, dei tribunali, e figure sempre più equivoche prendono il loro
posto. In parte, esso sì abbandona a esperimenti dottrinari, banche di
scambio e associ azioni operai e, cioè a un movimento in cui rinuncia a
trasformare il vecchio mondo coi grandi mezzi collettivi che gli sono propri, e
cerca piuttosto di conseguire la propria emancipazione alle spalle della
società, in via privata, entro i limiti delle sue meschine condizioni
d'esistenza, e in questo modo va necessariamente al fallimento. Sembra
ch'esso non possa più ritrovare in se stesso la grandezza rivoluzionaria né
attingere nuova energia dalle alleanze nuovamente contratte, sino a che tutte
le classi contro le quali ha lottato in giugno non giacciono al suolo al suo
fianco. Ma, per lo meno, esso soccombe con gli onori di una grande battaglia
storica. Non soltanto la Francia, ma tutta l'Europa trema davanti al terremoto
di giugno, mentre le successive disfatte delle classi più elevate vengono
ottenute cosi a buon mercato, che è necessaria l'insolente esagerazione del
partito vittorioso per poterle far passare come avvenimenti di importanza, ed
esse diventano tanto più vergognose quanto più il partito che soccombe è lontano
dal partito proletario.
Certo, la disfatta degli insorti di giugno aveva preparato, spianato, il
terreno su cui poteva essere fondata, stabilita, la repubblica borghese; però,
aveva allo stesso tempo mostrato che si ponevano in Europa ben altri problemi
che di "repubblica o monarchia"; aveva rivelato che repubblica borghese
significa dispotismo assoluto di una classe su altre classi; aveva provato che
in paesi di vecchia civiltà e con una avanzata struttura di classe, con
condizioni di produzione moderne e una coscienza spirituale in cui tutte le idee
tradizionali sono state dissolte da un lavoro secolare, la repubblica non è
altro, in generale, che la forma politica del rovesciamento della società
borghese, ma non la forma della sua conservazione, come
avviene, per esempio, negli Stati Uniti d'America, dove classi sociali esistono
già, senza dubbio, ma non si sono ancora fissate, e in un flusso continuo
modificano continuamente le loro parti costitutive e se le cedono; dove i
moderni mezzi di produzione, invece di coincidere con un eccesso di popolazione
stagnante, compensano piuttosto la relativa scarsezza di teste e di braccia; e
dove infine lo slancio giovanilmente febbrile della produzione materiale, che
deve conquistarsi un mondo nuovo, non ha ancora lasciato né il tempo né
l'opportunità di far piazza pulita del vecchio mondo spirituale.
Tutte le classi e tutti i partiti si erano uniti durante le giornate di
giugno nel partito dell'ordine per fronteggiare la classe proletaria,
considerata come il partito dell'anarchia. del socialismo, del comunismo.
Essi avevano "salvato" la società dai "nemici della società". Essi
avevano dato alle loro truppe le parole d'ordine della vecchia società:
"Proprietà, famiglia, religione, ordine", e gridato alla crociata
controrivoluzionaria: "In questo segno vincerai!". A partire da questo momento,
non appena uno dei numerosi partiti che sotto questa insegna si erano schierati
contro gli insorti di giugno cerca, nel suo proprio interesse di classe, di
tenere il campo della rivoluzione, viene schiacciato al grido di "proprietà,
famiglia, religione, ordine". La società viene salvata tanto Più spesso, quanto
più si restringe la cerchia dei suoi dominatori, quanto più un interesse più
ristretto prevale sugli interessi più larghi. Ogni rivendicazione della più
semplice riforma finanziaria borghese, del liberalismo più ordinario, del
repubblicanesimo più formale, della democrazia più volgare, viene ad un tempo
colpita come "attentato contro la società" e bollata come "socialismo". E alla
fine gli stessi grandi sacerdoti della "religione e dell'ordine" vengono
cacciati a pedate dai loro tripodi pitici, strappati in piena notte dai loro
letti, stivati nelle vetture cellulari, gettati in carcere o spediti in esilio.
Il loro tempio viene raso al suolo, la loro bocca suggellata, la loro penna
spezzata, la loro legge infranta, in nome della religione, della proprietà,
della famiglia, dell'ordine. Borghesi fanatici dell'ordine vengono fucilati ai
loro balconi da bande di soldati ubriachi, il sacrario della loro famiglia viene
profanato, le loro case vengono bombardate per passatempo in nome della
proprietà, della famiglia, della religione e dell'ordine. La feccia della
società borghese forma, in ultima istanza, la falange sacra dell'ordine e
Crapülinski, l'eroe, fa il suo ingresso alle Tuilerie come "salvatore
della società".
II
Riprendiamo il filo dell'esposizione.
A partire dalle giornate di giugno, la storia dell'Assemblea nazionale
costituente è la storia del dominio e della disgregazione della frazione della
borghesia repubblicana, frazione conosciuta col nome di repubblicani
tricolori, repubblicani puri, repubblicani politici, repubblicani formalisti,
ecc.
Sotto la monarchia di Luigi Filippo questa frazione aveva costituito
l'opposizione repubblicana ufficiale, ed era stata quindi parte
integrante riconosciuta del mondo politico di allora. Essa aveva i suoi
rappresentanti nelle Camere e una notevole sfera d'influenza nella stampa. Il
suo organo parigino, il Nazional era, nel suo genere, considerato
rispettabile quanto il Journal des Débats. A questa posizione che essa
aveva avuto sotto la monarchia costituzionale corrispondeva il suo carattere.
Non si trattava di una frazione della borghesia tenuta assieme da grandi
interessi comuni e delimitata da particolari condizioni di produzione. Si
trattava piuttosto di una consorteria di borghesi, di scrittori, di avvocati, di
ufficiali e di impiegati di convinzioni repubblicane, l'influenza dei quali si
fondava sull'antipatia personale del paese per Luigi Filippo, sui ricordi della
vecchia repubblica, sulla fede repubblicana di un certo numero di sognatori, ma
soprattutto sul nazionalismo francese, di cui essa manteneva desto l'odio
contro i trattati di Vienna e contro l'alleanza con l'Inghilterra. Una gran
parte dell'influenza che il National aveva sotto Luigi Filippo era dovuta
a questo imperialismo latente, a cui più tardi, perciò, sotto la repubblica,
poté contrapporsi un concorrente vittorioso nella persona di Luigi Bonaparte.
Esso combatteva l'oligarchia finanziaria, come tutta la rimanente opposizione
borghese. La polemica contro il bilancio, che era in Francia strettamente legata
alla lotta contro l'aristocrazia finanziaria, forniva una popolarità troppo a
buon mercato e materia troppo copiosa a leading artieles puritani, perché
non la si dovesse sfruttare. La borghesia industriale era riconoscente al
National per la sua servile difesa del sistema protezionista francese, che
esso nel frattempo aveva intrapreso più per motivi nazionali che per motivi
economici; e la borghesia nel suo assieme gli era riconoscente per le sue
denunce piene d'odio contro il socialismo e il comunismo. Per il resto il
partito del National era repubblicano puro, cioè voleva una forma
repubblicana invece di una forma monarchica di dominio della borghesia e,
soprattutto, voleva avere in questo dominio la parte del leone. Delle condizioni
di questa trasformazione esso non aveva nessuna idea chiara. Ciò che invece gli
era chiaro come la luce del sole, ciò che era stato dichiarato apertamente,
negli ultimi tempi del regno di Luigi Filippo, nei banchetti per la riforma, era
la sua impopolarità tra i piccoli borghesi democratici, e specialmente tra il
proletariato rivoluzionario. Questi repubblicani puri, come si conviene a puri
repubblicani, stavano già per accontentarsi di una reggenza della duchessa di
Orléans, quando scoppiò la rivoluzione di febbraio che dette un posto nel
governo provvisorio ai loro rappresentanti più conosciuti. Naturalmente, essi
godevano in anticipo della fiducia della borghesia e della maggioranza
dell'Assemblea nazionale costituente. Dalla commissione esecutiva, formata
dall'Assemblea nazionale sin dalla sua prima riunione, vennero subito esclusi
gli elementi socialisti del governo provvisorio, e il partito del
National approfittò dello scoppio dell'insurrezione di giugno per dare il
benservito anche alla Commissione esecutiva e sbarazzarsi in questo modo
dei suoi rivali più prossimi, i repubblicani piccolo-borghesi o democratici
(Ledru-Rollin, ecc.). Cavaignac, il generale del partito repubblicano
borghese, che aveva diretto la battaglia di giugno, prese il posto della
Commissione esecutiva, con una specie di potere dittatoriale. Marrast, già
redattore capo del National, divenne presidente perpetuo dell'Assemblea
nazionale costituente, e i ministeri, come tutti gli altri posti importanti,
caddero in mano dei repubblicani puri.
La frazione dei repubblicani borghesi, che da tempo si era considerata erede
legittima della monarchia di luglio, vide così superati i propri ideali, ma
giunse a dominare non già come aveva sognato sotto Luigi Filippo, attraverso una
rivolta liberale della borghesia contro il trono, bensì attraverso una sommossa,
repressa a colpi di mitraglia, del proletariato contro il capitale. Ciò che essa
si era rappresentato come l'avvenimento più rivoluzionario, si
riproduceva, in realtà, come il più controrivoluzionario. Il
frutto le cadeva in grembo, ma cadeva dall'albero della scienza, non dall'albero
della vita.
L'esclusivo dominio dei repubblicani borghesi durò soltanto dal 24
giugno sino al 10 dicembre 1848. La sua storia si riassume nella elaborazione
di una Costituzione repubblicana e nello stato d'assedio di Parigi.
La nuova Costituzione non fu altro, in sostanza, che l'edizione
repubblicana della Carta costituzionale del 1830. Il ristretto censo elettorale
della monarchia di luglio, che escludeva dal potere una grande parte della
borghesia stessa, era compatibile con l'esistenza della repubblica borghese. La
rivoluzione di febbraio aveva immediatamente proclamato, al posto di quel censo,
il suffragio universale diretto. I repubblicani borghesi non potevano sopprimere
questo fatto. Essi dovettero perciò accontentarsi di aggiungervi la clausola
restrittiva di un domicilio di sei mesi nel collegio elettorale. La vecchia
organizzazione amministrativa, municipale, giudiziaria, militare, ecc., rimase
immutata, e dove la Costituzione la modificava, la modificazione riguardava i
titoli dei capitoli, non il contenuto; i nomi, non la cosa.
L'inevitabile stato maggiore delle libertà del 1848, la libertà personale, la
libertà di stampa, di parola, di associazione, di riunione, di insegnamento e di
religione, ecc., indossarono una veste costituzionale che le rendeva
invulnerabili. Ognuna di queste libertà venne proclamata come diritto
assoluto del cittadino francese, ma con la costante nota marginale che essa
era illimitata nella misura in cui non le veniva posto un limite dagli
"eguali diritti di altri e dalla sicurezza pubblica", o dalle
"leggi", le quali hanno appunto il compito di mantenere questa armonia (delle
libertà individuali tra di loro e con la sicurezza pubblica). Per esempio: "I
cittadini hanno il diritto di associarsi, di riunirsi pacificamente e senz'armi,
di presentare petizioni e di esprimere le loro opinioni a mezzo della stampa o
con qualsiasi altro mezzo. Il godimento di questi diritti non ha altri limiti
che gli eguali diritti degli altri e la sicurezza pubblica" (Cap. II
della Costituzione francese, $ 8). - "L'insegnamento è libero. La libertà
dell'insegnamento deve essere esercitata nelle condizioni fissate dalla
legge e sotto il controllo supremo dello Stato" (Ibidem, $ 9). - "Il domicilio
di ogni cittadino è inviolabile, eccetto che nelle forme prescritte dalla
legge" (Cap. II, $ 3). E cosi via. - La Costituzione rinvia perciò continuamente
a future leggi organiche, che debbono spiegare quelle note marginali e
regolare il godimento di quelle libertà illimitate, in modo che esse non si
urtino a vicenda e non offendano la sicurezza pubblica. Le leggi organiche
vennero elaborate in seguito dagli amici dell'ordine, e tutte quelle libertà
vennero regolate in modo tale che la borghesia, nel godimento di esse, non si
urtasse agli uguali diritti delle altre classi. Tutte le volte che essa proibì
completamente "agli altri" queste libertà, o ne permise l'esercizio soltanto a
condizioni che sono altrettante trappole poliziesche, ciò avvenne sempre
nell'interesse della "sicurezza pubblica", cioè della sicurezza della
borghesia, così come prescrive la Costituzione. Perciò in seguito ebbero diritto
di appellarsi alla Costituzione tanto gli amici dell'ordine, che sopprimevano
tutte queste libertà, quanto i democratici, che le reclamavano integralmente.
Ogni paragrafo della Costituzione contiene infatti la sua propria antitesi, la
sua Camera alta e la sua Camera bassa: nella proposizione generale, la libertà,
nella nota marginale, la soppressione della libertà. Sino a che, dunque, il
nome della libertà venne rispettato e venne soltanto ostacolata, con mezzi
legali s'intende, la vera realizzazione di essa, l'esistenza costituzionale
della libertà rimase illesa, intatta, benché la sua esistenza reale
venisse distrutta.
Questa Costituzione, resa inviolabile in modo cosi ingegnoso, era però
vulnerabile in un punto, come Achille; non nel tallone, ma nella testa, o
piuttosto nelle due teste in cui culminava: l'Assemblea legislativa da
una parte, il presidente dall'altra. Si scorra la Costituzione, e si
vedrà che i soli paragrafi assoluti, positivi, senza contraddizioni,
incontrovertibili, sono quelli in cui sono determinati i rapporti del presidente
con l'Assemblea legislativa. Qui infatti si trattava, per i repubblicani
borghesi, di garantire se stessi. I paragrafi 45-70 della Costituzione sono
formulati in modo che l'Assemblea nazionale può costituzionalmente deporre il
presidente, mentre il presidente può sbarazzarsi dell'Assemblea nazionale solo
andando contro la Costituzione, solo sopprimendo la Costituzione stessa. In
questo modo dunque la Costituzione esige la propria soppressione violenta. Non
solo essa consacra, come la Carta del 1830, la divisione dei poteri, ma la
estende sino a farla diventare una intollerabile contraddizione. Il giuoco
dei poteri costituzionali, come Guizot chiamava le risse parlamentari tra il
potere legislativo e il potere esecutivo, secondo la Costituzione del 1848 viene
costantemente giocato va banque. Da una parte 750 rappresentanti del
popolo, eletti dal suffragio universale e rieleggibili, i quali costituiscono
un'Assemblea nazionale incontrollabile, indissolubile, indivisibile,
un'Assemblea nazionale che gode di una onnipotenza legislativa, che decide in
ultima istanza della guerra, della pace e dei trattati di commercio, che
possiede da sola il diritto di amnistia ed essendo permanente occupa
continuamente la ribalta della scena politica. Dall'altra parte il presidente,
con tutti gli attributi del potere regio, con la facoltà di nominare e di
revocare i suoi ministri indipendentemente dall'Assemblea nazionale, con tutti i
mezzi del potere esecutivo concentrati nelle sue mani, con la facoltà di
disporre di tutti gli impieghi e quindi di decidere in Francia dell'esistenza
per lo meno di un milione e mezzo di persone, giacché tale è il numero di coloro
che sono legati ai 500.000 impiegati e agli ufficiali di tutti i gradi. Egli ha
ai suoi ordini tutte le forze armate. Gode del privilegio di poter graziare i
criminali, di poter sospendere le guardie nazionali, di poter sciogliere,
d'accordo con il Consiglio di Stato, i Consigli generali, cantonali e municipali
eletti dai cittadini stessi. L'iniziativa e la direzione nella conclusione di
tutti i trattati con l'estero gli sono riservate. Mentre l'Assemblea è
continuamente sulla scena, esposta alla critica e indiscreta luce del giorno, il
presidente conduce un'esistenza ritirata nei Campi Elisi, avendo costantemente
davanti agli occhi e nel cuore l'articolo 45 della Costituzione, che
quotidianamente gli ripete: Frère, il faut mourir!Il tuo potere
scade la seconda domenica del bel mese di maggio del quarto anno dalla tua
elezione! Allora saran finiti gli splendori; la commedia non si ripete, e se hai
dei debiti, pensa a tempo a regolarli coi 600.000 franchi che ti largisce la
Costituzione, a meno che tu non preferisca andar a finire nella prigione di
Clichy, il secondo lunedì del bel mese di maggio! - Se la Costituzione
attribuisce in questo modo al presidente il potere di fatto, essa cerca di
assicurare all'Assemblea nazionale il potere morale. Ma prescindendo dal fatto
che è impossibile creare un potere morale con paragrafi di legge, la
Costituzione qui torna a distruggersi da sola, facendo eleggere il presidente da
tutti i francesi, a suffragio diretto. Mentre i voti della Francia si disperdono
sui 750 membri dell'Assemblea nazionale, qui invece si concentrano su un solo
individuo. Mentre ogni singolo rappresentante del popolo rappresenta
soltanto questo o quel partito, questa o quella città, questa o quella testa di
ponte, o anche semplicemente la necessità di eleggere un settecentocinquantesimo
qualunque, senza considerare troppo per il sottile ne la cosa, ne l'uomo,
egli è l'eletto della nazione, e l'atto della sua elezione è la briscola che
il popolo sovrano giuoca una volta ogni quattro anni. L'Assemblea nazionale
eletta è unita alla nazione da un rapporto metafisico, il presidente eletto è
unito alla nazione da un rapporto personale. E', ben vero che l'Assemblea
nazionale presenta nei suoi rappresentanti i molteplici aspetti dello spirito
nazionale; ma nel presidente questo spirito si incarna. Egli possiede rispetto
all'Assemblea una specie di diritto divino; egli è per grazia del popolo.
Teti, la dea del mare, aveva predetto ad Achille ch'egli sarebbe morto nel
fiore della gioventù. La Costituzione, che aveva il suo punto debole, come
Achille, aveva pure il presentimento, come Achille, che le sarebbe toccato
morire di morte prematura. Senza che Teti uscisse dal mare a confidare loro il
segreto, i repubblicani puri della Costituente non avevano che da abbassare lo
sguardo dal cielo nebuloso della loro repubblica ideale sul mondo profano, per
vedere come l'arroganza dei monarchici, dei bonapartisti, dei democratici, dei
comunisti, e il loro proprio discredito aumentassero di giorno in giorno, nella
stessa misura in cui si avvicinavano al compimento della loro grande opera
d'arte legislativa. Essi cercarono d'ingannare la sorte con l'astuzia
costituzionale dello articolo 111 della Costituzione, secondo cui ogni proposta
di revisione della Costituzione doveva essere votata in tre dibattiti
successivi, con un mese intiero di distanza l'uno dall'altro, da almeno tre
quarti dei voti, a condizione inoltre che partecipassero al voto almeno 500
membri dell'Assemblea nazionale. Essi facevano cosi il tentativo disperato di
continuare ad esercitare come minoranza parlamentare, a cui già nel loro spirito
profetico si vedevano ridotti, quel potere che di giorno in giorno sfuggiva
dalle loro deboli mani, nel momento in cui disponevano ancora della maggioranza
parlamentare e di tutti i mezzi del potere governativo.
Infine, in un paragrafo melodrammatico, la Costituzione affidava se stessa
"alla vigilanza e al patriottismo del popolo francese tutto intiero, come di
ogni francese in particolare", e ciò dopo aver essa stessa, in un altro
paragrafo, confidato i "vigilanti" e i "patrioti" alla tenera e feroce
attenzione della Corte suprema da essa inventata, la Haute Cour.
Tale era la Costituzione del 1848, che il 2 dicembre 1851 venne buttata a
terra dal contatto non con una testa, ma con un cappello; vero è che si trattava
del tricorno di Napoleone.
Mentre i repubblicani borghesi erano occupati, nell'Assemblea, a ponzare,
discutere e votare questa Costituzione, Cavaignac, al di fuori dell'Assemblea,
manteneva lo stato d'assedio a Parigi. Lo stato d'assedio a Parigi fu
l'ostetrico della Costituente durante i dolori del suo parto repubblicano. Se
più tardi la Costituzione venne soppressa a colpi di baionette, non sì deve
dimenticare che essa aveva dovuto essere difesa colle baionette, e spianate
contro il popolo, quando era ancora nel seno materno, e che era stata messa al
mondo dalle baionette. Gli avi dei "repubblicani dabbene" avevano fatto fare al
loro simbolo, il tricolore, il giro dell'Europa. I loro epigoni fecero anch'essi
una invenzione, che si aprì da sé il cammino per tutto il continente, per
ritornare in Francia con sempre rinnovato amore, fino ad acquistar diritto di
cittadinanza nella metà dei suoi dipartimenti. Questa invenzione si chiama lo
stato d'assedio. Invenzione eccellente, applicata periodicamente in ognuna
delle crisi che si succedettero nel corso della rivoluzione francese. Ma la
caserma e il bivacco, che così venivano imposti periodicamente alla società
francese per comprimerle il cervello e farla diventare una persona tranquilla;
la sciabola e il moschetto, cui si attribuivano periodicamente le funzioni di
giudice e di amministratore, di tutore e di censore, di poliziotto e di
guardiano notturno; i mustacchi e l'uniforme del soldato, che venivano
periodicamente esaltati come la saggezza suprema e la guida della società; - la
caserma e il bivacco, la sciabola e il moschetto, i mustacchi e l'uniforme da
soldato, non dovevano alla fine arrivare alla conclusione che era meglio salvare
la società una volta per sempre, proclamando il proprio regime come forma
suprema del regime politico e liberando la società borghese dalla preoccupazione
di governarsi da sé? La caserma e il bivacco, la sciabola e il moschetto, i
mustacchi e l'uniforme da soldato dovevano arrivare tanto più facilmente a
queste conclusioni, in quanto in tal caso avevano anche il diritto di aspettarsi
un miglior pagamento in contanti per questo loro grande merito, mentre negli
stati d'assedio semplicemente periodici e nei salvataggi fugaci della società
agli ordini di questa o di quella frazione della borghesia vi era in sostanza
poco da guadagnare, all'infuori di alcuni morti e feriti e di alcune
smorfie amichevoli della borghesia. Non dovevano dunque i militari giocare allo
stato d'assedio nel proprio interesse e per proprio conto e in pari tempo porre
l'assedio alle tasche della borghesia? Non si dimentichi del resto, sia detto di
sfuggita, che il colonnello Bernard, lo stesso presidente della
commissione militare che sotto Cavaignac aveva senza giudizio spedito alla
deportazione 15.000 insorti, in questo momento si trovava di nuovo alla testa
delle commissioni militari che funzionavano a Parigi.
Se i repubblicani dabbene e puri avevano preparato, con lo stato d'assedio di
Parigi, il terreno su cui dovevano crescere i pretoriani del 2 dicembre 1851,
essi però meritano un elogio, d'altra parte, perché invece di esagerare il
sentimento nazionale come sotto Luigi Filippo, ora che disponevano del potere
nazionale strisciavano davanti allo straniero, e invece di liberare l'Italia la
lasciavano riconquistare dagli austriaci e dai napoletani. L'elezione di Luigi
Bonaparte a presidente, il 10 dicembre 1848, pose fine alla dittatura di
Cavaignac e alla Costituente.
Nel paragrafo 44 della Costituzione è detto: "Il Presidente della Repubblica
francese non deve mai aver perduto la qualità di cittadino francese". Il primo
presidente della Repubblica francese, L. N. Bonaparte, non solo aveva perduto la
sua qualità di cittadino francese, non solo era stato un funzionario della
polizia inglese in servizio speciale, ma era persino naturalizzato svizzero.
Ho già spiegato altrove l'importanza dell'elezione del 10 dicembre. Non
ritornerò dunque su questo argomento. Qui è sufficiente rilevare che essa fu una
reazione dei contadini, che avevano dovuto pagare le spese della
rivoluzione di febbraio, contro le altre classi della nazione; una reazione
della campagna contro la città. Essa fu accolta con grande simpatia
dall'esercito, a cui i repubblicani del National non avevano procacciato
né gloria né vantaggi dalla grande borghesia, che salutò Bonaparte come un ponte
di transizione verso la monarchia; e dai proletari e dai piccoli borghesi, che
videro in lui il castigo per Cavaignac. Avrò occasione in seguito di esaminare
con maggiore attenzione la posizione dei contadini verso la rivoluzione
francese.
Il periodo che va dal 20 dicembre 1848 sino allo scioglimento della
Costituente nel maggio 1849 abbraccia la storia della caduta dei
repubblicani borghesi. Dopo aver fondato una repubblica per la borghesia,
sbarazzato il terreno dal proletariato rivoluzionario e ridotto temporaneamente
al silenzio la piccola borghesia democratica, essi stessi vengono messi in un
canto dalla massa della borghesia, che a buon diritto mette questa
repubblica sotto sequestro, come sua proprietà. Ma questa massa borghese
era monarchica. Una parte di essa, i grandi proprietari fondiari, aveva
dominato sotto la Restaurazione, e perciò era legittimista. Gli
altri, l'aristocrazia finanziaria dei grandi industriali, avevano dominato sotto
la monarchia di luglio, e perciò erano orleanisti. I grandi
dignitari dell'esercito, dell'università, della Chiesa, del barreau,
dell'accademia e della stampa si ripartivano tra queste due correnti, sebbene in
proporzioni disuguali. Nella repubblica borghese, che non portava né il nome dei
Borboni né quello degli Orléans, ma il nome di capitale,
essi avevano trovato la forma di Stato in cui potevano dominare in comune.
Già l'insurrezione di giugno li aveva tutti riuniti nel "partito
dell'ordine". Ora era necessario innanzi tutto sbarazzarsi della consorteria dei
repubblicani borghesi, che detenevano ancora i seggi dell'Assemblea nazionale.
Quanto questi repubblicani puri erano stati brutali nell'abusare della forza
fisica contro il popolo, altrettanto essi furono vili, pusillanimi, timorosi,
inetti, incapaci di lottare nel ritirarsi, ora che era giunto il momento di far
valere contro il potere esecutivo e contro i monarchici il loro repubblicanesimo
e il loro diritto legislativo. Non tocca a me raccontare qui la storia
ignominiosa della loro decomposizione. Non fu un tramonto, fu un svanire. La
loro storia finisce per sempre, e nel periodo seguente, sia all'interno che
all'esterno dell'assemblea, essi figurano soltanto come ricordi, che sembrano
rivivere ogni volta che ritorna a galla il solo nome della repubblica e ogni
volta che il conflitto rivoluzionario minaccia di scendere al livello più basso.
Noterò di sfuggita che il giornale che aveva dato il suo nome a questo partito,
il National, si converti, nel periodo successivo, al socialismo.
Prima di chiudere questo periodo dobbiamo ancora gettare uno sguardo
retrospettivo sui due poteri di cui l'uno distrusse l'altro il 2 dicembre 1851,
mentre dal 20 dicembre 1848 sino alla fine dell'Assemblea costituente erano
vissuti in buoni rapporti coniugali. Mi riferisco da una parte a Luigi Bonaparte,
dall'altra parte al partito dei monarchici coalizzati, al partito dell'ordine,
dell'alta borghesia. Assumendo la presidenza, Bonaparte formò immediatamente un
ministero del partito dell'ordine, alla testa del quale pose Odilon Barrot, il
vecchio capo, si noti bene, della frazione più liberale della borghesia
parlamentare. Il signor Barrot aveva finalmente messo le mani sul portafoglio
ministeriale la cui ombra lo perseguitava sin dal 1830, anzi, sulla presidenza
del Ministero. Ma egli non vi giungeva, come se l'era immaginato sotto Luigi
Filippo, in qualità di capo più avanzato dell'opposizione parlamentare; bensì
col compito di dare il colpo di grazia a un parlamento, e in qualità di alleato
di tutti i suoi nemici giurati, i gesuiti e i legittimisti.
Egli sposava finalmente la sua fidanzata, ma dopo che questa i era
prostituita. Quanto a Bonaparte, egli si ritirava, in apparenza, dietro le
quinte. Il partito dell'ordine lavorava per lui.
Sin dal primo consiglio dei ministri venne decisa la spedizione di Roma, e ci
si mise d'accordo di intraprenderla all'insaputa dell'Assemblea nazionale e di
strapparle sotto un falso pretesto i mezzi necessari, Si cominciò a questo modo
con una truffa verso l'Assemblea nazionale e con una cospirazione segreta con le
potenze assolute dell'estero contro la repubblica romana rivoluzionaria. Allo
stesso modo e con le stesse manovre Bonaparte preparò il suo colpo del 2
dicembre contro l'Assemblea legislativa monarchica e contro la sua repubblica
costituzionale. Non dimentichiamo che lo stesso partito che il 20 dicembre 1848
formava il ministero di Bonaparte, il 2 dicembre 1851 formava la maggioranza
dell'Assemblea nazionale legislativa.
La Costituente aveva deciso in agosto di non sciogliersi prima di aver
elaborato e promulgato tutta una serie di leggi organiche, destinate a
completare la Costituzione. Il 6 gennaio 1849 il partito dell'ordine le fece
proporre, a mezzo del suo rappresentante Rateau, di lasciar correre le leggi
organiche e di decidere piuttosto il proprio scioglimento. Non solo il
ministero con a capo Odilon Barrot, ma tutti i membri monarchici
dell'Assemblea nazionale dimostrarono all’Assemblea in questo momento che il suo
scioglimento era necessario per il ristabilimento del credito, per il
consolidamento dell'ordine, per metter fine alla situazione provvisoria e
confusa e creare uno stato di cose definitivo; le dimostrarono ch'essa
intralciava la produttività del nuovo governo e cercava di prolungare la propria
esistenza per puro rancore, mentre il paese era stanco di lei. Bonaparte
prendeva nota di tutte queste invettive contro il potere legislativo, le
imparava a memoria, e il 2 dicembre 1851 mostrò ai monarchici del parlamento che
aveva ben imparato da loro. E ritorse contro di loro i loro stessi argomenti.
Il ministero Barrot e il partito dell'ordine andarono più avanti.
Organizzarono in tutta la Francia delle petizioni all'Assemblea nazionale,
nelle quali questa era garbatamente invitata ad andarsene. Diressero così e
infiammarono contro l'Assemblea nazionale, espressione costituzionalmente
organizzata del popolo, le masse del popolo inorganizzate, insegnarono a
Bonaparte a fare appello al popolo contro le assemblee parlamentari. Infine, il
29 gennaio 1849, arrivò il giorno in cui la Costituente doveva decidere del
proprio scioglimento. L'Assemblea nazionale trovò il locale delle proprie
riunioni occupato militarmente; Changarnier, il generale del partito dell'ordine
nelle cui mani era riunito il comando supremo della Guardia nazionale e delle
truppe di linea, organizzò in Parigi una grande rivista, come se si fosse alla
vigilia di una. battaglia, e i monarchici coalizzati dichiararono in tono
minaccioso all'Assemblea che se non fosse stata arrendevole si sarebbe fatto
ricorso alla forza. L'Assemblea fu arrendevole e mercanteggiò soltanto un breve
rinvio. Che cosa fu il 29 gennaio, se non il coup d'Etat del 2 dicembre
1851, perpetrato contro l'Assemblea nazionale repubblicana dai monarchici
insieme con Bonaparte? Quei signori non notarono e non vollero notare che
Bonaparte sfruttò il 29 gennaio 1849 per far sfilare una parte delle truppe
davanti alle Tuileries e davanti a se, e colse avidamente a volo questo primo
appello pubblico al potere militare contro il potere parlamentare per far
presagire Caligola. Essi non vedevano che il loro Changarnier.
Una delle ragioni che spingevano in modo particolare il partito dell'ordine
ad abbreviare con la violenza la vita della Costituente, erano le leggi
organiche destinate a completare la Costituzione, come la legge
sull'insegnamento, sui culti, ecc. I monarchici coalizzati volevano ad ogni
costo fare essi queste leggi e non volevano lasciarle fare dai repubblicani
diventati diffidenti. Tra queste leggi organiche ve n'era anche una circa la
responsabilità del Presidente della Repubblica. Nel 1851 l'Assemblea legislativa
era precisamente intenta alla elaborazione di una legge simile, quando Bonaparte
prevenne il colpo col colpo del 2 dicembre. Che cosa non avrebbero dato i
monarchici coalizzati, nella loro campagna parlamentare d'inverno del 1851, per
trovare bella e fatta la legge sulla responsabilità, e fatta da un'Assemblea
repubblicana diffidente e piena d'odio!
Dopo che la Costituente ebbe spezzato il 29 gennaio 1849 la sua ultima arma,
il ministero Barrot e gli amici dell'ordine la spinsero alla morte, non
risparmiarono nulla di ciò che poteva umiliarla, e strapparono alla sua
debolezza disperata delle leggi che le costarono gli ultimi residui di stima di
cui ancora godeva nel pubblico. Bonaparte, preso dalla sua idea fissa
napoleonica, fu tanto audace da sfruttare pubblicamente questa degradazione del
potere parlamentare. Quando infatti l'Assemblea nazionale, l'8 maggio 1849,
inflisse un voto di biasimo al ministero per l'occupazione di Civitavecchia da
parte di Oudinot, e ordinò che la spedizione romana venisse ricondotta ai suoi
scopi presunti, la stessa sera Bonaparte pubblicò nel Moniteur una
lettera a Oudinot in cui lo felicitava per le sue gesta eroiche, e posò a
protettore magnanimo dell'esercito in contrapposto ai pennaiuoli del Parlamento.
I monarchici sorrisero. Credevano che egli fosse semplicemente il loro dupe.
Infine quando Marrast, presidente della Costituente, credette per un istante
in pericolo la sicurezza dell'Assemblea nazionale e, forte della Costituzione,
requisì un colonnello col suo reggimento, il colonnello, richiamandosi alla
disciplina, lo rinviò a Changarnier, il quale respinse con ironia la sua
richiesta facendogli notare che non gli piacevano le bayonettes intelligents.
Nel novembre 1851, quando i monarchici coalizzati vollero impegnare la
battaglia decisiva contro Bonaparte, essi cercarono, nella loro famigerata
"legge dei questori" di attuare il principio della requisizione
diretta delle truppe da parte del presidente dell'Assemblea nazionale. Uno dei
loro generali, Lefló, aveva firmato il progetto di legge. Invano Changarnier
votò per la proposta e Thiers rese omaggio alla chiaroveggenza della vecchia
Costituente. Il Ministro della guerra Saint-Arnaud gli rispose
colle stesse parole con cui Changarnier aveva risposto a Marrast, e tra
gli applausi della Montagna.
In questo modo il partito dell'ordine, quando non era ancora Assemblea
nazionale, quando era ancora soltanto ministero, aveva screditato il regime
parlamentare. E si mette a strillare quando il 2 dicembre 1851
lo bandì dalla Francia!
Noi gli auguriamo buon viaggio.
III
Il 29 maggio 1849 si riunì l'Assemblea nazionale legislativa.
Il 2 dicembre 1851 essa fu sciolta. Questo periodo abbraccia tutta
l'esistenza della repubblica costituzionale o parlamentare.
Nella prima rivoluzione francese al dominio dei costituzionali segue
il dominio dei girondini, e al dominio dei girondini il
dominio dei giacobini. Ognuno di questi partiti si appoggia su
quello che è più avanzato di lui. Non appena ha portato la rivoluzione tanto
avanti che, nonché precederla, non può più nemmeno seguirla, viene scartato
dall'alleato più ardito che è dietro di lui e viene mandato alla ghigliottina.
Così la rivoluzione si sviluppa secondo una linea ascendente.
Il contrario succede nella rivoluzione dei 1848. Il partito proletario si
presenta come appendice dei partito democratico piccolo-borghese. Questo
tradisce il primo e lo lascia cadere il 16 aprile, il 15 maggio e nelle giornate
di giugno. Il partito democratico, a sua volta, si appoggia alle spalle del
partito repubblicano borghese. Non appena i repubblicani borghesi credono di
avere una base solida si sbarazzano dell'inopportuno compagno e si appoggiano a
loro volta alle spalle del partito dell'ordine. Ma questo scrolla le spalle,
manda a gambe all'aria i repubblicani borghesi e si appoggia alle spalle della
forza armata. Crede ancora di poggiare sopra di esse quando un bel mattino si
accorge che le spalle si sono cambiate in baionette. Ogni partito recalcitra
contro quello che lo spinge in avanti, e si appoggia a quello che lo spinge
indietro. Non fa maraviglia che in questa posizione ridicola perda l'equilibrio,
e dopo inevitabili smorfie, cada al suolo con strane capriole. Così la
rivoluzione si sviluppa secondo una linea discendente. Essa ha già iniziato
questo movimento all'indietro prima ancora che l'ultima barricata di febbraio
sia stata demolita e sia stata costituita la prima autorità rivoluzionaria.
Il periodo che ci sta dinanzi presenta il miscuglio più bizzarro di
contraddizioni stridenti: costituzionali che cospirano apertamente contro la
Costituzione; rivoluzionari che sono, per loro confessione, costituzionali;
un'Assemblea nazionale che vuol essere onnipotente e rimane esclusivamente
parlamentare; una Montagna che fa della sopportazione la sua professione e mette
riparo alle disfatte presenti con la profezia di vittorie future; monarchici che
fanno i patres conscripti della repubblica e sono costretti dalla
situazione a mantenere in esilio le avverse case reali di cui sono fautori e a
conservare in Francia la repubblica che odiano; un potere esecutivo che trova la
sua forza nella sua debolezza stessa, e la sua rispettabilità nel disprezzo che
ispira; una repubblica che non è altro che l'infamia combinata di due monarchie,
della Restaurazione e della monarchia di luglio, sotto un'etichetta
imperialistica; unioni la cui prima clausola è la scissione; battaglie la cui
prima legge è la mancanza di decisione; in nome dell'ordine una agitazione
confusa e senza contenuto; in nome della rivoluzione la più solenne predicazione
di pace; passioni senza verità, verità senza passione, eroi senza azioni
eroiche, storia senza avvenimenti; una evoluzione la cui unica molla sembra
essere il calendario, e che stanca per la ripetizione costante degli stessi
momenti di tensione e di distensione; contrasti che sembrano acutizzarsi
periodicamente soltanto per attutirsi e precipitare, senza riuscire a
risolversi; sforzi presuntuosi e ostentati e paure della borghesia davanti al
pericolo della fine del mondo, e da parte dei salvatori del mondo, in pari
tempo, i più meschini intrighi e le commedie di palazzo più meschine, che nel
loro laisser aller ricordano piuttosto i tempi della fronda che il giorno
del giudizio universale; tutto il genio ufficiale della Francia messo alla gogna
dalla astuta dappocaggine di un solo individuo; la volontà collettiva della
nazione, ogni volta che si esprime nel suffragio universale, cerca la sua
espressione adeguata nei nemici inveterati degl'interessi delle masse, sino a
che la trova finalmente nell'arbitrio di un filibustiere. Se mai epoca della
storia è stata dipinta in grigio su grigio, è ben questa. Uomini e avvenimenti
appaiono come degli Schlemihl a rovescio, come ombre cui è stato tolto il corpo.
La rivoluzione stessa paralizza i suoi fautori e riempie di violenza e di
passione soltanto i suoi avversari. Quando finalmente appare lo "spettro rosso",
continuamente evocato e scongiurato dai controrivoluzionari, esso non appare col
berretto frigio dell'anarchia sul capo, ma nell'uniforme dell'ordine, in
pantaloni rossi.
Abbiamo visto che il ministero installato dal Bonaparte il 20 dicembre 1848,
il giorno della sua ascensione era un ministero del partito dell'ordine, della
coalizione legittimista e orleanista. Questo ministero Barrot-Falloux era
sopravvissuto alla Costituente repubblicana, di cui aveva più o meno
violentemente abbreviato l'esistenza, e si trovava ancora al potere. Changarnier,
il generale dei monarchici coalizzati, continuava a riunire nella sua persona il
comanda generale della prima divisione militare e quello della Guardia nazionale
di Parigi. Le elezioni generali avevano finalmente assicurato al partito
dell'ordine una grande maggioranza nell'Assemblea nazionale. I deputati e i pari
di Luigi Filippo s'imbatterono in una sacra falange di legittimisti, per i quali
le numerose schede elettorali della nazione erano diventate biglietti d'ingresso
alla scena politica. I rappresentanti del popolo bonapartisti erano troppi rari,
per poter formare un partito parlamentare indipendente. Essi apparivano soltanto
come mauvaise queue del partito dell'ordine. In questo modo il
partita dell'ordine si trovava in possesso del potere governativo, dell'esercito
e dei corpo legislativo, in una parola di tutto il potere dello Stato; ed era
stato rafforzato moralmente dalle elezioni generali, che facevano apparir il sui
dominio come espressione della volontà dei popolo, e dalla contemporanea
vittoria della controrivoluzione su tutto il continente europeo.
Mai partito era entrato in campagna con mezzi più rilevanti e sotto più
favorevoli auspici.
I repubblicani puri, superstiti dal naufragio, si trovarono ridotti
nell'Assemblea nazionale legislativa a una cricca di circa cinquanta uomini, con
a capo i generali africani Cavaignac, Lamoricière, Bedeau. Ma il grande partito
d'opposizione era costituito dalla Montagna. Con questo nome si era
battezzato il partito socialdemocratico. Esso disponeva di più di
duecento dei settecentocinquanta voti dell'Assemblea nazionale ed era quindi per
lo meno altrettanto forte quanto una qualsiasi delle tre frazioni del partito
dell'ordine prese separatamente. La sua posizione di minoranza relativa rispetto
all'assieme della coalizione monarchica appariva compensata da circostanze
particolari. Non soltanto le elezioni dipartimentali avevano dimostrato ch'esso
si era conquistato un'influenza considerevole tra la popolazione delle campagne,
ma contava nel suo seno quasi tutti i deputati di Parigi. L'esercito aveva fatto
una dichiarazione di fede democratica eleggendo tre sottufficiali; e il capo
della Montagna, Ledru-Rollin, a differenza di tutti i rappresentanti del partito
dell'ordine, era stato elevato alla dignità parlamentare da cinque dipartimenti
i quali avevano raccolto i loro suffragi sul suo nome. Il 29 maggio 1849,
dunque, dato che era inevitabile che le diverse frazioni monarchiche venissero
tra di loro a conflitto, e che il partito dell'ordine come tale venisse a
conflitto con Bonaparte, la Montagna sembrava aver davanti a sé tutti gli
elementi del successo. Quindici giorni dopo aveva perduto tutto. Compreso
l'onore.
Prima di procedere nella storia parlamentare sono necessarie alcune
osservazioni, per evitare le consuete illusioni circa il carattere dell'epoca
che ci sta davanti. Secondo il modo di vedere dei democratici, durante tutto il
periodo dell'Assemblea nazionale legislativa, si trattava, come nel periodo
della Costituente, della semplice lotta tra repubblicani e monarchici Ma il
movimento stesso essi lo riassumono in una sola parola: "reazione"
notte in cui tutti i gatti sono grigi, e che permette loro di ripetere i loro
luoghi comuni da guardiani notturni. Non vi è dubbio che a prima vista il
partito dell'ordine presenta un groviglio di varie frazioni monarchiche, che non
solo intrigano l'una contro l'altra per elevare al trono ciascuna il proprio
pretendente e dare scacco al pretendente del partito avverso, ma sono
pure tutte unite nell'odio comune e nei comuni attacchi contro la "repubblica".
La Montagna invece, in opposizione a questa cospirazione monarchica. appare come
il rappresentante della "repubblica". Il Partito dell'ordine sembra
continuamente occupato a un'opera di "reazione" che si dirige, né più né meno
che in Prussia, contro la stampa, il diritto di associazione, e simili e si
traduce, come in Prussia, in brutali inframmettenze poliziesche della
burocrazia, della gendarmeria e dell'autorità giudiziaria. La "Montagna", dal
canto suo, è continuamente occupata a respingere questi attacchi e a difendere,
quindi, i "diritti eterni dell'uomo", come più o meno hanno fatto da circa un
secolo e mezzo tutti i partiti cosiddetti popolari. Ma se si considerino la
situazione e i partiti più da vicino, questa apparenza superficiale, che
nasconde la lotta di classe e la peculiare fisionomia di questo periodo,
scompare.
Legittimisti e orleanisti costituivano, come s'è detto, le due grandi
frazioni del partito dell'ordine. Ma ciò che univa queste frazioni ai loro
pretendenti e le opponeva l'una all'altra non era forse qualcos'altro che il
giglio e il tricolore la casa di Borbone e la casa di Orléans, una diversa
sfumatura nello spirito monarchico e, in generale, la professione di fede nella
monarchia? Sotto i Borboni aveva regnato la grande proprietà terriera,
coi suoi preti e i suoi lacchè; sotto gli Orléans l'alta finanza, la grande
industria, il grande commercio, cioè il capitale, col suo seguito di
avvocati, professori e retori. La monarchia legittima era soltanto l'espressione
politica del dominio ereditario dei grandi proprietari fondiari, mentre la
monarchia di luglio non era altro che l'espressione politica del dominio
usurpato dei parvenus borghesi. Dunque ciò che opponeva l'una all'altra
queste frazioni non erano dei cosiddetti princìpi, erano le condizioni materiali
d'esistenza, due diverse specie della proprietà; era il vecchio contrasto tra la
città e la campagna, la rivalità tra il capitale e la proprietà fondiaria. Che
in pari tempo vecchi ricordi, ostilità personali, timori e speranze, pregiudizi
e illusioni, simpatie e antipatie, convinzioni, articoli di fede e principi
legassero all'una o all'altra delle case reali, non lo si può negare. Al di
sopra delle differenti norme di proprietà e delle condizioni sociali di
esistenza si eleva tutta una sovrastruttura di impressioni, di illusioni, di
particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita. La classe
intiera crea questa sovrastruttura e le dà una forma sulla base delle sue
proprie condizioni materiali e delle corrispondenti relazioni sociali.
L'individuo singolo, cui queste cose pervengono attraverso la tradizione e
l'educazione, può immaginarsi che esse costituiscano i veri motivi determinanti
e il punto di partenza della sua attività. Benché gli orleanisti, i
legittimisti, ogni frazione, cercasse di persuadere se stessa e di persuadere la
frazione avversa che ciò che le divideva era il fatto che ciascuna di esse
sosteneva la propria casa regnante, la realtà doveva provare in seguito che era
piuttosto la divergenza dei loro interessi a impedire l'unione delle due case. E
come nella vita privata si fa distinzione tra ciò che un uomo pensa e dice di sé
e ciò che dice e fa in realtà, tanto più nelle lotte della storia si deve far
distinzione fra le frasi e le pretese dei partiti e il loro organismo reale e i
loro reali interessi, tra ciò che essi si immaginano di essere e ciò che in
realtà sono. Orleanisti e legittimisti si trovano gli uni accanto agli altri
nella repubblica con eguali pretese. Se ognuna delle due frazioni voleva
conseguire, contro l'altra, la restaurazione della propria casa
reale, ciò non significava altro se non che i due grandi interessi che
dividono la borghesia - la proprietà fondiaria e il capitale -
cercavano, ognuno per conto suo, di restaurare la propria supremazia e la
subordinazione dell'interesse opposto. E parliamo di due interessi della
borghesia perché la grande proprietà fondiaria, malgrado civettasse col
feudalismo e malgrado il suo orgoglio di razza, era, in conseguenza dello
sviluppo della società moderna, completamente imborghesita. Così in Inghilterra
i tories si immaginarono per molto tempo di essere entusiasti della
monarchia, della Chiesa e delle bellezze della vecchia costituzione inglese,
sino a che il pericolo strappò loro la confessione che erano entusiasti soltanto
della rendita fondiaria.
I monarchici coalizzati intrigavano gli uni contro gli altri nella stampa, a
Ems, a Claremont, fuori del Parlamento. Dietro le quinte tornavano a indossare
le loro vecchie livree orleaniste e legittimiste e riprendevano i loro vecchi
tornei. Ma sulla pubblica scena, nelle loro azioni capitali e statali, come
grande partito parlamentare, facevano alle loro rispettive case reali delle
semplici riverenze e rinviavano in infinitum la restaurazione della
monarchia. Essi adempivano la loro vera funzione come partito dell'ordine,
cioè sotto una bandiera sociale, non sotto una bandiera politica;
come rappresentanti dell'ordinamento borghese e non come cavalieri serventi
di principesse erranti; come classe borghese contro altre classi e non come
monarchici contro i repubblicani. E come partito dell'ordine essi hanno
esercitato sulle altre classi della società un dominio più illimitato e più duro
di quello che avevano esercitato sotto la Restaurazione o sotto la monarchia di
luglio, un dominio che era possibile, in generale, soltanto nella forma
della repubblica parlamentare, perché soltanto sotto questo regime le due grandi
frazioni della borghesia francese potevano unirsi e porre quindi all'ordine dei
giorno il dominio della loro classe, anziché il regime di una sua frazione
privilegiata. E se, ciò malgrado, anche come partito dell'ordine, essi insultano
la repubblica e danno libero corso alla loro avversione per essa, questo avviene
soltanto grazie alle reminiscenze monarchiche. Il loro istinto li avvertiva che,
se era vero che la repubblica rendeva completo il loro dominio politico, essa
minava però in pari tempo la loro base sociale, perché ora erano costretti ad
affrontarsi con le classi oppresse e a lottare contro di esse senza
intermediari, senza lo schermo della corona, senza poter sviare l'interesse
della nazione con le loro lotte reciproche secondarie e con le lotte contro la
monarchia. Era un senso di debolezza che li faceva arretrare tremando davanti
alle condizioni pure del loro proprio dominio di classe e faceva loro
rimpiangere le forme meno complete, meno sviluppate, e quindi prive di pericoli,
di questo stesso dominio. Al contrario, ogni volta che i monarchici coalizzati
entrano in conflitto col pretendente che sta loro di fronte, con Bonaparte, ogni
volta che credono la loro onnipotenza parlamentare minacciata dal potere
esecutivo, ogni volta, dunque, che debbono presentare il titolo politico del
loro dominio, essi si presentano come repubblicani e non come
monarchici, a partire dall'orleanista Thiers, il quale ammonisce l'Assemblea
nazionale che la repubblica è il regime che meno li divide, sino al legittimista
Berryer, che il 2 dicembre 1851, cinta la sciarpa tricolore e fattosi tribuno,
arringa il popolo davanti al palazzo municipale del 10° mandamento, in nome
della repubblica. Ma la eco beffarda gli risponde: "Enrico V! Enrico V!".
Di fronte alla borghesia coalizzata si era formata una coalizione di piccoli
borghesi e di operai, il cosiddetto partito socialdemocratico. I
piccoli borghesi si erano visti mal ricompensati dopo le giornate del giugno
1848; i loro interessi materiali erano minacciati, e le garanzie democratiche,
che avrebbero dovuto permetter loro di far valere questi interessi, erano messe
in forse dalla controrivoluzione. Perciò si avvicinavano agli operai. La loro
rappresentanza parlamentare, d'altra parte, la Montagna, messa in
disparte sotto la dittatura dei repubblicani borghesi durante la seconda metà
della vita della Costituente aveva riconquistato la sua popolarità lottando
contro Bonaparte e contro i ministri monarchici. Essa aveva concluso un'alleanza
coi capi socialisti. Nel febbraio 1849 si organizzarono dei banchetti di
riconciliazione. Venne abbozzato un programma comune, vennero formati dei
comitati elettorali comuni e vennero presentati dei candidati comuni. Alle
rivendicazioni sociali del proletariato venne smussata la punta rivoluzionaria e
data una piega democratica. Alle pretese democratiche della piccola borghesia
venne tolto il carattere puramente politico e dato rilievo alla loro punta
socialista. Così sorse la Socialdemocrazia. La nuova Montagna, che
fu il risultato di questa combinazione, tolti alcuni elementi della classe
operaia che facevano da comparse, e alcuni membri delle sètte socialiste
conteneva gli stessi elementi della vecchia Montagna, ma era numericamente più
forte. Nel corso degli avvenimenti, però, si era mutata, al pari della classe
che essa rappresentava. Il carattere proprio della socialdemocrazia si riassume
nel fatto che vengono richieste istituzioni democratiche repubblicane non come
mezzi per eliminare entrambi gli estremi, il capitale e il lavoro salariato, ma
come mezzi per attenuare il loro contrasto e trasformarlo in armonia. Ma per
quanto diverse siano le misure che possono venir proposte per raggiungere questo
scopo, per quanto queste misure si possano adornare di rappresentazioni più o
meno rivoluzionarie, il contenuto rimane lo stesso. Questo contenuto è la
trasformazione della società per via democratica, ma una trasformazione che non
oltrepassa il quadro della piccola borghesia. Non ci si deve rappresentare le
cose in modo ristretto, come se la piccola borghesia intendesse difendere per
principio un interesse di classe egoistico. Essa crede, il contrario, che le
condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni
generali, entro alle quali soltanto la società moderna può essere salvata e
la lotta di classe evitata. Tanto meno si deve credere che i rappresentanti
democratici siano tutti shopkrepers
o che nutrano per questi un'eccessiva tenerezza. Possono essere lontani dai
bottegai, per cultura e situazione personale, tanto quanto il cielo è lontano
dalla terra. Ciò che fa di essi i rappresentanti del piccolo borghese è il fatto
che la loro intelligenza non va al di là dei limiti che il piccolo borghese
stesso non oltrepassa nella sua vita, e perciò essi tendono, nel campo della
teoria, agli stessi compiti e ,alle stesse soluzioni a cui l'interesse materiale
e la situazione sociale spingono il piccolo borghese nella pratica. Tale è, in
generale, il rapporto che passa tra i rappresentanti politici e letterari di una
classe e la classe che essi rappresentano.
Da quanto si è detto è ovvio che se la Montagna lotta continuamente contro il
partito dell'ordine per la repubblica e per i cosiddetti diritti dell'uomo, né
la repubblica né i diritti dell'uomo sono il suo scopo supremo: così come un
esercito che si cerca di disarmare, e che resiste, non entra in campo solo per
restare in possesso delle proprie armi.
Il partito dell'ordine provocò la Montagna sin dall'apertura dell'Assemblea
nazionale. La borghesia sentiva ora la necessità di finirla con i piccoli
borghesi democratici, come un anno prima aveva compreso la necessità di finirla
col proletariato rivoluzionario. Ma la situazione dei nemico era diversa. La
forza del partito proletario era nella strada, quella dei piccoli borghesi
nell'Assemblea nazionale stessa. Si trattava quindi di attirarlo dall'Assemblea
nazionale nella strada e di spingerlo a spezzare da sé la propria forza
parlamentare, prima che il tempo e le occasioni potessero consolidarla. La
Montagna si precipitò a occhi chiusi nella trappola.
Il bombardamento di Roma da parte delle truppe francesi fu l'esca che le
venne lanciata. Esso costituiva una violazione dell'articolo V della
Costituzione, che proibiva alla repubblica francese di impiegare le sue forze
militari contro le libertà di un altro popolo. Inoltre l'articolo 54 proibiva
pure ogni dichiarazione di guerra da parte del potere esecutivo senza il
consenso dell'Assemblea nazionale; e la Costituente, colla sua decisione dell'8
maggio, aveva disapprovato la spedizione romana. Fondandosi su questi fatti,
l’11 giugno 1849 Ledru-Rollin depose un atto d'accusa contro Bonaparte e i suoi
ministri. Irritato dalle punture di spillo di Thiers, egli si lasciò trascinare
a minacciare di voler difendere la Costituzione con tutti i mezzi, e anche con
le armi alla mano. La Montagna si levò come un sol uomo e ripeté questo appello
alle armi. Il 12 giugno l'Assemblea nazionale respinse l'atto di accusa, e la
Montagna abbandonò il Parlamento. Gli avvenimenti del 13 giugno sono conosciuti:
il proclama di una parte della Montagna, secondo cui Bonaparte e i suoi ministri
erano dichiarati "fuori della Costituzione"; la pacifica dimostrazione di strada
delle guardie nazionali democratiche che, disarmate come erano, si dispersero al
primo incontro con le truppe di Changarnier, ecc., ecc. Una parte della Montagna
fuggi all'estero, un'altra parte venne deferita all'Alta Corte di Bourges, e un
regolamento parlamentare sottopose il resto alla sorveglianza pedantesca del
presidente dell'Assemblea nazionale. Parigi venne di nuovo dichiarata in stato
di assedio, e la parte democratica della sua Guardia nazionale venne sciolta.
Così vennero spezzate l'influenza della Montagna nel Parlamento e la forza dei
piccoli borghesi a Parigi.
Lione, che il 13 giugno aveva dato il segnale di una sanguinosa insurrezione
operaia, venne pure dichiarata in stato di assedio insieme ai cinque
dipartimenti circonvicini, e questo stato d'assedio dura tuttora.
Il grosso della Montagna aveva lasciato in asso la propria avanguardia,
negando le firme al suo proclama. La stampa aveva disertato, perché solo due
giornali avevano osato rendere pubblico il pronunciamento. I piccoli borghesi
tradirono i loro rappresentanti, perché le guardie nazionali rimasero a casa e,
dove apparvero, impedirono la costruzione di barricate. I rappresentanti avevano
ingannato i piccoli borghesi perché non fu possibile vedere da nessuna parte i
cosiddetti affiliati ch'essi avevano nell'esercito. Infine, invece di trarre dal
proletariato nuove forze, il partito democratico aveva trasmesso al proletariato
la propria debolezza e, come avviene di solito nelle grandi azioni democratiche,
i capi avevano la soddisfazione di poter accusare il loro "popolo" di diserzione
e il popolo aveva la soddisfazione di poter accusare i suoi capi di averlo
gabbato.
Raramente un'azione era stata annunciata con maggior fracasso dell'imminente
campagna della Montagna, raramente un avvenimento era stato lanciato a suon di
tromba con maggior sicurezza e più tempo prima come una vittoria inevitabile
della democrazia. Non vi è dubbio: i democratici credono alle trombe, agli
squilli delle quali crollarono le mura di Gerico, e ogni volta che si trovano di
fronte alle mura del dispotismo cercano di ripetere il miracolo. Se la Montagna
voleva vincere nel Parlamento, non doveva fare appello alle armi. Se faceva
appello alle armi nel Parlamento, non doveva però comportarsi in modo
parlamentare nella strada. Se si pensava seriamente a una dimostrazione
pacifica, era però sciocco non prevedere che essa sarebbe stata accolta in modo
bellicoso. Se si prevedeva una vera battaglia, era strano deporre le armi con
cui la battaglia doveva essere condotta. Ma le minacce rivoluzionarie dei
piccoli borghesi e dei loro rappresentanti democratici sono semplici tentativi
di intimidire l'avversario. E quando si sono cacciati in un vicolo cieco, quando
si sono compromessi a un punto tale che sono costretti a tradurre in atto le
loro minacce, ciò viene fatto in modo equivoco, che non evita altro che i mezzi
adatti allo scopo e cerca avidamente dei pretesti di disfatta. Il rimbombante
preludio che annunciava la battaglia si perde in un debole mormorio non appena
questa dovrebbe incominciare; gli attori cessano di prendersi au sérieux
e l'azione fallisce in modo lamentevole, come un pallone forato con uno spillo.
Nessun partito più del democratico esagera a se stesso i propri mezzi,
nessuno s'inganna con maggior leggerezza circa la situazione. Poiché una parte
dell'esercito le aveva dato i suoi voti, la Montagna era convinta che l'esercito
sarebbe insorto in suo favore. E in che occasione? In un'occasione che, secondo
il modo di vedere delle truppe, non aveva altro senso se non che i rivoluzionari
prendevano partito per i soldati romani contro i soldati francesi. D'altra parte
i ricordi dei giugno 1848 erano ancora troppo freschi, perché non dovesse
esistere una profonda avversione del proletariato contro la Guardia nazionale e
una profonda diffidenza dei capi delle società segrete per i capi democratici.
Perché queste divergenze venissero appianate era necessario che fossero in gioco
dei grandi interessi comuni. La violazione di un astratto paragrafo della
Costituzione non poteva presentare questo intesse. La Costituzione non era stata
violata ripetutamente, secondo quanto confessavano i democratici stessi? I
giornali più popolari non avevano ballato la Costituzione come un ordigno
controrivoluzionario? Ma il democratico, poiché rappresenta la piccola
borghesia, cioè una classe intermedia, in seno alla quale si smussano in
pari tempo gli interessi di due classi, si immagina di essere superiore, in
generale, ai contrasti di classe. I democratici riconoscono di aver davanti a sé
una classe privilegiata, ma essi, con tutto il resto della nazione che li
circonda, costituiscono il popolo. Ciò che essi rappresentano è il
diritto del popolo; ciò che li interessa è l'interesse del popolo.
Essi non hanno dunque bisogno, prima di impegnare una lotta, di saggiare
gli interessi e le posizioni delle diverse classi. Non hanno bisogno di
ponderare troppo accuratamente i propri mezzi. Non hanno che da lanciare il
segnale, perché il popolo, con tutte le sue inesauribili risorse, si scagli
sugli oppressori . Se poi, all'atto pratico, i loro interessi si
rivelano non interessanti e la loro forza un'impotenza, la colpa o è di quegli
sciagurati sofisti che dividono il popolo indivisibile in diversi campi
nemici; o dell'esercito, troppo abbrutito e troppo accecato per comprendere che
i puri scopi della democrazia sono il proprio bene; o di un particolare
dell'esecuzione che ha fatto fallire l'assieme; o di un caso imprevisto che, per
quella volta, ha fatto andare a monte tutto l'affare. Ad ogni modo, il
democratico esce sempre senza macchia dalla più grave sconfitta, come senza
colpa vi è entrato, e ne esce con la rinnovata convinzione che egli deve
vincere, non che egli stesso e il suo partito dovranno cambiare il loro vecchio
modo di vedere, ma, al contrario, che gli avvenimenti, maturando, gli dovranno
venire incontro.
Non ci si deve dunque immaginare che la Montagna, decimata, spezzata,
umiliata dal nuovo regolamento parlamentare, fosse troppa infelice. Se il 13
giugno aveva eliminato i suoi capi, esso aveva però fatto posto a uomini di
second'ordine, che la nuova situazione lusingava. Se la loro impotenza in
Parlamento non poteva più venir messa in dubbio, essi erano dunque in diritto di
limitare la loro attività a scoppi di indignazione morale e declamazioni
rumorose. Se il partito dell'ordine fingeva di vedere in essi, ultimi
rappresentanti .ufficiali della rivoluzione, l'incarnazione di tutti gli orrori
dell'anarchia, essi potevano quindi essere in realtà altrettanto più banali e
moderati. Del 13 giugno essi si consolarono con questa frase profonda: Ma che
non si osi metter mano sul suffragio universale! Allora mostreremo quello che
siamo! Nous verrons.
Quanto ai Montagnardi fuggiti all'estero, basterà osservare qui che
Ledru-Rollin, poiché era riuscito a rovinare senza via di scampo, in appena due
settimane, il potente partito alla testa del quale si trovava, per questo
si credette designato a fondare un governo francese in partibus; che la
sua figura, nella lontananza, fuori del terreno dell'azione, sembrò ingrandirsi,
a misura che il livello della rivoluzione cadeva e le grandezze ufficiali della
Francia ufficiale si facevano più minuscole; che egli poté presentarsi come
pretendente repubblicano per il 1852, e mandare circolari periodiche ai Valacchi
e ad altri popoli, minacciando i despoti del Continente delle gesta sue e dei
suoi alleati. Non aveva del tutto torto Proudhon, quando gridava a questi
signori: "Vous n'étes que des blagueurs"?
Il 13 giugno il partito dell'ordine non aveva soltanto abbattuto la Montagna;
aveva pure realizzata la subordinazione della Costituzione alle decisioni
della maggioranza dell'Assemblea nazionale. Ed intendeva la repubblica in
questo modo: la borghesia governa nelle forme parlamentari, senza trovare un
limite al suo dominio, come sotto la monarchia, nel veto del potere esecutivo o
nella possibilità che il Parlamento venga sciolto. Tale era la repubblica
parlamentare, come la chiamava Thiers. Ma se la borghesia aveva assicurato
il 13 giugno la propria onnipotenza all'interno dell'edificio parlamentare, non
aveva essa colpito il Parlamento di inguaribile debolezza, agli occhi del potere
esecutivo e del popolo, scacciandone la parte più popolare? Abbandonando
numerosi deputati, senz'altre cerimonie, alle richieste dell'autorità
giudiziaria, essa soppresse la propria immunità parlamentare. Il regolamento
umiliante a cui essa sottopose la Montagna, elevava il presidente della
repubblica nella stessa misura in cui abbassava i singoli rappresentanti del
popolo. Bollando come anarchica e sovversiva l'insurrezione in difesa della
Costituzione, la Montagna interdiceva a se stessa l'appello all'insurrezione nel
caso che il potere esecutivo volesse violare la Costituzione ai suoi danni. E
l'ironia della storia vuole che il generale che aveva bombardato Roma per
incarico di Bonaparte, e in questo modo aveva offerto il pretesto immediato alla
sommossa del 13 giugno, che Oudinot, il 2 dicembre 1851, venga
presentato al popolo dal partito dell'ordine, con insistenza e invano, come
generale della Costituzione contro Bonaparte. Un altro eroe del 13 giugno,
Vieyra, che aveva avuto felicitazioni dall'alto della tribuna dell'Assemblea
nazionale per le brutalità da lui compiute nei locali di giornali democratici, a
capo di una banda di guardie nazionali devote all'alta finanza, questo stesso
Vieyra fu iniziato alla congiura di Bonaparte e contribuì efficacemente a
privare l'Assemblea nazionale, nell'ora della sua morte, di ogni appoggio della
Guardia nazionale.
Il 13 giugno ebbe anche un altro significato. La Montagna aveva voluto
strappare la messa in stato d'accusa di Bonaparte. La sua sconfitta fu quindi
una vittoria diretta di Bonaparte, un suo trionfo personale sui suoi nemici
democratici. Il partito dell'ordine combatté per ottenere la vittoria; Bonaparte
non ebbe che da riscuoterla. E' ciò ch'egli fece. Il 14 giugno si poté leggere
sul muri di Parigi un proclama in cui il presidente, come se la cosa non d
pendesse da lui, suo malgrado, costretto dalla pura forza degli avvenimenti,
usciva dal suo isolamento claustrale, si doleva, come virtù misconosciuta, delle
calunnie dei suoi avversari, e mentre sembrava identificare la sua persona con
la causa dell'ordine, identificava invece la causa dell'ordine con la sua
persona. Inoltre, se l'Assemblea ,nazionale aveva ratificato, sebbene con
ritardo, la spedizione contro Roma, l'iniziativa era stata presa da Bonaparte.
Dopo aver di nuovo insediato in Vaticano il sommo sacerdote Samuele, egli
poteva sperare di insediare se stesso, come re Davide, nelle Tuileries. Aveva
conquistato i preti.
La sommossa del 13 giugno si limitò, come abbiamo visto, a una dimostrazione
pacifica di strada. Non vi erano dunque stati allori guerrieri da conquistare
contro di essa. Ciò non pertanto, in questo periodo povero di eroi e di
avvenimenti, il partito dell'ordine trasformò questa battaglia senza spargimento
di sangue in una seconda Austerlitz. La tribuna e la stampa celebrarono
l'esercito come la potenza dell'ordine, in opposizione alle masse popolari
rappresentanti l'impotenza dell'anarchia, e glorificarono Changarnier come il
"baluardo della società". Mistificazione alla quale finì per credere egli
stesso. Ma i corpi che sembravano di dubbia fedeltà venivano intanto allontanati
da Parigi alla chetichella; i reggimenti nei quali le elezioni avevano dato i
risultati più democratici venivano deportati dalla Francia in Algeria; le teste
calde fra la truppa inviate alle compagnie di disciplina; e infine, la stampa
veniva bandita sistematicamente dalla caserma e la caserma isolata dalla società
civile.
Siamo arrivati alla svolta decisiva nella storia della Guardia nazionale
francese. Nel 1830 essa aveva deciso della caduta della Restaurazione. Sotto
Luigi Filippo tutte le sommosse in cui la Guardia nazionale si era messa dalla
parte dell'esercito erano fallite. Quando nelle giornate di febbraio del 1848
essa aveva avuto un atteggiamento di passività verso l'insurrezione, ed equivoco
verso Luigi Filippo, questi si era considerato perduto, e lo era. In questo modo
si era radicata la convinzione che la rivoluzione non poteva vincere senza
la Guardia nazionale e che l'esercito non poteva vincere contro di
essa. Si manifestava così la fede superstiziosa dell'esercito nell'onnipotenza
dei borghesi. Le giornate del giugno 1848, in cui l'intiera Guardia nazionale,
insieme con le truppe di linea, aveva schiacciato l'insurrezione, aveva
rafforzato la superstizione. Dopo l'andata al potere di Bonaparte la
posizione della Guardia nazionale era però stata indebolita, in
conseguenza del fatto che, contrariamente alla Costituzione, il suo comando era
stato riunito, nella persona di Changarnier, al comando della prima divisione
militare.
Come il comando della Guardia nazionale appariva qui come un attributo del
comandante militare supremo, così la Guardia nazionale stessa appariva soltanto
come un'appendice delle truppe di linea. Il 13 giugno, infine, essa venne
spezzata, e non soltanto in conseguenza dei suo scioglimento parziale, che da
quel momento si ripeté periodicamente in tutti i punti della Francia e non ne
lasciò sussistere che i frantumi. La dimostrazione dei 13 giugno era stata
anzitutto una dimostrazione delle guardie nazionali democratiche. E’ vero che
esse avevano opposto all'esercito non le loro armi, ma le loro uniformi; ma
proprio in quell'uniforme stava il talismano. L'esercito si convinse che
quell'uniforme era uno straccio di lana come tutti gli altri. L'incanto era
rotto. Nelle giornate di giugno 1848 borghesia e piccola borghesia, come Guardia
nazionale, si erano unite con l'esercito contro il proletariato; il 13 giugno
1849 la borghesia fece disperdere dall'esercito la Guardia nazionale
piccolo-borghese; il 2 dicembre 1851 scomparve anche la Guardia nazionale della
borghesia, e Bonaparte, quando più tardi ne firmò il decreto di scioglimento,
non fece altro che prender atto del fatto compiuto. Così la borghesia aveva
spezzato essa stessa la sua ultima arma contro l'esercito, e l'aveva dovuta
spezzare a partire dal momento in cui la piccola borghesia, invece di continuare
ad essere sottomessa come un vassallo, si era levata contro di essa in
atteggiamento di ribelle. Allo stesso modo la borghesia, dal momento che essa
stessa era diventata assolutista, doveva spezzare con le proprie mani, in
generale, tutti i suoi mezzi di difesa contro l'assolutismo.
Frattanto il partito dell'ordine celebrava la riconquista di un potere che
sembrava aver perduto nel 1848 solo per ritrovarlo nel 1849 liberato da tutte le
pastoie, e lo celebrava con invettive contro la Repubblica e contro la
Costituzione, maledicendo tutte le rivoluzioni passate, presenti e future,
compresa quella che era stata fatta dai suoi propri capi, e promulgando leggi
che imbavagliavano la stampa, sopprimevano il diritto di associazione e facevano
della stato d'assedio un'istituzione organica di governo. L'Assemblea nazionale
si aggiornò quindi dalla metà di agosto alla metà di ottobre, dopo aver
nominato, per il periodo delle sue vacanze, una commissione permanente. Durante
queste ferie i legittimisti intrigarono a Ems, gli orleanisti a Claremont,
Bonaparte facendo dei viaggi principeschi, e i consigli dipartimentali
discutendo della revisione della Costituzione, fatti che si riproducono
regolarmente nel periodi di vacanza dell'Assemblea nazionale e di cui mi
occuperò quando assumeranno il valore di avvenimenti. Per ora basti notare che
l'Assemblea nazionale agiva poco politicamente disparendo dalla scena durante
periodi di tempo abbastanza lunghi e lasciando che si vedesse a capo della
repubblica una sola figura, fosse pure meschina, quella di Luigi Bonaparte e ciò
mentre il partito dell'ordine, con scandalo dei pubblico, si divideva nei suoi
differenti elementi monarchici e si abbandonava alle proprie contrastanti
velleità di restaurazione. Ogniqualvolta, durante queste vacanze, i rumori
assordanti del Parlamento si estinguevano, e il suo corpo si dissolvevi nella
nazione, appariva in modo incontrovertibile che mancava ormai soltanto una cosa
per rendere completa la vera immagine di questa repubblica: rendere permanenti
le vacanze del Parlamento e sostituire al motto della repubblica: Liberté,
égalité, fraternité, le parole di significato non equivoco: Fanteria,
cavalleria, artiglieria.
IV
A metà ottobre 1849 l'Assemblea nazionale tornò a riunirsi. Il I
novembre Bonaparte li sorprese con un messaggio in cui annunciava il
licenziamento del ministero Barrot-Falloix e la formazione di un nuovo
ministero. Mai servitori furono messi alla porta con meno cerimonie di quello
che Bonaparte fece coi suoi ministri. I calci destinati all'Assemblea nazionale
li ricevettero per il momento Barrot e compagni.
Il ministero Barrot, come abbiamo visto, era composto di legittimisti e di
orleanisti; era un ministero del partito dell'ordine. Bonaparte ne aveva avuto
bisogno per sciogliere la Costituente repubblicana, intraprendere la spedizione
contro Roma e spezzare il partito democratico. Egli si era apparentemente
eclissato dietro questo ministero, aveva affidato il potere governativo al
partito dell'ordine e s'era messo la maschera modesta che portavano sotto Luigi
Filippo i gerenti responsabili dei giornali, la maschera dell'homme de paille.
Ora egli si liberava di un travestimento che non era più il velo leggero
dietro al quale egli potesse nascondere il suo viso, ma una maschera di ferro
che gli impediva di mostrare la sua vera fisionomia. Aveva insediato al potere
il ministero Barrot per disciogliere, in nome del partito dell'ordine,
l'Assemblea nazionale repubblicana; lo licenziava per dimostrare che il suo
proprio nome non dipendeva dall'Assemblea nazionale del partito dell'ordine.
I pretesti plausibili per questo licenziamento non mancano. Il ministero
Barrot aveva trascurato persino le convenienze che avrebbero dovuto far apparire
il Presidente della repubblica come un potere accanto all'Assemblea nazionale.
Durante le vacanze dell'Assemblea, Bonaparte aveva pubblicato una lettera a
Edgar Ney, in cui sembrava disapprovasse la condotta illiberale del Papa, allo
stesso modo che, in contrasto con la Costituente, aveva pubblicato una lettera
in cui elogiava Oudinot per il suo attacco alla repubblica romana. Quando
l'Assemblea nazionale aveva votato i crediti per la spedizione romana, Victor
Hugo, per sedicente liberalismo, aveva messo in discussione quella lettera. Il
partito dell'ordine aveva soffocato, con interruzioni sprezzantemente incredule,
la trovata consistente nell'attribuire alle uscite di Bonaparte un qualsiasi
valore politico. Nessuno dei ministri aveva raccolto il guanto per lui. In
un'altra occasione Barrot, con la sua ben conosciuta enfasi, aveva lasciato
cadere dalla tribuna parole di sdegno a proposito degli "abominevoli intrighi"
che secondo lui si tramavano negli ambienti che circondavano più da vicino il
presidente. Infine il ministero, mentre otteneva dall'Assemblea nazionale una
pensione per la duchessa d'Orléans, respingeva ogni proposta di aumento della
lista civile del presidente. E in Bonaparte il pretendente imperiale si
confondeva così intimamente col cavaliere d'industria in rovina, che la sua
unica grande idea, di essere chiamato a restaurare l'Impero, era sempre
integrata dall'altra, che il popolo francese fosse chiamato a pagare i suoi
debiti.
Il ministero Barrot-Falloux fu il primo e l'ultimo ministero parlamentare
formato da Bonaparte. Il suo licenziamento costituisce quindi una svolta
decisiva. Con esso il partito dell'ordine perdette, per non riconquistarlo mai
più, il controllo sul potere esecutivo, posizione indispensabile per la difesa
del regime parlamentare. Si capisce senz'altro che in un paese come la
Francia, in cui il potere esecutivo ha sotto di sé un esercito di più di mezzo
milione di funzionari, e dispone quindi continuamente, in modo assoluto, di una
massa enorme di interessi e di esistenze; in cui lo Stato, dalle più ampie
manifestazioni della vita fino ai movimenti più insignificanti, dalle sue forme
di esistenza più generali sino alla vita privata, avvolge la società borghese,
la controlla, la regola, la sorveglia e la tiene sotto tutela; in cui questo
corpo di parassiti, grazie alla più straordinaria centralizzazione, acquista una
onnipresenza, una onniscienza, una più rapida capacità di movimento e un'agilità
che trova il suo corrispettivo soltanto nello stato di dipendenza e di impotenza
e nell'incoerenza informe del vero corpo sociale, si capisce che in un paese
simile l'Assemblea nazionale, insieme alla possibilità di disporre dei posti
ministeriali, perdesse ogni influenza reale, a meno che non avesse in pari tempo
semplificato l'amministrazione dello Stato, ridotto il più possibile l'esercito
degli impiegati, in una parola, fatto in modo che la società civile e l'opinione
pubblica si creassero i loro propri organi, indipendenti dal potere governativo.
Ma l'interesse materiale della borghesia francese è precisamente legato nel modo
più stretto al mantenimento di quella grande e ramificata macchina statale. Qui
essa mette a posto la sua popolazione superflua; qui essa completa, sotto forma
di stipendi statali, ciò che non può incassare sotto forma di profitti.
interessi, rendite e onorari. D'altra parte il suo interesse politico la
spingeva ad aumentare di giorno in giorno la repressione, cioè i mezzi e il
personale del potere dello Stato. In pari tempo essa doveva condurre una lotta
ininterrotta contro l'opinione pubblica, mutilare e paralizzare per diffidenza
gli organi autonomi del movimento sociale, e dove ciò non le riusciva, amputarli
completamente. Così la borghesia francese era spinta dalla sua stessa situazione
di classe, da un lato, ad annientare le condizioni di esistenza di ogni potere
parlamentare, e quindi anche dei suo proprio, dall'altro lato a rendere
irresistibile il potere esecutivo che le era ostile.
Il nuovo ministero si chiamò ministero d'Hautpoul. Non che il generale d'Hautpoul
vi avesse ottenuto il rango di presidente del consiglio. Insieme con Barrot,
Bonaparte si sbarazzò anche di questa carica che condannava il presidente della
repubblica alla nullità legale di un re costituzionale, ma di un re
costituzionale senza trono e senza corona, senza scettro e senza spada, senza
irresponsabilità, senza il possesso imprescrittibile della più alta dignità
dello Stato, e ciò che era la cosa più fatale, senza lista civile. Il ministero
d'Hautpoul contava un solo parlamentare di grido, l'ebreo Fould, uno
degli uomini più famigerati dell'alta finanza. Gli venne affidato il ministero
delle finanze. Si consultino le quotazioni della borsa di Parigi, e si troverà
che a partire dal I° novembre 1849 i valori salgono e scendono a seconda
che salgono o scendono le azioni di Bonaparte. Mentre così Bonaparte aveva
trovato nella borsa il suo uomo, in pari tempo metteva le mani sulla polizia, e
nominava Carlier prefetto di polizia di Parigi.
Le conseguenze del cambiamento di ministero non potevano però farsi sentire
che durante il corso degli avvenimenti. Per il momento Bonaparte non aveva fatto
un passo avanti che per esser respinto indietro in modo più evidente. Il suo
brutale messaggio fu seguito dalla più servile dichiarazione di sottomissione
all'Assemblea nazionale. Ogni volta che i ministri facevano il timido tentativo
di presentare le sue bizzarrie personali sotto forma di progetti di legge, si
aveva l'impressione che essi adempissero, contro la loro volontà, costretti
dalla loro situazione, a incarichi comici, del cui insuccesso erano convinti in
precedenza. Ogni volta che Bonaparte, all'insaputa dei ministri, divulgava le
sue intenzioni e faceva sfoggio delle sue "idées napoléoniennes", i suoi
propri ministri lo sconfessavano dall'alto della tribuna dell'Assemblea
nazionale. Sembrava che le sue velleità di usurpazione non si manifestassero per
altro scopo che quello di dare alimento alle maligne risate dei suoi avversari.
Si dava le arie di un genio incompreso, considerato da tutti come uno sciocco.
Mai come durante questo periodo era stato oggetto del disprezzo cosi generale di
tutte le classi. Mai la borghesia aveva dominato in modo più assoluto; mai essa
aveva ostentato con maggior vanagloria le insegne del potere.
Non è mio compito fare qui la storia della sua attività legislativa, che
durante questo periodo si riassume in due leggi: nella legge che ristabilisce
l'imposta sul vino e nella legge sull'insegnamento che abolisce la miscredenza.
Se si rendeva più difficile ai francesi bere vino, in cambio si largiva loro con
tanto maggiore generosità l'acqua della vera vita. Se la borghesia, con la legge
dell'imposta sul vino, dichiarava intangibile il vecchio odioso sistema fiscale
francese, con la legge sull'istruzione cercava di mantenere nelle masse il
vecchio stato d'animo che glielo rendeva sopportabile. Ci si è meravigliati di
vedere gli orleanisti, i liberali borghesi, questi vecchi apostoli del
volterianismo e della filosofia eclettica, confidare la direzione dello spirito
francese ai loro nemici ereditari, i gesuiti. Ma se orleanisti e legittimisti
potevano combattersi a proposito del pretendente al trono, essi comprendevano
che il loro dominio comune imponeva l'unificazione dei mezzi di oppressione di
due epoche, che i mezzi di asservimento della monarchia di luglio dovevano
essere completati e rafforzati con quelli della Restaurazione.
I contadini, delusi in tutte le loro speranze, più che mai schiacciati, da un
lato dal basso prezzo dei cereali, dall'altro lato dal peso crescente delle
imposte e del debito ipotecario incominciavano ad agitarsi nei dipartimenti. Si
rispose loro dando la caccia al maestri di scuola, che furono sottomessi agli
ecclesiastici; dando la caccia ai sindaci, che furono sottoposti ai prefetti; e
instaurando un sistema di spionaggio cui tutti vennero assoggettati. A Parigi e
nelle grandi città la reazione assume la fisionomia della sua epoca e, anziché
abbattere, provoca. Nelle campagne essa diventa volgare, grossolana, gretta.
fastidiosa, molesta, in una parola, diventa gendarme. Si comprende come tre anni
di regime del gendarme, consacrato dal regime dei preti, dovessero demoralizzare
delle masse immature.
Per quanto grande fosse la somma di passione e di retorica che il partito
dell'ordine poteva lanciare contro la minoranza dall'alto della tribuna
parlamentare, i suoi discorsi rimanevano monosillabici, come quelli del
cristiano, le cui parole debbono essere: Sí, sí; no, no! Monosillabici alla
tribuna come nella stampi. Insipidi come un indovinello di cui si conosce in
anticipo la soluzione. Che si trattasse del diritto di petizione o dell'imposta
sul vino, della libertà di stampa o della libertà di commercio, dei clubs
o della costituzione municipale, della difesa della libertà personale o del
regolamento del bilancio, si ritorna sempre alla parola d'ordine, il tema rimane
sempre lo stesso, la sentenza è sempre pronta ed è invariabilmente la stessi : "socialismo!".
Socialista viene dichiarato persino il liberalismo borghese, socialista
li cultura borghese, socialista la riforma finanziaria borghese. Era socialista
costruire una ferrovia dove già esisteva un canale, ed era socialista difendersi
col bastone, quando si era assaliti con una spada.
Né ciò era un semplice modo di parlare, una moda, una tattica di partito. La
borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da lei forgiate contro il
feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di istruzione da
lei escogitati insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi da
lei creati l'abbandonavano Essa capiva che tutte le cosiddette libertà e
istituzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di
classe tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica; erano
cioè diventate "socialiste". In questa minaccia e in questo attacco essa vedeva
il segreto del socialismo, di cui giudicava il con ragione il senso e la
tendenza meglio di quanto non sappia giudicarsi il socialismo stesso; il quale
non può capire perché la borghesia gli sia così inesorabilmente inaccessibile,
sia che egli gema flebilmente sulle miserie dell'umanità, o annunci da buon
cristiano l'avvento del regno millenario e la fratellanza universale, o
umanisticamente fantastichi di spirito, cultura e libertà, oppure si faccia
dottrinario e inventi un sistema di conciliazione e di prosperità per tutte le
classi. Ma ciò che la borghesia non comprendeva era la conseguenza che il suo
proprio regime parlamentare, e in generale il suo dominio politico
dovevano anche essi sottostare alla generale sentenza di condanna come
socialisti. Sino a che il dominio della borghesia non si fosse organizzato
completamente, non avesse acquistato a sua espressione politica pura, anche il
contrasto con le altre classi non poteva presentarsi in modo puro, e dove esso
si presentava, non poteva assumere quel corso pericoloso che trasforma ogni
lotta contro il potere della Stato in uni lotta contro il capitale. Se in ogni
palpito della vita sociale la borghesia vedeva un pericolo per la "calma",
come poteva voler conservare, alla testa della società, il regime della
irrequietezza, il suo proprio regime, il regime parlamentare, questo
regime che, secondo l'espressione di uno dei suoi oratori, vive nella lotta
e per la lotta, Il regime parlamentare vive della discussione: come può proibire
la discussione? Ogni interesse, ogni provvedimento sociale viene trasformato nel
regime parlamentare in idea generale e trattato come idea; come può quindi un
interesse qualsiasi, un provvedimento qualsiasi, elevarsi al di sopra dei
pensiero e imporsi come articolo di fede? La lotta degli oratori alla tribuna
provoca le polemiche violente dei giornali; quel club di discussione che è il
Parlamento viene necessariamente completato dai club di discussione dei salotti
e delle osterie; i rappresentanti che continuamente fanno appello alla opinione
pubblica autorizzano l'opinione pubblica a esprimere la sua vera opinione
mediante petizioni. Il regime parlamentare rimette tutto alla decisione delle
maggioranze: come le grandi maggioranze non dovrebbero voler decidere al di
fuori del Parlamento? Se alla sommità dell'edificio dello Stato si suona il
violino, come non aspettarsi che quelli che stanno in basso si mettano a
ballare?
Tacciando dunque di eresia "socialista" ciò che prima aveva esaltato
come "liberale", la borghesia confessa che il suo proprio interesse le
impone di sottrarsi al pericolo dell'autogoverno; che per mantenere la
calma nel paese deve anzitutto essere ridotto alla calma il suo Parlamento
borghese; che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato
il suo potere politico; che i singoli borghesi possono continuare a sfruttare le
altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della
religione e dell'ordine soltanto a condizione che la loro classe venga
condannata a essere uno zero politico al pari di tutte le altre classi; che per
salvare la propria borsa essa deve perdere la propria corona, e la spada che la
deve proteggere deve in pari tempi pendere come una spada di Damocle sulla
propria testa.
Nel campo degli interessi generali della borghesia l'Assemblea nazionale si
mostrò tanto improduttiva che, per esempio, le discussioni sulla ferrovia Parigi
-Avignone, iniziatesi nell'inverno 1850, non potevano ancora essere concluse il
2 dicembre 1851. Dove non faceva opera di repressione e di reazione, era colpita
da inguaribile sterilità.
A volte il ministero di Bonaparte prendeva l'iniziativa di leggi nel
senso del partito dell'ordine, a volte esagerava ancora la durezza
nell'applicarle e nell'eseguirle. Bonaparte cercava di conquistarsi una
popolarità con proposte insulse e infantili, cercava di far risaltare la propria
opposizione all'Assemblea nazionale e di accennare ad un potere segreto a cui
solo le circostanze impedivano, momentaneamente, di largire al popolo francese i
suoi tesori nascosti. Perciò egli proponeva di accordare ai sottufficiali un
soprassoldo giornaliero di quattro soldi. Perciò proponeva l'istituzione di una
banca di prestiti d'onore per gli operai. Ricevere denaro in regalo o in
prestito: ecco la prospettiva con la quale egli sperava di adescare le masse.
Regalare e prendere a prestito: a questo si limita la scienza finanziaria dei
sottoproletariato, sia esso nobile o plebeo. A ciò si riducevano le molle che
Bonaparte sapeva mettere in azione. Mai pretendente ha speculato in modo così
volgare sulla volgarità delle masse.
L'Assemblea nazionale si indignò parecchie volte di questi tentativi
manifesti di rendersi popolare alle sue spalle, vedendo crescere il pericolo che
questo avventuriero pungolato dal debiti e non trattenuto da nessuna reputazione
acquisita osasse un colpo disperato. Il disaccordo fra il partiti dell'ordine e
il Presidente aveva preso un carattere minaccioso, quando un avvenimento
inatteso spinse nuovamente quest'ultimo, pentito, nelle braccia del primo.
Alludiamo alle elezioni supplementari del 10 marzo 1850. Queste elezioni
ebbero luogo per occupare i posti vacanti di quei deputati che, dopo il 13
giugno, erano stati imprigionati e mandati in esilio.
Parigi elesse soltanto dei candidati socialdemocratici, e riunì persino la
maggior parte dei voti sul nome di un insorto del giugno 1848, De Flotte. In
questo modo la piccola borghesia di Parigi, alleata del proletariato, si
vendicava per la sua sconfitta del 13 giugno 1849. Sembrava che nel momento del
pericolo essa fosse scomparsa dal teatro della lotta per apparirvi in un momento
più favorevole, con forze più considerevoli e con una parola d'ordine più
audace. Una circostanza parve accrescere il pericolo di questa vittoria
elettorale. L'esercitò votò a Parigi per gli insorti di giugno, contro La Hitte,
un ministro di Bonaparte, e nei dipartimenti votò in maggioranza per i
montagnardi, che anche qui, sebbene non in modo così decisi come a Parigi,
ebbero il sopravvento sui loro avversari.
All'improvviso Bonaparte vide la rivoluzione levarsi di nuovo contro di lui.
Come il 29 gennaio 1849, come il 13 giugno 1849, così il 10 marzo 1850 egli si
eclissò dietro il partito dell'ordine. Si piegò, offrì umilmente le sue scuse,
profferse di nominare qualsiasi ministero, secondo gli ordinasse la maggioranza
parlamentare; giunse persino a implorare i capi di partito orleanisti e
legittimisti, i Thiers, i Berryer, i Broglie, i Molé, in una parola i cosiddetti
burgravi, a prendere in persona il timone dello Stato. Il partito dell'ordine
non seppe sfruttare quest'occasione, che non si sarebbe mai più ripresentata.
Invece di impadronirsi con audacia del potere che gli veniva offerto, non
costrinse neppure Bonaparte a rimettere al potere il ministero licenziato il I°
novembre. Si accontentò di umiliarlo col perdono, e di aggregare al ministero d'Hautpoul
il signor Baroche. Questo Baroche aveva infierito in qualità di pubblico
ministero davanti all'Alta Corte di giustizia di Bourges, una volta contro i
rivoluzionari del 15 maggio, la seconda volta contro i democratici del 13
giugno, ambe le volte per attentato contro l'Assemblea nazionale. Nessuno dei
ministri di Bonaparte contribuì in seguito più di lui a degradare l'Assemblea
nazionale e, dopo il 2 dicembre 1851, lo troviamo ben installato e ben pagato al
posto di vicepresidente del Senato. Aveva sputato nella zuppa dei rivoluzionari,
affinché Bonaparte la mangiasse.
Il partito socialdemocratico, dal canto suo, sembrava non cercasse altro che
pretesti per rimettere in questione la propria vittoria e spezzarne la punta.
Vidal, uno dei nuovi deputati eletti a Parigi, era stato in pari tempo eletto a
Strasburgo. Lo si indusse a rinunciare al seggio di Parigi e ad optare per
Strasburgo. Dunque, invece di dare alla propria vittoria elettorale un carattere
definitivo e così obbligare il partito dell'ordine a disputargliela
immediatamente nel Parlamento; invece di costringere l'avversario alla lotta nel
momento in cui il popolo era pieno di entusiasmo e lo stato d'animo
dell'esercito era favorevole, il partito democratico stancò Parigi, durante i
mesi di marzo e di aprile, con una agitazione elettorale; lasciò che le passioni
popolari eccitate si consumassero in questo nuovo effimero episodio elettorale;
lasciò che l'energia rivoluzionarla si appagasse di successi costituzionali, si
perdesse in piccoli intrighi, in vuote azioni e in movimenti fittizi; lasciò che
la borghesia raccogliesse le sue forze e prendesse le sue precauzioni; lasciò,
infine, che l'importanza delle elezioni di marzo trovasse un commento
sentimentale e che la indeboliva con l'elezione di Eugenio Sue alle elezioni
complementari di aprile. In una parola, trasformò il 10 marzo in un pesce
d'aprile.
La maggioranza parlamentare si rese conto della debolezza del suo avversario.
Poiché Bonaparte le aveva lasciato la direzione e la responsabilità
dell'attacco, i suoi diciassette burgravi elaborarono una nuova legge
elettorale, e il signor Faucher, che aveva reclamato per sé questo onore, venne
incaricato di presentarla. L'8 maggio egli presentò la legge che aboliva il
suffragio universale, imponeva agli elettori l'obbligo di un domicilio di tre
anni nel luogo dell'elezione, e infine faceva dipendere la prova di questo
domicilio, per gli operai, dalla testimonianza dei loro datori di lavoro.
Quanto erano stati rivoluzionari i democratici nelle loro agitazioni e nelle
loro smanie durante la lotta elettorale costituzionale, altrettanto furono
costituzionali, ora che si trattava di dimostrare con le armi alla mano la
serietà di quelle vittorie elettorali, nel predicare l'ordine, una calma
maestosa (calme majestueux), un atteggiamento legale, cioè la cieca
sottomissione al volere della controrivoluzione, che si imponeva come legge.
Durante il dibattito, la Montagna confuse il partito dell'ordine, opponendo alla
passione rivoluzionaria di quest'ultimo l'atteggiamento tranquillo del brav'uomo
che si mantiene sul terreno legale, e schiacciando il partito dell'ordine con
l'accusa terribile di procedere in modo rivoluzionario. Perfino i deputati
allora eletti si sforzarono di dimostrare, con un contegno corretto e
ragionevole, quanto fosse errato accusarli di essere anarchici e presentare la
loro elezione come una vittoria della rivoluzione. Il 31 maggio la nuova legge
elettorale venne approvata. La Montagna si accontentò di introdurre una protesta
nella tasca dei presidente, di contrabbando. Alla legge elettorale tenne dietro
una nuova legge sulla stampa che sopprimeva completamente i giornali
rivoluzionari. Essi avevano meritato questa sorte. Dopo questi marea, il
National e la Presse, due organi borghesi, rimasero come gli estremi
avamposti della rivoluzione.
Abbiamo visto come durante i mesi di marzo e di aprile i capi democratici
avessero fatto di tutto per impegnare il popolo di Parigi in una lotta
illusoria; e come, dopo l'8 maggio, essi facessero di tutto per distoglierlo da
una lotta reale. Inoltre non dobbiamo dimenticare che il 1850 fu uno degli anni
più brillanti per quanto riguarda la prosperità dell'industria e del commercio,
e che quindi il proletariato di Parigi era completamente occupato. Però la legge
elettorale del 31 maggio 1850 lo escludeva da ogni partecipazione al potere
politico. Lo escludeva dal terreno stesso della lotta, e rigettava gli operai
nella situazione di parla che essi avevano avuto prima della rivoluzione di
febbraio. Lasciandosi dirigere, di fronte a un tale avvenimento, dai
democratici, dimenticando, per un benessere passeggero, l'interesse
rivoluzionario della loro classe, gli operai rinunziavano all'onore di essere un
potere conquistatore; si sottomettevano al loro destino; provavano che la
disfatta del giugno 1848 li aveva resi incapaci per anni di combattere e che il
processo storico doveva nuovamente incominciare a svolgersi al di sopra
delle loro teste. Quanto alla democrazia piccolo-borghese, che il 13 giugno
aveva gridato: "Ma se si toccherà il suffragio universale, allora...!" - essa si
consolava ora dicendo che il colpo controrivoluzionario che l'aveva colpita non
era un colpo e che la legge del 31 maggio non era una legge. La seconda
[domenica] di maggio del 1852 ogni francese sarebbe andato alle urne tenendo in
una mano la scheda elettorale e nell'altra la spada. Di questa profezia essa si
accontentava. L'esercito, infine, veniva punito dal suoi superiori, come per le
elezioni del 29 maggio 1849, così per quelle del marzo e dell'aprile 1850. Ma
questa volta esso si disse in modo deciso: "La rivoluzione non ci ingannerà una
terza volta".
La legge del 31 maggio 1850 fu il colpo di stato della borghesia Tutte le sue
precedenti vittorie sulla rivoluzione avevano soltanto un carattere provvisorio.
Esse sarebbero state poste in forse non appena l'attuale Assemblea nazionale
fosse scomparsa dalla scena: dipendevano dal caso di nuove elezioni generali; e
la storia delle elezioni, a partire dal 1848, aveva provato in modo
inconfutabile che l'autorità morale della borghesia sulle masse popolari andava
perduta nella stessa misura in cui il dominio di fatto della borghesia si
sviluppava. Il 10 marzo il suffragio universale si era dichiarato direttamente
avverso al dominio della borghesia. La borghesia rispose dando il bando al
suffragio universale. La legge del 31 maggio era una delle necessità della lotta
di classe. D'altro canto la Costituzione, affinché l'elezione del presidente
fosse valevole, richiedeva un minimo di due milioni di voti. Se nessuno dei
candidati alla Presidenza raggiungeva questo minimo, toccava all'Assemblea
nazionale scegliere il presidente tra i tre candidati che avessero raccolto il
maggior numero di suffragi. Quando la Costituente aveva fatto questa legge,
dieci milioni di elettori erano iscritti nelle liste elettorali. Secondo lo
spirito di questa legge era quindi sufficiente un quinto degli elettori per
rendere valida l'elezione presidenziale. La legge del 31 maggio cancellava dalle
liste elettorali per lo meno tre milioni di voti, riduceva il numero degli
elettori a sette milioni e, ciò nondimeno, manteneva il minimo legale di due
milioni per l'elezione del Presidente. Essa elevava dunque il minimo legale da
un quinto a circa un terzo dei voti validi, cioè faceva di tutto, per far
passare alla chetichella l'elezione del presidente dalle mani del popolo alle
mani dell'Assemblea nazionale. In questo modo sembrava che il partito
dell'ordine avesse, con la legge elettorale del 31 maggio, doppiamente
rafforzato il proprio dominio, affidando alla parte stazionaria della società
tanto l'elezione dell'Assemblea nazionale quanto quella del presidente della
repubblica.
V
Superata la crisi rivoluzionaria e soppresso il suffragio universale, la
lotta tornò subito a divampare tra l'Assemblea nazionale e Bonaparte.
La Costituzione aveva fissato lo stipendio di Bonaparte a 600.000 franchi.
Sei mesi appena dopo la sua installazione egli era riuscito a far raddoppiare
questa somma. Infatti, Odilon Barrot aveva strappato all'Assemblea nazionale
costituente un supplemento annuo di 600.000 franchi per cosiddette spese di
rappresentanza. Dopo il 13 giugno Bonaparte aveva fatto delle sollecitazioni
dello stesso genere, questa volta senza trovare ascolto presso Barrot. Ora, dopo
il 31 maggio, egli approfittò immediatamente del momento favorevole e fece
proporre dai suoi ministri all'Assemblea nazionale una lista civile di tre
milioni. Una lunga avventurosa vita di vagabondo lo aveva dotato di fiuto
finissimo per accorgersi dei momenti di debolezza in cui poteva spillare denaro
ai suoi borghesi. Era un vero e proprio chantage. L'Assemblea nazionale
aveva, col suo concorso e con la sua complicità, disonorato la sovranità
popolare. Egli minacciava di denunciare il delitto al tribunale dei popolo,
qualora l'Assemblea non avesse aperto la borsa e comprato il suo silenzio con
tre milioni all'anno. Essa aveva defraudato tre milioni di francesi del diritto
di voto. Per ogni francese messo fuori corso egli esigeva un franco a corso
legale, cioè esattamente tre milioni di franchi in tutto. Egli, l'eletto di sei
milioni, chiedeva un risarcimento per i voti che gli erano stati
posticipatamente borseggiati. La commissione della Assemblea nazionale oppose un
rifiuto all'impudente. La stampa bonapartista minacciò. Poteva l'Assemblea
nazionale rompere col presidente della repubblica proprio nel momento in cui
aveva rotto in linea di principio e definitivamente con la massa della nazione?
Essa respinse dunque la lista civile annua; ma concesse, una volta tanto, un
supplemento di 2.160.000 franchi. In questo modo essa si rendeva colpevole di
due debolezze: quella di concedere il denaro e quella di mostrare, col suo
cattivo umore, che lo concedeva di malavoglia. Vedremo in seguito perché
Bonaparte aveva bisogno del denaro. Dopo questo epilogo disgustoso che seguì
immediatamente la soppressione del suffragio universale, e in cui Bonaparte
sostituì all'atteggiamento di sottomissione durante la crisi di marzo e di
aprile una sfrontatezza provocante nel riguardi del Parlamento usurpatore,
l'Assemblea nazionale si aggiornò per tre mesi, dall'11 agosto all'11 novembre.
Lasciò al proprio posto una commissione permanente di 28 membri, di cui non
faceva parte nessun bonapartista, ma facevano parte alcuni repubblicani
moderati. Nella commissione permanente del 1849 vi erano soltanto uomini dei
partito dell'ordine e bonapartisti. Ma allora era il partito dell'ordine a
dichiararsi in permanenza contro la rivoluzione. Ora era la repubblica
parlamentare a dichiararsi in permanenza contro il presidente. Dopo la legge del
31 maggio, questi era il solo rivale che si opponeva ancora al partito
dell'ordine.
Quando l'Assemblea nazionale tornò a riunirsi nel novembre 1850, sembrò che
invece delle piccole scaramucce col presidente che s'erano avute fino a quel
momento, fosse diventata inevitabile una lotta spietata, una lotta a morte tra i
due poteri.
Come nel 1849, anche durante le ferie parlamentari di quest'anno il partito
dell'ordine si era diviso nelle sue diverse frazioni, ciascuna occupata nei
propri intrighi di restaurazione, cui la morte di Luigi Filippo aveva dato nuovo
alimento. Il re dei legittimisti, Enrico V, aveva persino formato un vero e
proprio ministero, che risiedeva a Parigi e nel quale sedevano alcuni membri
della commissione permanente. Da parte sua, Bonaparte aveva dunque diritto di
fare dei viaggi nei dipartimenti della Francia; di far conoscere in modo ora più
ora meno dissimulato od aperto, a seconda dello stato d'animo della città che
onorava della sua presenza, i suoi propri piani di restaurazione e di reclutare
dei voti per conto proprio. In questi viaggi, che il grande Moniteur
ufficiale e i piccoli monitori privati di Bonaparte non potevano naturalmente
fare a meno di celebrare come viaggi di trionfo, egli era continuamente
accompagnato da affiliati della Società del 10 dicembre. Questa società
era stata fondata nel 1849. Col pretesto di fondare un'associazione di
beneficenza il sottoproletariato di Parigi era stato organizzato in sezioni
segrete; ogni sezione era diretta da agenti bonapartisti; alla testa della
Società vi era un generale bonapartista. Accanto a roués in dissento,
dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti,
feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati
usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse,
ciurmatori, bari, ruffiani tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori
ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta
la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème.
Con questi elementi a lui affini Bonaparte aveva costituito il nucleo della
Società del 10 dicembre. "Società di beneficenza", - in quanto i suoi membri, al
pari di Bonaparte, sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle
spalle della nazione lavoratrice. Questo Bonaparte, che si erige a capo del
sottoproletariato; che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa
gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa
feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui
egli può appoggiare senza riserve, è il vero Bonaparte, il Bonaparte sans
phrase. Vecchio e consumato roué, egli concepisce la vita storica dei
popoli, le loro azioni capitali e di Stato, come una commedia, nel senso più
ordinario della parola, come una mascherata in cui i grandi costumi, le grandi
parole e i grandi gesti non servono ad altro che a coprire le furfanterie più
meschine. Così nel suo viaggio a Strasburgo un avvoltoio svizzero addomesticato
rappresenta l'aquila napoleonica. Per il suo ingresso a Boulogne, egli camuffa
con uniformi francesi alcuni lacchè di Londra. Essi rappresentano l'esercito.
Nella sua Società del 10 dicembre egli raccoglie 10.000 straccioni che debbono
rappresentare il popolo, come Klaus Zettel il leone. In un momento in cui la
borghesia stessa rappresentava una perfetta commedia, ma nel modo più serio
possibile, senza violare nessuna delle più pedanti regole dell'etichetta
drammatica francese, ed essa stessa era a metà ingannata, a metà convinta dalla
solennità delle sue proprie azioni capitali e di Stato, in questo momento la
vittoria spettava all'avventuriero, per cui la commedia non era altro che
commedia. Solamente quando si è liberato dal suo solenne avversario, quando
prende egli stesso sul serio la sua parte di imperatore e pensa di
rappresentare, in maschera napoleonica, il vero Napoleone, solo allora egli
diventa la vittima della propria illusione, e si trasforma in un pagliaccio
serio, che non prende più la storia per una commedia, ma la propria commedia per
storia universale. Per Bonaparte la Società del 10 dicembre fu quel che erano
stati per gli operai socialisti i laboratori nazionali, per i repubblicani
borghesi le Gardes mobiles: la sua personale milizia di partito. Durante
i suoi viaggi le sezioni della società, spedite a destinazione per ferrovia,
avevano il compito di improvvisargli un pubblico, di simulare l'entusiasmo
pubblico, di urlare Vive l'Empereur!, di insultare e di picchiare i
repubblicani, naturalmente sotto la protezione della polizia. Al suo ritorno a
Parigi esse avevano il compito di formare l'avanguardia, di prevenire o di
disperdere le contromanifestazioni. La Società del 10 dicembre gli apparteneva,
era opera sua, era il suo più genuino pensiero. Quando Bonaparte si impadronisce
di qualche cosa, è la forza delle circostanze a dargliela; quando egli fa
qualcosa, sono le circostanze per lui, oppure si accontenta di copiare quello
che fanno gli altri; ma quando egli parla ufficialmente dell'ordine, della
religione, della famiglia, della proprietà davanti a un pubblico borghese, ed ha
dietro di sé la società segreta degli Schufterle e degli Spiegelberg, la società
del disordine, della prostituzione e del furto, allora egli è Bonaparte in
persona, in edizione originale. La storia della Società del 10 dicembre è la sua
propria storia. Accadde, per eccezione, che alcuni rappresentanti dei popolo
appartenenti al partito dell'ordine assaggiassero il bastone dei decembristi.
Più ancora. Il commissario di polizia Yon, adibito all'Assemblea nazionale e
incaricato di vegliare alla sua sicurezza, comunicò alla sezione permanente
(sulla base della deposizione di un certo Alais) che una sezione di decembristi
aveva deciso l'assassinio del generale Changarnier e del presidente
dell'Assemblea nazionale Dupin, ed aveva già designato gli esecutori. Si
comprende il terrore del signor Dupin. Un'inchiesta sulla Società del 10
dicembre, vale a dire la profanazione dei mondo segreto di Bonaparte, sembrava
inevitabile. Immediatamente prima della riunione dell'Assemblea nazionale
Bonaparte sciolse prudentemente la sua società, sulla carta s'intende, perché
ancora alla fine del 1851 il prefetto di polizia Carlier, in una memoria
particolareggiata, si sforzò invano di indurlo a sciogliere effettivamente i
decembristi.
La Società del 10 dicembre doveva restare l'esercito privato di Bonaparte
fino a quando non gli fosse riuscito di trasformare l'esercito regolare in una
Società del 10 dicembre. Bonaparte fece il primo tentativo in questo senso poco
dopo l'aggiornamento dell'Assemblea nazionale, e proprio col denaro che era
riuscito ad estorcerle. Da buon fatalista, egli era convinto che esistono date
potenze superiori, a cui l'uomo e in special modo il soldato, non possono
resistere. Tra questi poteri egli annoverava in prima linea i sigari e lo
sciampagna, il pollo freddo e le salsicce all'aglio. Egli offre dunque, nei
saloni dell'Eliseo, sigari e sciampagna, pollo freddo e salsicce all'aglio agli
ufficiali e al sottufficiali. Il 3 ottobre ripete questa manovra con la massa
dei soldati alla rivista di St. Maur, e la stessa manovra ripete su una scala
ancora più grande il 10 ottobre, alla rivista di Satory. Lo zio si ricordava
delle campagne di Alessandro in Asia; il nipote si ricorda delle spedizioni di
Bacco nello stesso paese. Vero è che Alessandro non era che un semidio, mentre
Bacco era un dio e, per giunta, il dio protettore della Società del 10 dicembre.
Dopo la rivista del 3 ottobre la commissione permanente convocò il ministro
della guerra d'Hautpoul. Questi promise che simili infrazioni alla disciplina
non si sarebbero ripetute. È noto come Bonaparte mantenne, il 10 ottobre, la
parola data dal d'Hautpoul. In ambedue le riviste il comando era stato affidato
a Changarnier, in qualità di comandante in capo dell'esercito di Parigi. Membro
della commissione permanente e allo stesso tempo capo della guardia nazionale,
"salvatore" del 29 gennaio e del 13 giugno, "baluardo della società", candidato
del partito dell'ordine alla dignità presidenziale, pronosticato Monk di due
monarchie, egli non aveva mai riconosciuto fino ad allora la sua subordinazione
al ministro della guerra; si era sempre fatto beffe pubblicamente della
Costituzione e aveva sempre perseguitato Bonaparte con un'equivoca alta
protezione. Ora difendeva la disciplina contro il ministro della guerra e la
Costituzione contro Bonaparte. Quando il 10 ottobre una parte della cavalleria
lanciò un grido: "Vive Napoléon! Vivent les saucissons!",
Changarnier fece in modo che almeno la fanteria, che sfilava sotto il comando
del suo amica Neumeyer, osservasse un silenzio glaciale. Per punizione, il
ministro della guerra, istigato da Bonaparte, allontanò dal suo posto di Parigi
il generale Neumeyer, col pretesto di affidargli il comando in capo della 14. e
15. divisione militare. Neumeyer rifiutò questo trasferimento e fu quindi
obbligato a dar le sue dimissioni. Dal canto suo Changarnier pubblicò il 2
novembre un ordine del giorno in cui proibiva alle truppe di permettersi, mentre
erano sotto le armi, grida e manifestazioni politiche di qualsiasi natura. Le
gazzette dell'Eliseo attaccarono Changarnier; i fogli del partito dell'ordine
attaccarono Bonaparte; la commissione permanente moltiplicò le sedute segrete,
in cui si propose reiteratamente di dichiarare la patria in pericolo. L'esercito
sembrava diviso in due campi avversi, con due stati maggiori nemici, l'uno all'Eliseo,
dove abitava Bonaparte, l'altro alle Tuileries, dove abitava Changarnier.
Sembrava che non mancasse altro che la riunione dell'Assemblea nazionale perché
scoccasse il segnale della lotta. Il pubblico francese giudicava questi screzi
fra Bonaparte e Changarnier come quel giornalista inglese che li ha
caratterizzati con le parole seguenti : "Le fantesche politiche della Francia
spazzano con delle vecchie scope la lava ardente della rivoluzione, e nel far
questo lavoro si prendono per i capelli".
Nel frattempo Bonaparte si affrettava a rimuovere dalle sue funzioni il
ministro della guerra d'Hautpoul e a spedirlo in tutta fretta ad Algeri, e a
nominare ministro della guerra al suo posto il generale Schramm. Il 12 novembre
mandava all'Assemblea nazionale un messaggio di americana prolissità,
sovraccarico di particolari, spirante ordine imbevuto di brame di conciliazione,
costituzionalmente rassegnato, in cui si trattava di tutto e di tutti, eccetto
che delle questions brúlantes. Come di sfuggita, lasciava cadere
l'affermazione che secondo le espresse disposizioni della Costituzione il
presidente solo disponeva dell'esercito. Il messaggio si chiudeva con queste
parole di solenne assicurazione:
" La Francia reclama anzitutto
tranquillità... Unicamente legato dal mio giuramento, mi terrò entro i limiti
ristretti che esso mi ha tracciato. Per quel che mi concerne, eletto dal
popolo e dovendo a lui solo il mio potere, mi sottometterò alla sua volontà
legalmente espressa. Se voi decidete corso di questa sessione, la revisione
della Costituzione, un'Assemblea costituente regolerà la situazione del potere
esecutivo. Se no, il popolo proclamerà solennemente nel 1852 la sua decisione.
Ma qualsiasi possano essere le soluzioni dell'avvenire, mettiamoci d'accordo per
non lasciar mai la passione, la sorpresa o la violenza decidere delle sorti di
una grande nazione……Ciò che richiama innanzi tutto la mia attenzione non è il
problema di sapere chi governerà la Francia nel 1852, ma d'impiegare il tempo di
cui dispongo affinché il periodo da attraversare trascorra senza agitazioni e
senza perturbamenti. Vi ho aperto il mio cuore con sincerità; voi risponderete
con la vostra collaborazione e Dio farà il resto ".
Il linguaggio dabbene della borghesia, ipocritamente moderato, pieno di
luoghi comuni virtuosi, rivela il suo significato più profondo nella bocca
dell'autocrate della Società dei 10 dicembre, dell'eroe delle merende di St.
Maur e di Satory.
I burgravi del partito dell'ordine non si illusero nemmeno un istante circa
la fiducia che meritava questa effusione. Quanto ai giuramenti, essi erano
disincantati da un pezzo; vi erano tra loro dei veterani, dei virtuosi dello
spergiuro politico. L'accenno all'esercito non era loro sfuggito. Essi notarono
con sdegno che il messaggio, nella prolissa enumerazione delle leggi
recentemente promulgate, passava intenzionalmente sotto silenzio la legge più
importante, la legge elettorale, e invece rimetteva al popolo, in caso di
mancata revisione della Costituzione, l'elezione del presidente nel 1852.
Per il partito dell'ordine, la legge elettorale era la palla di piombo ai
piedi che gli impediva di camminare e ancor più di andare all'assalto. Inoltre
Bonaparte, con lo scioglimento ufficiale della Società dei 10 dicembre e col
licenziamento del ministro della guerra d'Hautpoul, aveva sacrificato di mano
sua, sull'altare della patria, i capri espiatori. Aveva spezzato la punta
dell'atteso conflitto. Infine, lo stesso partito dell'ordine cercava
angosciosamente di evitare, di attenuare, di soffocare ogni conflitto decisivo
col potere esecutivo. Per paura di perdere le conquiste strappate alla
rivoluzione, lasciava che il suo rivale ne godesse i frutti. "La Francia reclama
anzitutto tranquillità." Questo era l'appello che il partito dell'ordine
rivolgeva alla rivoluzione a partire dal mese di febbraio; questo era l'appello
che Bonaparte rivolgeva al partito dell'ordine. "La Francia reclama anzitutto
tranquillità." Bonaparte commetteva atti tendenti all'usurpazione; ma il partito
dell'ordine commetteva un " disordine " protestando rumorosamente contro questi
atti e commentandoli con malumore.
Le salsicce di Satory sarebbero rimaste mute come un pesce se nessuno ne
avesse parlato. "La Francia reclama anzitutto tranquillità." Perciò Bonaparte
chiedeva che lo lasciassero fare in pace le cose sue, e il partito parlamentare
era paralizzato da una duplice paura, dalla paura di provocare di nuovo
l'agitazione rivoluzionaria e dalla paura di apparire, proprio lui, come
fomentatore di disordini agli occhi della propria classe, agli occhi della
borghesia. Poiché dunque la Francia reclamava anzitutto tranquillità, il partito
dell'ordine non osò, dato che Bonaparte nel suo messaggio aveva parlato di
"pace", rispondere "guerra". Il pubblico, che si era lusingato di assistere,
all'apertura dell'Assemblea nazionale, a grandi scene di scandalo, fu deluso
nella sua aspettativa. I deputati dell'opposizione, che chiedevano venissero
presentati i verbali della Commissione permanente relativi agli avvenimenti di
ottobre, furono messi in minoranza. Si evitò per principio ogni discussione che
potesse creare irritazione. I lavori dell'Assemblea nazionale durante i mesi di
novembre e di dicembre 1850 furono privi di interesse.
Infine, verso la fine di dicembre, incominciarono le scaramucce a proposito
di talune prerogative del Parlamento. Dal momento che proprio la borghesia,
abolendo il suffragio universale, aveva messo fine alla lotta di classe, il
movimento si perdeva in risse meschine circa le prerogative dei due poteri.
Uno dei rappresentanti dei popolo, Mauguin, era stato condannato per debiti.
Su richiesta del presidente del tribunale il ministro della giustizia Rouher,
dichiarò che si doveva senz'altro spiccare un mandato di arresto contro il
debitore. Mauguin fu dunque gettato nella prigione per debiti. L'Assemblea
nazionale, non appena ebbe notizia di questo attentato, montò su tutte le furie.
Non soltanto ordinò che egli fosse immediatamente rilasciato, ma la sera stessa,
a mezzo del suo graffier, lo fece trarre a viva forza fuori dalla
prigione di Clichy. Ma, per confermare la propria fede nella santità della
proprietà privata, e con l'intenzione nascosta di aprire in caso di bisogno un
asilo per montagnardi divenuti importuni dichiarò che i rappresentanti dei
popolo potevano essere messi in prigione per debiti solo a patto che esistesse
la previa autorizzazione dell'Assemblea. Essa si dimenticò di decretare che
anche il presidente poteva venir messo in prigione per debiti.
Così distruggeva l'ultima apparenza di inviolabilità di cui erano circondati
i propri membri.
Ci si ricorderà che il commissario di polizia Yon, dietro testimonianze di un
tale Alais, aveva accusato una sezione di decembristi di aver tramato
l'assassinio di Dupin e di Changarnier. A questo proposito, i questori fecero,
fin dalla prima seduta, la proposta di creare una speciale polizia parlamentare,
retribuita sul bilancio privato dell'Assemblea nazionale e completamente
indipendente dal prefetto di polizia. Il ministro degli interni, Baroche,
protestò contro questa intromissione nella sfera della sua competenza. Si venne
allora a un miserabile compromesso, secondo il quale il commissario di polizia
dell'Assemblea doveva essere retribuito sul bilancio privato di questa e
designato e revocato dai suoi questori, ma previo accordo col ministro degli
interni. Nel frattempo Alais era stato tradotto dal governo davanti ai tribunali
e qui era stato facile presentare le sue dichiarazioni come una di
mistificazione e farsi beffe, per bocca dei pubblico ministero, di Dupin, di
Changarnier, di Yon, e di tutta l'Assemblea nazionale. Ed ecco che il 29
dicembre il ministro Baroche scrive una lettera a Dupin, chiedendogli il
licenziamento di Yon. L'ufficio di presidenza dell'Assemblea nazionale decide di
mantenere Yon al suo posto, ma l'Assemblea, spaventata dell'atto di violenza
compiuto nell'affare Mauguin, e avvezza, ogni volta che osa dare un colpo al
potere esecutivo, a riceverne due in cambio, non sanziona questa decisione. Essa
licenzia Yon per ricompensarlo del suo zelo e si priva di una prerogativa
parlamentare, indispensabile, contro un uomo che non decide di notte per
eseguire di giorno, ma decide di giorno per eseguire di notte.
Abbiamo visto come l'Assemblea nazionale, nei mesi di novembre e di dicembre,
aveva evitato, in occasioni importanti, decisive, di impegnare la lotta col
potere esecutivo: si era ritirata. Ora la vediamo costretta ad accettare la
lotta per i motivi più meschini. Nell'affare Mauguin essa conferma, in via di
principio, che i rappresentanti dei popolo possono essere arrestati per debiti;
ma si riserva di far applicare questo principio solo ai rappresentanti del
popolo che non le vanno a genio e litiga coi ministro della giustizia per questo
privilegio infame. Invece di utilizzare il preteso progetto di assassinio per
ordinare un'inchiesta sulla Società del 10 dicembre e per smascherare senza
pietà Bonaparte nel suo vero aspetto di capo dei sotto proletariato parigino,
davanti alla Francia e all'Europa, essa lascia ridurre il conflitto alla
questione se la nomina e la rimozione di un commissario di polizia spetti a lei
o al ministro degli interni. Così durante tutto questo periodo vediamo il
partito dell'ordine costretto dalla sua posizione equivoca a consumare e
spezzettare la sua lotta col potere esecutivo in una serie di meschini conflitti
di competenza, di risse, di cavilli, di contrasti di potere; costretto a fare
delle più stupide questioni di forma il contenuto della sua attività. Esso non
osa impegnare la battaglia quando questa ha un'importanza di principio, quando
il potere esecutivo si è veramente smascherato e la causa dell'Assemblea
nazionale sarebbe la causa di tutta la nazione. In tal modo quest'ultima darebbe
alla nazione un ordine di marcia; ma quello che teme più di tutto è che la
nazione si muova. In Simili occasioni, perciò, il partito dell'ordine respinge
le proposte della Montagna e passa all'ordine del giorno. Spogliato così il
conflitto delle sue grandi dimensioni, il potere esecutivo attende
tranquillamente il momento in cui può riprenderlo per motivi insignificanti e
meschini, che non offrono più, per così dire, che un interesse strettamente
parlamentare. Allora il furore contenuto dei partito dell'ordine scoppia; allora
questo partito strappa il sipario che nasconde il retroscena; allora denuncia il
presidente e dichiara la repubblica in pericolo; ma allora il suo patos appare
insipido e il motivo della lotta appare ormai soltanto un pretesto ipocrita o,
in generale, non degno di un combattimento. La tempesta parlamentare si
trasforma in una tempesta in un bicchier d'acqua; la lotta diventa intrigo; il
conflitto diventa scandalo. Mentre la gioia maligna delle classi rivoluzionarie
si pasce dell’umiliazione dell'Assemblea nazionale, poiché esse si appassionano
per le prerogative dell'Assemblea altrettanto quanto l'Assemblea si appassiona
per le pubbliche libertà, la borghesia fuori del Parlamento non comprende come
la borghesia all'interno del Parlamento possa perdere il suo tempo in risse così
meschine e turbare la tranquillità per rivalità così miserabili col presidente.
Essa è sconcertata da una strategia che fa la pace in un momento in cui tutti
aspettano la guerra, e attacca in un momento in cui tutti credono che la pace
sia conclusa.
Il 20 dicembre Pascal Duprat interpellò il ministro degli interni sulla
lotteria delle verghe d'oro. Questa lotteria era "figlia dell'Elisio"; Bonaparte
l'aveva messa al mondo insieme con i suoi fedeli, e il prefetto di polizia
Carlier l'aveva posta sotto la sua protezione ufficiale, benché la legge
francese proibisca tutte le lotterie, ad eccezione delle estrazioni a scopo di
beneficenza. Sette milioni di biglietti, a un franco l'uno, il cui ricavo
avrebbe dovuto essere destinato al trasporto in California dei vagabondi di
Parigi. Da un lato si voleva che dei sogni dorati cacciassero i sogni socialisti
del proletariato di Parigi; che il miraggio seducente del primo premio cacciasse
il dottrinario diritto al lavoro. Gli operai di Parigi, naturalmente, non
riconoscevano più nelle scintillanti verghe d'oro della California gli oscuri
franchi che erano stati cavati loro dalle tasche. In sostanza però si trattava
di una vera e propria truffa. I vagabondi che volevano scoprire le miniere d'oro
della California senza muoversi da Parigi erano Bonaparte stesso e i suoi
cavalieri della tavola rotonda rovinati dai debiti. I tre milioni accordati
dall'Assemblea nazionale erano stati allegramente consumati; la cassa doveva
essere riempita, in un modo o nell'altro. Invano Bonaparte aveva aperto una
sottoscrizione pubblica per la costruzione di cosiddette cités ouvrières,
e figurava egli stesso capo della sottoscrizione con una somma rilevante. I
borghesi dal cuore duro attesero con diffidenza che egli versasse la somma che
aveva sottoscritto, e poiché il versamento, com'è naturale, non ebbe luogo, la
speculazione sui castelli in aria socialisti precipitò miseramente. Le verghe
d'oro ebbero miglior successo. Bonaparte e consorti non si limitarono a
intascare in parte la differenza tra i sette milioni e il valore delle verghe
d'oro messe in lotteria; ma fabbricarono pure dei biglietti falsi; emisero per
un sol numero dieci, quindici, e sino a venti biglietti. Una operazione
finanziaria conforme allo spirito della Società del 10 dicembre! Qui
l'Assemblea nazionale non aveva più davanti a sé il fittizio presidente della
repubblica, ma Bonaparte in carne ed ossa. Qui essa poteva coglierlo sul fatto
in conflitto, non con la Costituzione, ma col code penal. Se essa rinviò
l'interpellanza di Duprat e passò all'ordine del giorno, ciò non avvenne
soltanto perché la proposta di Girardin di dichiararsi "satisfait"
richiamava alla memoria del partito dell'ordine la propria corruzione
sistematica. Il borghese, e soprattutto il borghese gonfiato alla dignità di
uomo di Stato, completa la sua volgarità pratica con una ridondanza teorica.
Come uomo di Stato egli diventa, al pari del potere dello Stato che gli sta di
fronte, un essere superiore, che può essere combattuto solo con mezzi superiori,
consacrati.
Bonaparte, che proprio come bohèmien e come principe sottoproletario,
aveva sul mascalzone borghese il vantaggio di poter condurre la lotta con mezzi
volgari, quando l'Assemblea stessa lo ebbe aiutato di propria mano a superare il
terreno sdrucciolevole dei banchetti militari, delle riviste, della Società dei
10 dicembre, e infine del code pénal vide che era giunto il momento in
cui poteva passare dall'apparente difensiva all'offensiva. Le piccole sconfitte
subite nel frattempo dal ministri della giustizia, della guerra, della marina,
delle finanze, sconfitte in cui l'Assemblea nazionale manifestava il suo ringhio
di disappunto, non lo turbavano molto. Non soltanto impedì ai ministri di
dimettersi e di riconoscere in questo modo la subordinazione del potere
esecutivo al Parlamento, ma dopo aver incominciato, durante le ferie
dell'Assemblea nazionale, a separare il potere militare dal Parlamento, poté ora
condurre a termine la cosa, destituendo Changarnier.
Un foglio dell'Eliseo pubblicò un ordine del giorno che sarebbe stato rivolto
durante il mese di maggio alla prima divisione militare, ed emanante quindi da
Changarnier, in cui si raccomandava agli ufficiali, in caso di disordini, di non
dar quartiere ai traditori nelle loro proprie file, di fucilarli senz'altro e di
non mettere le truppe a disposizione dell'Assemblea nazionale nel caso che
questa le richiedesse. Il 3 gennaio 1851 il gabinetto venne interpellato a
proposito di questo ordine del giorno. Esso chiede, per esaminare la
questione, prima tre mesi, poi una settimana, infine soltanto ventiquattro ore
di riflessione. L'Assemblea insiste per avere una spiegazione immediata.
Changarnier si leva, dichiara che l'ordine del giorno non è mai esistito e
aggiunge che sarà sempre sollecito nell'obbedire alle richieste dell'Assemblea
nazionale e che questa, in caso di conflitto, può contare sopra di lui.
L'Assemblea accoglie la sua dichiarazione con applausi frenetici e gli decreta
un voto di fiducia. Mettendosi sotto la protezione privata di un generale, essa
abdica, decreta la propria impotenza e l'onnipotenza dell'esercito; ma il
generale s'inganna ponendo a disposizione dell'Assemblea, contro Bonaparte, un
potere che egli ha soltanto in prestito da Bonaparte, e attendendo a sua volta
di essere difeso da questo Parlamento, da questo protettore che ha bisogno della
sua protezione. Ma Changarnier ha fede nel misterioso potere di cui la borghesia
lo ha investito a partire dal 29 gennaio 1849. Crede di essere il terzo potere,
accanto ai due altri poteri dello Stato e condivide la sorte degli altri eroi, o
piuttosto santi dell'epoca, la cui grandezza consiste nell'aureola interessata
che il loro partito ha creato intorno ad essi, e che ricadono al livello di
figure banali non appena le circostanze richiedono loro di far dei miracoli.
L'incredulità è, in generale, la nemica mortale di questi eroi presunti e santi
genuini. Di qui il loro sdegno morale, pieno di dignità, contro gli spiriti
beffardi e poveri di entusiasmo.
La sera stessa i ministri vengono convocati all'Eliseo; Bonaparte esige la
destituzione di Changarnier; cinque ministri rifiutano di firmarla; il
Moniteur annuncia una crisi ministeriale e la stampa del partito dell'ordine
minaccia la formazione di un esercito del Parlamento, sotto il comando di
Changarnier. Il partito dell'ordine era autorizzato a ciò dalla Costituzione.
Non aveva che da nominare Changarnier presidente dell'Assemblea nazionale e da
requisire una massa qualsivoglia di soldati per garantire la propria sicurezza.
Poteva farlo tanto più sicuramente, in quanto Changarnier era effettivamente
ancora alla testa dell'esercito e della Guardia nazionale di Parigi, e non
aspettava che il momento di essere requisito insieme all'esercito. La stampa
bonapartista non osava nemmeno porre in dubbio il diritto dell'Assemblea
nazionale di requisire direttamente le truppe. Si trattava quindi di uno
scrupolo giuridico che, date le circostanze, non presagiva nessun successo. È
verosimile che l'esercito avrebbe obbedito all'ordine dell'Assemblea
costituente, se si pensa che Bonaparte dovette cercare otto giorni in tutta
Parigi per trovare infine due generali - Baraguay d'Hilliers e Saint-Jean d'Angély,
che si dichiarassero disposti a controfirmare la destituzione di Changarnier. Ma
è molto dubbio, al contrario, che il partito dell'ordine fosse in grado di
trovare nelle sue proprie file e nel Parlamento il numero di voti necessario per
una tale decisione, se si pensa che otto giorni più tardi se ne staccarono 286
voti, e che la Montagna, ancora nel dicembre 1851, cioè nel momento supremo,
respinse una proposta simile. Tuttavia i burgravi sarebbero forse riusciti
ancora a trascinare la massa del loro partito a un eroismo consistente nel
sentirsi sicuri dietro una selva di baionette e nell'accettare i servizi di un
esercito che era passato nel loro campo. Invece di far ciò, i signori burgravi
si recarono la sera dei 6 gennaio all'Eliseo per far desistere Bonaparte, con
prudenti e contorte considerazioni politiche, dalla destituzione di Changarnier.
Quando si cerca di convincere qualcuno, è perché si riconosce che egli è padrone
della situazione. Bonaparte, rassicurato da questo passo, nomina il 12 gennaio
un nuovo ministero in cui rimangono i capi del ministero precedente, Fould e
Baroche. Saint-Jean d'Angély diventa ministro della guerra, il Moniteur
pubblica il decreto che destituisce Changarnier, e il suo comando viene diviso
tra Baraguay d'Hilliers, che riceve la prima divisione militare, e Perrot, che
riceve la Guardia nazionale. Il baluardo della società è congedato; e per questo
non cade dal tetti nessun sasso, anzi i corsi della Borsa sono in rialzo.
Respingendo l'esercito che si era posto a sua disposizione nella persona di
Changarnier e ponendolo in modo così irrevocabile nelle mani del presidente, il
partito dell'ordine dichiarava che la borghesia aveva perduto la missione di
comandare. Non esisteva già più un ministero parlamentare; avendo perduto ora
anche la possibilità di disporre dell'esercito e della Guardia nazionale, quale
altro mezzo di azione gli rimaneva per difendere in pari tempo il potere
strappato dal Parlamento al popolo e il proprio potere costituzionale contro il
presidente? Nessuno. Gli rimaneva ancora l'appello a princìpi privi di potenzi,
che esso stesso aveva sempre considerati soltanto come regole generali che si
prescrivono agli altri per potersi muovere tanta più liberamente. Con la
destituzione di Changarnier, con l'attribuzione del potere militare a Bonaparte
si chiude la prima parte del periodo che stiamo considerando, del periodo della
lotta tra il partito dell'ordine e il potere esecutivo. La guerra tra questi due
poteri è ora apertamente dichiarata e viene condotta apertamente, ma solo dopo
che il partito dell'ordine ha perduto le armi e i soldati. Senza ministero,
senza esercito, senza popolo, senza opinione pubblica, dopo la legge elettorale
dei 31 maggio non più rappresentante della nazione sovrana, senz'occhi,
senz'orecchi, senza denti, senza tutto, l'Assemblea nazionale si era trasformata
a poco a poco in un Parlamento della vecchia Francia, costretto ad
abbandonare l'azione al governo e a limitarsi a ringhiose rimostranze post
festum.
Il partito dell'ordine accoglie il nuovo ministero con una tempesta
d'indignazione. Il generale Bedeau richiama alla memoria la moderazione di cui
aveva dato prova durante le ferie la Commissione permanente, e l'estremo
riguardi con cui essa aveva rinunciato alla pubblicazione dei suoi verbali.
Allora il ministro degli interni insiste di persona perché vengano pubblicati
questi verbali, che ora, naturalmente, sono diventati insipidi come l'acqua
stantia, non rivelano nessun fatto nuovo e cadono tra il pubblico ormai stanco
senza produrre il minimo effetto. Su proposta di Rémusat, l'Assemblea nazionale
si ritira nei suoi uffici e nomina un "comitato di misure straordinarie". Parigi
non abbandona il corso della sua vita quotidiana; tanto più che in questo
momento il commercio è prospero, le manifatture lavorano, i prezzi del grano
sono bassi, i viveri sono abbondanti e le casse di risparmio ricevono ogni
giorno nuovi depositi. Le "misure straordinarie" che il Parlamento ha annunciato
con tanto chiasso si riducono, il 18 gennaio, a un voto di sfiducia contro il
ministero, senza che venga nemmeno fatta menzione del generale Changarnier. Il
partito dell'ordine era obbligato a formulare il suo voto a questo modo per
assicurarsi i voti dei repubblicani, perché, fra tutte le misure prese dal
ministero, la destituzione di Changarnier era proprio l'unica che questi
approvassero, mentre di fatto il partito dell'ordine non poteva criticare le
altre misure ministeriali, che esso stesso aveva dettate.
La mozione di sfiducia dei 18 gennaio venne approvata con 415 voti contro
286. Fu dunque approvata soltanto per mezzo di una coalizione dei
legittimisti e degli orleanisti dichiarati coi repubblicani puri e con la
Montagna. Fu dimostrato in tal modo che il partito dell'ordine aveva perduto non
soltanto il ministero, non soltanto l'esercito, ma nei conflitti con Bonaparte
aveva perduto anche la propria maggioranza parlamentare indipendente; fu
dimostrato che un gruppo di rappresentanti aveva disertato il suo campo, per
spirito di conciliazione spinto al fanatismo, per paura della lotta, per
stanchezza, per un riguardo di famiglia verso i consanguinei stipendiati dallo
Stato, per speculazione sui futuri posti ministeriali vacanti (Odilon Barrot),
per il volgare egoismo onde il borghese ordinario è sempre disposto a
sacrificare l'interesse generale della sua classe a questo o a quel motivo
privato. I rappresentanti bonapartisti appartenevano fin da prima al partito
dell'ordine soltanto per la lotta contro la rivoluzione. Già in quel momento il
capo del partito cattolico, Montalembert, disperando della vitalità del partito
parlamentare, gettava la sua influenza dalla parte di Bonaparte. I capi del
partito parlamentare, infine, Thiers e Berryer, orleanista l'uno, legittimista
l'altro, erano costretti a proclamarsi apertamente repubblicani; a riconoscere
che se il loro cuore era monarchico, la loro testa era repubblicana; che la loro
repubblica parlamentare era l'unica forma possibile di dominio della borghesia
nel suo assieme. Erano così costretti a bollare agli occhi della stessa classe
borghese, come intrighi altrettanto pericolosi quanto insensati, i piani di
restaurazione che essi stessi tramavano indefessamente alle spalle del
Parlamento.
Il voto di sfiducia del 18 gennaio colpiva i ministri, non il presidente. Ma
non il ministero, bensì il presidente aveva destituito Changarnier. Doveva il
partito dell'ordine mettere in stato d'accusa Bonaparte stesso? Per le sue
velleità di restaurazione? Ma queste non facevano altro che completare le.
proprie. Per la sua cospirazione nelle riviste militari e nella società dei 10
dicembre? Ma questi argomenti erano stati seppelliti da tempo sotto ordini del
giorno puri e semplici. Per la destituzione dell'eroe del 29 gennaio e del 13
giugno, dell'uomo che nel maggio 1850 minacciava, in caso di una sommossa a
Parigi, di appiccare il fuoco ai quattro angoli della città? I suoi alleati
della Montagna e Cavaignac non permettevano al partito dell'ordine di
risollevare il caduto baluardo della società nemmeno con una semplice
manifestazione ufficiale di condoglianza. Per conto proprio gli uomini del
partito dell'ordine non potevano contestare al presidente la facoltà
costituzionale di destituire un generale. Essi smaniavano soltanto perché egli
aveva fatto uso dei suoi diritti costituzionali in modo antiparlamentare. Ma non
avevano proprio loro fatto continuamente uso delle loro prerogative parlamentari
in modo anticostituzionale, specialmente nella soppressione del suffragio
universale? Essi erano dunque tenuti a muoversi strettamente entro i limiti del
Parlamento. E dovevano essere colpiti da quella particolare malattia che a
partire dal 1848 ha infierito su tutto il Continente, il cretinismo
parlamentare, malattia che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo
immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo
mondo esteriore; dovevano essere colpiti da quel cretinismo parlamentare mentre,
dopo aver distrutto con le loro mani tutte le condizioni del potere dei
Parlamento, dopo esser stati costretti a distruggerle nella loro lotta con le
altre classi, consideravano ancora le loro vittorie parlamentari vere vittorie
e, battendo i suoi ministri, credevano di colpire il presidente. Essi offrivano
a quest'ultimo unicamente l'occasione di umiliare ancora una volta l'Assemblea
nazionale agli occhi della nazione. Il 20 gennaio il Moniteur annunciava
che le dimissioni di tutto il ministero erano accettate; e col pretesto che
nessun partito parlamentare possedeva più la maggioranza, come dimostrava il
voto del 18 gennaio, frutto della coalizione della Montagna e dei monarchici, e
in attesa che si formasse una nuova maggioranza, Bonaparte nominò un cosiddetto
ministero di transizione, nessun membro del quale apparteneva al Parlamento, e
che era composto esclusivamente di individui assolutamente sconosciuti e
insignificanti, un ministero di semplici commessi e di scrivani. Il partito
dell'ordine poteva ora esaurirsi nel gioco cori queste marionette; il potere
esecutivo non considerava più che valesse la pena di essere seriamente
rappresentato nel Parlamento. Bonaparte concentrava nella sua persona tutto il
potere esecutivo in modo altrettanto più palese; e aveva tanto maggiore libertà
di sfruttarlo ai propri scopi, quanto più i suoi ministri erano semplici
comparse.
Il partito dell'ordine, coalizzato con la Montagna, si vendicò respingendo
l'assegno presidenziale di 1.800.000 franchi che il presidente della Società del
10 dicembre aveva obbligato i suoi commessi ministeriali a chiedere al
Parlamento. Questa volta la maggioranza fu di soli centodue voti. Dal 18 gennaio
altri ventisette voti si erano dunque squagliati. La decomposizione dei partito
dell'ordine proseguiva. Nello stesso tempo, il partito dell'ordine, affinché non
ci si ingannasse nemmeno un momento circa il significato della sua coalizione
con la Montagna, non degnò nemmeno di prendere in considerazione una proposta di
amnistia generale per i condannati politici, firmata da 189 membri della
Montagna. Bastò che il ministro degli interni, un tal Vaïsse, dichiarasse che la
tranquillità era soltanto apparente, che in segreto regnava una grande
agitazione, che si organizzavano società dappertutto in segreto, che i giornali
democratici prendevano le loro disposizioni per apparire di nuovo, che i
rapporti delle province erano sfavorevoli, che i profughi di Ginevra
organizzavano una congiura che si estendeva da Lione a tutto il mezzogiorno
della Francia, che la Francia si trovava sull'orlo di una crisi industriale e
commerciale, che i fabbricanti di Roubaix avevano ridotto la giornata di lavoro,
che i prigionieri di Belle-Isle si erano ribellati, bastò che un semplice Vaïsse
evocasse lo spettro rosso, perché il partito dell'ordine respingesse senza
discussione una proposta che avrebbe dato alla Assemblea nazionale una
popolarità immensa e avrebbe nuovamente gettato Bonaparte nelle sue braccia.
Invece di lasciarsi intimidire dal potere esecutivo con la prospettiva di nuovi
disordini, l'Assemblea avrebbe dovuto dare un po' di campo libero alla lotta di
classe, per mantenere il potere esecutivo alle sue dipendenze. Ma non si sentiva
la forza di giocare col fuoco.
Frattanto il cosiddetto ministero di transizione vegetò fino a metà del mese
di aprile. Bonaparte stancava l'Assemblea nazionale e si faceva beffe di essa
con sempre nuove combinazioni ministeriali. Ora sembrava che volesse costituire
un ministero repubblicano con Lamartine e Billault; ora un ministero
parlamentare con l'inevitabile Odilon Barrot, il cui nome non poteva mai mancare
quando occorreva un minchione; ora un ministero legittimista con Vatimesnil e
Benoit d'Azy; ora un ministero orleanista con Maleville.
Mentre egli manteneva così le differenti frazioni del partito dell'ordine in
uno stato di tensione reciproca, e le spaventava tutte con la visione di un
ministero repubblicano e della restaurazione in questo caso inevitabile, del
suffragio universale, nello stesso tempo creava nella borghesia la convinzione
che i suoi sforzi sinceri per creare un ministero parlamentare si rompessero
contro l'inconciliabilità delle frazioni monarchiche. Ma la borghesia reclamava
un "governo forte" con tanto maggior forza, e tanto più imperdonabile le
sembrava il fatto che si lasciasse la Francia "senza amministrazione", quanto
più pareva si avvicinasse una crisi commerciale generale che avrebbe rafforzato
il socialismo nelle città, come i bassi prezzi rovinosi dei cereali lo
rafforzavano nelle campagne. Il commercio diventava di giorno in giorno più
fiacco; il numero delle braccia disoccupate aumentava a vista d'occhio; a
Parigi, 10.000 operai per lo meno erano senza pane; a Rouen, Mulhouse, Lione,
Roubaix, Tourcoing, St. Etienne, Elbeuf, ecc., innumerevoli fabbriche erano
chiuse. In queste circostanze Bonaparte poté osare di restaurare, l'11 aprile,
il ministero del 18 gennaio: i signori Rouher, Fould, Baroche, ecc., rafforzati
dal signor Léon Faucher, che l'Assemblea costituente, durante i suoi ultimi
giorni di vita, aveva colpito con un voto di sfiducia all'unanimità, eccetto
cinque voti di cinque ministri, per divulgazione di comunicazioni telegrafiche
false. L'Assemblea nazionale aveva dunque riportato il 18 gennaio una vittoria
sul ministero; aveva lottato per tre mesi contro Bonaparte, affinché l'11 aprile
Fould e Baroche potessero prendere come terzo nella loro associazione
ministeriale il puritano Faucher.
Se nel novembre 1849 Bonaparte si era accontentato di un ministero non
parlamentare e nel gennaio 1851 di un ministero extraparlamentare, l'11 aprile
si sentì abbastanza forte per formare un ministero antiparlamentare, un
ministero che riuniva in sé in modo armonico i voti di sfiducia delle due
Assemblee, la Costituente e la Legislativa, la repubblicana e la monarchica.
Questa successione di ministeri era il termometro secondo cui il Parlamento
poteva misurare la diminuzione del proprio calore vitale. A fine aprile era
caduto così in basso che Persigny, in un abboccamento personale con Changarnier,
poté invitarlo a passare dalla parte del presidente. Bonaparte, gli assicurò,
considera completamente distrutta l'influenza dell'Assemblea nazionale ed è già
pronto il proclama che dovrà essere pubblicato dopo il colpo di stato
continuamente progettato, ma per ora nuovamente rinviato. Changarnier comunicò
ai capi del partito dell'ordine questo annunzio di morte, ma chi ha mai creduto
che la morsicatura delle cimici sia mortale? E il Parlamento, così battuto, così
disfatto, così agonizzante com'era, non poteva rassegnarsi a vedere nel duello
col capo grottesco della Società dei 10 dicembre altra cosa che il duello con
una cimice. Ma Bonaparte rispose al partito dell'ordine come Agesilao al re
Agide: "Ti sembro formica ma un giorno sarò leone".
VI
La coalizione con la Montagna e coi repubblicani puri, a cui il partito
dell'ordine si era visto condannato nei suoi vani tentativi per restare in
possesso del potere militare e per riconquistare la direzione suprema del potere
esecutivo, provava in modo inconfutabile che esso aveva perduto la propria
maggioranza parlamentare. La forza pura e semplice del calendario, la lancetta
dell'orologio, dette, il 29 maggio, il segnale della sua completa
decomposizione. Il 29 maggio cominciava l'ultimo anno di vita dell'Assemblea
nazionale. Essa doveva ormai decidersi, o per la proroga senza modificazioni, o
per la revisione della Costituzione. Ma revisione della Costituzione non
significava soltanto l'alternativa: dominio della borghesia o della democrazia
piccolo-borghese, democrazia o anarchia proletaria, repubblica parlamentare o
Bonaparte; significava altresì l'alternativa: Orléans o Borbone. Così cadde in
mezzo al Parlamento il pomo della discordia attorno al quale doveva scoppiare
apertamente il conflitto di interessi che divideva il partito dell'ordine in
frazioni ostili. Il partito dell'ordine era una combinazione di sostanze sociali
eterogenee. La questione della revisione creò una temperatura politica con la
quale il prodotto si scompose di nuovo nel suoi elementi costitutivi.
L'interesse dei bonapartisti alla revisione era semplice. Per essi si
trattava innanzi tutto della soppressione dell'articolo 45, che vietava la
rielezione di Bonaparte e la proroga dei suoi poteri. Non meno semplice sembrava
la posizione dei repubblicani. Essi respingevano in modo assoluto ogni
revisione; vedevano nella revisione una congiura generale contro la repubblica.
Poiché disponevano di più di un quarto dei voti dell'Assemblea nazionale,
e poiché secondo la Costituzione si richiedevano i tre quarti dei voti affinché
si potesse legalmente decidere la revisione e convocare un'Assemblea chiamata a
realizzarla, non avevano che da contare i loro voti per esser sicuri della
vittoria. E della vittoria erano sicuri.
Di fronte a queste posizioni chiare, il partito dell'ordine era in preda a
contraddizioni inesplicabili. Se respingeva la revisione metteva in pericolo lo
status quo perché lasciava a Bonaparte una sola via d'uscita, il ricorso
alla forza; perché abbandonava la Francia, nel momento della decisione, la
seconda [domenica] di maggio del 1852, all'anarchia rivoluzionaria, con un
presidente che aveva perduto la sua autorità, con un Parlamento che da tempo non
l'aveva più e con un popolo che pensava di riconquistarla. Se votava per la
revisione secondo la Costituzione, sapeva che votava invano e che, secondo la
Costituzione sarebbe naufragato per il veto dei repubblicani. Se, violando la
Costituzione, dichiarava sufficiente la maggioranza dei voti, poteva sperare di
dominare la rivoluzione soltanto sottomettendosi senza riserve alla discrezione
del potere esecutivo e facendo così di Banaparte il padrone della Costituzione,
della revisione e dello stesso partito dell'ordine. Una revisione solamente
parziale, che prolungasse i poteri del presidente, spianava il cammino
all'usurpazione imperiale. Una revisione generale, che abbreviasse l'esistenza
della repubblica, portava inevitabilmente a un conflitto delle aspirazioni
dinastiche, perché le condizioni per una restaurazione borbonica e le condizioni
per una restaurazione orleanista non soltanto erano diverse, ma si escludevano a
vicenda.
La repubblica parlamentare era più che il terreno neutrale su cui le
due frazioni della borghesia francese, i legittimisti e gli orleanisti, la
grande proprietà fondiaria e l'industria, potevano vivere l'una accanto
all'altra a parità di diritti. Era la condizione indispensabile del loro dominio
comune, l'unica forma di Stato in cui il loro interesse generale di
classe potesse subordinare a sé tanto le pretese delle sue frazioni singole,
quanto tutte le altre classi della società. Come monarchici essi ricadevano nel
loro vecchio antagonismo, nella lotta per la supremazia della grande proprietà
fondiaria o del danaro, e l'espressione più alta di questo antagonismo, la sua
personificazione, erano i loro stessi re, le loro dinastie. Di qui la resistenza
del partito dell'ordine al richiamo dei Borboni.
L'orleanista e rappresentante del popolo Créton aveva
presentato periodicamente, nel 1849, nel 1850 e nel 1851, la proposta che
venisse revocato il decreto che bandiva le famiglie reali. Il Parlamento aveva
quindi offerto, altrettanto periodicamente, lo spettacolo di un'assemblea di
monarchici, che ostinatamente sbarrava ai re banditi la porta attraverso la
quale essi avrebbero potuto ritornare. Riccardo III aveva assassinato Enrico VI
dichiarando che egli era troppo buono per questo mondo, e che il suo posto era
nel cielo. Essi dichiaravano che la Francia era troppo cattiva per possedere di
nuovo i suoi re. Costretti dalla forza delle circostanze, erano diventati
repubblicani e sanzionavano di bel nuovo la decisione del popolo che aveva
cacciato dalla Francia i loro re.
La revisione della Costituzione - e le circostanze costringevano a prenderla
in considerazione - poneva in discussione, insieme alla repubblica, anche il
dominio comune delle due frazioni della borghesia, e rendendo possibile la
monarchia, riattizzava la rivalità degli interessi che la monarchia aveva
rappresentato di volta in volta in modo preminente; riaccendeva la lotta per la
supremazia di una frazione sull'altra. I diplomatici del partito dell'ordine
credevano di poter trovare un compromesso con una unione delle due dinastie, con
quella che essi chiamavano una fusione dei partiti monarchici e delle
loro case reali. Ma la vera fusione della Restaurazione e della Monarchia
di luglio era la repubblica parlamentare, in cui i colori orleanisti e
legittimisti erano svaniti e le differenti specie di borghesi erano scomparse
nel borghese senza aggettivi, nel genere borghese. L'orleanista sarebbe ora
dovuto diventare legittimista, il legittimista orleanista. La monarchia, in cui
si incarnava il loro dissidio, sarebbe dovuta diventare la incarnazione della
loro unità; l'espressione dei loro interessi esclusivi di frazione sarebbe
dovuta diventare l'espressione dei loro interessi comuni di classe; la monarchia
avrebbe dovuto fare ciò che soltanto la negazione di due monarchie, cioè la
repubblica, aveva potuto fare e aveva fatto. Era questa la pietra filosofale,
per fabbricar la quale si rompevano la testa i dottori del partito dell'ordine.
Come se la monarchia legittima potesse mai diventare la monarchia della
borghesia industriale o il regno della borghesia diventare il regno
dell'aristocrazia fondiaria ereditaria. Come se la grande proprietà
fondiaria e l'industria potessero fraternizzare sotto una sola corona,
mentre la corona poteva cadere sopra una testa sola, o su quella del primogenito
o su quella del cadetto. Come se l'industria potesse, in generale, conciliarsi
con la proprietà fondiaria, sino a che la proprietà fondiaria non si decide a
diventare anch'essa industriale. Se Enrico V morisse domani, il conte di Parigi
non diventerebbe perciò il re dei legittimisti, a meno che non finisse di essere
il re degli orleanisti. Ma i filosofi della fusione, che tanto più si
facevano avanti quanto più diventava attuale la questione della revisione, che
si erano creati nell'Assemblée nationale un organo quotidiano ufficiale
che persino oggi (febbraio 1852) sono nuovamente all'opera, attribuivano tutte
le difficoltà alla resistenza e alla rivalità delle due dinastie. I tentativi di
riconciliare la famiglia di Orléans con Enrico V, incominciati sin dalla morte
di Luigi Filippo, ma condotti, come tutti gli intrighi dinastici, soltanto
durante le ferie dell'Assemblea nazionale, negli intermezzi, dietro le quinte,
più come una civetteria sentimentale con la vecchia superstizione che come un
affare presa sul serio, divennero ora azioni capitali e di Stato, vennero
portati dal partito dell'ordine sulla scena pubblica e non più soltanto sulla
scena dei teatrini dei dilettanti. I corrieri volavano da Parigi a Venezia, da
Venezia a Claremont, da Claremont a Parigi. Il conte di Chambord lancia un
manifesto in cui annuncia, "con l'aiuto di tutti i membri della sua famiglia",
non la propria restaurazione, ma ,la restaurazione "nazionale". L'orleanista
Salvandy si getta ai piedi di Enrico V. I capi legittimisti Berryer, Benôit d'Azy,
Saint-Priest, si recano a Claremont per convincere gli Orléans, ma invano. I
fusionisti si accorgono troppo tardi che gli interessi delle due frazioni della
borghesia non perdono il loro carattere esclusivo e non diventano più facilmente
conciliabili per il fatto che si acuiscono nella forma di interessi di famiglia,
di interessi di due case reali. Anche se Enrico V avesse riconosciuto come suo
successore il conte di Parigi - e questo era l'unico successo che nel migliore
dei casi, la fusione potesse avere -, la casa di Orléans non avrebbe guadagnato
nessun diritto che già non fosse assicurato dalla mancanza di figli di Enrico V,
e avrebbe perduto tutti i diritti che aveva conquistato con la rivoluzione di
luglio. Essa avrebbe rinunciato alle sue pretese originarie, a tutti i titoli
che aveva strappato alla branca primogenita dei Borboni in una lotta quasi
secolare, avrebbe barattato le sue prerogative storiche, le prerogative della
monarchia moderna, con la prerogativa del suo albero genealogico. La fusione non
era dunque altro che un'abdicazione volontaria della casa di Orléans, la sua
rinuncia legittimista, il suo ritorno contrito dalla Chiesa di Stato protestante
alla Chiesa cattolica. E questo ritorno non la rimetteva nemmeno sul trono che
essa aveva perduto, ma soltanto sui gradini del trono su cui era nata. I vecchi
ministri orleanisti, Guizot, Duchâtel, ecc., che si precipitarono egualmente a
Claremont per sollecitare la fusione, esprimevano in sostanza soltanto il
disgusto per la rivoluzione di luglio, la mancanza di fiducia nella monarchia
borghese e nella monarchia dei borghesi, la fede superstiziosa nella legittimità
come ultimo amuleto contro l'anarchia. Mentre immaginavano di essere mediatori
tra gli Orléans e i Borboni, erano effettivamente soltanto orleanisti rinnegati,
e come tali li ricevette il principe di Joinville. La parte vitale, combattiva,
degli orleanisti, invece, Thiers, Baze, ecc., ebbero tanto miglior giuoco nel
convincere la famiglia di Luigi Filippo che se ogni restaurazione monarchica
immediata presupponeva la fusione delle due dinastie, ogni fusione delle due
dinastie presupponeva però l'abdicazione della casa di Orléans, mentre era
pienamente conforme alla tradizione dei loro predecessori riconoscere
temporaneamente la repubblica ed aspettare sino a che gli avvenimenti
permettessero di cambiare il seggio presidenziale in un trono. Si diffuse la
voce della candidatura presidenziale del principe di Joinville; si mantenne
desta la curiosità pubblica; e alcuni mesi dopo, respinta la revisione, questa
candidatura venne proclamata pubblicamente.
Il tentativo di una fusione monarchica tra orleanisti e legittimisti non era
dunque soltanto fallito, ma aveva anche spezzato la loro fusione
parlamentare, la loro forma comune repubblicana, e aveva nuovamente
decomposto il partito dell'ordine nei suoi elementi originari. Ma quanto più
diventavano tese le relazioni tra Claremont e Venezia, quanto più si rompeva il
loro accordo e l'agitazione per Joinville guadagnava terreno, tanto più attive,
tanto più serie si facevano le trattative tra Faucher, il ministro di Bonaparte,
e i legittimisti.
La dissoluzione del partito dell'ordine non si arrestò ai suoi elementi
primitivi. Ognuna delle sue grandi frazioni si suddivise ancora, a sua volta.
Sembrava che tutte le vecchie sfumature che si erano urtate e combattute
nell'interno di ognuno dei due gruppi, tanto dei legittimisti quanto degli
orleanisti, fossero tornate a galla al pari di infusori disseccati messi a
contatto con l'acqua, come se avessero nuovamente acquistato tanta forza da
poter costituire gruppi propri e alimentare per proprio conto degli antagonismi.
I legittimisti sognavno di essere tornati ai conflitti tra le Tuileries e il
Pavillon Marsan, tra Villlèle e Polignac. Gli orleanisti rivivevano l'età
dell'oro dei tornei tra Guizot, Molè, Broglie, Thiers e Odilon Barrot.
La frazione del partito dell'ordine che era favorevole alla revisione, ma era
divisa a proposito dei limiti della revisione stessa, composta di legittimisti,
diretti da Berryer e Falloux, da una parte, da La Rochejacquelein dall'altra, e
dagli orleanisti stanchi di combattere, diretti da Molé, Montalembert e Odilon
Barrot, si unì coi rappresentanti bonapartisti per presentare la seguente
proposta indeterminata e generica: "I sottoscritti rappresentanti, allo scopo di
restituire alla nazione il pieno esercizio della sua sovranità, propongono che
la Costituzione venga riveduta". In pari tempo però essi dichiararono
unanimemente, per bocca del loro relatore Tocqueville, che l'Assemblea nazionale
non aveva diritto di proporre l'abolizione della repubblica e che questo
diritto spettava soltanto alla camera di revisione. Inoltre aggiunsero che la
Costituzione poteva essere riveduta soltanto in modo "legale", cioè
soltanto se lo decideva la maggioranza di tre quarti dei voti prescritta dalla
Costituzione. Dopo sei giorni di dibattiti tumultuosi il 19 luglio, come era da
prevedere, la revisione venne respinta. Vi furono 446 voti a favore, ma 278
contro. Gli orleanisti decisi, come Thiers, Changarnier, ecc., votarono coi
repubblicani e con la Montagna.
La maggioranza si dichiarava dunque contro la Costituzione; ma la
Costituzione stessa si dichiarava per la minoranza e dava alla sua decisione
carattere obbligatorio. Ma forse che il partito dell'ordine non aveva
subordinato la Costituzione alla maggioranza parlamentare, il 31 maggio 1850 e
il 13 giugno 1849? Forse che tutta la sua politica non si era fondata, sino a
quel giorno, sulla subordinazione degli articoli della Costituzione alle
decisioni della maggioranza parlamentare? Non aveva esso lasciato ai democratici
e punito nei democratici la credenza biblica alla lettera della legge? Ma in
questo momento revisione della Costituzione non significava altro che proroga
dei poteri presidenziali, e proroga della Costituzione non significava altro che
destituzione di Bonaparte. Il Parlamento si era pronunciato per lui; ma la
Costituzione si pronunciava contro il Parlamento. Egli agiva dunque secondo il
pensiero del Parlamento se lacerava la Costituzione, e agiva secondo lo spirito
della Costituzione se dava lo sfratto al Parlamento.
Il Parlamento aveva dichiarato "fuori della maggioranza" la Costituzione e,
con essa, il proprio dominio; con la sua decisione aveva soppresso la
Costituzione e prorogato i poteri presidenziali, pur dichiarando in pari tempo
che né l'una poteva morire né gli altri potevano vivere sino a che il Parlamento
continuasse ad esistere. Ma già erano alle porte coloro che dovevano
sotterrarlo. Mentre esso discuteva della revisione, Bonaparte allontanava il
generale Baraguay d'Hilliers, che si mostrava indeciso, dal comando della prima
divisione militare, e nominava al suo posto il generale Magnan, il vincitore di
Lione, l'eroe delle giornate di dicembre, una delle sue creature, che già sotto
Luigi Filippo si era più o meno compromesso con lui in occasione della
spedizione di Boulogne.
Con la sua decisione circa la revisione, il partito dell'ordine provava che
non sapeva né dominare né servire, né vivere né morire, né tollerare la
repubblica né rovesciarla, né mantenere la Costituzione né sbarazzarsene, né
collaborare col presidente né romperla con lui. Da chi attendeva dunque la
soluzione di tutte queste contraddizioni? Dal calendario, dal corso degli
avvenimenti. Cessava di attribuirsi un potere sugli avvenimenti. Provocava in
questo modo gli avvenimenti a fargli violenza; provocava il potere a cui nella
lotta contro il popolo aveva ceduto l'uno dopo l'altro i suoi attributi, sino a
trovarsi di fronte ad esso privo di forza. Affinché il capo del potere esecutivo
potesse elaborare con maggior tranquillità il piano di lotta contro di esso,
rafforzare i suoi mezzi di attacco, scegliere le sue armi, consolidare le sue
posizioni, il partito dell'ordine decise, in un momento così critico, di
abbandonare la scena e di aggiornarsi per tre mesi, dal 10 agosto al 4 novembre.
Non soltanto il partito parlamentare si era diviso nelle sue due grandi
frazioni, non soltanto ognuna di queste frazioni a sua volta si disgregava, ma
il partito dell'ordine nel Parlamento era in contrasto col partito dell'ordine
fuori del Parlamento. Gli oratori della borghesia e i suoi esegeti, la
sua tribuna e la sua stampa, in una parola, gli ideologi della borghesia e la
borghesia stessa, i rappresentanti e i rappresentati erano diventati estranei
gli uni agli altri e non si comprendevano più.
I legittimisti delle provincie, col loro orizzonte ristretto e il loro
entusiasmo illimitato, accusavano i loro capi parlamentari, Berryer e
Falloux, di aver disertato nel campo bonapartista e abbandonato Enrico V. La
loro intelligenza liliale credeva al peccato originale ma non credeva alla
diplomazia.
Incomparabilmente più fatale e decisiva era la rottura tra la borghesia
commerciale e i suoi uomini politici. Essa non rimproverava loro, come i
legittimisti ai loro rappresentanti, di aver abbandonato i principi, ma al
contrario, di rimaner attaccati a princìpi divenuti inutili.
Ho già accennato prima che, dal momento dell'ingresso di Fould nel ministero,
quella parte della borghesia commerciale che si era attribuita la parte del
leone del potere sotto Luigi Filippo, l'aristocrazia finanziaria, era
diventata bonapartista. Fould non rappresentava soltanto gli interessi di
Bonaparte in Borsa; egli rappresentava anche gli interessi di Borsa
presso Bonaparte. La posizione del l'aristocrazia finanziaria è descritta nel
modo più evidente dal suo organo europeo, l'Economist di Londra. Nel suo
numero del I° febbraio 1851 questo giornale pubblica la seguente corrispondenza
da Parigi: "Abbiamo ora potuto rilevare da tutte le parti che la Francia
aspira soprattutto alla tranquillità. La cosa è stata dichiarata dal presidente
nel suo messaggio all'Assemblea legislativa; la tribuna dell'Assemblea gli ha
fatto eco; i giornali lo confermano; i preti lo proclamano dal pulpito; la
cosa è provata dalla sensibilità dei titoli di Stato alla minima prospettiva di
disordini, dalla loro fermezza ogni volta che il potere esecutivo ha il
sopravvento"
Nel suo numero del 29 novembre 1851 l'Economist dichiara, in nome
proprio: "In tutte le Borse d'Europa il presidente è riconosciuto come
sentinella dell'ordìne". L'aristocrazia finanziaria condannava dunque la
lotta parlamentare del partito dell'ordine contro il potere esecutivo come
cosa che turbava l'ordine, e celebrava ogni vittoria del presidente sui
rappresentanti del sedicente partito dell'ordine come vittoria dell'ordine.
Si deve intendere qui per aristocrazia finanziaria non soltanto i grandi
appaltatori di prestiti statali e gli speculatori sui valori dello Stato, il cui
interesse si comprende agevolmente che coincida con gli interessi del
potere dello Stato. Tutti gli affari finanziari moderni, tutta l'economia
bancaria è connessa nel modo più intimo col credito pubblico. Una parte del loro
capitale commerciale viene necessariamente investito in valori di Stato
rapidamente convertibili. I loro depositi, il capitale posto a loro disposizione
e da loro ripartito tra commercianti e industriali, proviene in parte dai
dividendi dei possessori di rendita dello Stato. Se per il mercato monetario nel
suo complesso e per i sacerdoti di questo mercato la stabilità del potere dello
Stato in ogni epoca ha fatto le veci di Mosè e dei profeti, come potrebbe essere
diversamente oggi in cui ogni diluvio minaccia di travolgere, insieme ai vecchi
Stati, anche i vecchi debiti di Stato?
Anche la borghesia industriale, nel suo fanatismo dell'ordine, era
irritata dalle risse del partito parlamentare dell'ordine col potere esecutivo.
Thiers, Anglès, Sainte-Beuve, ecc., dopo il loro voto del 18 gennaio in
occasione della destituzione di Changarnier, ricevettero rimostranze pubbliche
proprio dai loro elettori dei distretti industriali nelle quali specialmente la
loro coalizione con la Montagna veniva bollata come alto tradimento della causa
dell'ordine. Se è vero, come ,abbiamo visto, che le canzonature spavalde e gli
intrighi meschini in cui si era manifestata la lotta del partito dell'ordine
contro il presidente non meritavano accoglienza migliore, è vero d'altra parte
che questo partito borghese, il quale esigeva che i suoi rappresentanti
lasciassero passare senza resistenza il potere militare dalle mani del loro
proprio Parlamento in quelle di un pretendente d'avventura, non era nemmeno
degno degli intrighi che si ordivano nel suo interesse. Esso faceva capire che
la lotta per la difesa dei suoi interessi pubblici, dei suoi interessi
di classe, del suo potere politico, in quanto disturbava i suoi
affari privati lo molestava e gli dava fastidio.
I notabili borghesi delle città di provincia, i magistrati, i giudici di
commercio ecc. ricevevano Bonaparte dappertutto, quasi senza eccezione, nei suoi
viaggi circolari, nel modo più servile, anche se, come a Digione, egli attaccava
senza alcun riguardo l'Assemblea nazionale e in special modo il partito
dell'ordine.
Quando gli affari, andavano bene, come al principio del 1851, la borghesia
commerciale si scagliava contro ogni lotta parlamentare che potesse nuocere al
commercio. Quando il commercio andò male, come avvenne continuamente a partire
dalla fine del febbraio 1851, essa accusò le lotte parlamentari di essere la
causa del ristagno, e reclamò ad alta voce che si facessero tacere, affinché il
commercio potesse riprendere voce. I dibattiti sulla revisione caddero appunto
in questo momento sfavorevole, e poiché si trattava della vita o della morte
della forma statale esistente, tanto più la borghesia si sentì in diritto di
esigere dai suoi rappresentanti che mettessero fine a quella tormentosa
provvisorietà; in diritto di reclamare in pari tempo il mantenimento dello
status quo. Né c'era in ciò contraddizione alcuna. Metter fine allo stato di
cose provvisorio significava per essa precisamente prolungarne l'esistenza,
rinviare a un futuro lontano il momento in cui sarebbe stato necessario prendere
una decisione. Lo status quo poteva essere mantenuto soltanto in due modi: o con
la proroga dei poteri di Bonaparte, o col suo ritiro, conforme alla
Costituzione, e con la elezione di Cavaignac. Una parte della borghesia
desiderava quest'ultima soluzione, ma non sapeva dare ai suoi rappresentanti
nessun miglior consiglio che di tacere e di lasciare impregiudicata questa
ardente questione. Se i suoi rappresentanti non avessero parlato, pensava,
Bonaparte non avrebbe agito. E desiderava un Parlamento struzzo, che nascondesse
la testa per non farsi vedere. Un'altra parte della borghesia, poiché Bonaparte
già occupava il seggio presidenziale, desiderava che continuasse ad occuparlo,
affinché ogni cosa rimanesse immutata. Essa s'irritava perché il suo Parlamento
non violava apertamente la Costituzione e non abdicava puramente e
semplicemente.
I Consigli generali dei dipartimenti, rappresentanze provinciali della grande
borghesia, riunitisi a partire dal 25 agosto durante le ferie dell'Assemblea
nazionale, si dichiararono quasi all'unanimità favorevoli alla revisione, cioè
contro il Parlamento e per Bonaparte.
Ancora più esplicita della rottura coi suoi rappresentanti parlamentari
fu la manifestazione della collera della borghesia contro i suoi
rappresentanti letterari, contro la propria stampa. Le condanne a multe
esorbitanti e a spudorate pene detentive pronunciate dalle giurie borghesi per
ogni attacco dei giornalisti borghesi alle velleità di usurpazione di Bonaparte,
per ogni tentativo della stampa di difendere contro il potere esecutivo i
diritti politici della borghesia, riempirono di stupore non solo la Francia, ma
tutta l'Europa.
Se, come ho mostrato sopra, il partito parlamentare dell'ordine, a
forza di gridare che occorreva la tranquillità, si era condannato da sé
all'inazione; se esso aveva dichiarato il dominio politico della borghesia
incompatibile con la sicurezza e con l'esistenza della borghesia stessa,
distruggendo con le sue proprie mani, nella lotta contro le altre classi della
società, tutte le condizioni del proprio regime, del regime parlamentare, la
massa extraparlamentare della borghesia, invece, con le sue servilità verso
il presidente, coi suoi oltraggi al Parlamento, col modo brutale nel quale
trattava la sua stessa stampa, provocava Bonaparte a reprimere e a sterminare i
suoi oratori e i suoi scrittori, i suoi uomini politici e i suoi letterati, la
sua tribuna parlamentare e la sua stampa, al fine di poter attendere ai propri
affari privati sotto la protezione di un governo forte e dotato di poteri
illimitati. Essa dichiarava nettamente che non vedeva l'ora di sbarazzarsi del
proprio dominio politico per sbarazzarsi delle fatiche e dei pericoli del
potere.
E questa borghesia che si indigna persino della lotta puramente parlamentare
e letteraria in difesa del potere della propria classe e ha tradito i capi di
questa lotta, ora, quando, tutto è terminato, osa accusare il proletariato di
non essersi gettato per essa in una lotta sanguinosa, in una lotta a morte.
Questa borghesia che in ogni momento ha sacrificato il suo interesse generale di
classe, cioè il suo interesse politico, al più gretto e sordido interesse
privato, e ha preteso dai suoi rappresentanti lo stesso sacrificio, ora si
lamenta, dicendo che il proletariato ha sacrificato ai propri interessi
materiali i suoi ideali politici. Essa si comporta come un'anima generosa che il
proletariato, traviato dai socialisti, avrebbe misconosciuto e abbandonato nel
momento decisivo. Ed essa trova un'eco generale nel mondo borghese. Non parlo
qui naturalmente dei politicanti tedeschi da caffè e dei poveri di spirito. Mi
riferisco, per esempio, allo stesso Economist, che ancora il 29 novembre
1851, cioè 4 giorni prima del colpo di stato, aveva dichiarato Bonaparte
"sentinella dell'ordine" e Thiers e Berryer "anarchici", e già il 27 dicembre
1851, dopo che Bonaparte ha messo a posto quegli anarchici, denuncia il
tradimento che sarebbe stato compiuto da "masse proletarie ignoranti, incolte,
stupide, ai danni del talento, del sapere, della disciplina, dell'influenza,
dell'ingegno, delle risorse intellettuali e delle qualità morali degli strati
medi ed elevati della società". La massa stupida, ignorante e volgare non era
altro che la massa stessa della borghesia.
È vero che la Francia ha attraversato nel 1851 una specie di piccola crisi
commerciale. Alla fine di febbraio si manifestò una diminuzione delle
esportazioni rispetto al 1850; in marzo il commercio diminuì e le fabbriche si
chiusero; in aprile la situazione dei dipartimenti industriali sembrava essere
disperata quanto dopo le giornate di febbraio; in maggio gli affari non avevano
ancora ripreso; ancora il 28 giugno il portafoglio della Banca di Francia
indicava, con un enorme aumento dei depositi e con una diminuzione altrettanto
grande degli anticipi su cambiali, la stasi della produzione; e solo alla metà
di ottobre vi era stata una nuova ripresa progressiva degli affari. La borghesia
francese si spiegò questo ristagno degli affari con motivi d'ordine puramente
politico, con la lotta tra il Parlamento e il potere esecutivo, con l'incertezza
di una forma di Stato puramente provvisoria, con la prospettiva paurosa della
seconda [domenica] di maggio del 1852. Non voglio negare che tutte queste
circostanze esercitassero una influenza deprimente su alcune branche
dell'industria a Parigi e nei dipartimenti. Ad ogni modo, però, questa influenza
delle circostanze politiche era soltanto locale e insignificante. Si può darne
prova migliore del fatto che il miglioramento del commercio si produsse proprio
nel momento in cui la situazione politica peggiorava, l'orizzonte politico si
oscurava e si attendeva ad ogni istante un colpo di folgore dell'Eliseo, cioè
verso la metà di Ottobre. Il borghese francese, il cui "talento, il cui sapere,
la cui chiaroveggenza e le cui risorse intellettuali" non vanno più in là del
suo naso, poteva d'altra parte, per tutta la durata dell'Esposizione industriale
di Londra, sbattere il naso nella causa della sua miseria commerciale. Mentre in
Francia si chiudevano le fabbriche, in Inghilterra scoppiavano bancarotte
commerciali. Mentre in aprile e maggio in Francia toccava il colmo il panico
industriale, in aprile e maggio, in Inghilterra, toccava il colmo il panico
commerciale. L'industria inglese della lana soffriva come quella francese; come
quella francese soffriva la manifattura inglese della seta. Le fabbriche inglesi
di cotone continuavano a lavorare, ma non facevano più gli stessi profitti che
nel 1849 e nel 1850. La differenza stava soltanto nel fatto che la crisi era
industriale in Francia, commerciale in Inghilterra; che mentre in Francia le
fabbriche si fermavano, in Inghilterra si sviluppavano, ma in condizioni più
sfavorevoli che negli anni precedenti; che in Francia i colpi principali erano
subìti dall'esportazione, in Inghilterra dall'importazione. La causa comune, che
naturalmente non deve essere ricercata entro i limiti dell'orizzonte politico
francese, era evidente. Il 1849 e il 1850 erano stati gli anni di grandissima
prosperità materiale e di una sovrapproduzione che si manifestò come tale
soltanto nel 1851. Questa venne ancora aggravata, in particolar modo all'inizio
di quest'anno, dalla prospettiva dell'Esposizione industriale. A ciò si
aggiunsero inoltre circostanze speciali: prima il cattivo raccolto di cotone nel
1850 e nel 1851, poi la sicurezza di un raccolto di cotone più abbondante di
quello che ci si aspettava; prima il rialzo, poi il ribasso brusco, in una
parola, le oscillazioni dei prezzi del cotone. Il raccolto della seta greggia
era caduto, almeno in Francia, al di sotto della media. Le manifatture di lana,
infine, si erano talmente estese a partire dal 1848 che la produzione della lana
non poteva tener loro dietro e il prezzo della lana greggia aumentava in modo
sproporzionato all'aumento del prezzo dei manufatti di lana. Abbiamo, quindi già
qui, nelle materie prime di tre industrie interessanti il mercato mondiale, tre
serie di cause di un ristagno del commercio. Astrazion fatta da queste
circostanze speciali, la crisi apparente del 1851 non fu altro che il momento di
arresto che la sovrapproduzione e la sovraspeculazione subiscono sempre nel
corso del ciclo industriale, prima di raccogliere tutte le forze per
attraversare febbrilmente l'ultima parte della curva e giungere ancora una volta
al suo punto di approdo, alla crisi commerciale generale. Durante
simili intervalli della storia del commercio, in Inghilterra scoppiano
bancarotte commerciali, mentre in Francia è l'industria stessa che si ferma, in
parte perché costretta a ritirarsi da tutti i mercati dalla concorrenza degli
inglesi che proprio allora diventa insopportabile, in parte perché colpita in
particolar modo dal ristagno del commercio in quanto industria di lusso.
In questo modo la Francia, oltre alle crisi generali, attraversa le proprie
crisi commerciali nazionali, le quali però sono determinate e condizionate più
dallo stato generale del mercato mondiale che da influenze locali francesi. Non
sarà senza interesse contrapporre al pregiudizio del borghese francese il
giudizio del borghese inglese. Una delle più grandi case di Liverpool scrive nel
suo bilancio annuale del 1851: "Pochi anni hanno ingannato nelle previsioni
fatte al loro inizio più dell'anno testé trascorso. Invece della più grande
prosperità che unanimemente ci si attendeva, esso è stato uno degli anni più
scoraggianti dell'ultimo quarto di secolo. Naturalmente questo vale per le
classi commerciali, non per le classi industriali. Eppure al principio dell'anno
vi erano senza dubbio dei motivi per attendersi il contrario. Le riserve di
prodotti erano scarse, il capitale era sovrabbondante, i viveri a buon mercato;
si era sicuri di un raccolto ricco. Pace ininterrotta sul continente e nessun
disturbo politico o finanziario all'interno del paese. In realtà, mai le ali del
commercio erano state più libere... A che cosa si deve attribuire questo
risultato sfavorevole? Crediamo che lo si debba attribuire all'eccesso del
commercio, sia d'importazione che d'esportazione. Se i nostri negozianti non
pongono essi stessi limiti più ristretti alla loro attività, nulla potrà
mantenerci nella via normale, se non un panico ogni tre anni".
Ci si immagini ora come il borghese francese, in mezzo a questo panico
commerciale, doveva avere il cervello, malato come il suo commercio, torturato,
confuso, stordito dalle voci di colpi di stato e di restaurazione del suffragio
universale, dalla lotta tra il Parlamento e il potere esecutivo, dalla guerra di
fronda tra i legittimisti e gli orleanisti, dalle cospirazioni comuniste nel sud
della Francia, dalle pretese jacqueries nei dipartimenti della Nièvre e
dello Cher, dalla pubblicità dei diversi candidati alla presidenza, dalle parole
d'ordine ciarlatanesche dei giornali, dalle minacce dei repubblicani di voler
difendere la Costituzione e il suffragio universale con le armi alla mano, dal
vangelo degli eroi emigrati in partibus che annunciavano la fine del
mondo per la seconda [domenica] di maggio del 1852, e si comprenderà come, in
mezzo a questa indicibile e assordante confusione di fusione, revisione,
proroga, costituzione, cospirazione, coalizione, emigrazione, usurpazione e
rivoluzione, il borghese furibondo gridasse in faccia alla repubblica
parlamentare: "Meglio una fine con spavento, che uno spavento senza fine!".
Bonaparte comprese questo grido. Il suo comprendonio era reso più acuto dalla
crescente petulanza dei creditori, i quali in ogni tramonto di sole che
avvicinava il 2 maggio 1852, giorno della scadenza dei suoi poteri, vedevano una
protesta del movimento degli astri contro le loro cambiali terrestri. Essi erano
diventati dei veri astrologhi. L'Assemblea nazionale aveva tolto a Bonaparte
ogni speranza di proroga costituzionale del suo potere; la candidatura del
principe di Joinville non gli permetteva di esitare più a lungo.
Se mai avvenimento ha proiettato davanti a sé la sua ombra molto tempo prima
di prodursi, esso è stato certamente il colpo di stato di Bonaparte. Già il 29
gennaio 1849, un mese appena dopo la sua elezione, egli lo aveva proposto a
Changarnier. Il suo proprio primo ministro, Odilon Barrot, aveva denunciato in
forma privata, nell'estate del 1849, la politica dei colpi di stato; Thiers
l'aveva denunciato in modo aperto nell'inverno del 1850. Nel maggio 1851
Persigny aveva cercato ancora una volta di guadagnare all'impresa Changarnier, e
il Messager de l'Assemblée aveva fatto conoscere questa conversazione. I
giornali bonapartisti minacciavano un colpo di stato ad ogni tempesta
parlamentare, e quanto più la crisi si avvicinava, tanto più il loro tono si
faceva forte. Nelle orge che Bonaparte celebrava ogni notte con lo swell mob
di sesso maschile e femminile, quando si avvicinava la mezzanotte e le
abbondanti libazioni snodavano le lingue ed eccitavano la fantasia, il colpo di
stato veniva deciso per il giorno seguente. Si snudavano le spade; si toccavano
i bicchieri; i rappresentanti venivano gettati dalla finestra e il mantello
imperiale cadeva sulle spalle di Bonaparte, fino a che le ore del mattino
disperdevano ancora una volta le larve e Parigi, stupefatta, apprendeva da
alcune vestali poco riservate e da paladini indiscreti il pericolo al quale era
sfuggita ancora una volta. Nei mesi di settembre e di ottobre le voci di un
colpo di stato si fecero sempre più frequenti. In pari tempo l'ombra si
arricchiva di sfumature, come un dagherrotipo a colori. Si sfoglino i giornali
quotidiani europei dei mesi di settembre e di ottobre e vi si troveranno
informazioni, del tipo delle seguenti, testuali: "Parigi è piena di voci di
colpi di stato. Si dice che la città verrà occupata militarmente durante la
notte e che il mattino dopo verranno pubblicati dei decreti che scioglieranno
l'Assemblea nazionale, dichiareranno lo stato d'assedio nel dipartimento della
Senna, ristabiliranno il suffragio universale, e faranno appello al popolo. Si
dice che Bonaparte cerchi ministri pronti a eseguire questi decreti
illegali". Le corrispondenze ,che danno queste notizie terminano sempre con un
fatale "rinviato". Il colpo di stato era sempre stato l'idea fissa di Bonaparte.
Con questa idea aveva rimesso piede sul territorio francese. Questa idea lo
possedeva a tal punto che egli la tradiva e la divulgava continuamente. Ma era
così debole che in pari tempo continuamente vi rinunciava. L'ombra del colpo di
stato era diventata così familiare ai parigini come fantasma, che quando
finalmente si presentò loro in carne ed ossa non vollero credervi. Ciò che
assicurò il successo del colpo di stato non fu dunque né un atteggiamento
riservato del capo della Società del 10 dicembre, né una sorpresa che prendesse
l'Assemblea nazionale alla sprovvista. Se il colpo di stato riuscì, riuscì
malgrado la mancanza di discrezione del primo, e con la conoscenza
preventiva della seconda, come risultato necessario inevitabile di tutta
la evoluzione precedente.
Il 10 ottobre Bonaparte annunciò ai suoi ministri la decisione di voler
ristabilire il suffragio universale; il 16 essi dettero le loro dimissioni; il
26 Parigi apprese la costituzione del ministero Thorigny. In pari tempo il
prefetto di polizia Carlier veniva sostituito da Maupas e il capo della prima
divisione militare, Magnan, concentrava nella capitale i reggimenti
più sicuri. Il 4 novembre l'Assemblea nazionale riprese le sue sedute.
Non le restava altro da fare che ripetere, in una breve e concentrata prova
generale, il corso che già essa aveva seguito; e dare la prova che quando la
sotterrarono era già morta.
La prima posizione che essa aveva perduto nella lotta contro il potere
esecutivo era stato il ministero. Essa dovette riconoscere solennemente questa
perdita, accettando pienamente il ministero Thorigny, che era un semplice
ministero di comparse. La Commissione permanente aveva accolto a risate il
signor Giraud, quando egli si era presentato in nome del nuovo ministero. Un
ministero così debole per delle misure così forti, come il ristabilimento del
suffragio universale! Ma si trattava precisamente di non far nulla nel
Parlamento, di far tutto contro il Parlamento.
Il giorno stesso della sua riapertura l'Assemblea nazionale ricevette un
messaggio di Bonaparte, in cui questi chiedeva il ristabilimento del suffragio
universale e l'abrogazione della legge dei 31 maggio 1850; lo stesso giorno i
ministri del Bonaparte presentarono un decreto in questo senso. L'Assemblea
respinse immediatamente la mozione d'urgenza presentata dal ministero e il 13
novembre respinse la legge stessa, con 355 voti contro 348. Essa lacerava così
ancora una volta il suo mandato; confermava ancora una volta di essersi
trasformata, da rappresentanza liberamente eletta di un popolo, in Parlamento
usurpatore di una classe; riconosceva ancora una volta di avere essa stessa
reciso i muscoli che univano la testa parlamentare al corpo della nazione.
Se il potere esecutivo, con la sua proposta di ristabilire il suffragio
universale, faceva appello dall'Assemblea nazionale al popolo, il potere
legislativo, con la sua legge dei questori fece appello dal popolo all'esercito.
Questa legge dei questori tendeva a stabilire il diritto dell'Assemblea di
requisire direttamente la truppa, di formare un esercito parlamentare. Se in
questo modo il potere legislativo faceva dell'esercito l'arbitro tra se stesso e
il popolo, tra se stesso e Bonaparte, se riconosceva l'esercito quale potere
decisivo dello Stato, era costretto d'altra parte a confermare che da un pezzo
aveva rinunciato alla pretesa di comandare l'esercito stesso. Nel momento in
cui, invece di requisire senz'altro le truppe, esso discuteva il diritto di
requisirle, tradiva i dubbi sulla propria forza. Respingendo la legge dei
questori l'Assemblea confessò apertamente la propria impotenza. La legge venne
respinta con una minoranza di 108 voti: la Montagna aveva dunque deciso
dell'esito della votazione. Essa si trovava nella situazione dell'asino di
Buridano, ma non tra due mucchi di fieno e dovendo decidere quale fosse il più
appetitoso, bensì tra due sacchi di legnate e dovendo decidere quale fosse il
più duro. Da un lato la paura di Changarnier, dall'altro la paura di Bonaparte.
Si deve riconoscere che la situazione non aveva niente di eroico. Il 18 novembre
venne proposto un emendamento alla legge sulle elezioni comunali presentata dal
partito dell'ordine, emendamento in base al quale, invece di tre anni di
domicilio, un anno solo doveva bastare per gli elettori municipali.
L'emendamento fu respinto per un solo voto; però questo solo voto risultò
immediatamente conseguenza di un errore. Scindendosi nelle sue frazioni ostili,
il partito dell'ordine aveva perduto da tempo la propria maggioranza
parlamentare indipendente. Ora mostrava che nel Parlamento non esisteva più
maggioranza di sorta. L'Assemblea nazionale era diventata incapace di
prendere una decisione. Le sue parti costitutive elementari non erano più
tenute assieme da nessuna forza di coesione; essa aveva reso l'ultimo respiro,
era morta.
La massa extraparlamentare della borghesia, infine, doveva confermare
solennemente ancora una volta, alcuni giorni prima della catastrofe, la sua
rottura coi rappresentanti della borghesia nel Parlamento. Thiers, in qualità di
eroe parlamentare, affetto in maniera speciale dalla malattia inguaribile del
cretinismo parlamentare, dopo la morte del Parlamento aveva ordito un nuovo
intrigo parlamentare col consiglio di Stato, una legge sulla responsabilità che
avrebbe dovuto stringere il presidente nei ceppi della costituzione. Bonaparte,
che il 15 settembre, in occasione dell'inaugurazione dei nuovi mercati di
Parigi, aveva, nuovo Masaniello, ammaliato le dames des halles, le
pescivendole - e del resto una pescivendola valeva di più, come potere reale, di
17 burgravi -, che dopo la presentazione della legge dei questori aveva riempito
di entusiasmo i tenenti da lui ospitati nell'Eliseo, il 25 novembre strappò
l'adesione della borghesia industriale, riunita nel Circo per ricevere di mano
sua le medaglie dei premi dell'Esposizione industriale di Londra. Riproduco qui
dal Journal des débats il passo più caratteristico del suo discorso: "In
presenza di successi così insperati, io sono in diritto di dichiarare ancora una
volta quanto la repubblica francese sarebbe grande se le fosse permesso di
occuparsi dei suoi interessi reali e di riformare le sue istituzioni, invece di
essere continuamente turbata, da un lato dai demagoghi, dall'altro lato da
allucinazioni monarchiche (applausi rumorosi, entusiastici e prolungati in
tutte le parti dell'anfiteatro). Le allucinazioni monarchiche impediscono
ogni progresso e ogni sviluppo industriale serio. Invece del progresso non si ha
che la lotta. Si vedono degli uomini, che un tempo erano i sostenitori più
zelanti dell'autorità e delle prerogative monarchiche, diventare partigiani di
una Convenzione unicamente allo scopo di indebolire l'autorità uscita dal
suffragio universale (applausi entusiastici e prolungati). Vediamo alcuni
uomini che più hanno sofferto della rivoluzione e più se ne sono lamentati,
provocarne una nuova unicamente per incatenare la volontà della nazione... Io vi
prometto la tranquillità per l'avvenire, ecc. (Bravo! Bravo! Applausi
fragorosi)". In questo modo la borghesia industriale applaude servilmente al
colpo di stato del 2 dicembre, alla soppressione del Parlamento, alla fine del
suo proprio dominio, alla dittatura di Bonaparte. Al suono degli applausi del 25
novembre rispose il tuono dei cannoni del 4 dicembre, e la casa del signor
Sallandrouze, il quale aveva applaudito con maggiore entusiasmo, venne distrutta
dal maggior numero di bombe.
Cromwell, quando sciolse il Lungo parlamento, si recò da solo in mezzo ad
esso; cavò di tasca l'orologio, affinché il Parlamento non vivesse un minuto di
più di quanto egli aveva fissato; e scacciò ogni singolo membro con oltraggi
serenamente umoristici. Napoleone, inferiore al suo modello, per lo meno, il 18
brumaio si recò nell'Assemblea legislativa e le lesse, sia pure con voce
turbata, la sua sentenza di morte. Il secondo Bonaparte, che del resto era in
possesso di un potere esecutivo ben diverso da quello di Cromwell o di
Napoleone, non cercò il suo modello negli annali della storia, ma negli annali
della Società del 10 dicembre, negli annali della giustizia criminale. Rubò alla
banca di Francia 25 milioni di franchi; comprò il generale Magnan con un
milione, i soldati con 15 franchi a testa e con acquavite; si riunì la notte, di
nascosto, come un ladro, con i suoi complici; fece invadere le case dei capi
parlamentari più pericolosi e strappare dai loro letti Cavaignac, Lamoricière,
Leflô, Changarnier, Charras, Thiers, Baze, ecc, fece occupare militarmente le
piazze principali di Parigi e l'edificio del Parlamento, e affiggere al mattino
su tutti i muri manifesti ciarlataneschi, in cui si annunciava lo scioglimento
dell'Assemblea nazionale e del Consiglio di Stato, il ristabilimento del
suffragio universale e la messa in stato d'assedio del dipartimento della Senna.
Poco dopo fece inserire nel Moniteur un documento falso, secondo il quale
un certo numero di parlamentari influenti si erano riuniti attorno a lui in una
Consulta di stato.
I resti del Parlamento, composti soprattutto di legittimisti e di orleanisti,
si riunirono nella sede della municipalità del decimo mandamento, e al grido
ripetuto di "Viva la repubblica", decisero la destituzione di Bonaparte;
arringarono invano la folla che stazionava davanti all'edificio e, infine,
vennero trascinati, sotto la scorta dei cacciatori d'Africa, nella caserma d'Orsay,
e poi stivati nelle vetture cellulari e trasportati nelle prigioni di Mazas, Ham
e Vincennes. Così finivano il partito dell'ordine, l'Assemblea legislativa e la
Rivoluzione di febbraio. Prima di passare alla conclusione, diamo uno schema
riassuntivo della loro storia
I - Primo periodo. Dal 24 febbraio al 4 maggio 1848.
Periodo di febbraio. Prologo. Frenesia di fratellanza universale.
II - Secondo periodo. Periodo della Costituzione della repubblica e
dell'Assemblea nazionale costituente.
1) dal 4 maggio al 25 giugno 1848. Lotta di tutte le classi contro il
proletariato. Disfatta del proletariato nelle giornate di giugno.
2) dal 25 giugno al 10 dicembre 1848. Dittatura dei repubblicani borghesi
puri. Elaborazione della Costituzione. Stato d'assedio a Parigi. La dittatura
della borghesia viene liquidata dall'elezione di Bonaparte a presidente.
3) dal 20 dicembre 1848 al 29 maggio 1849. Lotta della Costituente contro
Bonaparte e contro il partito dell'ordine alleato con Bonaparte. Fine della
Costituente. Caduta della borghesia repubblicana.
III - Terzo periodo. Periodo della repubblica costituzionale e
dell'Assemblea nazionale legislativa.
1) dal 29 maggio 1849 al 13 giugno 1849. Lotta dei piccoli borghesi
contro la borghesia e contro Bonaparte. Disfatta della democrazia
piccolo-borghese.
2) dal 13 giugno 1849 al 31 maggio 1850. Dittatura parlamentare del
partito dell'ordine. Questo partito corona il proprio dominio con la
soppressione del suffragio universale, ma perde il ministero parlamentare.
3) dal 31 maggio 1850 al 2 dicembre 1851. Lotta tra borghesia
parlamentare e Bonaparte.
a) dal 31 maggio 1850 al 12 gennaio 1851. Il Parlamento perde il comando
supremo dell'esercito.
b) dal 12 gennaio all'11 aprile 1851. Il Parlamento è sconfitto nei suoi
tentativi di impadronirsi nuovamente del potere amministrativo. Il partito
dell'ordine perde la sua maggioranza parlamentare indipendente. Sua coalizione
coi repubblicani e con la Montagna.
c) dall'11 aprile al 9 ottobre 1851. Tentativi di revisione, di fusione e
di proroga. Il partito dell'ordine si decompone nel suoi singoli elementi
costitutivi. La rottura del Parlamento borghese e della stampa borghese con la
massa della borghesia diventa definitiva.
d) dal 9 ottobre al 2 dicembre 1851. Rottura aperta tra il Parlamento e
il potere esecutivo. Il Parlamento formula il proprio atto di decesso e
soccombe, abbandonato dalla sua propria classe, dall'esercito e dalle altre
classi. Fine del. regime parlamentare e del dominio della borghesia. Vittoria di
Bonaparte. Parodia di restaurazione imperiale.
VII
Alla soglia della rivoluzione di febbraio la repubblica sociale era
apparsa come frase, come profezia. Nelle giornate di giugno del 1848 venne
soffocata nel sangue del proletariato di Parigi; ma essa è presente come
uno spettro nei successivi atti del dramma. Si annuncia poi la repubblica
democratica. Essa sparisce il 13 giugno 1849 assieme ai suoi piccoli
borghesi sgominati; ma nella fuga essa sparge dietro a sé una pubblicità
tanto più rumorosa. La repubblica parlamentare si impadronisce con la
borghesia di tutta la scena; gode di tutta la pienezza della sua esistenza, ma
il 2 dicembre del 1851 la sotterra, mentre i monarchici coalizzati gridano con
angoscia: "Viva la repubblica!".
La borghesia francese, inalberatasi contro il dominio del proletariato
lavoratore, ha messo al potere il sottoproletariato, guidato dal capo della
Società del 10 dicembre. La borghesia aveva tenuto la Francia ansante di
sgomento per i futuri orrori dell'anarchia rossa: Bonaparte le ha scontato
questo avvenire il 4 dicembre, facendo prendere a fucilate alle loro finestre,
dall'esercito dell'ordine ubriaco di acquavite, i rispettabili borghesi del
Boulevard Montmartre e del Boulevard des Italiens. La borghesia aveva
fatto l'apoteosi della spada: la spada domina. Aveva distrutto la stampa
rivoluzionaria: la sua stessa stampa viene distrutta. Aveva posto le riunioni
popolari sotto il controllo della polizia: ora stanno sotto il controllo della
polizia i suoi salotti. Aveva sciolto le Guardie nazionali democratiche: viene
sciolta la sua propria Guardia nazionale. Aveva proclamato lo stato d'assedio:
lo stato d'assedio viene proclamato contro di essa . Aveva sostituito
alle giurie commissioni militari: ora sono le sue giurie che vengono sostituite
da commissioni militari.
Aveva affidato ai preti l'istruzione popolare: ora sono i preti che le
impongono la loro propria istruzione. Aveva deportato senza giudizio e senza
giudizio viene deportata. Aveva represso con la forza pubblica ogni moto
sociale: ora viene represso dalla forza pubblica ogni movimento della sua
società. Per amore della sua borsa si era ribellata contro i propri uomini
politici e scrittori: ora i suoi uomini politici e i suoi scrittori sono stati
eliminati, e dopo che la si è imbavagliata e che si è spezzata la sua
penna si mette a sacco anche la sua borsa. La borghesia non si era stancata di
gridare alla rivoluzione come sant'Arsenio ai cristiani: "Fuge! Tace! Quiesce!
Fuggi, taci, sta tranquillo!". Ed ora è Bonaparte che grida alla borghesia:
"Fuge! Tace! Quiesce! Fuggi, taci, sta tranquilla!".
La borghesia francese aveva risolto da tempo il dilemma di Napoleone: Dans
cinquante ans l'Europe sera républicaine ou cosaque. Essa lo aveva
risolto con la République cosaque. Non è stata una Circe a trasformare in
mostro con un maleficio il capolavoro della repubblica borghese. Questa
repubblica non ha perduto altro che l'apparenza della rispettabilità. La Francia
di oggi era già tutta intiera nella repubblica parlamentare. Era sufficiente un
colpo di baionetta perché la vescica scoppiasse e il mostro apparisse agli occhi
di tutti.
Perché il proletariato di Parigi non insorse dopo il 2 dicembre?
La caduta della borghesia era stata soltanto decretata; il decreto non era
ancora stato portato a esecuzione. Ogni seria insurrezione del proletariato le
avrebbe dato nuova vita, l'avrebbe riconciliata con l'esercito e avrebbe valso
agli operai una seconda disfatta di giugno.
Il 4 dicembre il proletariato venne incitato alla lotta dai borghesi e dagli
épiciers. La sera dello stesso giorno parecchie legioni della Guardia
nazionale promisero di scendere in campo armate e in uniforme. Borghesi e
épiciers, infatti, avevano finito per accorgersi che Bonaparte, in uno dei
suoi decreti del 2 dicembre, sopprimeva il voto segreto e imponeva loro di
scrivere nei registri ufficiali il loro sì o il loro no accanto al loro nome. La
resistenza del 4 dicembre intimidì Bonaparte. Durante la notte egli fece
affiggere agli angoli di tutte le strade di Parigi dei manifesti che
annunciavano il ristabilimento del voto segreto. Borghesi e épiciers
credettero di aver raggiunto il loro scopo e il mattino seguente chi non
si presentò furono gli épiciers e i borghesi.
Il proletariato parigino era stato privato dei suoi dirigenti, dei capi delle
barricate, da un colpo di mano eseguito da Bonaparte nella notte fra l'1 e il 2
dicembre[15]. Esercito senza ufficiali, al quale le reminiscenze del giugno 1848
e 1849 e del maggio 1850 toglievano ogni voglia di battersi sotto la bandiera
dei montagnardi, esso lasciò alla sua avanguardia, alle società segrete, il
compito di salvare l'onore insurrezionale di Parigi, onore che la borghesia
parigina aveva abbandonato alla soldatesca con tanta facilità che Bonaparte, in
seguito, poté disarmare la Guardia nazionale allegando sarcasticamente che
temeva le sue armi non venissero adoperate dagli anarchici contro di essa.
"C'est le triomphe complet et définitif du socialisme". Così Guizot
caratterizzò il 2 dicembre. Ma se è vero che la caduta della repubblica
parlamentare contiene in germe il trionfo della rivoluzione proletaria, il suo
primo risultato tangibile fu la vittoria di Bonaparte sul Parlamento, del
potere esecutivo sul potere legislativo, della forza senza frase sulla forza
della frase. Nel Parlamento la nazione elevava la sua volontà generale
all'altezza di legge, cioè faceva della legge della classe dominante la sua
volontà generale. Davanti al potere esecutivo essa rinuncia a ogni propria
volontà e si sottopone alle ingiunzioni di un estraneo, all'autorità; il potere
esecutivo, in opposizione al potere legislativo, esprime l'eteronomia della
nazione, in opposizione alla sua autonomia. La Francia sembra dunque sia
sfuggita al dispotismo di una classe soltanto per ricadere sotto il dispotismo
di un individuo, e precisamente sotto l'autorità di un individuo privo di
autorità. La lotta sembra dunque essersi calmata perché tutte le classi,
egualmente impotenti e mute, si inginocchiano davanti ai calci dei fucili.
Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il
purgatorio. Lavora con metodo. Fino al 2 dicembre non ha condotto a termine che
la prima metà della sua preparazione; ora sta compiendo l'altra metà. Prima ha
elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per poterlo rovesciare. Ora
che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il potere
esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo
pone di fronte come l'unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le
sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa
seconda metà del suo lavoro preparatorio, l'Europa balzerà dal suo seggio e
griderà: Ben scavato, vecchia talpa!
Questo potere esecutivo, con la sua enorme organizzazione burocratica e
Militare, col suo meccanismo statale complicato e artificiale, con un esercito
di impiegati di mezzo milione accanto a un altro esercito di mezzo milione di
soldati, questo spaventoso corpo parassitario che avvolge come un involucro il
corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori, si costituì nel
periodo della monarchia assoluta, al cadere del sistema feudale, la cui caduta
aiutò a rendere più rapida. I privilegi signorili della proprietà fondiaria e
delle città si trasformarono in altrettanti attributi del potere dello Stato, i
dignitari feudali si trasformarono in funzionari stipendiati, e la variopinta
collezione dei contraddittori diritti sovrani medioevali divenne il piano ben
regolato di un potere dello Stato, il cui lavoro è suddiviso e centralizzato
come in un'officina.
La prima Rivoluzione francese, a cui si poneva il compito di spezzare tutti i
poteri indipendenti di carattere locale, territoriale, cittadino e provinciale,
al fine di creare l'unità borghese della nazione, dovette necessariamente
sviluppare ciò che 1a monarchia assoluta aveva incominciato: l'accentramento; e
in pari tempo dovette sviluppare l'ampiezza gli attributi e gli strumenti del
potere governativo. Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo dello
Stato. La monarchia legittima e la monarchia di luglio non vi aggiunsero nulla,
eccetto una più grande divisione del lavoro, che si sviluppava nella stessa
misura in cui la divisione del lavoro nell'interno della società borghese creava
nuovi gruppi di interessi, e quindi nuovo materiale per l'amministrazione dello
Stato. Ogni interesse comune fu subito staccato dalla società e
contrapposto ad essa come interesse generale, più alto, strappato
all'iniziativa individuale dei membri della società e trasformato in oggetto di
attività del governo, a partire dal ponti, dagli edifici scolastici e dai beni
comunali del più piccolo villaggio, sino alle ferrovie, al patrimonio nazionale
e all'Università di Francia. La repubblica parlamentare, infine, si vide
costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle
misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello
Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa
macchina, invece di spezzarla. I partiti che successivamente lottarono per il
potere considerarono il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il
bottino principale del vincitore.
Ma sotto la monarchia assoluta, durante la prima rivoluzione, sotto
Napoleone, la burocrazia era stata soltanto un mezzo per preparare il dominio di
classe della borghesia. Sotto la Restaurazione, sotto Luigi Filippo, sotto la
repubblica parlamentare, essa era stata lo strumento della classe dominante, per
quanto grandi fossero i suoi sforzi per diventare un potere indipendente.
È soltanto sotto il secondo Bonaparte che lo Stato sembra essere diventato
completamente indipendente. La macchina dello Stato si è talmente rafforzata di
fronte alla società borghese, che le basta avere alla sua testa il capo della
Società del 10 dicembre, un avventuriero qualsiasi venuto dal di fuori, levato
sugli scudi da una soldatesca ubriaca, che egli ha comprato con acquavite e
salsicce, e a cui deve continuamente gettare altra salsiccia. Di qui la cupa
disperazione, il senso di umiliazione infinita e di degradazione che stringe la
Francia alla gola e le mozza il respiro. La Francia si sente come disonorata.
Eppure il potere esecutivo non è sospeso nel vuoto. Bonaparte rappresenta una
classe, anzi, la classe più numerosa della società francese, i contadini'
piccoli proprietari.
Come i Borboni furono la dinastia della grande proprietà fondiaria, come gli
Orléans furono la dinastia del denaro, così i Bonaparte sono la dinastia dei
contadini, cioè della massa del popolo francese. E l'eletto dei contadini non è
il Bonaparte che si sottomette al Parlamento borghese, ma il Bonaparte che dà lo
sfratto a questo Parlamento. Per tre anni le città erano riuscite a falsificare
il senso dell'elezione del 10 dicembre ed a frodare ai contadini la
restaurazione dell'Impero. L'elezione del 10 dicembre 1848 ha trovato il suo
coronamento soltanto nel colpo di stato del 2 dicembre 1851.
I contadini piccoli proprietari costituiscono una massa enorme, i cui membri
vivono nella stessa situazione, ma senza essere uniti gli uni agli altri da
relazioni molteplici. Il loro modo di produzione, anziché stabilire tra di loro
rapporti reciproci, li isola gli uni dagli altri. Questo isolamento è aggravato
dai cattivi mezzi di comunicazione della Francia e dalla povertà dei contadini
stessi. Il loro campo di produzione, il piccolo appezzamento di terreno, non
consente nessuna divisione di lavoro nella sua coltivazione, nessuna
applicazione di procedimenti scientifici e quindi nessuna varietà di sviluppo,
nessuna diversità di talenti, nessuna ricchezza di rapporti sociali. Ogni
singola famiglia contadina è quasi sufficiente a se stessa, produce direttamente
la maggior parte di ciò che consuma, e guadagna quindi i suoi mezzi di
sussistenza più nello scambio con la natura che nel commercio con la società. Un
piccolo appezzamento di terreno, il contadino e la sua famiglia; un po' più in
là un altro piccolo appezzamento di terreno, un altro contadino e un'altra
famiglia. Alcune diecine di queste famiglie costituiscono un villaggio e alcune
diecine di villaggi un dipartimento. Così la grande massa della nazione francese
si forma con una semplice somma di grandezze identiche, allo stesso modo che un
sacco di patate risulta dalle patate che sono in un sacco.
Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali
che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da
quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano
una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono
soltanto legami locali e la identità dei loro interessi non crea tra di loro una
comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica,
essi non costituiscono una classe. Sono quindi incapaci di far valere i loro
interessi nel loro proprio nome, sia attraverso un Parlamento, sia attraverso
una Convenzione. Non possono rappresentare se stessi; debbono farsi
rappresentare. Il loro rappresentante deve in pari tempo apparire loro come il
loro padrone, come un'autorità che si impone loro, come un potere governativo
illimitato, che li difende dalle altre classi e distribuisce loro dall'alto il
sole e la pioggia. L'influenza politica del contadino piccolo proprietario trova
quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la
società a se stesso.
La tradizione storica ha fatto sorgere nei contadini francesi la credenza
miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro
splendore. E si è trovato un individuo il quale, dato che porta il nome di
Napoleone, ha potuto spacciarsi per quest'uomo, conformemente al codice
Napoleone, il quale stabilisce: "La recherche de la paternité est interdite".
Dopo un vagabondaggio di venti anni e una serie di avventure grottesche, la
leggenda diventa realtà e l'uomo diventa imperatore dei francesi. L'idea fissa
del nipote si è realizzata, perché essa coincideva con l'idea fissa della classe
più numerosa della popolazione francese .
Ma, mi si obbietterà, e le insurrezioni di contadini in una metà della
Francia, la caccia data dall'esercito ai contadini, e le incarcerazioni e le
deportazioni in massa dei contadini?
Dai tempi di Luigi XIV la Francia non ha mai conosciuto una persecuzione di
contadini "per mene demagogiche", simile a questa.
Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino
rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuole
liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo
appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte
della popolazione delle campagne che vuole rovesciare la vecchia società con la
sua propria energia, d'accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente
confinata in questo vecchio ordinamento, vuole essere salvata e ricevere una
posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma
dell'Impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione
del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio, non il suo avvenire,
ma il suo passato, non le sue moderne Cévennes, ma la sua moderna Vandea.
I tre anni di duro dominio della repubblica parlamentare avevano liberato una
parte dei contadini francesi dalla illusione napoleonica e l'avevano resa
rivoluzionaria, sebbene ancora solo superficialmente. Ma ogni volta che essi si
misero in movimento, la borghesia li respinse indietro con la violenza. Sotto la
repubblica parlamentare la coscienza moderna dei contadini francesi si urtò con
la loro coscienza tradizionale. Il processo si svolse nella forma di una lotta
continua tra i maestri di scuola e i preti. La borghesia batte i maestri di
scuola. Per la prima volta i contadini fecero degli sforzi per avere una
posizione indipendente dinanzi all'azione del governo. Ciò apparve nei conflitti
continui tra i sindaci e i prefetti. La borghesia destituì i sindaci. Infine,
durante il periodo della repubblica parlamentare, i contadini si sollevarono in
parecchie località contro la loro stessa progenitura, l'esercito. La borghesia
li punì con gli stati d'assedio e con le vendite all'asta. E questa stessa
borghesia grida ora contro la stupidità delle masse, della vile multitude
che l'ha tradita in favore di Bonaparte. Ma essa stessa ha rafforzato con la
violenza le simpatie della classe dei contadini per l'Impero; ha conservato le
condizioni che hanno dato origine a questa religione dei contadini. Vero è che
la borghesia è costretta ad aver paura della stupidità delle masse sino a che
queste rimangono conservatrici, ed è costretta ad aver paura della loro
intelligenza non appena diventano rivoluzionarie.
Nelle rivolte che ebbero luogo dopo il coup d'état, una parte
dei contadini francesi protestò, con le armi alla mano contro il proprio voto
del 10 dicembre 1848. L'esperienza fatta dopo il 1848 li aveva scaltriti. Ma
essi si erano venduti agli dèi infernali della storia; la storia li prese in
parola e la maggioranza era ancora così accecata che, proprio nei dipartimenti
più rossi, la popolazione contadina votò apertamente per Bonaparte. Secondo il
loro modo di vedere, l'Assemblea nazionale gli aveva impedito di muoversi. Egli
ora non aveva fatto altro che spezzare le catene che le città avevano imposto al
volere della campagna. In alcuni luoghi essi nutrivano persino l'idea grottesca
di porre accanto a Napoleone una Convenzione.
Dopo che la prima rivoluzione ebbe trasformato i contadini semiservi in
liberi proprietari di terra, Napoleone aveva consolidato e regolato le
condizioni in cui essi potevano sfruttare in pace il suolo della Francia caduto
nelle loro mani e soddisfare la loro giovane passione per la proprietà. Ma ciò
che porta oggi alla rovina il contadino francese è il suo stesso piccolo
appezzamento di terreno, la ripartizione del suolo, la forma di proprietà che
Napoleone ha consolidato in Francia. Sono state le condizioni materiali che
hanno fatto del contadino feudale francese un contadino piccolo proprietario e
di Napoleone un imperatore. Due generazioni sono bastate per produrre, come
risultato inevitabile, il peggioramento progressivo dell'agricoltura e
l'indebitamento progressivo dell'agricoltore. La forma di proprietà
"napoleonica" che, all'inizio del secolo decimonono, era la condizione per la
liberazione e per l'arricchimento della popolazione francese delle campagne è
diventata, nel corso di questo secolo, la legge della schiavitù e del suo
impoverimento. Ed è precisamente questa legge la prima delle "idées
napoléoniennes" che il secondo Bonaparte deve difendere. Se egli condivide
ancora con i contadini l'illusione che non nella piccola proprietà stessa, ma al
di fuori di essa, nell'influenza di circostanze secondarie, debba essere
ricercata la causa della rovina di questa proprietà, i suoi esperimenti
scoppieranno come bolle di sapone, al contatto con i rapporti di produzione.
Lo sviluppo economico della piccola proprietà ha radicalmente capovolto i
rapporti tra i contadini e le altre classi della società. Sotto Napoleone il
frazionamento della terra era nelle campagne il complemento della libera
concorrenza e dell'inizio della grande industria nelle città. La classe dei
contadini era una protesta onnipresente contro l'aristocrazia fondiaria da poco
rovesciata. Le radici che la piccola proprietà aveva gettato nel suolo della
Francia avevano tolto ogni alimento al feudalesimo. I limiti di questa proprietà
costituivano la fortezza naturale della borghesia contro ogni ritorno offensivo
dei suoi antichi signori. Ma nel corso del secolo decimonono il posto del
signore feudale è stato preso dall'usuraio della città, il posto della servitù
feudale della gleba dalle ipoteche, il posto della grande proprietà
aristocratica dal capitale borghese. Ormai, il piccolo appezzamento del
contadino è soltanto il pretesto che permette al capitalista di cavare profitto,
interesse e rendita dal terreno, lasciando all'agricoltore la cura di vedere
come può tirarne fuori il proprio salario. Il debito ipotecario che grava in
Francia sulla terra impone ai contadini francesi il pagamento di un interesse
eguale all'interesse annuale di tutto il debito pubblico dell'Inghilterra. La
piccola proprietà, in questa schiavitù del capitale a cui la spinge
inevitabilmente il suo sviluppo, ha trasformato la massa della nazione francese
in trogloditi. Sedici milioni di contadini (comprese le donne e i bambini)
vivono in caverne, di cui una grande parte ha una sola apertura, altre solo due
e le migliori non ne hanno più di tre. Le finestre sono per una casa ciò che i
cinque sensi sono per la testa. L'ordine borghese che, al principio del secolo
decimonono, fece dello Stato la sentinella della piccola proprietà appena
formata e la concimò di allori, è diventato un vampiro che le succhia il sangue
e il midollo, che la getta nel, crogiuolo da alchimista dei capitale. Il Code
Napoléon non è più altro che il codice del sequestro, della vendita
all'asta e della messa all'incanto. Ai quattro milioni (compresi i bambini,
ecc.) di poveri ufficialmente riconosciuti, di vagabondi, di delinquenti e di
prostitute che conta la Francia, si devono aggiungere cinque milioni che si
trascinano sull'orlo dell'abisso e vivono in campagna oppure si trasferiscono
continuamente, coi loro stracci e coi loro bambini, dalla campagna alle città e
dalle città alla campagna. L'interesse dei contadini non è quindi più,
come ai tempi di Napoleone, in accordo, ma in contrasto con gli interessi della
borghesia col capitale. Essi trovano quindi il loro naturale alleato e dirigente
nel proletariato urbano, il cui compito è il rovesciamento
dell'ordine borghese. Ma il governo forte e assoluto - e questa è la
seconda "idée napoléonienne" che il secondo Napoleone deve mettere in pratica, -
è chiamato a difendere con la forza questo ordine "materiale". Questo "ordre
matériel" è persino diventato la parola d'ordine fondamentale in
tutti i problemi di Bonaparte contro i contadini in rivolta.
Assieme all'ipoteca, che vien fatta gravare dal capitale sul piccolo
appezzamento di terreno, grava su questo il peso dell'imposta. L'imposta è la
sorgente di vita della burocrazia, dell'esercito, dei preti e della corte, in
breve, di tutto l'apparato del potere esecutivo. Governo forte e imposte forti
sono la stessa cosa. La piccola proprietà è adatta, per la sua stessa natura, a
servire di base a una burocrazia onnipotente e innumerevole. Essa crea su tutta
la estensione del paese un livello eguale di rapporti e di persone: permette
quindi di agire in egual modo su tutti i punti di questa massa uniforme partendo
da un centro supremo. Essa distrugge gli strati aristocratici intermedi tra la
massa del popolo e il potere dello Stato: provoca quindi dappertutto
l'intervento diretto di questo potere dello Stato e l'ingerenza dei suoi organi
diretti. Crea infine una popolazione in soprannumero, senza lavoro, che non
trova posto né in campagna né in città, che ricerca quindi gli impieghi dello
Stato come una specie di elemosina onorevole e ne provoca la creazione. Aprendo
con la baionetta nuovi mercati e saccheggiando il Continente, Napoleone rimborsò
ad usura le imposte forzose. Queste imposte erano allora uno stimolo per
l'industria del contadino, mentre ora esse privano il contadino delle ultime
risorse della sua industria e finiscono per renderlo del tutto impotente di
fronte al pauperismo. E una enorme burocrazia, ben gallonata e ben nutrita, è la
"ìdée napoléonienne" che maggiormente sorride al secondo Bonaparte. Come
potrebbe essere diversamente, dal momento che egli è costretto a dar vita,
accanto alle classi reali della società, a una casta artificiale, per la quale
il mantenimento del suo regime diventa una questione di pasto quotidiano?.
Perciò una delle sue prime operazioni finanziarie è consistita nel riportare gli
stipendi degli impiegati al loro vecchio livello e nella creazione di nuove
sinecure.
Un'altra "idée napoléonienne" è il dominio dei preti come mezzo
di governo. Ma se la piccola proprietà appena sorta, nel suo accordo con la
società, nella sua dipendenza delle forze della natura e nella sua sottomissione
all'autorità che la difendeva dall'alto, era naturalmente religiosa, la piccola
proprietà rovinata dai debiti, in rottura con la società e con l'autorità,
spinta al di là della sua grettezza, è naturalmente irreligiosa. Il Cielo era un
supplemento gradito per il piccolo pezzo di terreno appena conquistato, tanto
più che ad esso erano dovuti il buono e il cattivo tempo; ma diventa un insulto
quando lo si vuole imporre come risarcimento per il pezzo di terreno stesso.
Ormai il prete appare allora soltanto come il consacrato segugio della polizia
terrena - un'altra "idée napoléonienne". La spedizione contro Roma avrà
luogo la volta prossima nella Francia stessa, ma in senso opposto a quello che
vorrebbe il signor di Montalembert.
Il punto culminante delle "idées napoléoniennes" è, finalmente,
la preponderanza dell'esercito. L'esercito era il point d'honneur
del piccolo contadino: era il piccolo contadino stesso trasformato in eroe, che
difendeva la nuova forma di proprietà contro lo straniero, esaltava la sua
nazionalità da poco conquistata, saccheggiava il mondo e vi portava la
rivoluzione. L'uniforme militare era la sua pubblica divisa; la guerra. la sua
poesia; la patria era il piccolo appezzamento prolungato e arrotondato dalla
fantasia; il patriottismo era la forma ideale del sentimento di proprietà. Ma i
nemici contro cui il contadino francese deve difendere oggi la sua proprietà non
sono più i cosacchi; sono gli huissiers e gli agenti delle imposte. Il
piccolo appezzamento di terreno non si trova più nella cosiddetta patria, ma nel
registro delle ipoteche. L'esercito stesso non è più il fiore della
gioventù contadina; è l'infiorescenza di palude del sottoproletariato agricolo.
Esso si compone in gran parte di remplaçants, di sostituti, che
prendono il posto di altri, così come il secondo Bonaparte è anche lui soltanto
un remplaçant, un surrogato di Napoleone. Le sue azioni eroiche
consistono ora nelle caccie e nelle battute contro i contadini, nel servizio di
gendarmeria; e se le contraddizioni interne del suo sistema spingeranno il capo
della Società del 10 dicembre al di là dei confini della Francia, dopo aver
compiuto alcuni atti di banditismo, l'esercito non raccoglierà allori, ma
legnate.
Come si vede, tutte le "idées napoléoniennes" sono idee della piccola
proprietà non ancora sviluppata, giovanilmente fresca; esse sono un
controsenso per la piccola proprietà che sopravvive a se stessa. Esse non sono
altro che allucinazioni della sua agonia, parole diventate frasi, spiriti
diventati fantasmi. Ma la parodia dell'Impero era necessaria per liberare la
massa della nazione francese dal peso della tradizione e per elaborare in tutta
la sua purezza il contrasto tra il potere dello Stato e la società. Con la
rovina crescente della piccola proprietà crolla tutto l'edificio dello Stato
sopra di essa costruito. La centralizzazione statale di cui la società moderna
ha bisogno può essere realizzata soltanto sulle rovine della macchina statale
militare e burocratica che è stata forgiata nella lotta contro il feudalesimo.
La situazione dei contadini francesi ci spiega l'enigma delle elezioni
generali del 20 e 21 dicembre, che condussero il secondo Bonaparte sulla
cima del Sinai, non per ricevere delle leggi, ma per farne.
Alla borghesia non rimaneva evidentemente ora altra scelta che eleggere
Bonaparte. Quando i puritani, nel Concilio di Costanza, lamentavano la vita
dissoluta dei papi e strillavano circa la necessità di una riforma dei costumi,
il cardinale Pierre d'Ailly gridò loro con voce di tuono: "Soltanto il diavolo
in persona può salvare la Chiesa cattolica, e voi chiedete angeli". Così la
borghesia francese ha gridato dopo il colpo di stato: "Soltanto il capo della
Società del 10 dicembre può ancora salvare la società borghese! Soltanto il
furto può ancora i salvare la proprietà; soltanto lo spergiuro può salvare la
religione; il bastardume, la famiglia; il disordine, l'ordine!"
Bonaparte, come forza del potere esecutivo resosi indipendente, sente che la
sua missione consiste nell'assicurare "l'ordine borghese". Ma la forza di
quest'ordine borghese è la classe media. Egli si considera perciò rappresentante
della classe media e in questo senso emana decreti. Ma egli è diventato qualche
cosa soltanto perché ha spezzato il potere politico di questa classe media e
ogni giorno torna a spezzarlo. Perciò si considera avversario del potere
politico e letterario della classe media. Ma, proteggendone la forza materiale,
ne crea di nuovo il potere politico. Dunque egli deve mantenere in vita la
causa, sopprimere l'effetto dovunque si manifesti. Ma ciò non può avvenire senza
qualche piccola confusione tra la causa e l'effetto, perché ambedue perdono,
nell'azione reciproca, i loro tratti caratteristici. Quindi nuovi decreti, che
cancellano la linea di demarcazione. In pari tempo Bonaparte si considera
rappresentante dei contadini e del popolo in generale contro la borghesia e
vuole, entro la società borghese, rendere felici le classi popolari inferiori.
Ed ecco nuovi decreti, che frodano in anticipo i "veri socialisti" della loro
sapienza governativa. Ma Bonaparte si considera soprattutto capo della
Società del 10 dicembre, rappresentante del sottoproletariato, al quale
appartengono egli stesso, il suo entourage, il suo governo e il suo
esercito, e per il quale si tratta anzitutto di aver cura dei propri interessi e
di trarre dal tesoro pubblico premi per la lotteria della California. E come
capo della Società dei 10 dicembre, egli si afferma con decreti, senza decreti e
malgrado i decreti.
Questo suo compito pieno di contraddizioni spiega le contraddizioni del suo
governo, il confuso marciare a tastoni, i tentativi di guadagnare o di umiliare
ora questa ora quella classe, che finiscono per sollevarle tutte ugualmente
contro di lui; l'incertezza pratica che contrasta in modo comicissimo con lo
stile imperativo, categorico, degli atti di governo, ricalcato servilmente su
quello dello zio.
L'industria e il commercio, cioè gli affari della classe media, devono
prosperare, sotto un governo forte, come in una serra calda. Una grande quantità
di linee ferroviarie sono quindi date in concessione. Ma il sottoproletariato
bonapartista deve arricchirsi. Di qui le speculazioni in borsa sulle concessioni
ferroviarie da parte degli iniziati. Ma non si presenta nessun capitale per
finanziare le ferrovie. Si obbligano quindi le banche a dare anticipi sulle
azioni delle società ferroviarie. Ma in pari tempo Bonaparte deve sfruttare
personalmente la Banca; perciò deve accarezzarla. Si libera quindi la Banca
dall'obbligo di pubblicare settimanalmente i suoi bilanci. Contratto
leonino della Banca col governo. Si deve dare lavoro al popolo. Si ordinano
quindi dei lavori pubblici. Ma i lavori pubblici accrescono il carico fiscale
del popolo. Riduzione delle imposte, quindi, a detrimento dei rentiers,
con la conversione al quattro e mezzo per cento delle rendite al cinque per
cento. Ma il ceto medio deve ricevere a sua volta douceur. Si raddoppia
quindi l'imposta sul vino per il popolo che lo compra al minuto, e la si riduce
alla metà per il ceto medio, che lo beve all'ingrosso. Scioglimento delle vere
associazioni operaie, ma celebrazione delle meraviglie future dell'associazione.
Si devono aiutare i contadini. Banche ipotecarie, quindi, che accelerino
l'indebitamento dei contadini e la concentrazione della Proprietà. Ma queste
banche devono servire per cavar denaro dai beni della casa di Orléans,
confiscati. Nessun capitalista vuole accettare questa condizione, che non è
espressa nel decreto, e la banca ipotecaria rimane un puro e semplice decreto,
ecc., ecc.
Bonaparte vorrebbe apparire come il patriarcale benefattore di tutte le
classi. Ma non può dar nulla all'una di esse senza prenderlo all'altra. Come al
tempo della Fronda si diceva del Duca di Guisa, ch'egli era l'uomo più
obligeant della Francia, perché aveva trasformato tutti i suoi beni in
obbligazioni dei suoi seguaci verso di sé, cosi Bonaparte vorrebbe essere l'uomo
più obligeant della Francia e trasformare tutta la proprietà, tutto il
lavoro della Francia, in un'obbligazione verso di sé. Egli vorrebbe rubare tutta
la Francia, per farne un regalo alla Francia, o piuttosto per poter comprare la
Francia con denaro francese, perché come capo della Società del 10 dicembre,
deve comprare ciò che gli deve appartenere. E allo scopo di comprare servono
tutte le istituzioni dello Stato: il Senato, il Consiglio di Stato, il Corpo
legislativo, la Legion d'onore, la medaglia militare, i lavatoi e gli edifici
pubblici, le ferrovie, lo état major della Guardia nazionale senza
soldati, i beni confiscati della casa di Orléans. Ogni posto
nell'esercito e nell'apparato governativo diventa strumento di una compera.
L'essenziale però, in questo procedimento per cui la Francia viene derubata per
farle dei regali, sono le percentuali che durante tale circolazione cadono nelle
mani del capo e dei membri della Società del 10 dicembre. Il motto di spirito
con cui la contessa L., l'amante del signor di Morny, ha definito la confisca
dei beni degli Orléans: "C'est le premier vol de l'aigle", si
adatta ad ognuno dei voli di quest'aquila, che è piuttosto un corvo.
Egli stesso e i suoi seguaci si ripetono ogni giorno le parole dette dal
certosino italiano all'avaro che enumerava pomposamente i beni che per anni
ancora gli restavano da divorare: "Tu fai conto sopra i beni; bisogna prima fare
i conti sopra gli anni". Per non sbagliarsi nel calcolo degli anni, costoro
contano i minuti. Alla corte, nei ministeri, alla testa dell'amministrazione e
dell'esercito si accalca una massa di individui, del migliore dei quali si può
dire che non si sa donde venga; una bohème turbolenta, malfamata, avida
di saccheggio che strisciando indossa abiti gallonati, con la stessa dignità
grottesca dei grandi dignitari di Soulouque. Ci si può fare un'idea di questo
strato superiore della Società del 10 dicembre se si pensa che Véron-Crevell
è il suo moralista e Granier de Cassagnac il suo pensatore.
Quando Guizot, al tempo del suo ministero, si serviva di questo Granier in un
foglio equivoco contro l'opposizione dinastica, era solito farne l'elogio
dicendo: "C'est le roi des drôles", "è il re dei furfanti". Non
sarebbe giusto ricordare, a proposito della corte e della tribù di Luigi
Bonaparte, la Reggenza di Luigi XV. Perché la "Francia ha conosciuto un numero
abbastanza grande di governi di mantenute ma non aveva ancora mai avuto un
governo di hommes entretenus".
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